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Asa Briggs, Peter Burke La stampa d intrattenimento

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Academic year: 2022

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Storiografia

La società di massa: forme di consumo e opinione pubblica

Nel primo brano di questo percorso Asa Briggs e Peter Burke ripercorrono i cambiamenti edi- toriali sollecitati dall’avvento di un pubblico di lettori di massa. In una prospettiva di storia sociale dei media, i due autori prestano attenzione alle dinamiche attivate dalla domanda e dall’offerta del mercato. L’avvento del grande magazzino è invece il tema affrontato da Emanuela Scarpellini, che si sofferma sui consumi di massa. Nell’individuare le peculiarità di queste nuove forme di ac- quisto, la studiosa unisce all’attenzione per gli aspetti materiali l’interesse per le immagini mentali e la cultura della società tardo-ottocentesca. Adam Arvidsson indaga la nascita del moderno sistema pubblicitario. Partendo dall’avvento dell’opinione pubblica di massa, Arvidsson risale al momento della creazione dell’immagine “pubblica” del prodotto e svela le strategie psicologiche impiegate per la sua commercializzazione. Stefano Cavazza, infine, riassume gli aspetti più si- gnificativi della moderna società dei consumi. Da un lato masse sempre più ampie di persone con potere d’acquisto, dall’altro quantità sempre più vaste di prodotti di consumo a basso costo si incontrano nel luogo simbolo della società moderna: il grande magazzino.

Asa Briggs, Peter Burke

La stampa d’intrattenimento

[A. Briggs e P. Burke, Storia sociale dei media. Da Gutenberg a internet (2000), trad. it. di E. Joy Mannucci, il Mulino, Bologna 2002, pp. 240-242]

Nel passo che segue Asa Briggs (1921-2016) e Peter Burke (nato nel 1937) osservano il modo in cui l’aumento dell’alfabetizzazione e la formazione di un pubblico di lettori di massa impres- sero un nuovo dinamismo alla stampa di fine Ottocento. Le testate giornalistiche e i tabloid si moltiplicarono per soddisfare una domanda crescente e variegata di materiali di lettura.

Accanto ai periodici più seri e impegnativi sorsero così numerosi settimanali e mensili a basso costo, che puntavano più sull’intrattenimento che sull’informazione. Questa svolta, se da un lato fu favorita dal successo di alcune generazioni di editori dotati di spirito imprenditoriale, dall’altro non mancò di raccogliere le critiche di quanti videro nelle nuove testate giornalistiche l’espressione di un declino del talento letterario.

In tutti i paesi, quali che fossero le leggi, la stampa si era affermata entro il 1900 come una forza all’in- terno della società: con questa forza si sarebbero dovuti fare i conti in un futuro all’insegna della de- mocratizzazione tanto quanto lo si era fatto in un passato autoritario. La stampa sarebbe rimasta un

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medium basilare anche molto dopo la comparsa dei media elettronici: accanto ai giornali, continuavano a prosperare le riviste, i libri e le enciclopedie. La tecnologia non è stata il fattore determinante. I primi fogli d’informazione australiani erano manoscritti, ma nel 1831 fu fondato il «Sydney Morning Herald», pubblicato quotidianamente dal 1840. Dieci anni dopo, tutte le città canadesi avevano un giornale: lonta- no dalle città e dai loro sobborghi in espansione, si disboscavano le foreste per produrre pasta di legno.

I processi di mutamento furono complessi: con la caduta dei costi di stampa e il formarsi di un pubblico di lettori di massa, quei giornali che non pretendevano di essere «di qualità» puntarono più sull’intrattenimento che sull’informazione. Anche il loro stile era meno formale. Ma anche i cosiddetti «tabloid» non erano un prodotto standardizzato, come si è tendenzialmente sostenuto in alcune storie del giornalismo. Erano infatti in concorrenza non solo l’uno con l’altro ma anche con altri mezzi di comunicazione di massa e con prodotti non legati alle comunicazioni, alcuni dei quali erano per loro una fonte di introiti attraverso la pubblicità.

Il ruolo dei giornalisti, gli uomini che raccoglievano le notizie – prima della fine dell’Ottocento le don- ne erano poche – e i redattori che le sceglievano, le ordinavano, le presentavano e le interpretavano, era sempre stato controverso, ma con il crescere delle vendite lo diventava ancora di più. [...]

