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Discrimen » La crudeltà: variazioni sul tema

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Academic year: 2022

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Edizioni ETS

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Criminalia

Annuario di scienze penalistiche

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MARIO PISANI

LA CRUDELTÀ: VARIAZIONI SUL TEMA(*)

SOMMARIO: 1. Cultura e pratica della crudeltà – 2. La pena di morte: la “mort simple” e “les suppli- ces recherchés” – 3. L’esecuzione e “les supplices non-recherchés” – 4. Presupposti e pratica della tortura giudiziaria – 5. Altre e persistenti forme di crudeltà nei sistemi penali.

1. Inizio col dire che l’amico Arroyo Zapatero deve aver sbagliato ad invitar- mi a quest’incontro, dove si parla di teoria della crudeltà.

Infatti – lo aggiungo sùbito – io non sono per nulla un teorico della crudeltà, e, se pur mi devo riconoscere un qualche punto d’onore, sarebbe se mai quello d’aver cercato, anche sulla scia del vostro Jimenez de Asúa, di rivitalizzare la vec- chia dottrina del merito e del suo riconoscimento normativo, e dunque del diritto premiale. Il quale si occupa – com’è ovvio – delle buone, e magari delle ottime, azioni, e non certo di quelle cattive, e meno ancora di quelle assolutamente dete- riori o, per l’appunto, crudeli.

Ma poiché, se non scrivere di crudeltà, amo però fare qualche lettura, ho pen- sato bene di rivolgermi a qualcuno che, invece, di crudeltà un poco se ne inten- deva per davvero.

Comincio, dunque, e da lontano, ad evocare il Dizionario filosofico, dove, alla voce “Tortura” (datata 1769) Voltaire ci prospetta criticamente, se non proprio la teorizzazione, almeno quella che ben possiamo chiamare la “cultura della crudel- tà”, che egli colloca tra i due estremi dell’assuefazione e dell’indifferenza.

Voltaire comincia a parlarci del pensoso magistrato, che magari – specifica – ha acquistato con poco denaro la sua carica, e con essa il diritto di farsi certe e- sperienze sul suo prossimo, e che, rientrato chez soi, racconta alla moglie come è trascorsa la giornata.

La prima volta la signora viene sconvolta dal racconto; già alla seconda volta, però, ella vi prende gusto (perché “tutte le donne sono curiose”); in seguito, poi, la prima cosa che la moglie chiede al marito non appena rientra è la seguente:

«Amore mio (anzi: “mon petit coeur”), oggi non avete fatto applicare la tortura a

(*) Contributo al seminario – dal titolo «Ensayos para una teoria de la crueldad humana» – svoltosi il 13 ottobre 2014 a Madrid, presso la Fundación José Ortega y Gasset – Gregorio Marañón.

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nessuno?». Come a dire: l’assuefazione fa a poco a poco dissolvere il sentimento di reazione alla crudeltà.

Ma la cultura della crudeltà può anche essere frutto di una semplice e troppo diffusa indifferenza. Dopo aver deprecato che la Francia, da secoli civilizzata, è ancora però guidata da vecchie consuetudini atroci, è sempre Voltaire ad aggiun- gere, con amara ironia, quanto, in definitiva, si viene pensando nel suo Paese:

“Perché mai dovremmo cambiare la nostra giurisprudenza? L’Europa si serve dei nostri cuochi, dei nostri sarti, dei nostri parrucchieri”; e dunque – questa do- vrebbe essere la paradossale conclusione – “le nostre leggi sono buone”. Come a dire: di che altro dobbiamo preoccuparci?

Ma, appunto a proposito di giurisprudenza, poco prima Voltaire aveva ricorda- to il celebre caso del “chevalier de La Barre”: un giovane di molto spirito e di belle speranze, ma con tutto lo stordimento di una giovinezza sfrenata, condannato dai giudici di Abbeville per aver cantato canzoni empie, ed anche per non essersi tolto il cappello davanti allo scorrere di una processione di frati cappuccini.

Ebbene: quei giudici non si accontentarono che al malcapitato venisse strappata la lingua, tagliata la mano, bruciato il corpo a fuoco lento: “gli applicarono anche la tortura per sapere precisamente quante canzoni avesse cantato, e quante processio- ni avesse visto scorrere davanti a sé, sempre tenendo il cappello sulla testa”.

Neanche qui, dunque, si tratta di teoria, ma di pratica giudiziaria della crudel- tà. Ed è noto che, proprio nel vivo delle questioni che si agitarono intorno al caso La Barre, Voltaire ebbe a scrivere – sarà pubblicato nel 1766 – il suo celebre Commentaire del capolavoro di Cesare Beccaria.

