20
2. BETA-AMILOIDE
La proteina β-amiloide (Aβ) è il costituente principale delle placche senili extracellulari presenti nella Malattia di Alzheimer (AD). La proteina è un peptide di 40 (Aβ40) o 42 (Aβ42) aminoacidi derivante dal clivaggio della proteina precursore dell’amiloide (APP) da parte degli enzimi β- e γ- secretasi. APP è una proteina di membrana codificata in un gene situato sul cromosoma 21. Essa aderisce alla membrana cellulare attraversandola: una parte della proteina resta all'esterno, l'altra all'interno. È espressa in diversi tipi di cellule, in particolare nel cervello, nel cuore, nella milza, nel fegato e nei reni. Ne sono state fino ad ora identificate almeno 10 isoforme derivate da splicing alternativo; le tre più comuni sono chiamate C (presente soprattutto nei neuroni), B (comune nei linfociti T) ed A, e sono composte rispettivamente da 695, 751 e 770 aminoacidi. La maggior parte della APP prodotta è degradata durante il processo di trasporto sulla superficie cellulare. Ciò è indice di una fine regolazione dell'attività di questa proteina. La proteina Aβ si genera in seguito alla degradazione della APP (Zhang e coll., 2011). Il processo di degradazione della APP vede coinvolti tre enzimi:
la α-, la β- e la γ-secretasi (Shoji e coll., 1992). Gli ultimi due danno il via al
cosiddetto “pathway amiloidogenico” che porta alla formazione sia della Aβ40
che della Aβ42. Si è a lungo pensato che la produzione di Aβ fosse dovuta ad un
errato metabolismo del suo precursore, in realtà Aβ è un normale sottoprodotto
della APP, presente anche in soggetti sani. E’ oramai superato il concetto
semplicistico di un ruolo di Aβ come elemento neurotossico. Ad esempio, è
stato dimostrato che la stessa attività neuronale modula la formazione e la
secrezione dei peptidi Aβ (Kamenetz e coll., 2003). In condizioni fisiologiche, la
modulazione attività-dipendente della produzione di Aβ endogena potrebbe
partecipare ad un meccanismo di feedback negativo, che manterrebbe la normale
21
attività neuronale sotto controllo. Inoltre Plant e coll. (2003) hanno dimostrato che un trattamento con gli inibitori di β- e γ-secretasi su cellule corticali di ratto, come parte di una strategia mirata a ridurre la formazione di Aβ nei cervelli AD, altera significativamente la vitalità dei neuroni. La perdita di vitalità era dovuta alla soppressione della secrezione fisiologica di Aβ e la tossicità degli inibitori delle secretasi poteva essere eliminata o prevenuta dall'aggiunta di Aβ40 a basse concentrazioni (10pM). Tuttavia, in alcune patologie neurodegenerative come la AD, la Aβ viene prodotta in modo abnorme a causa dell’iperfunzione selettiva della via di degradazione amiloidogenica della APP. Durante il “pathway amiloidogenico” la β-secretasi agisce prima della γ-secretasi, producendo un frammento di APP C-terminale di circa 12 kDa. Il successivo intervento dell'enzima γ-secretasi nella porzione C-terminale porta alla formazione di Aβ40 oppure di Aβ42. Quest'ultimo peptide è considerato il più amiloidogenico e il più tossico a livello neuronale, essendo il più idrofobico e portato all’aggregazione in fibrille (Burdick e coll., 1992).
Figura 2.1- Via di degrazione amiloidogenica della APP (modificata da Walsh & Selkoe, 2007)
La α-secretasi invece effettua il suo taglio proteolitico all'interno della sequenza
aminoacidica di Aβ42, impedendone così la formazione. A seguito dell'azione
22
della α-secretasi si formano due sottoprodotti di APP, il frammento APPα e il frammento C83; quest'ultimo è ulteriormente metabolizzato dalla γ-secretasi che porta alla formazione di un ulteriore frammento, detto p3 (Zhang e coll., 2011).
Sono state ricercate eventuali mutazioni del gene per la APP che potessero avere una correlazione con lo sviluppo precoce dell'Alzheimer familiare (early onset familial Alzheimer's disease – EO-FAD). Sul gene per la APP sono state individuate numerose mutazioni di singoli o coppie di amminoacidi in grado di favorire la degradazione attraverso il “pathway amiloidogenico”. Una mutazione a livello dell'amminoacido 717 (detta “London mutation”) fu la prima ad essere descritta e sembra causare un aumento del rapporto tra Aβ42/Aβ40 a livello cerebrale.
