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Un’interessante pronuncia di merito sulla configurabilità degli arresti domiciliari “a termine” tra assetto codicistico e decreto-legge n. 29 del 2020 - Trib. Lecce, sez. Riesame, ord. 1° giugno 2020

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12 Giugno 2020

Un’interessante pronuncia di merito sulla configurabilità degli arresti domiciliari “a termine” tra assetto codicistico e decreto-legge n. 29 del 2020 di Elisa Grisonich

Trib. Lecce, Sez. Riesame, ord. 1° giugno 2020

1. Nell’ordinanza in commento, il Tribunale del riesame di Lecce ha affrontato un tema di particolare interesse, attinente alla possibilità di concedere la misura degli arresti domiciliari “a termine”, vale a dire in relazione a una situazione di incompatibilità temporanea, dettata da ragioni di salute, con la custodia cautelare in carcere. La questione è strettamente correlata alla disciplina di cui all’art. 275, comma 4-bis, c.p.p., la quale, come noto, prevede una presunzione in bonam partem di incompatibilità della custodia cautelare in carcere, in ragione dello stato di salute dell’imputato[1].

Al riguardo, va precisato che l’assetto codicistico è silente sul punto; e ciò a dispetto della disciplina dell’esecuzione e, in particolare, in materia di detenzione domiciliare cosiddetta umanitaria o surrogatoria di cui all’art. 47-ter, comma 1-ter, ord. penit. Tale disposizione, infatti, prevede espressamente che all’applicazione della misura domiciliare in analisi si accompagni la fissazione di un termine di durata, che può essere prorogato.

Dal canto suo, la giurisprudenza di legittimità, con una recente pronuncia – sollecitata, peraltro, proprio a seguito di un ricorso avverso un’ordinanza del Tribunale di Lecce – ha escluso la configurabilità di una soluzione analoga in ambito cautelare, in ragione della riserva di legge e giurisdizione che viene in rilievo nella specifica materia, ai sensi dell’art. 13 Cost.[2]. La Corte di cassazione ha, in particolare, stabilito l’illegittimità di un’ordinanza che, rispetto a «una temporanea incompatibilità con il regime carcerario determinata da motivi di salute […], disponga la sostituzione a termine della misura custodiale con gli arresti domiciliari prevedendone il rispristino alla scadenza, previa verifica della condizione di compatibilità carceraria»[3].

A fronte di tale assetto è intervenuto, da ultimo, il d.l. 10 maggio 2020, n. 29, nell’ambito della decretazione d’urgenza dettata dall’emergenza sanitaria da COVID-19[4].

Come noto, la novella, al pari del d.l. 30 aprile 2020, n. 28[5], si colloca sull’onda delle polemiche politico-mediatiche in ordine alle scarcerazioni di detenuti condannati o in attesa di giudizio appartenenti alla criminalità organizzata[6]. Ma al di là delle perplessità che possono destare tali ragioni[7], in questa sede preme valorizzare quanto previsto dall’art. 3 della nuova disciplina, specificamente dedicato alla materia cautelare. La previsione pare infatti aver apportato una rilevante novità al tema in esame, limitatamente agli imputati di determinati gravi delitti – tra cui quello ex artt.

416-bis c.p. – o sottoposti al regime detentivo speciale ai sensi dell’art. 41-bis ord. penit.

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In queste ipotesi, è stata configurata – in analogia, del resto, con quanto stabilito nell’art. 2 d.l. n. 29 del 2020 – una rivalutazione costante della permanenza dei «motivi connessi all’emergenza sanitaria da COVID-19», che hanno determinato la sostituzione della misura ex art. 285 c.p.p. con quella degli arresti domiciliari. E questo nell’ottica di un eventuale ripristino della custodia cautelare in carcere.

In particolare, è stato previsto che il pubblico ministero sia tenuto a vagliare in modo continuativo la sussistenza dei motivi correlati all’emergenza sanitaria, che hanno giustificato la sostituzione della misura custodiale maggiormente gravosa. In particolare, ciò deve avvenire entro il termine di quindici giorni dall’adozione del provvedimento applicativo degli arresti domiciliari e, successivamente, a intervalli mensili; tuttavia, la pubblica accusa è tenuta a procedere a prescindere da tali termini, se il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria comunica la disponibilità di adeguate strutture penitenziarie o di reparti di medicina protetta[8].

A seguito di tale verifica, il pubblico ministero ha il potere-dovere di chiedere – purché sussistano le originarie esigenze cautelari – il ripristino della custodia cautelare in carcere in presenza di due situazioni: il sopravvenuto mutamento delle condizioni che hanno determinato la sostituzione della misura o la disponibilità di strutture penitenziarie o di reparti di medicina protetta, idonee a salvaguardare le condizioni di salute del prevenuto.

Il comma 2 dell’art. 3 d.l. n. 29 del 2020 prevede altresì che il giudice, salvo che disponga la revoca della misura ai sensi dell’art. 299, comma 1, c.p.p., sia tenuto a effettuare precisi adempimenti istruttori. In linea con quanto sancito dall’art. 2 della novella, devono essere, in particolare, sentiti sia l’autorità sanitaria regionale, in persona del Presidente della Giunta della Regione, sulla situazione sanitaria locale, sia il DAP in ordine alla disponibilità di strutture penitenziarie o di reparti di medicina protetta, in cui l’imputato può essere nuovamente sottoposto alla misura di cui all’art. 285 c.p.p., senza pregiudizio delle condizioni di salute. Da ultimo, nel caso in cui l’autorità giudiziaria non sia in grado di decidere allo stato degli atti, la disposizione precisa che possono essere disposti, «d’ufficio e senza formalità», accertamenti sullo stato di salute del prevenuto o procedere a perizia.

Ebbene, l’intervento in analisi sarebbe stato dettato da un quadro normativo che appariva carente[9]. In particolare, con riferimento al sistema delle misure cautelari, si è rilevato che la facoltà di sostituzione in peius della misura cautelare disposta sarebbe prevista esclusivamente in caso di aggravamento dei pericula libertatis ai sensi dell’art. 299 c.p.p. o di trasgressione delle prescrizioni attinenti alla misura cautelare ex art. 276 c.p.p.[10]; situazioni dunque ben diverse da un superamento delle ragioni connesse all’emergenza sanitaria, correlate alle condizioni di salute dell’imputato, tale da far venire meno l’eventuale incompatibilità con la custodia cautelare in carcere.

2. In tale articolato assetto si colloca l’ordinanza in commento.

In particolare, nel caso di specie, era stata disposta la misura della custodia cautelare in carcere nei confronti di una persona sottoposta alle indagini, in relazione ai delitti di partecipazione ad associazione di tipo mafioso e di partecipazione ad associazione dedita al narcotraffico ex artt.

416-bis c.p. e 74 d.P.R. n. 309 del 1990, nonché per detenzione illegale di armi e spaccio di sostanze stupefacenti. Avverso l’ordinanza applicativa della misura, era stata presentata istanza di riesame, la quale veniva rigettata, con provvedimento, poi confermato da parte della Corte di cassazione ex art. 311 c.p.p.

Il 17 marzo 2020, nell’ambito dell’emergenza sanitaria da coronavirus, veniva formulata dalla difesa istanza di sostituzione della misura con quella degli arresti domiciliari, alla luce dello stato di salute

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del prevenuto, ritenuto incompatibile con il regime custodiale di massimo rigore. Tuttavia, il giudice per le indagini preliminari rigettava tale richiesta, sulla scorta della considerazione secondo cui la malattia dell’interessato non avrebbe esposto il medesimo a un maggiore rischio di contagio, derivante dall’emergenza epidemiologica in corso, rispetto agli altri detenuti.

Contro tale provvedimento veniva formulato appello ai sensi dell’art. 310 c.p.p., su cui si è pronunciato il Tribunale della libertà con l’ordinanza in esame.