Il fatto più importante fu tuttavia l’emergere di nuove generazioni di editori dalla mentalità impren- ditoriale. In Gran Bretagna Harmsworth, che dopo il 1900 abbandonò le riviste illustrate (ma non le enciclopedie) per i giornali acquisendo il «Times» nel 1908, non fu il primo dei magnati che passarono alle «chiacchiere». Il poeta e saggista Leigh Hunt (1784-1859) aveva lanciato un giornale intitolato

«The Week’s Chat» negli anni 1820-1830 e nel 1881 George Newnes (1851-1910) aveva fondato «Tit- Bits», presentato come «il primo giornale di notiziole», che sette anni dopo vendeva 350.000 copie alla settimana. [...]

Nel 1881 il fatto che nella sola Londra si vendessero da cinque a sei milioni di copie di periodici a basso prezzo, settimanali e mensili, veniva presentato come «un fenomeno straordinario dei tempi moderni»; ma in realtà era meno «moderno» di quanto sembrasse. E non era nemmeno legato diret- tamente all’Education Act, come si è sostenuto, anche all’epoca. Già nel 1858 il romanziere Wilkie Collins (1824-1889) aveva scritto (anonimamente) per «Household Words» un articolo intitolato Il pubblico sconosciuto. L’alfabetismo stava aumentando già prima della legge del 1870 e c’era una domanda crescente di materiali di lettura molto diversi da quelli disponibili per il pubblico istruito.

Negli anni Ottanta e Novanta l’ideale di un pubblico «informato» cominciò a cedere il passo alle real- tà del «mercato», per i media come nell’economia in generale. Il radicalismo politico perse forza e non erano solo i conservatori a parlare di «dare al pubblico ciò che voleva». Per alcuni, l’editoria era un’attività commerciale come un’altra.

La forma letteraria principale era ancora il romanzo, le cui dimensioni si erano ridotte rispetto alla tipica opera in tre volumi del passato. Era opinione di Gissing1 e di Henry James (1843-1916) – il grande romanziere americano che viveva in Inghilterra – che ora stessero prendendo il sopravvento i giornalisti, dietro i quali c’erano editori assai mediocri. Si espresse in questo senso anche lo storico W.E.H. Lecky (1838-1903) quando scrisse nel 1888 in occasione della simultanea morte del costitu- zionalista sir Henry Maine (1822-1888) e del poeta e critico Matthew Arnold (1822-1888). «Il talento letterario» affermò, veniva «polverizzato e assorbito dalla stampa quotidiana e settimanale». «Penso – concludeva Lecky – che non ci sia mai stato un paese o un periodo in cui altrettanto talento letterario eccellente sia stato dedicato a scritti che sono nello stesso tempo anonimi ed effimeri».

1 George Robert Gissing (1857-1903) fu uno scrittore inglese.

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Emanuela Scarpellini

Il successo del grande magazzino

[E. Scarpellini, L’Italia dei consumi. Dalla Belle Époque al nuovo millennio, Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 83-85]

Se il grande magazzino si affermò come uno dei simboli della nuova società di massa, fu per alcune buone ragioni che Emanuela Scarpellini illustra nel brano che qui proponiamo. An- zitutto l’esibizione della tecnologia (illuminazione elettrica, ascensori idraulici, riscaldamento centralizzato) e il rinnovamento continuo delle merci fecero del grande magazzino il luogo del progresso e della modernità. L’esposizione simultanea di una grande quantità di merci affa- scinava e meravigliava il consumatore, mentre la geografia urbana della città si riorganizzava affiancando alle vie del commercio quelle del divertimento. Nel grande magazzino inoltre la promozione della sociabilità e la democratizzazione del lusso si intrecciavano, soddisfacendo sia la ricerca della distinzione sia le esigenze del risparmio. Ma a fare del grande magazzino un’esperienza piacevole e divertente fu soprattutto la sua somiglianza con un luogo ben fami- liare alla società di fine Ottocento: il teatro.

Ci siamo chiesti più sopra perché il grande magazzino abbia avuto un impatto così forte nell’imma- ginario collettivo. Abbiamo ora molti elementi per rispondere, e possiamo sintetizzare le nostre tesi nei seguenti punti.