Altre mutazioni sono state individuate a livello degli amminoacidi: 716 (Florida mutation), 723 (Australian mutation), 670/671 (Swedish double mutation), 693 (Dutch mutation), 692 (“Flemish” mutation) (Bertram e coll., 2010). Anche mutazioni a carico dei geni per le preseniline 1 e 2, proteine costituenti il sito proteolitico della γ-secretasi (Wolfe e coll., 1999), sono associate alle forme familiari di AD e ad un aumento del rapporto Aβ42/Aβ40 nel cervello di modelli murini (Borchelt e coll., 1996; Kumar-Singh e coll., 2006). Inoltre, è stato dimostrato che l’iperespressione del gene per la APP, a causa di mutazioni o per eccesso di copie come accade nella trisomia 21, determina un decadimento cognitivo tipo AD, e che, sia in vitro che in modelli animali, l’espressione delle sovracitate mutazioni a carico dei geni per la APP e le preseniline, responsabili delle forme familiari di AD, risulta in una iperproduzione ed in una iperaggregazione della Aβ (Sheuner e coll., 1996).
23
2.1 B
ETA-A
MILOIDE,
NEUROTOSSICITÀ E AZIONE DEPRESSOGENALa proteina Aβ può presentarsi in forma di monomeri, oligomeri, protofibrille e fibrille che si accumulano nel cervello dei pazienti con AD a costituire aggregati in placche insolubili. Con il termine Aβ solubile si intendono tutte le forme di Aβ (prevalentemente monomeri e oligomeri) capaci di restare in soluzione in mezzi acquosi anche dopo centrifugazione veloce. E’ oramai ampiamente riconosciuto che il numero delle placche senili non correla con la gravità della AD (Terry e coll., 1991; Dickson coll., 1995) mentre recenti evidenze hanno dimostrato che gli oligomeri solubili di Aβ, che rappresentano prodotti intermedi nel processo di formazione delle fibrille, sono responsabili della neurotossicità Aβ-mediata (Lambert e coll., 1998) e correlano (in studi post-mortem) con il grado di perdita sinaptica e la gravità del decadimento cognitivo (Lue e coll., 1999; McLean e coll., 1999; Wang e coll., 1999). Gli oligomeri Aβ derivano da processi di aggregazione della forma monomerica che si realizzano in parte nel citosol e in parte a livello extraneuronale e, pertanto, il target primario della loro azione tossica deve essere accessibile da entrambi i compartimenti (intra ed extracellulare) il che è possibile considerando come target la membrana plasmatica del neurone. La neurotossicità Aβ-mediata ha inizio con la permeabilizzazione della membrana plasmatica attraverso la formazione di pori che consentono l’ingresso di calcio e degli oligomeri stessi nel neurone (Mattson e coll., 1992;
Kagan e coll., 2004). L’aumento dei livelli di calcio intraneuronali è dovuto anche
alla permeabilizzazione delle membrane degli organuli cellulari (Bucciantini e
coll., 2004). Esperimenti condotti su colture neuronali hanno dimostrato che
solo la somministrazione extracellulare di oligomeri solubili e non quella di
monomeri o fibrille Aβ è in grado di produrre l’incremento dei livelli di calcio nel
citoplasma neuronale (Demuro e coll., 2006). L’eccesso di calcio determina una
cascata di eventi tra cui la produzione di specie reattive dell’ossigeno (Shubert e
24
coll., 1995), l’alterazione delle vie di trasduzione del segnale (Saitoh e coll., 1993) e la disfunzione mitocondriale (Shoffner e coll., 1997), che hanno come risultato ultimo la morte del neurone.
Numerosi studi su modelli animali hanno dimostrato un effetto negativo degli oligomeri Aβ sulla plasticità neuronale. Gli oligomeri solubili, ma non i monomeri Aβ, hanno mostrato un effetto bloccante sulla Long Term Potentiation (LTP) ippocampale (Lambert e coll., 1998; Walsh et coll., 2002; Wang e coll., 2002; Klyubin e coll., 2005; Townsend e coll., 2006; Shankar e coll., 2007, 2008).
L’immunoterapia effettuata con anticorpi anti-Aβ si è rivelata in grado di proteggere contro i deficit cognitivi e il danno neuropatologico in topi transgenici per il gene APP (Janus e coll., 2000; Morgan e coll., 2000) e di prevenire l’inibizione della LTP mediata dagli oligomeri Aβ (Klyubin e coll., 2005).