Alla luce dei risultati della perizia disposta, i Giudici hanno ritenuto l’appello della difesa fondato e, dunque, meritevole di accoglimento. Si è, in particolare, affermato che, sulla scorta delle conclusioni del perito, sussisterebbe nel caso di specie una «”incompatibilità temporanea” delle condizioni di salute dell’indagato con la custodia cautelare in carcere» per un lasso temporale di circa sei mesi, giustificato in ragione delle patologie di cui sarebbe affetto l’interessato, nonché dal suo maggior rischio di contagio da COVID-19.

Sennonché, proprio tale considerazione ha indotto il Tribunale di Lecce a svolgere un’approfondita disamina sull’applicabilità dei cosiddetti arresti domiciliari “a tempo”, alla luce sia della disciplina codicistica, sia del recente d.l. n. 29 del 2020. In merito, preme anticipare che i Giudici hanno risolto la questione ritenendo certamente applicabile al caso di specie la recente novella normativa; nondimeno, il carattere controverso del tema sembra aver sollecitato il Tribunale a dedicarvi un’ampia analisi sul piano della legislazione ordinaria, per poi poter trattare la novità introdotta dalla decretazione d’urgenza.

3. Così, quanto al primo profilo, i Giudici hanno messo in evidenza il recente arresto della Corte di cassazione sopra richiamato, che, come visto, ha escluso, sulla scorta della disciplina dettata dal codice di procedura penale, la legittimità di una misura coercitiva disposta “a termine”[11].

Tuttavia, il Tribunale è pervenuto a una soluzione opposta, sulla scorta di diversi argomenti.

Al riguardo, va precisato che la pronuncia in esame ha dato atto dell’assenza di una previsione codicistica, tale da configurare espressamente il ripristino della custodia cautelare in carcere, una volta che siano stati disposti gli arresti domiciliari, per una “incompatibilità temporanea” con la misura ex art. 285 c.p.p.

Del pari, sono state richiamate le disposizioni di cui agli artt. 276 e 299, comma 4, c.p.p., che, come già emerso, prevedono la sostituzione della misura cautelare applicata con una più grave, ma solo in presenza, rispettivamente, di una violazione delle prescrizioni riguardanti la cautela, o di un mutamento in negativo dei pericula libertatis.

I Giudici, però, hanno ravvisato il fondamento normativo della soluzione proprio nell’art. 275, comma 4-bis, c.p.p. Si è, in particolare, osservato che la previsione, nel caso di incompatibilità temporanea, si applicherebbe «solo ed esclusivamente per il tempo strettamente necessario ad effettuare i trattamenti terapeutici richiesti». Pertanto, una volta cessate le esigenze sanitarie, dovrebbe essere ripristinata la custodia cautelare in carcere, «salvo che, nel frattempo, siano venuti meno o si siano affievoliti i pericula libertatis posti a fondamento del provvedimento genetico di adozione del regime cautelare».

Nel pervenire a tale impostazione, il Tribunale ha in primo luogo ritenuto non condivisibile la motivazione della Suprema Corte. Secondo quanto emerso dalla pronuncia in commento,

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quest’ultima, in particolare, avrebbe basato il suo ragionamento, sulla scorta di una giurisprudenza ormai risalente, che aveva escluso la possibilità, al di fuori delle ipotesi normativamente previste, di applicare in maniera cumulativa le misure cautelari[12].

Ebbene, – ha osservato il Tribunale – tali decisioni sarebbero ormai superate sulla base della più recente giurisprudenza di legittimità, intervenuta successivamente alla riforma introdotta dalla l. n.

47 del 2015[13]. Pertanto, l’attuale quadro giurisprudenziale costituirebbe un argomento a favore e non contro l’ammissibilità di misure cautelari “a tempo”.

Inoltre, – hanno proseguito i Giudici – nella fattispecie sottoposta al vaglio della Corte, in linea, peraltro, con il caso di specie oggetto dell’ordinanza in commento, non sarebbe venuta in rilievo un’applicazione cumulativa di molteplici misure cautelari, ma l’«adozione “a termine” di un’unica misura […] con successivo ripristino della custodia cautelare in carcere».

In aggiunta a tali argomenti, il Tribunale ha affermato che la prospettata interpretazione dell’art. 275, comma 4-bis, c.p.p. sarebbe imposta da una lettura costituzionalmente orientata della previsione.

Ammettere diversamente, infatti, comporterebbe una lesione dei principi di uguaglianza e di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., laddove si andrebbe a parificare due situazioni – quali l’incompatibilità temporanea e permanente – assai differenti tra loro. Inoltre, sarebbe ravvisabile una disparità di trattamento tra l’imputato che godrebbe della misura meno gravosa, nonostante il superamento della fase transitoria di incompatibilità, e tutti coloro che, con il medesimo quadro cautelare, si troverebbero, invece, privati nel massimo grado della libertà personale.

Peraltro, – hanno continuato i Giudici – un eventuale contrasto con la Costituzione, e, in particolare, con il diritto alla salute di cui all’art. 32 Cost. si verificherebbe, qualora si interpretasse l’art. 275, comma 4-bis, c.p.p., nel senso di assumere rilievo esclusivamente nelle ipotesi di “incompatibilità permanente” con la custodia cautelare in carcere. Così facendo, infatti, si impedirebbe al prevenuto con problemi di salute meramente temporanei di beneficiare degli arresti domiciliari, in modo tale da poter godere delle cure mediche necessarie.

Quanto a quest’ultimo profilo, preme precisare che il Tribunale ha dato atto dell’istituto di cui all’art.

11, comma 4, ord. penit., che consente il trasferimento dell’imputato presso strutture sanitarie esterne di diagnosi o di cura, laddove «siano necessarie cure o accertamenti sanitari che non possono essere apprestati dai servizi sanitari presso gli istituti».

Tuttavia, si è osservato che la previsione sarebbe idonea a far fronte a esigenze di trattamento sanitario brevi e non di lunga durata. A detta del Tribunale, ciò, in particolare, sarebbe desumibile dal comma 5 del medesimo articolo, che prescrive, come regola, il cosiddetto piantonamento dell’interessato presso la struttura sanitaria; il che risulterebbe «inesigibile per prolungati periodi di tempo alla luce delle attuali risorse del nostro sistema penitenziario». Del pari, si è rilevato che spesso il trattamento medico richiesto può essere effettuato presso l’abitazione dell’interessato, onde per cui non sarebbe giustificabile un ricovero in apposite strutture, con conseguente – pure in tale prospettiva – aggravio delle risorse a disposizione.

Per di più, a supporto dell’impostazione, i Giudici hanno avanzato un argomento di carattere sistematico, sulla base di quanto previsto dall’art. 286-bis, comma 3, c.p.p. La previsione, in particolare, stabilisce, sia in presenza di esigenze diagnostiche al fine di accertare la sussistenza delle condizioni di salute di cui all’art. 275, comma 4-bis, c.p.p., sia a fronte di esigenze terapeutiche in favore di soggetti che si trovano già in stato di incompatibilità accertata, «il ricovero provvisorio in idonea struttura del Servizio sanitario nazionale». Ebbene, è stato considerato dirimente l’inciso

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contenuto nel medesimo comma, secondo cui, una volta terminate le delineate esigenze, «il giudice provvede a norma dell’art. 275 c.p.p.».

Del resto, – si è ulteriormente argomentato – la soluzione prospettata sarebbe in perfetta linea con i caratteri di elasticità e duttilità che connotano l’intera materia cautelare; a ben vedere, proprio tale flessibilità che informa il contesto in esame «mal si concilier[ebbe] con la “cristallizzazione” di una misura cautelare oltre il tempo strettamente coincidente con la persistenza dei presupposti che ne hanno propiziato l’applicazione».