Primo. Il grande magazzino sembra incarnare il mito del progresso e la passione per le novità diffusi tra fine Ottocento e inizio Novecento (almeno fino a quando la bufera del primo conflitto mondiale farà liquefare la fiducia nelle «magnifiche sorti e progressive»). Come nel Ballo Excelsior, anche nei grandi magazzini la Luce aveva trionfato sull’Oscurità: erano stati in effetti i primi edifici ad adottare l’illuminazione elettrica, così come a installare la meraviglia degli ascensori idraulici, a dotarsi di ri- scaldamento centralizzato, a installare specchi e vetri di grandi dimensioni (spesso ordinati all’estero) e infine, poco dopo, le scale mobili – piazzate ben in vista al centro dell’edificio: la tecnologia andava messa in primo piano, era parte integrante del fascino dei grandi magazzini. E il senso di novità non riguardava solo la tecnologia, ma le stesse merci, che venivano di continuo cambiate, trasformate, migliorate secondo i dettami dell’ultima moda – in un processo di innovazione perenne. Il grande magazzino rappresenta la «modernità» urbana.

Secondo. Qui si realizza in pieno il processo di spettacolarizzazione della merce. La presenza in un unico luogo di una grande quantità di merce, accessibile e visibile in un solo colpo d’occhio, induce un senso di meraviglia per la sua unicità. Il «contenitore» poi, cioè il luogo fisico del grande magazzino, è costruito per affascinare il visitatore per la sua grandezza, la ricchezza, la comodità e piacevolezza del suo ambiente – caratteristiche che si riverberano sui prodotti esposti, che acquisiscono un maggiore valore per via della preziosa cornice in cui appaiono. [...] La conseguenza è che si saldano definitiva- mente i concetti di consumo e di divertimento (leisure): mi diverto nei luoghi del consumo, mi diverto a consumare.

Terzo. Il rilievo che i nuovi luoghi del consumo acquistano nelle città porta a una ridefinizione degli spazi urbani. Si crea cioè un circuito legato al consumo e al leisure che diviene centrale nella defini-

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zione della metropoli moderna, e che include empori, gallerie, vie commerciali accanto a luoghi del divertimento commercializzato come teatri, caffè, impianti sportivi. Ciò contribuisce a definire una nuova gerarchia degli spazi urbani, a valorizzare quelli legati al consumo, sempre più luoghi di incon- tro sociale per il «passeggio» e meta di turisti (magari a scapito dei luoghi tradizionali legati al potere civile e religioso). È interessante osservare come questo fenomeno abbia i suoi epicentri nelle principa- li capitali europee (Parigi, Londra), a sottolineare le influenze transnazionali delle forme del consumo.

Quarto. Questi nuovi spazi sono socialmente connotati: non sono gli spazi dell’aristocrazia e certa- mente non sono quelli della classe operaia; appartengono alla borghesia e riflettono i suoi valori e le sue pratiche di consumo. L’ampia crescita di tale settore sociale per effetto dello sviluppo industriale porta nel tempo a una stratificazione della clientela e a un allargamento verso il basso (piccola bor- ghesia impiegatizia). Ha così luogo il fenomeno che è stato definito di democratizzazione del lusso, che però non è la semplice riproposizione dei consumi aristocratici in chiave povera, ma l’abbina- mento della ricerca di distinzione con valori come l’efficienza e il risparmio.

Tutto questo è vero, ma forse manca ancora un elemento, qualcosa che ci sfugge. [...]

Che termini sono usati per parlare dei grandi magazzini? A quali immagini mentali sono accostati?

Ecco il punto. I clienti entusiasti in un certo senso conoscevano già questi nuovi spazi del consumo;

sapevano che avrebbero assaporato un grande spettacolo; erano consapevoli in anticipo degli effetti di meraviglia e fascino che li attendevano. Li avevano già incontrati: a teatro. Il teatro rappresentava lo schema originario su cui modellare altre esperienze, un Ur-testo, una grammatica alla quale ricondurre nuove situazioni. Ed ecco che lo spettacolo dei grandi magazzini diventa come quello inscenato sulle ribalte teatrali; luci, tecniche, costumi, colori, musiche, arredi: tutto è come sulle scene. I consumatori sono come gli spettatori; gli spazi del grande magazzino appaiono delimitati, protetti, organizzati come quelli teatrali; le artistiche e scintillanti vetrine, come le scene, non fanno trasparire il duro lavoro che c’è dietro; l’aspettativa di un’esperienza piacevole e divertente, e non troppo impegnativa, è identica.