Uno studio recente condotto su modelli animali ha dimostrato che l’infusione ev
di Aβ solubile correla in acuto con lo sviluppo di un fenotipo depressivo. In
particolare, i ratti Aβ-trattati hanno manifestato una significativa riduzione
dell’attività di esplorazione ambientale e ciò lascia ipotizzare l’induzione di un
deficit motivazionale ad opera della Aβ. Inoltre, i ratti Aβ-trattati hanno
mostrato un marcato aumento del tempo di immobilità nel test del nuoto
forzato, un modello comportamentale animale di depressione che riproduce lo
stato di inibizione e rinuncia sul piano comportamentale tipico della condizione
depressiva (Colaianna e coll., 2010). Gli stessi autori hanno studiato gli effetti
biochimici dell’infusione di Aβ riscontrando una marcata riduzione del
contenuto di 5-HT e DA nella corteccia prefrontale dei ratti Aβ-trattati. Uno
studio precedente aveva già dimostrato che l’inoculazione diretta di Aβ nel
cervello di ratto è in grado di produrre una significativa riduzione della densità
dei neuroni serotoninergici e noradrenergici a livello pontomesencefalico
25
(Gonzalo-Ruiz e coll., 2003). Analogamente, l’infusione di Aβ solubile aveva prodotto una riduzione del contenuto dopaminergico a livello della PFC (Trabace e coll., 2007) e del NAc (Preda e coll., 2008). Queste evidenze sono particolarmente interessanti dato che è ampiamente riconosciuto il ruolo centrale nella patologia depressiva della compromissione della trasmissione monoaminergica a livello prefrontale (Krishnan & Nestler, 2008).
2.2 BDNF E B
ETA-A
MILODEPoiché sia le neurotrofine che i peptidi Aβ influenzano l’attività sinaptica, è probabile che i loro meccanismi di azione siano correlati ed intersecati. Così come il BDNF è in grado di stimolare la plasticità sinaptica (Manji coll., 2001;
Popoli e coll., 2002), i peptidi Aβ sono in grado di inibirla; così come il BDNF stimola la trasmissione glutammatergica e la LTP sinaptica (Korte e coll., 1995;
Levine e coll., 1998; Lu e coll., 2008), la Aβ la deprime (Snyder e coll., 2005).
Un esempio di patologia in cui è evidente il contrasto tra le funzioni esercitate
dal BDNF e dalla Aβ è la AD. Dati sempre più consistenti, infatti, suggeriscono
un possibile ruolo del deficit di BDNF nella patogenesi dell’Alzheimer
(Fumagalli e coll., 2006): studi post-mortem hanno rilevato una riduzione del
BDNF corticale e ippocampale (Peng e coll., 2005; Connor e coll., 1997), mentre
studi sul siero hanno evidenziato una variazione dei suoi livelli nel corso del
disturbo, con tendenza all’aumento nella fase iniziale e progressivo decremento
nella fase avanzata (Laske e coll., 2006). Di contro la Aβ tende ad accumularsi a
livello cerebrale fino a costituire le placche senili, esercitando un’azione
neurotossica fondamentale.
26
Nei neuroni corticali in vitro, già a concentrazioni subletali, la Aβ è in grado di compromettere le vie di trasduzione del segnale associate al BDNF (Tong e coll., 2001). A concentrazioni più elevate è in grado di bloccare la fosforilazione di CREB (Tong e coll., 2004) e la sua traslocazione nucleare, inibendo pertanto la sintesi di BDNF (Arvanitis e coll., 2007; Arancio & Chao, 2007). Del resto, il recente già citato studio di Colaianna e coll. (2010) ha evidenziato che una singola infusione ev di Aβ solubile nel ratto provoca una riduzione significativa del BDNF e del suo mRNA a livello della corteccia prefrontale.
Un meccanismo regolatorio comune al sistema delle neurotrofine e della APP è quello mediato dall’enzima proteolitico γ- secretasi, il quale, da una parte induce il clivaggio della APP a formare i peptidi Aβ neurotossici, dall’altra promuove la funzione del recettore delle neurotrofine proapoptotico p75 (Arancio & Chao, 2007). Studi in vivo condotti su ratti hanno dimostrato un effetto neurotossico esercitato da somministrazione intracerebrale di peptidi Aβ, evidenziato da segni di sofferenza cellulare e dalla riduzione di neuroni ippocampali, in particolare le cellule ilari secernenti somatostatina (SRIH). Un pretrattamento con BDNF ha mostrato una netta azione protettiva nei confronti dei suddetti fenomeni di neurotossicità (Arancibia e coll., 2008). D’altra parte il BDNF è in grado di stimolare direttamente la produzione di somatostatina, la quale attiva la degradazione dei peptidi Aβ (Saito e coll., 2005), ed è essa stessa un fattore neurotrofico (Blake e coll., 2004).