Ancora, si è rilevato che un’interpretazione diversa dell’art. 275, comma 4-bis, c.p.p., così come sostenuta dalla Corte di cassazione, si porrebbe in contrasto con lo stesso regime di presunzioni fissato dal comma 3 del medesimo articolo, in relazione ai delitti ivi contemplati. Considerato che, in siffatte ipotesi, la regola è la custodia cautelare in carcere non si comprenderebbe la ragione per cui, venute meno le condizioni problematiche di salute, non debba essere ripristinata la misura ex art.

285 c.p.p., sempre che – si è ulteriormente chiarito – permangano le originarie esigenze cautelari.

A maggiore conferma dell’impostazione, si è peraltro sostenuto che una soluzione differente finirebbe per trasformare il comma 4-bis dell’art. 275 c.p.p. «da norma garantista di civiltà in un inaccettabile salvacondotto». In tale modo, infatti, si permetterebbe al prevenuto di sottrarsi alla custodia cautelare in carcere per l’intera durata del procedimento, a fronte di un breve periodo di incompatibilità per temporanei motivi di salute.

Da ultimo, un ulteriore argomento è stato poggiato proprio sulla scorta della previsione di cui all’art.

47-ter, comma 1-ter, ord. penit., con riferimento alla detenzione domiciliare surrogatoria, la quale, come già ricordato, è configurata sempre a termine. Ebbene, a detta dei Giudici, sarebbe difficile spiegare la differenza di disciplina in materia cautelare con quella appena richiamata, specie se si considera l’importanza di far fronte ai pericula libertatis.

A chiusura del quadro delineato, occorre, d’altra parte, precisare che il Tribunale ha osservato come il recente arresto della Suprema Corte parrebbe in contrasto con una decisione più risalente della giurisprudenza di legittimità[14]. Invero, quest’ultima pronuncia ha stabilito che, sebbene non sia ammissibile un ripristino automatico della custodia cautelare in carcere, non sarebbe ravvisabile alcun ostacolo – a fronte di un mutamento in melius delle condizioni di salute che avevano giustificato l’applicazione degli arresti domiciliari – a rivalutare il quadro cautelare, al fine di vagliare quale misura possa ritenersi più adeguata.

Ebbene, il Tribunale ha ritenuto siffatto arresto maggiormente in linea con i principi vigenti in materia. D’altra parte, giova mettere in luce che non è stato condiviso l’inquadramento dogmatico attribuito alla fattispecie dalla pronuncia. Essa ha, infatti, configurato l’ipotesi nell’ambito della sostituzione in peius della misura di cui all’art. 299, comma 4, c.p.p.: qualificazione giuridica che – a detta del Tribunale – non sarebbe sostenibile, visto che la disposizione, come più volte ricordato, si applica esclusivamente a fronte di un aggravamento delle esigenze cautelari.

Insomma, i Giudici hanno ribadito che la base giuridica della fattispecie in esame sarebbe quella di cui all’art. 275, comma 4-bis, c.p.p. Tale presa di posizione – ha del resto precisato il Tribunale – non sarebbe una mera questione teorica, in quanto propendere per la rilevanza dell’art. 275 c.p.p. o dell’art. 299 c.p.p. avrebbe un’immediata conseguenza sul piano pratico. Solo nella seconda ipotesi, infatti, troverebbe applicazione il principio della domanda cautelare e, pertanto, la sostituzione della misura potrebbe essere disposta esclusivamente a seguito di una apposita richiesta da parte della pubblica accusa. Per converso, secondo quanto esplicitato dai Giudici, qualora si opti per la prima soluzione, l’istanza cautelare sarebbe quella originariamente formulata dal pubblico ministero, con la

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conseguenza che, in questo caso, la custodia cautelare in carcere sarebbe applicabile, senza una necessaria previa reiterazione della richiesta da parte della pubblica accusa.

Nondimeno, al di là delle considerazioni svolte, il Tribunale non ha potuto che concludere, dando atto che il tema in analisi risulta indubbiamente controverso nell’ambito della disciplina codicistica.

È dunque a questo punto del ragionamento che è stato analizzato il d.l. n. 29 del 2020: è stata, in particolare, valorizzata la portata innovativa della novella, la quale costituirebbe una risposta al problema delineato. Si è, infatti, affermato che la nuova disciplina affronterebbe specificamente la questione in esame, «rappresentata dalla possibilità di applicazione degli arresti domiciliari “a tempo”, per il lasso cronologico strettamente necessario a superare una condizione di incompatibilità con il regime carcerario».

La pronuncia ha svolto un’approfondita disamina della novella dal punto di vista soggettivo, oggettivo e procedimentale: al riguardo, pare utile segnalare alcuni degli aspetti affrontati.

Sotto il profilo oggettivo, è stata chiarita la portata da attribuire al presupposto rappresentato dai

«motivi connessi all’emergenza sanitaria da Covid-19», in forza del quale verrebbe in rilievo il provvedimento normativo. Secondo il Tribunale, la formula sarebbe da intendere in senso lato, quale

«connessione debole». In sostanza, la disciplina troverebbe applicazione tutte le volte in cui l’emergenza epidemiologica abbia inciso, anche in modo non esclusivo, sulla decisione del giudice a sostituire la misura ex art. 285 c.p.p. con quella degli arresti domiciliari.

Sulla scorta della disposizione transitoria di cui all’art. 5 d.l. n. 29 del 2020, si è altresì esplicitato che la disciplina sarebbe applicabile ai provvedimenti cautelari sostitutivi, emessi successivamente al 23 febbraio 2020. Termine ultimo della previsione sarebbe, invece, il 31 luglio 2020, data finale dello stato di emergenza da COVID-19, ai sensi della Delibera del 31 gennaio 2020, adottata dal Consiglio dei Ministri.

Ancora, giova rilevare che il Tribunale, a differenza di quanto esplicitato alla luce della disciplina codicistica, ha osservato che nel d.l. n. 29 del 2020 opererebbe il principio della domanda cautelare.

Difatti, spetta al pubblico ministero attivarsi, al fine di formulare un’istanza di ripristino della custodia cautelare in carcere. In merito, i Giudici hanno comunque precisato che tale scelta non sarebbe da ritenere scontata e imposta al legislatore; e invero vi sarebbero ipotesi normative, come l’art. 276, comma 1-ter, c.p.p., tali da prevedere un’attivazione d’ufficio del giudice, volta a sostituire in senso peggiorativo una precedente misura cautelare.

Da ultimo, importanti considerazioni sono state svolte con riferimento al diritto di difesa, da ritenersi salvaguardato. Nello specifico, si è argomentato che l’assenza, nella previsione in esame, dell’interrogatorio di garanzia, dopo che sia stata disposta la sostituzione degli arresti domiciliari con la misura più grave, sarebbe in linea con le altre ipotesi previste dal codice di procedura penale, quali, in particolare, quelle ex artt. 276 e 299, comma 4, c.p.p. Inoltre, secondo la pronuncia, le prerogative difensive sarebbero in ogni caso tutelate: contro l’ordinanza sostitutiva della misura cautelare sarebbe infatti proponibile appello ex art. 310 c.p.p. ed, eventualmente, ricorso per cassazione ai sensi dell’art.

311 c.p.p.

In definitiva, sulla scorta di quanto emerso, il Tribunale ha ritenuto applicabile la novella normativa al caso di specie. Difatti, nella fattispecie concreta, a venire in rilievo sarebbe il delitto di cui all’art.

416-bis c.p., contemplato dal d.l. n. 29 del 2020; il provvedimento di sostituzione, costituito dall’ordinanza in esame, rientrerebbe nella cornice temporale di applicazione della disciplina. Da ultimo, si è osservato che tale ordinanza, sostitutiva della custodia cautelare in carcere, sarebbe

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dettata, almeno in parte, dall’emergenza epidemiologica. Insomma, i Giudici hanno esplicitato che, concessi gli arresti domiciliari con il provvedimento in analisi, la pubblica accusa sarà tenuta a effettuare il continuo monitoraggio ex art. 3 d.l. n. 29 del 2020, al fine di formulare l’istanza di ripristino della misura cautelare più gravosa, nel caso in cui siano cessate le esigenze sanitarie riscontrate.