Il grande magazzino ricalca il modello del teatro: per questo viene capito e accettato subito.

Adam Arvidsson

Il moderno sistema pubblicitario

[A. Arvidsson, Dalla réclame al brand management, in S. Cavazza e E. Scarpellini (a cura di), Il secolo dei consumi.

Dinamiche sociali nell’Europa del Novecento, Carocci, Roma 2006, pp. 199, 201-203]

Nel brano che proponiamo Adam Arvidsson risale alle origini del moderno sistema pubblicitario.

Affermatasi con l’avvento dell’opinione pubblica di massa, la pubblicità trovò un potente alleato nella marca commerciale che, oltre a proporre un’identità ai lavoratori in cerca di una qualche strategia della distinzione, associò i prodotti a valori e ideali che riscossero largo credito nella società. Questo legame primordiale fu potenziato dalla pubblicità moderna, che combinò una grafica sempre più accattivante con gli input forniti dal dibattito sulla psicologia e sui comporta- menti delle masse. Assumendo il principio per cui l’individuo è condizionabile da stimoli esterni,

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i mezzi di comunicazione offerti dai nuovi media furono sfruttati per esercitare una «pressione persuasiva sulla mente del singolo».

La pubblicità in senso moderno, come istituzione economica e comunicativa dotata di un proprio me- todo e una propria razionalità, si sviluppa con la moderna società dei consumi, a partire dalla seconda metà del Settecento (almeno in Inghilterra e nell’Europa del Nord). Fu allora che sviluppo economico e urbanizzazione crearono un ceto medio abbastanza esteso e influente in grado di comprare oggetti d’uso quotidiano e qualche articolo di lusso sul mercato (in precedenza, nell’economia rurale, preva- leva la produzione domestica o lo scambio).

Allo stesso tempo lo sviluppo della stampa e i crescenti livelli d’alfabetizzazione crearono un’o- pinione pubblica mobile e geograficamente dilatata, che cominciava a dettare mode e nuovi gusti. [...]

Questa scoperta dell’opinione pubblica e del ruolo che essa poteva svolgere sia nel diffondere la fama del prodotto che nel creare un’immagine che lo distinguesse dagli altri, e che ideal- mente lo rendesse più prezioso, portò alla scoperta dell’istituzione fondamentale del moderno sistema pubblicitario, la marca (brand). [...] Il segno della marca commerciale, ovvero il logo, crea un rapporto proprietario con una serie di beni immateriali – idee, solidarietà, esperienze –, legati al prodotto. In questo modo, la marca commerciale era già dall’inizio qualcosa di più di un semplice segno che permetteva di distinguere: era un modo di appropriarsi dell’immagine che si era creata nell’opinione pubblica intorno al prodotto. Così per i prodotti di massa, come il tè o la marmellata, che cambiarono radicalmente la dieta della classe operaia inglese durante la prima metà dell’Ottocento, la marca costituiva sì un segno di identificazione che rendeva possibile una responsabilizzazione del produttore, ma aggiungeva anche una dimensione di valore d’uso al prodotto: consentiva un’identificazione parziale con l’aristocrazia, la casa rea- le e le altre élite ed anche il richiamo di suggestioni legate all’espansione coloniale. [...]

Con la nascita della marca si sviluppa anche l’arte pubblicitaria. Diventa perciò importante crea- re un’identità specifica intorno alla marca, che abbia una coerenza sia semantica che estetica.

Negli Stati Uniti alla fine dell’Ottocento nascono riviste illustrate a diffusione popolare, come

«Ladies’ Home Journal» o «Harper’s Bazaar», che grazie alle nuove tecnologie di riproduzione grafica (come la stampa a rotocalco) aprono un nuovo canale per la diffusione di testi ed imma- gini commerciali. In Europa, dove la cultura del consumo rimane più concentrata in ambiente urbano, è il momento del manifesto pubblicitario, che vede ora notevoli sviluppi con nomi come Toulouse-Lautrec in Francia e Cappiello e Metlicovitz (che lavorano presso Borsalino, Cinzano e Campari) in Italia. Presto, comunque, l’attenzione si sposta dall’estetica del manifesto alla teorizzazione “scientifica” della sua efficacia persuasiva. Per gli artisti pubblicitari, la ricerca dell’efficacia dell’immagine si collega alle ricerche dell’avanguardia modernista, dove sia for- malisti che cubisti e futuristi cercano un linguaggio e un ruolo per l’arte nella nuova situazione comunicativa della modernità. Gli agenti di pubblicità o, come ora cominciano a chiamarsi, i

“tecnici pubblicitari”, si rivolgono invece alla psicologia.