A dimostrazione dell’effetto amiloide-antagonista del BDNF è rilevante uno
studio condotto da Burbach e coll. nel 2004 su topi transgenici APP23,
caratterizzati da un’iperespressione di APP e che pertanto rappresentano un
modello animale di AD. È stata rilevata una up-regulation del m-RNA del BDNF
proporzionale al carico di Aβ: in pratica gli autori hanno osservato un gradiente
di iperespressione del gene del BDNF nelle regioni di corteccia cerebrale intorno
27
alle placche di amiloide, interpretabile come una sorta di reazione difensiva messa in atto dalle cellule gliali.
Visto l’antagonismo funzionale Aβ-BDNF e tenendo conto del coinvolgimento dei due sistemi nella patologia depressiva, è possibile speculare circa una alterazione dei livelli periferici di entrambi i polipeptidi in pazienti affetti da disturbi dell’umore.
2.3
B
ETA-A
MILOIDE,
DETERIORAMENTO COGNITIVO E DEPRESSIONELa Aβ è fisiologicamente presente nel cervello, nel liquor cefalorachidiano e nel sangue e variazioni delle sue concentrazioni nei fluidi biologici sono oggetto di studio quali possibili marker per la diagnosi di AD. I livelli plasmatici dei peptidi Aβ sono, tuttavia, il risultato di un equilibrio dinamico tra una quota di origine cerebrale (De Mattos e coll., 2002), essendo la Aβ in grado di attraversare la barriera emato-encefalica (Zlokovic e coll., 1993), e una quota di origine periferica, essendo le piastrine una fonte di Aβ (Chen e coll., 1995; Casoli e coll., 2007).
Nella AD la deposizione di amiloide inizia con la Aβ42 che risulta il principale
costituente delle placche senili (Selkoe, 2006). Il peptide Aβ40, invece, è un
componente della angiopatia amiloide cerebrale (Zhang-Nunes e coll., 2006) ed il
suo incremento plasmatico è stato associato alla patologia cerebrale
microvascolare, alle iperintensità della sostanza bianca e agli infarti lacunari (van
Dijk e coll., 2004; Gurol e coll., 2006), condizioni che a loro volta correlano nella
popolazione anziana con il declino cognitivo (Longstreth e coll., 1996), con il
rischio di demenza (Vermeer e coll., 2003) e con sintomi depressivi (de Groot e
coll., 2000).
28
I livelli liquorali di Aβ42 sono significativamente ridotti nei pazienti con AD e in
quelli con Mild Cognitive Impairment (MCI) (Schroeder e coll., 1997; Andreasen e
coll., 2001). Lo studio dei livelli plasmatici di Aβ ha prodotto risultati
contrastanti: la maggior parte degli studi ha mostrato una riduzione della Aβ42,
un incremento della Aβ40 e del rapporto Aβ40/Aβ42 nei pazienti AD in fase
conclamata e nei soggetti a rischio di AD e MCI (Graff-Radford e coll., 2007; Xu
e coll., 2008; Van Oijen e coll., 2006). Okereke e coll. (2009), in un ampio studio
di comunità su soggetti valutati all’età media di 60 anni e successivamente dopo
dieci anni, hanno dimostrato che sia il rapporto Aβ40/Aβ42 a 60 anni che il suo
incremento nel corso del periodo di osservazione correlano positivamente con il
declino cognitivo globale. Analogamente Seppala e coll. (2010), in un follow-up di
6 anni su soggetti di età compresa tra 60 e 76 anni, hanno rilevato livelli
plasmatici di Aβ42 più bassi al baseline nei pazienti con declino cognitivo in atto e
una ulteriore riduzione della Aβ42 associata alla riduzione del rapporto
Aβ42/Aβ40 in quei soggetti che durante il follow-up hanno manifestato un
peggioramento cognitivo. Anche Yaffe e coll. (2010), in uno studio di comunità
con follow-up di 9 anni su 997 anziani non dementi hanno riscontrato una
associazione tra un basso rapporto Aβ40/Aβ42 al baseline e il declino cognitivo
successivo, più evidente nei soggetti con scarsa riserva cognitiva (scolarità,
alfabetizzazione) e portatori dell’allele APOE e4 (responsabile di una variante
dell’apolipoproteina E meno efficiente nella degradazione della Aβ a livello
cerebrale). Di contro, Mayeux e coll. (1999) e Blasko (2010) hanno rilevato un
incremento dei livelli plasmatici di Aβ42 in soggetti che successivamente hanno
sviluppato AD. Una possibile interpretazione della relazione tra declino
cognitivo e riduzione dei livelli periferici della Aβ42, tra l’altro riscontrabile
anche molti anni prima della diagnosi di demenza e della formazione delle
placche senili (Graff-Radford e coll., 2007), risiede nel rapporto tra produzione
29
e clearance della Aβ: è stato suggerito che la riduzione periferica sia da attribuire alla deposizione e concentrazione di Aβ42 nel cervello (Graff-Radford e coll., 2007). Uno studio recente ha confrontato con tecniche di marcatura metabolica la produzione e la clearance di Aβ40 e 42 tra pazienti AD e controlli sani riscontrando tassi di produzione cerebrale sovrapponibile nei due gruppi e tassi di clearance decisamente inferiori nei pazienti AD (Mawuenyega e coll., 2010).