4. L’ordinanza in commento ha certamente il pregio di aver sollevato un problema di grande rilevanza pratica, oltre che di estrema attualità, alla luce dell’emergenza sanitaria in corso. Ad ogni modo, al di là della disciplina dettata dalla decretazione d’urgenza di cui al d.l. n. 29 del 2020, che sembra effettivamente apprestare una copertura normativa al tema in esame, non pare ammissibile, nell’attuale disciplina del codice di rito, una misura coercitiva disposta “a tempo”, in relazione a una situazione temporanea di incompatibilità con la custodia cautelare in carcere.

Certo, le ragioni di fondo inerenti all’esigenza di un ripristino della cautela di cui all’art. 285 c.p.p., una volta venute meno le condizioni di salute che ne avevano giustificato la sostituzione con quella degli arresti domiciliari e salva, in ogni caso, la persistenza dei presupposti applicativi della misura, appaiono fondate. Tuttavia, in assenza di una previsione espressa sul punto, sembra opportuno concludere nei medesimi termini della recente decisione della Corte di cassazione, secondo cui «non s[arebbero] possibili a fronte di situazioni temporanee che si manifestano in corso di esecuzione della misura, prescrizioni “a tempo”, con previsione di un automatico ripristino»[15].

D’altra parte, proprio la disposizione di cui all’art. 47-ter, comma 1-ter, ord. penit., nell’ambito della disciplina dell’esecuzione, pare rappresentare un argomento contrario e non a favore dell’ammissibilità di una soluzione analoga in materia cautelare. L’assenza, infatti, di una previsione simile nell’ambito del procedimento incidentale de libertate sembrerebbe far propendere per l’impossibilità, allo stato, di disporre gli arresti domiciliari “a termine”.

Desta inoltre perplessità l’effetto pratico ricavato dal ricorso all’art. 275, comma 4-bis, c.p.p., quale fondamento normativo della soluzione prospettata dall’ordinanza: si è precisato che, in tale ipotesi, si prescinderebbe da una previa istanza formulata dalla pubblica accusa. Al riguardo, occorre però osservare che il principio del ne procedat iudex ex officio pare immanente in materia, qualora si intenda disporre o aggravare una misura cautelare[16]. È ben vero che vi sono limitate ipotesi di iniziative officiose in peius, come chiarito dalla stessa pronuncia; tuttavia, nel silenzio dell’art. 275, comma 4-bis, c.p.p., dovrebbe trovare applicazione il principio della domanda cautelare, maggiormente rispondente a un modello di processo di parti, cui è ispirato il codice del 1988.

In conclusione, fermi restando i rilievi espressi, appare condivisibile la sollecitazione formulata nell’ordinanza in ordine all’opportunità, al di là della parentesi rappresentata dal d.l. n. 29 del 2020, di «una sistematica modifica codicistica», volta a fornire una puntuale risposta alle ipotesi di incompatibilità solo temporanea con la custodia cautelare in carcere. In tale prospettiva, sarebbe comunque auspicabile rispettare il principio della domanda cautelare, oltre che assicurare una rivalutazione che tenga conto non solo dell’eventuale sopravvenuto mutamento in positivo delle condizioni di salute dell’interessato, ma anche della persistenza delle esigenze cautelari che avevano portato a optare per il regime cautelare di massimo rigore.

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[1] In merito, v., per tutti, E. Aprile-F. D’Arcangelo, Le misure cautelari nel processo penale, Milano, 2017, p. 216 e ss.; A. Bassi, I presupposti ed i criteri di scelta delle misure cautelari personali, in Aa.Vv., La cautela nel sistema penale. Misure e mezzi di impugnazione, a cura di A. Bassi, Padova, 2016, pp. 66 e 67; A. De Caro, Presupposti e criteri applicativi, in Aa.Vv., Trattato di procedura penale, diretto da G. Spangher, vol. II, t. II, Le misure cautelari, a cura di A. Scalfati, Torino, 2008, pp. 88-89; C. De Robbio, Le misure cautelari personali, Milano, 2016, p. 198 e ss.; G. Spangher, Le misure cautelari personali, in Aa.Vv., Procedura penale. Teoria e pratica del processo, diretto da G.

Spangher-A. Marandola-G. Garuti-L. Kalb, vol. II, Misure cautelari. Indagini preliminari. Giudizio, a cura di A. Marandola, Milano, 2015, p. 65 e ss.

[2] Cfr. Cass., Sez. I, 19 luglio 2019, n. 42713, in CED. Cass., n. 277455-01.

[3] In questi termini, cfr., ancora, Cass., Sez. I, 19 luglio 2019, n. 42713, cit.

[4] Al riguardo, v. F. Gianfilippi, La rivalutazione delle detenzioni domiciliari per gli appartenenti alla criminalità organizzata, la magistratura di sorveglianza e il corpo dei condannati nel d.l. 10 maggio 2020 n. 29, in Giustizia Insieme, 12 maggio 2020; G. Pestelli, D.L. 29/2020: obbligatorio rivalutare periodicamente le scarcerazioni connesse all’emergenza Covid-19, in Quotidiano Giuridico, 13 maggio 2020; A. Pulvirenti, COVID-19 e diritto alla salute dei detenuti: un tentativo, mal riuscito, di semplificazione del procedimento per la concessione dell’esecuzione domiciliare della pena (dalle misure straordinarie degli artt. 123 e 124 del d.l. n. 18/2020 alle recenti novità del d.l. n. 29/2020, in Leg. pen., 26 maggio 2020. Con particolare riferimento all’art. 3 d.l. n. 29 del 2020, v. A. Marandola, Il ripristino del carcere cautelare nel d.l. 29/2020, in Il Penalista, 18 maggio 2020.

[5] Tra i primi commenti al d.l. 30 aprile 2020, n. 28, v. P. Canevelli, La magistratura di sorveglianza tra umanità della pena e contrasto alla criminalità organizzata: le soluzioni contenute nel D.L. 30 aprile 2020, n. 28, in Giustizia Insieme, 8 maggio 2020; A. Della Bella, Emergenza COVID e 41 bis:

tra tutela dei diritti fondamentali, esigenze di prevenzione e responsabilità politiche, in questa Rivista, 1° maggio 2020; M. Gialuz, L’emergenza nell’emergenza: il decreto-legge n. 28 del 2020, tra ennesima proroga delle intercettazioni, norme manifesto e “terzo tempo” parlamentare, in questa Rivista, 1° maggio 2020.

[6] Cfr. M. Gialuz, Il d.l. antiscarcerazioni alla Consulta: c’è spazio per rimediare ai profili di illegittimità costituzionale in sede di conversione, in questa Rivista, 5 giugno 2020.

[7] In merito, si veda G. Fiandaca, Scarcerazione per motivi di salute, lotta alla mafia e opinione pubblica, in questa Rivista, 19 maggio 2020.

[8] In questo senso pare potersi interpretare l’infelice inciso, contenuto nell’art. 3 d.l. n. 29 del 2020,

«salvo quando il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria comunica la disponibilità di strutture penitenziarie o di reparti di medicina protetta adeguati alle condizioni di salute dell'imputato»: cfr. G. Pestelli, D.L. 29/2020: obbligatorio rivalutare periodicamente, cit.

[9] V. Senato della Repubblica, XVIII Legislatura, Fascicolo Iter DDL S. 1799, Analisi tecnico- normativa, p. 18.

[10] Cfr., ancora, Senato della Repubblica, XVIII Legislatura, Fascicolo Iter DDL S. 1799, Analisi tecnico-normativa, p. 19.