La psicologia aveva fatto notevoli passi in avanti durante la seconda metà dell’Ottocento. Una delle sue mete più importanti era stata quella di spiegare i nuovi comportamenti “di massa”:

perché la folla urbana – un fenomeno sociale relativamente recente – si muove in un particolare modo? [...] In Francia questa ricerca prese due direzioni. La prima fu quella della “psicologia

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della folla”, sviluppata da Gustave Le Bon1 [...], che riteneva di poter spiegare la psicologia so- ciale dei nuovi gruppi: aggregazioni d’individui senza nessun legame profondo (come invece nel caso della famiglia o della comunità di quartiere), apparentemente mosse da uno “spirito della folla” sopraindividuale e al di là del controllo dei singoli membri. La seconda direzione fu rap- presentata dalla “psicologia della suggestione”, sostenuta principalmente da Jean-Martin Char- cot2 (che per un breve periodo ospitò come alunno Sigmund Freud all’ospedale psichiatrico La Salpêtrière di Parigi), che cercava di analizzare e curare comportamenti inconsci o indesiderati, come manie e isterismi, usando tecniche come l’ipnosi o la suggestione.

Comune a questi due approcci era l’idea che l’individuo fosse impotente, o comunque molto debo- le, rispetto agli stimoli esterni, che lo condizionavano a commettere specificate azioni o lo induce- vano in particolari stati mentali (così la folla “decideva” improvvisamente di saccheggiare i negozi o attaccare la polizia, e il paziente sotto ipnosi faceva tutto quello che gli imponeva il medico).

Questa concezione della mente umana diretta in gran parte da stimoli esterni apriva anche la strada a una tecnica persuasiva a sfondo psicologico. Perché non usare le scoperte della psicologia mo- derna per creare una scienza della persuasione e della pubblicità? [...] Lo scopo della pubblicità [...]

era quindi quello di usare i mezzi d’influenza offerti dai nuovi media (principalmente la stampa e i manifesti pubblicitari) per creare una forte pressione persuasiva sulla mente del singolo.

1 Gustave Le Bon (1841-1931), psicologo e sociologo francese.

2 Jean-Martin Charcot (1825-1893), neurologo francese.

Stefano Cavazza

Consumi di massa e produzione in serie

[S. Cavazza, La società di massa, in P. Pombeni (a cura di), L’età contemporanea, il Mulino, Bologna 2005, pp. 44-45]

In questo brano Stefano Cavazza (nato nel 1959) mette in luce gli aspetti più significativi della nuova società dei consumi. Il punto di svolta fu rappresentato, secondo l’autore, dall’allargamento del potere d’acquisto a fasce sempre più vaste della popolazione. Se l’acquisto di beni diversi dal cibo in passato era stato appannaggio esclusivo dei ceti alti, dalla metà dell’Ottocento, e via via sempre più sul finire del secolo, l’accesso ai consumi si allargò anche ai ceti medio-bassi. Il secondo aspetto notevole è rappresentato dall’aumento della produzione, reso possibile dalla meccanizzazione industriale. In questo senso è particolarmente rivoluzionaria l’invenzione della catena di montaggio, che da un lato permette di produrre i manufatti a velocità prima impensabili e dall’altro di abbattere notevolmente i costi. Il punto di incontro di questi due poli della società di massa, i beni di consumo a basso prezzo e i potenziali acquirenti, è il grande magazzino.

L’aumento della produzione fu una delle condizioni necessarie per realizzare quel cammino verso la società dei consumi di massa, ma un prerequisito essenziale fu rappresentato dal mutare dell’orien-

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tamento verso il consumo: l’abbandono dell’idea che la parsimonia fosse una virtù e che il consumo non fosse un peccato o un vizio. Inizialmente limitata alle classi superiori o borghesi, la pratica del consumo si fece largo anche fra i ceti sociali inferiori.