Del resto, in Letteratura diverse evidenze precliniche suggeriscono una compromissione della funzione di clearance della barriera ematoencefalica come fattore precoce nel processo di tossicità cerebrale Aβ-mediata (Deane e coll., 2009).
Molte recenti ricerche cliniche e di neuroimaging fanno ipotizzare l’esistenza di fenomeni neurodegenerativi intrinseci ai disturbi dell’umore. La depressione costituisce un fattore di rischio per lo sviluppo di AD (Devanand e coll., 1996;
Wilson e coll., 2002; Ownby e coll., 2006). Il Rotterdam Scan Study (Geerlings e
coll., 2008), uno studio prospettico di popolazione, ha dimostrato che una storia
di depressione late-onset (esordio dopo i 60 anni) è associata ad un rischio circa
doppio di demenza e che una storia di depressione early-onset comporta un rischio
ancora maggiore. Il rischio di demenza, inoltre, aumenta in relazione al numero
di episodi nei disturbi depressivi e bipolari (Kessing e coll., 2004). In generale, il
rischio di declino cognitivo è maggiore nei pazienti con disturbi dell’umore: esso
sembra correlare con il numero di episodi depressivi in pazienti affetti da
depressione ricorrente (Geerlings e coll., 2000) ma anche con la presenza di
sintomi depressivi persistenti negli anziani (Paterniti e coll., 2002). In un recente
lavoro Gualtieri e Johnson (2008) hanno confrontato pazienti affetti da disturbi
dell’umore e controlli sani appaiati per età riscontrando, soprattutto nella fascia
d’età 65-85 anni, una significativa accelerazione del declino cognitivo (memoria,
attenzione, funzioni esecutive) e un incremento del rischio di demenza nei
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pazienti con disturbi dell’umore, e ipotizzando l’esistenza di eventi fisiopatologici condivisi dalla patologia affettiva e da quella neurodegenerativa. Anche studi condotti su pazienti bipolari in fase eutimica hanno mostrato una relazione tra il numero di episodi affettivi e la gravità del declino cognitivo (Tham e coll., 1997;
Van Gorp e coll., 1998). Due recenti lavori di review e metanalisi della Letteratura hanno confermato l’associazione tra la gravità della storia e del decorso del disturbo bipolare e la gravità della compromissione nei pazienti di domini cognitivi quali attenzione, memoria e funzioni esecutive (Robinson e coll., 2006;
Torres e coll., 2007). Studi di neuroimaging hanno rilevato alterazioni neuroanatomiche nei pazienti bipolari come l’aumento di volume dell’amigdala, l’atrofia della corteccia cingolata anteriore e le iperintesità della sostanza bianca (Brambilla e coll., 2005). In una review della Letteratura Strakowski e coll. (2005) hanno sottolineato che, se le suddette anomalie sono riscontrabili precocemente nel corso del disturbo, altre regioni come il verme cerebellare, i ventricoli laterali e la corteccia prefrontale inferiore sembrano degenerare con il ripetersi degli episodi affettivi. Un follow-up di 4 anni su pazienti bipolari e controlli appaiati per età ha mostrato un progressiva compromissione della funzione mnestica nei pazienti bipolari associata alla riduzione di volume della corteccia temporale mediale e correlata alla gravità di decorso del disturbo (Moorhead e coll., 2007).
Questo riscontro è interpretabile come il risultato dell’effetto sul cervello delle ripetute fasi di ipercortisolemia intraepisodiche (Daban e coll., 2005).
Pazienti dementi con storia di depressione manifestano una maggiore gravità del quadro anatomo-patologico, come emerge dal riscontro di placche più estese e numerose a livello ippocampale (Rapp e coll., 2006).
Nell’insieme, questi dati hanno indotto i ricercatori a studiare i livelli dei
peptidi Aβ nei pazienti depressi. Il primo studio sulla concentrazione di Aβ nel
sangue di pazienti depressi è stato quello di Pomara e coll. (2006) che, in un
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