[11] V. Cass., Sez. I, 19 luglio 2019, n. 42713, cit.

(9)

[12] È stata, in particolare, richiamata Cass., Sez. Un., 30 maggio 2006, n. 29907, in CED. Cass., n.

234138.

[13] Cfr. Cass., Sez. VI, 19 febbraio 2019, n. 10278, in CED. Cass., n. 275203-01; Cass., Sez. VI, 23 novembre 2016, n. 6790, in CED. Cass., n. 269161.

[14] La pronuncia si riferisce, in particolare, a Cass., Sez. VI, 26 giugno 2002, n. 31901, in Guida dir., 2002, n. 47, p. 80.

[15] V. Cass., Sez. I, 19 luglio 2019, n. 42713, cit.

[16] In merito, cfr. l’analisi svolta da E. Valentini, La domanda cautelare nel sistema delle cautele personali, Bologna, 2012, passim.

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N. 251/20 R.M.C.P.

N. 10872/17 R.G.N.R.

N. 10211/18 R.G.I.P.

T

RIBUNALE DI

L

ECCE

SEZIONE RIESAME

Il Tribunale, riunito in camera di consiglio nelle persone dei seguenti Magistrati:

- Dott.ssa Pia Verderosa Presidente - Dott.ssa Anna Paola Capano Giudice - Dott. Antonio Gatto Giudice rel.

decidendo sull’appello ex art. 310 c.p.p. presentato in data 27/3/2020 dai difensori di A. G., nato a … (LE) il … 1956, avverso l’ordinanza datata 23/3/2020 (depositata in pari data) con la quale il GIP presso il Tribunale di Lecce ha rigettato l’istanza di sostituzione della misura della custodia cautelare in carcere attualmente in atto con quella degli arresti domiciliari;

esaminati gli atti del procedimento, pervenuti nella cancelleria dell’adito Tribunale distrettuale in data 6/4/2020;

uditi i difensori nell’udienza camerale del 15/5/2020, sciogliendo la riserva di cui al separato verbale;

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA SOMMARIO

1.L’ORDINANZA GENETICA ... 1

2.L’ISTANZA DI SOSTITUZIONE DELLA MISURA CARCERARIA ... 2

3.IL PROVVEDIMENTO REIETTIVO IMPUGNATO ... 2

4.L’ATTO DI APPELLO FORMULATO DALLA DIFESA ... 2

5.L’INCOMPATIBILITÀ TEMPORANEA CON IL REGIME CARCERARIO ... 3

6.GLI ARRESTI DOMICILIARI A TEMPO NELLA LEGISLAZIONE ORDINARIA ... 5

7.GLI ARRESTI DOMICILIARI A TEMPO NEL D.L. N.29 DEL 10 MAGGIO 2020 ... 16

7.1.AMBITO DI APPLICAZIONE SOGGETTIVO ... 17

7.2.AMBITO DI APPLICAZIONE OGGETTIVO ... 18

7.3.ARCO TEMPORALE DI RIFERIMENTO ... 19

7.4.LE VERIFICHE DEL PUBBLICO MINISTERO ... 20

7.5.LA DECISIONE DEL GIUDICE ... 22

7.6.L’ESERCIZIO DEL DIRITTO DI DIFESA ... 23

8.CONCLUSIONI ... 25

P.Q.M. ... 26 1.L’ORDINANZA GENETICA

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All’istante, con l’ordinanza datata 17/6/2019 (depositata in pari data) emessa dal GIP presso il Tribunale di Lecce, è stata applicata la misura cautelare della custodia in carcere per il delitto di partecipazione, con il ruolo di capo, ad associazione mafiosa e di partecipazione, sempre in posizione apicale, ad associazione dedita al narcotraffico di cui agli artt. 416 bis c.p. e 74 D.P.R. 309/1990 (capi 1 e 2 dell’imputazione provvisoria), oltre che per detenzione illegale di armi e spaccio di sostanze stupefacenti (capi 9 e 25 dell’editto accusatorio).

Avverso tale ordinanza, i difensori di A. G. hanno formulato istanza di riesame, che veniva respinta da questo Tribunale distrettuale con ordinanza adottata il 16/7/2019, poi confermata dalla Suprema Corte di Cassazione con sentenza emessa il 4/12/2019.

2.L’ISTANZA DI SOSTITUZIONE DELLA MISURA CARCERARIA

Così come in precedenti occasioni, con istanza depositata il 17/3/2020, la difesa dell’odierno appellante chiedeva al GIP presso il Tribunale di Lecce che la misura della custodia cautelare in carcere applicata al prevenuto venisse sostituita con quella degli arresti domiciliari, in considerazione delle condizioni di salute del medesimo, ritenute incompatibili con il regime carcerario.

3.IL PROVVEDIMENTO REIETTIVO IMPUGNATO

Il GIP presso il Tribunale di Lecce, con ordinanza datata 23/3/2020, ha rigettato la richiesta avanzata dalla difesa, ritenendo immutate le condizioni sanitarie relative all’indagato rispetto ai provvedimenti reiettivi già in precedenza intervenuti nell’ambito del presente procedimento.

In particolare, il giudice di prime cure rileva che l’istanza avanzata nell’interesse del prevenuto non evidenzia un aggravamento della patologia (psoriasi a placche), ma sostiene che le cure di cui ha bisogno A. non sarebbero somministrabili all’interno delle strutture ospedaliere, né ai sensi dell’art. 11 L. 354/1975, alla luce dell’emergenza sanitaria in atto dovuta alla diffusione del Covid-19.

Con specifico riferimento al rispetto in carcere delle norme igieniche prescritte per evitare il contagio da Coronavirus, rischio cui A. sarebbe maggiormente esposto in ragione delle lesioni cutanee che affliggono gran parte del suo corpo, il GIP osserva che tale problematica riguarda purtroppo tutti i detenuti, costretti a vivere in spazi ristretti e quindi tutti particolarmente a rischio contagio, specie considerata la facilità con cui il virus tende a diffondersi. Pertanto, secondo il giudice di prima istanza, le lesioni cutanee di A.

non sembrano costituire una fonte maggiore di rischio di contagio rispetto a quello gravante sul resto della popolazione carceraria.

4.L’ATTO DI APPELLO FORMULATO DALLA DIFESA

Il provvedimento reiettivo adottato dal GIP presso il Tribunale di Lecce il 23/3/2020 è stato impugnato dai difensori di A. G. con l’atto di appello depositato presso la cancelleria di questo Tribunale distrettuale il 27/3/2020.

Con il predetto atto di gravame, la difesa dell’indagato torna a riaffermare l’incompatibilità delle condizioni di salute del prevenuto con il regime carcerario, con conseguente richiesta di applicazione della misura gradata degli arresti domiciliari.

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Nello specifico, la difesa rileva che già la perizia precedentemente affidata da questo Tribunale distrettuale al dott. Capilungo aveva accertato la necessità di cure oggi non somministrabili all’interno di strutture ospedaliere, né ex art. 11 dell’Ordinamento penitenziario, alla luce dell’emergenza sanitaria in atto.

Ad avviso della difesa, a fronte della peculiare patologia dell’A., con piaghe cutanee profonde su più del 70% del corpo, non è possibile ipotizzare, in regime carcerario, il rispetto delle norme igieniche prescritte al fine di evitare il contagio da Covid-19 (mantenere una distanza di almeno un metro dagli altri detenuti, a causa degli spazi ristrettissimi delle celle detentive; lavare frequentemente le mani, considerato che A. soffre di una grave forma di onicopatia psoriasica e rilevato che il suo corpo è costantemente esposto al contagio, in ragione delle stesse lesioni cutanee).

Nell’atto di impugnazione, si evidenzia, inoltre, che A. necessita dell’assunzione di farmaci biologici, che richiedono costante monitoraggio clinico, e dell’applicazione di farmaci locali (nel rispetto di rigorose regole igieniche) per la quale l’indagato necessita di essere coadiuvato.