Al declino definitivo dell’autoconsumo, impossibile nelle aree urbane, si accompagnò la necessità per un’industria dall’offerta produttiva crescente di assicurarsi sempre nuovi compratori. La massa da attore politico che esigeva i suoi diritti diventava consumatore che reclamava i suoi prodotti. Se nelle epoche precedenti la gran parte dei beni voluttuari era stata appannaggio di una minoranza che poteva praticare il consumo vistoso come segno di prestigio sociale, a partire dall’Ottocento, l’acquisto di merci non solo alimentari si estese progressivamente a tutti gli strati della società. Nacquero così i grandi magazzini dove nel corso del tempo divenne possibile comprare tutto. Ma poiché le possibilità di spesa erano in un primo tempo limitate, l’industria dovette variare la sua offerta puntando al prezzo sempre più basso per conquistarsi acquirenti. Si trattò di una necessità vitale per un sistema econo- mico finalizzato a produrre eccedenze di beni e quindi alla costante ricerca di compratori. Sul piano economico ciò significò che la crisi non nasceva più dalla penuria, ma dall’abbondanza di beni che non trovavano compratori. L’aumento dei redditi dei ceti inferiori divenne così utile a tenere alta la domanda di beni. Nello stesso tempo la necessità di una vendita di massa spinse alla ricerca di sempre nuovi acquirenti attraverso il ricorso alla pubblicità dei prodotti.

Una seconda conseguenza riguardò la stessa estetica dei prodotti. Prima della rivoluzione industriale l’arredamento era cosa per ricchi; la gran parte della società viveva in ambienti ristretti. Se si osserva una normale casa contadina dell’età moderna si coglierà il ruolo della cucina come luogo di ritrovo della famiglia, la scarsa separazione degli ambienti e la limitatezza delle suppellettili e dell’arre- damento: cassepanche ed armadi, un tavolo, il focolare e poco altro. Non meno povera era la casa operaia di inizio Novecento: poche suppellettili, in genere arnesi da cucina, pochi arredi. Pochi soldi da spendere per quanto non fosse cibo e vestiario di prima necessità non offrivano lo stimolo ad una produzione di massa per la quale non esistevano del resto le condizioni tecniche. Per quanto veloci, gli artigiani potevano produrre solo un limitato numero di pezzi e dal momento che dettavano loro le condizioni al mercante, potevano produrre non tanto in funzione delle esigenze del mercato quanto delle proprie. Con l’avvento della meccanizzazione e della divisione del lavoro fu possibile aumenta- re sensibilmente la produttività del lavoro, senza dover dipendere dagli artigiani più esperti.

Per quanto riguarda l’estetica degli oggetti di consumo, la possibilità di moltiplicare la produzione, la cosiddetta produzione in serie, se da un lato rendeva possibile garantire bassi prezzi per i manufatti, dall’altro andò però inizialmente a scapito della forma estetica dell’oggetto aprendo un conflitto tra produzione in serie e produzione artigiana, segnato da accese discussioni tra intellettuali ed artisti, i cui echi sono giunti fino ai giorni nostri. [...] Negli anni Novanta dell’Ottocento Frederick Taylor aveva inventato un sistema di controllo della produzione basato sulla misurazione dei tempi di lavoro denominato «organizzazione scientifica del lavoro» e nel 1904 erano uscite dalla fabbrica di Henry Ford le prime macchine costruite assemblandone i vari pezzi lungo una rotaia su cui scorreva il telaio.

Con la nascita del taylorismo e della catena di montaggio la disumanizzazione del lavoro, di cui il film Tempi moderni di Charlie Chaplin dà un’esemplificazione convincente, sembrò toccare il suo culmine e cancellare ogni piacere nel lavoro. Il mito dell’artigiano continuava così ad essere l’occa- sione per rimpiangere il buon tempo antico, quando l’uomo godeva dal lavorare e sentiva suo il frutto del lavoro. La riscoperta dell’artigianato servì in larga misura alla ricerca di modelli estetici tradizio- nali da offrire ai nuovi consumatori, ma fu a volte anche fonte di ispirazione per un design innovativo.

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