Si aggiunge che la psoriasi è una malattia sistemica infiammatoria che, nel caso dell’indagato, coinvolge non solo la cute ma anche le articolazioni, oltre ad essere associata all’importante comorbilità cardiovascolare che aggrava il quadro clinico del paziente e rende il trattamento della patologia più complesso.

La difesa conclude che, in regime di arresti domiciliari, l’indagato potrebbe affrontare, con l’aiuto dei familiari e in un ambiente igienico certamente più adeguato rispetto a quello detentivo, le terapie farmacologiche di cui necessita, sotto il controllo dello specialista che lo ha già in cura. In tal modo, il prevenuto verrebbe sottratto al maggior rischio di contagio legato alla sua condizione peculiare, non paragonabile a quella di qualsiasi altro detenuto, come invece affermato nel provvedimento impugnato.

Alla luce di tali considerazioni, i difensori dell’indagato chiedono che questo Tribunale distrettuale “voglia, in riforma del provvedimento impugnato, sostituire la misura cautelare in atto nei confronti di A. G. con gli arresti domiciliari presso l’abitazione di residenza, in ragione dell’incompatibilità delle sue condizioni di salute con il regime penitenziario, ancor più alla luce della emergenza sanitaria in atto”.

5.L’INCOMPATIBILITÀ TEMPORANEA CON IL REGIME CARCERARIO

L’atto di appello formulato dalla difesa appare fondato e risulta, pertanto, meritevole di accoglimento.

È opportuno, in primo luogo, rilevare che, prima di provvedere sull’istanza avanzata nell’interesse dell’indagato, il Tribunale ha ritenuto necessario disporre una nuova perizia, anche alla luce della situazione sanitaria venutasi a creare a seguito della diffusione del virus Covid-19.

In particolare, all’udienza del 4 maggio 2020, il Collegio conferiva incarico peritale al dott. Roberto Vaglio (medico legale), sottoponendo al suo esame i seguenti quesiti:

“Esaminata la documentazione clinica in atti e nella disponibilità della difesa, nonché la perizia in precedenza svolta dallo specialista dermatologo nominato dall’ufficio e la consulenza di parte, accerti se le attuali condizioni di salute di A. G., detenuto nella Casa circondariale di Tolmezzo, siano compatibili con il regime carcerario, in particolare con riguardo alle lesioni cutanee e al conseguente eventuale maggior rischio di contagio da Covid-19, verificando altresì:

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§ se vi sia stato un peggioramento della patologia (con degenerazione in artrite psoriasica);

§ se le terapie necessarie possano essere garantite in maniera efficace con prestazioni sanitarie ambulatoriali o eventuali ricoveri in strutture esterne ai sensi dell’art. 11 dell’Ordinamento penitenziario;

§ se la Casa circondariale di Tolmezzo abbia effettivamente assicurato al detenuto le cure del caso”.

Il dott. Vaglio presentava la propria relazione peritale il 13/5/2020.

Nell’elaborato redatto si legge, in particolare:

“1. Il sig. A. G. è affetto da:

§ psoriasi a placche sul 60-70% della superficie cutanea;

§ probabile artrite psoriasica;

§ ipertensione arteriosa;

§ broncopatia cronica.

2. Le sue condizioni di salute non sono particolarmente gravi, ma non sono suscettibili di trattamento in regime di detenzione, almeno fino a quando persista il periodo di emergenza sanitaria da SARS-CoV-2.

3. In tal senso, si ritiene di suggerire, allo scopo di avviare il piano terapeutico più idoneo alle condizioni di salute del paziente, che sia consentito il ricorso alle strutture sanitarie territoriali per un periodo di circa sei mesi, che dovrebbe garantire un sensibile miglioramento della malattia”.

Secondo quanto rilevato dal perito, la patologia predominante, per gravità e impegno funzionale, è costituita dalla psoriasi (malattia cronica della pelle che causa lesioni “a placche”, caratterizzate da eritema e desquamazione).

Ad avviso del dott. Vaglio, il quadro clinico attuale dell’indagato risulta particolarmente severo in relazione all’estensione cutanea della malattia e alla mancanza di qualsiasi trattamento specifico in corso, se si esclude la terapia antidolorifica e l’applicazione topica di creme ad azione emolliente, idratante e antinfiammatoria.

Nel febbraio 2020, l’indagato è stato sottoposto a consulenza reumatologica e dermatologica presso la Casa circondariale di Tolmezzo: entrambi gli specialisti hanno concordato per la diagnosi di psoriasi e di probabile artrite psoriasica e onicopatia psoriasica e sull’opportunità di avviare una terapia immunomodulante con methotrexate, dopo aver predisposto gli opportuni accertamenti ematochimici.

Tuttavia, essendo subentrata l’emergenza sanitaria dovuta al Covid-19 poco tempo dopo tali accertamenti e venendo a mancare la possibilità di effettuare visite programmate presso gli ospedali al fine di ridurre al minimo la possibilità di contagio da Coronavirus, è stato ritenuto opportuno posticipare tale piano terapeutico, programmando una nuova visita reumatologica al termine dell’emergenza sanitaria.

Dunque, il programma terapeutico cui sottoporre A. G. ha subito un ritardo e un conseguente rinvio a causa dell’emergenza sanitaria in corso.

Il perito rileva che, sebbene le condizioni generali di salute dell’indagato non siano, nel complesso, particolarmente allarmanti e potrebbero consentire la somministrazione della terapia anche in regime di detenzione, di fatto, la severità del quadro cutaneo e la mancanza di un piano terapeutico realizzabile rende assai remota la possibilità che egli possa usufruire, nell’immediato, di terapie specifiche.

Nell’elaborato peritale, si evidenzia inoltre che la terapia immunomodulante, che si utilizza per il trattamento della psoriasi, presenta, tra gli effetti collaterali, un effetto

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immunosoppressore sul paziente, che è così esposto ad un rischio aggravato di contrarre malattie infettive.

Conseguentemente, l’avvio della terapia conmethotrexate esporrebbe il paziente ad un maggiore rischio di contrarre il virus Covid-19; rischio che ovviamente incombe anche al di fuori delle strutture carcerarie, ma che risulta sensibilmente aumentato in ambienti comunitari.

In virtù delle condivisibili conclusioni cui è addivenuto il perito incaricato dal Tribunale, pertanto, può affermarsi che sussista, nel caso di specie, una “incompatibilità temporanea” delle condizioni di salute dell’indagato con la custodia cautelare in carcere, per un periodo che lo stesso dott. Vaglio ha stimato in circa sei mesi.

Ciò in quanto:

- le lesioni cutanee da psoriasi da cui l’indagato è affetto aumentano il rischio di contagio da Covid-19;

- il preventivato programma terapeutico è stato procrastinato a causa dell’emergenza sanitaria in atto;

- la somministrazione dei necessari farmaci immunomodulanti presenta, come effetto collaterale, un effetto immunosoppressore, esponendo il paziente ad un rischio aggravato di contrarre malattie infettive.

6.GLI ARRESTI DOMICILIARI A TEMPO NELLA LEGISLAZIONE ORDINARIA

Secondo il condivisibile giudizio del perito incaricato, dunque, l’indagato, in considerazione delle patologie da cui è affetto e del rischio di contagio da Covid-19 che correrebbe in ipotesi di permanenza in regime custodiale carcerario, necessita di un periodo di sei mesi di custodia domiciliare, con possibilità di fare ricorso alle strutture sanitarie territoriali, in modo da garantire un miglioramento delle sue condizioni di salute.

Occorre rilevare, sul punto, che, secondo recente giurisprudenza della Suprema Corte, il codice di rito non consente di applicare la misura degli arresti domiciliari “a tempo”, dunque per un periodo prestabilito o comunque provvisorio, con il conseguente rientro presso strutture carcerarie.

Com’è noto, il codice contempla espressamente ipotesi di sostituzione in peius della misura cautelare in corso di esecuzione, con la conseguenza che, in tali casi, è possibile sostituire la misura degli arresti domiciliari con quella della custodia in carcere, ma si tratta di fattispecie in cui si registra o una violazione delle prescrizioni attinenti alla misura cautelare in atto oppure un aggravamento delle esigenze cautelari.

Si fa riferimento, in particolare, all’art. 276 c.p.p. (“Provvedimenti in caso di trasgressione alle prescrizioni imposte”), ipotesi dell’“aggravamento sanzionatorio”, e all’art. 299 comma 4 c.p.p. (“Revoca e sostituzione delle misure”), ipotesi dell’“aggravamento cautelare”.

Né l’art. 275 c.p.p., né alcuna altra disposizione codicistica, prevede, invece, expressis verbis la possibilità di ripristinare la misura della custodia in carcere dopo aver applicato la misura gradata degli arresti domiciliari in ragione delle condizioni di salute dell’imputato, per una “incompatibilità temporanea” delle stesse con il regime detentivo carcerario ed esclusivamente in base al venir meno del predetto stato di incompatibilità, senza che sia intervenuta una violazione delle prescrizioni imposte o un aggravamento delle esigenze cautelari precedentemente rilevate.

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La giurisprudenza della Suprema Corte, in un recente caso in cui è stata chiamata a pronunciarsi espressamente sulla questione, ha escluso la possibilità di applicazione degli arresti domiciliari “a termine” o comunque temporaneamente, una volta accertato il miglioramento delle condizioni di salute del prevenuto e il conseguente venir meno dello stato di incompatibilità con il carcere.

I giudici di legittimità, infatti, proprio annullando un provvedimento adottato da questo Tribunale distrettuale, hanno assunto la decisione così massimata: in tema di custodia cautelare in carcere, è illegittima l’ordinanza che, a fronte di una temporanea incompatibilità con il regime carcerario determinata da motivi di salute (nella specie, relativi ad una terapia post operatoria), disponga la sostituzione a termine della misura custodiale con gli arresti domiciliari prevedendone il rispristino alla scadenza, previa verifica della condizione di compatibilità carceraria (Cass. pen., n. 42713 del 19/07/2019 - dep. 17/10/2019, Mero, Rv. 277455 - 01).

Nel caso in questione, il Tribunale di Lecce, adito in funzione di giudice d’appello cautelare, aveva rigettato l’impugnazione, proposta nell’interesse dell’imputato (condannato in primo grado per il delitto di omicidio premeditato e altri reati), avverso l’ordinanza della Corte d’Assise di Lecce con cui la Corte territoriale aveva sostituito la misura degli arresti domiciliari, ripristinando la custodia cautelare in carcere.

La decisione era stata assunta sulla scorta di un accertamento medico-legale che documentava la ritrovata compatibilità tra le condizioni di salute del prevenuto e la restrizione carceraria, dopo che, due mesi prima, sulla base di altro elaborato peritale che prevedeva la necessità di un trattamento fisioterapico da praticare presso il domicilio, dunque, al di fuori della struttura carceraria, la medesima Corte aveva affermato l’incompatibilità con la custodia in carcere per il periodo di due mesi (esattamente il lasso temporale previsto per il predetto trattamento terapeutico).

La Corte d’Assise di Lecce, pertanto, al termine del bimestre, previo espletamento (come si è detto) di altra perizia, venuta meno la (temporanea) condizione di incompatibilità con la custodia carceraria, in assenza di elementi di novità che potessero indurre a rivedere il quadro cautelare, aveva disposto il ripristino della misura originariamente sostituita.

La decisione assunta dalla Corte d’Assise, con conseguente ripristino della custodia cautelare in carcere, era stata conferma dal Tribunale del Riesame di Lecce, adito in sede di appello cautelare ex art. 310 c.p.p.

La difesa, tuttavia, che non aveva impugnato il provvedimento con il quale, in precedenza, la misura degli arresti domiciliari era stata accordata solo per il periodo di due mesi, proprio in ragione della temporanea incompatibilità delle condizioni di salute dell’imputato con il regime detentivo carcerario, formulava ricorso per cassazione avverso il provvedimento di ripristino della custodia in carcere.

In particolare, il difensore lamentava una violazione di legge, eccependo l’impossibilità di concedere la misura cautelare degli arresti domiciliari “a tempo”, pur richiamando ragioni collegate al diritto alla salute. Secondo la difesa, la misura non poteva essere concessa, a differenza di quanto accade per la detenzione domiciliare, con effetto temporaneo. Al cospetto di una decisione di accoglimento della misura meno gravosa degli arresti domiciliari non sarebbe stato possibile aggravare tale misura se non a

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condizione che si fossero accentuate le esigenze cautelari stesse e nell’ipotesi in cui esse non fossero state controllabili con una misura meno afflittiva di quella di massimo rigore.

Era in altri termini esclusa una revocabilità in peius e nella specie, con la concessione degli arresti domiciliari, si era formato un “giudicato cautelare”.

La Suprema Corte accoglieva il ricorso avanzato dalla difesa, annullando senza rinvio il provvedimento impugnato e disponendo conseguentemente il ripristino della misura degli arresti domiciliari.

Come osservano correttamente i giudici di legittimità, “la questione di diritto sottoposta a questa Corte è relativa alla possibilità di concedere una misura cautelare coercitiva “a termine”“:

“partendo dalla possibilità di concedere una misura “a tempo” ritiene il giudice di merito che la temporanea condizione di incompatibilità con il regime detentivo autorizzerebbe la sostituzione della misura in atto con altra meno afflittiva e legittimerebbe una sorta di automatico ripristino della misura più grave, alla cessazione della condizione di incompatibilità”, configurando “una elasticità del regime custodiale di massimo rigore, suscettibile di compressione ed espansione in ragione del mutare delle contingenze per cui risulta essere stato disposto”.

Tuttavia, dopo aver correttamente inquadrato la questione giuridica sottoposta alla sua attenzione, la Corte articola una motivazione che appare distonica rispetto alla problematica da decidere.

Citando alcune pronunce dei primi anni 2000, la Cassazione afferma, infatti, che “questa Corte ha già avuto modo di osservare che, in ossequio al principio di legalità, le misure cautelari personali possono essere applicate esclusivamente nell’ambito di figure tassativamente definite;

pertanto, non è ammissibile l’applicazione simultanea, in un “mixtum compositum”, di due diverse misure tipiche”.

Ciò - prosegue la Corte - per il rispetto dovuto ai principi di tipicità e di legalità (artt. 13 comma 2 Cost. e 272 c.p.p.), che sovrintendono all’interno sistema cautelare penale, impedendo al giudice di “creare” regimi cautelari non specificamente previsti e disciplinati dalla legge.

Citando espressamente la sentenza a Sezioni Unite La Stella del 2006, la Cassazione afferma: “non ha esitato la giurisprudenza di questa Corte ad affermare che l’applicazione cumulativa di misure cautelari personali può essere disposta soltanto nei casi espressamente previsti dalla legge agli artt. 276, comma primo, e 307, comma primo bis, cod. proc. pen. (la Corte ha altresì precisato che, al di fuori dei casi in cui siano espressamente consentite da singole norme processuali, non sono ammissibili né l’imposizione “aggiuntiva” di ulteriori prescrizioni non previste dalle singole disposizioni regolanti le singole misure, né l’applicazione “congiunta” di due distinte misure, omogenee o eterogenee, che pure siano tra loro astrattamente compatibili)” (Cass. pen., Sez. U, n. 29907 del 30/05/2006 - dep. 12/09/2006, La Stella, Rv. 23413801).

Così riportati i passaggi fondamentali della decisione della Suprema Corte, va osservato come la motivazione addotta, a parere del Tribunale, non risulta condivisibile per un duplice ordine di ragioni:

1) la giurisprudenza citata nella sentenza in commento, in relazione all’impossibilità di applicare cumulativamente (contestualmente) misure cautelari, compresa la sentenza a Sezioni Unite La Stella, è da ritenersi ormai superata alla luce della più recente giurisprudenza di legittimità, successiva all’entrata in vigore della riforma in materia di misure cautelari disposta con la L. 47/2015;

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2) nel caso sottoposto all’esame della Corte (così come nella vicenda che oggi occupa il Tribunale), non si trattava dell’applicazione cumulativa e contestuale di più misure cautelari, bensì dell’adozione “a termine” di un’unica misura, nella fattispecie gli arresti domiciliari, con successivo ripristino della custodia cautelare in carcere.

Sotto il primo profilo, va osservato che il quadro giurisprudenziale richiamato nella sentenza in commento si è mantenuto assolutamente stabile fino al 2015, con arresti giurisprudenziali della Suprema Corte che si sono attenuti al decisum delle Sezioni Unite La Stella, senza particolari sforzi argomentativi e senza alimentare un dibattito ormai sopito da anni, sino ad arrivare all’entrata in vigore della L. 47/2015, che ha modificato la disciplina in materia tanto da indurre la Cassazione (condivisibilmente o meno) a mutare radicalmente approccio in ordine alla possibilità di applicare cumulativamente misure cautelari anche al di là dei casi espressamente previsti dal codice di rito.

Vengono in rilievo, in particolare, due norme della L. 47/2015: l’art. 3, che modifica il primo periodo dell’art. 275 comma 3 c.p.p., e l’art. 9, che interviene a integrare il disposto dell’art. 299 comma 4 c.p.p..

Orbene, il nuovo primo periodo del terzo comma dell’art. 275 c.p.p. (“Criteri di scelta delle misure”), così recita: “La custodia cautelare in carcere può essere disposta soltanto quando le altre misure coercitive o interdittive, anche se applicate cumulativamente, risultino inadeguate”.

Correlativamente, il quarto comma dell’art. 299 c.p.p. (“Revoca e sostituzione delle misure”) statuisce: “Fermo quanto previsto, dall’art. 276, quando le esigenze cautelari risultano aggravate, il giudice, su richiesta del pubblico ministero, sostituisce la misura applicata con un’altra più grave ovvero ne dispone l’applicazione con modalità più gravose o applica congiuntamente altra misura coercitiva o interdittiva”.

A seguito delle modifiche normative apportate dalla L. 47/2015, pertanto, da un lato, la misura massima della custodia cautelare in carcere può essere applicata solo se le altre misure risultino inadeguate: rispetto alla disciplina previgente, però, la verifica deve essere effettuata non soltanto con riferimento a ciascuna singola misura cautelare, ma anche in relazione alle altre misure cautelari cumulate tra loro, con un significativo cambio di prospettiva; dall’altro, qualora le esigenze cautelari risultino aggravate, il giudice può, non soltanto sostituire la misura in corso di esecuzione con un’altra più grave o disporne l’applicazione con modalità maggiormente afflittive, ma anche applicare, in aggiunta, altra misura coercitiva o interdittiva.

Nella prima pronuncia con la quale la Suprema Corte si è misurata direttamente con le modifiche apportate dalla L. 47/2015 in materia di cumulo di misure cautelari, i giudici di legittimità hanno affermato che il predetto testo normativo ha apportato un radicale cambiamento alla disciplina previgente, tanto da affermare una generale facoltà di applicazione congiunta delle misure.

La Corte giunge a tale conclusione sulla base di tre argomentazioni:

- lettura sistematica e non atomistica: secondo il Supremo Consesso, le innovazioni normative introdotte dalla L. 47/2015 agli artt. 275 comma 3 e 299 comma 4 c.p.p.

vanno lette e interpretate sistematicamente, considerandole in maniera unitaria; in particolare, si evidenzia come la modifica dell’art. 275 comma 3 c.p.p. abbia esteso la possibilità di cumulo in fase genetica, di applicazione del regime cautelare, mentre, in precedenza, essa era limitata alla sola fase dinamico-evolutiva di

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sostituzione di una misura già in atto; quanto all’interpolazione dell’art. 299 comma 4 c.p.p., si rileva come, prevedendo la possibilità di cumulo, si sia posto l’accento sui canoni di adeguatezza e proporzionalità del trattamento cautelare;

- interpretazione costituzionalmente orientata: la Corte osserva come entrambe le modifiche normative in tema di cumulo muovano da una comune ratio rappresentata dallo scopo di assicurare una più pregnante tutela del “minor sacrificio della libertà personale”, principio, questo, che deve guidare anche l’interprete valorizzando la logica dell’art. 13 della Carta fondamentale, che impone di individuare, fra più interpretazioni, quella che riduca al minimo il sacrificio per la libertà personale, anche grazie all’ampliamento, da parte del legislatore, della

“gamma graduata” delle misure cautelari adottabili;

- principio di ragionevolezza: i giudici affermano che tali considerazioni “conducono ad escludere che la collocazione della modifica di cui all’art. 9 della L. n. 47 cit. nel corpo del solo comma 4 dell’art. 299 cod. proc. pen. sia di ostacolo all’applicabilità congiunta di altre misure cautelari anche nel caso di sostituzione della misura di cui al comma 2 dello stesso art. 299 cod. proc. pen.. Una diversa interpretazione, del resto, metterebbe in luce profili di tensione della disciplina della revoca e della sostituzione delle misure già sul piano della ragionevolezza della differenziazione tra la disciplina della sostituzione per aggravamento delle esigenze cautelari (arricchita dalla possibile applicazione congiunta di più misure) e quella della sostituzione ex art. 299, comma 2, cod. proc. pen. (che di tale possibilità non potrebbe giovarsi)” (Cass. pen., Sez. 6, n. 6790 del 23/11/2016 - dep. 13/2/2017, Musumeci, con la quale è stata ritenuta legittima la sostituzione, ai sensi dell’art.

299 comma 2 c.p.p., dunque in melius, della misura degli arresti domiciliari con quelle, congiuntamente applicate, dell’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria e dell’obbligo di dimora nel comune di residenza).

I principi affermati in tale pronuncia hanno trovato piena conferma in una più recente sentenza dei giudici di legittimità, secondo cui “questa Corte (…) è già sostanzialmente pervenuta al medesimo esito ermeneutico, ritenendo che il potere di applicazione congiunta di più misure sia oggi una manifestazione di un ampio potere generale attributo dalla legge al giudice”

(Cass. pen., Sez. 6, n. 10278 del 19/2/2019 - dep. 8/3/2019, Serio).

Se, dunque, un argomento può trarsi dalla (attuale) giurisprudenza di legittimità inerente alla possibilità di applicare cumulativamente misure cautelari, anche oltre i casi espressamente previsti dalla legge, si tratta di un argomento che milita a favore della possibilità di disporre misure cautelari “a termine” in ragione di condizioni oggettivamente temporanee, non contro di essa.

È innegabile, infatti, che il vulnus (ammesso che vi sia) inferto al principio di legalità in materia cautelare penale (artt. 13 comma 2 Cost. e 272 c.p.p.) applicando “a tempo” una (unica) misura prevista e compiutamente disciplinata dall’ordinamento risulti infinitamente meno grave rispetto a quello che può venire in rilievo applicando cumulativamente e contestualmente più misure cautelari in casi non espressamente previsti dal legislatore, come ormai affermato dalla giurisprudenza di legittimità successiva alla riforma del 2015.

In disparte tale argomento, va osservato che un’interpretazione dell’art. 275 comma 4 bis c.p.p. tesa ad affermare l’impossibilità di applicare la misura degli arresti domiciliari “a

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