2. Il richiamo di Beccaria ci immette direttamente nella tematica della pena di morte.

A tale proposito, in un seminario del 1999 Jacques Derrida ebbe a ricordare, per tale tipo di pena, la crudeltà come caratteristica coessenziale: pena che – disse – “può andare dalla più grande brutalità dell’abbattimento, alle raffinatezze più perverse, dal supplizio più sanguinario o bruciante, al supplizio più denegato, più mascherato, più invisibile”. Lo stesso autore non mancò di ricordare il Nietzsche della Genealogia della morale, laddove questi invitava a pensare alle “antiche pe- ne tedesche”: alla lapidazione; alla condanna della ruota – “la più caratteristica invenzione o specialità del genio tedesco nell’ambito delle pene!” – ; alle pratiche dell’impalare, del far lacerare o schiacciare da cavalli (lo “squartamento”); alla bollitura del reo in olio o vino (fino al XV secolo), allo “scuoiamento”, alla rese- cazione della carne dal petto, e ad altre forme di crudeltà. Il tutto per invitare a riflettere sui lunghi e difficili itinerari di sangue ed orrore compiuti nella storia prima di poter instaurare il dominio della ragione.

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Su questa strada, a metà del XVI secolo, a proposito del nostro argomento già si era addentrato Montaigne, laddove, nei suoi Essais, parlando, pur senza esclu- derla, della pena capitale, scriveva (l. II, capit. XI) che, a suo modo di vedere, tut- to ciò che sta al di là della semplice morte gli sembrava pura crudeltà (“… tout ce qui est au delà de la mort simple, me semble pure cruauté”). E può magari stupire che Montaigne si preoccupasse, addirittura in una prospettiva ultraterrena, di da- re irriverente supporto a questo suo pensiero aggiungendo che ad evitare la “pura crudeltà” deve pur pensare chi abbia a cuore che le anime vengano traghettate nell’aldilà in buone condizioni: il che davvero non può avvenire – diceva – se prima esse sono state squassate e portate alla disperazione mediante tormenti in- sopportabili.

Ma poche pagine dopo Montaigne riprendeva l’argomento in prospettiva ben diversa, giungendo ad esprimersi nel senso di escludere che la previsione della pena di morte eseguita con crudeltà possa avere una qualche particolare efficacia di prevenzione dei delitti.

Nel già ricordato Commentaire, e sùbito dopo aver menzionato Beccaria, Vol- taire (§ II) deprecherà vivamente “les supplices recherchés, dans lesquels on voit que l’esprit humain s’est épuisé à rendre la mort affreuse”, dicendoli inventati dalla tirannia, piuttosto che dalla giustizia.

E sarà poi il medesimo pensiero che animava lo stesso Beccaria, allorquando – unitamente ai due altri colleghi componenti la “Giunta delegata per la riforma del sistema criminale della Lombardia austriaca riguardante la pena di morte” – nel 1792 ebbe a scrivere che, salvo restando che “la pena di morte dovesse re- stringersi a pochissimi delitti”, la Giunta conveniva nell’opinione che la “pura e semplice inflizione di essa” – e per l’appunto: “la morte simple” – dovesse venir considerata come il supplizio estremo, dovendosi invece ometter del tutto, “come inutili e feroci”, quegli “ulteriori inasprimenti che solevano accompagnare negli antichi codici, per i delitti più gravi, la pena di morte”.

Ancora Voltaire ricordava il caso dell’Inghilterra, nell’epoca in cui si apriva il corpo del colpevole di alto tradimento e se ne strappava il cuore, per buttarlo alle fiamme. E quando poi, alla fine, i costumi si addolcirono (“les moeurs s’adoucirent”), ne venne come effetto che si è continuato, è vero, a strappare il cuore, ma soltanto dopo la morte del condannato.

3. Più di una volta è poi anche avvenuto che, in presenza o anche in assenza delle intenzioni di supplizio, l’esecuzione della condanna a morte, prima o dopo l’utilizzo di quella “macchina umanitaria” che per diverso tempo è parsa essere la ghigliottina, degenerasse in episodi di ulteriore crudeltà.

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Nel suo Piano di legislazione criminale, del 1777, il “terribile” Marat ricordava il caso, occorso vent’anni prima, della pena inflitta a Damiens: il quale, “avendo ferito leggermente Luigi XV con una coltellata, fu condannato allo squartamento, pena prevista per il regicidio”. Ma avvenne però che i cavalli non riuscirono a smembrare il corpo del condannato, cosicché, alla fine, il boia dovette mutilarlo con un coltello.

Scrivendo, nel 1912, l’introduzione alla riedizione del suo L’ultimo giorno di un condannato, Victor Hugo ricordava un analogo episodio avvenuto poco tempo prima, a ghigliottina funzionante, in una località del mezzogiorno francese. Posto sotto il pesante “triangolo di ferro” – il tutto pare perfino incredibile –, avvenne che “il coltellaccio risalì e ricadde cinque volte, cinque volte colpì il condannato, cinque volte il condannato urlò sotto il colpo e scosse la testa viva invocando gra- zia. Il popolo, indignato, raccolse i sassi e, nella sua giustizia, si mise a lapidare il miserabile carnefice; il carnefice scappò sotto la ghigliottina e si nascose dietro i cavalli dei gendarmi. Ma non siamo alla fine. Il suppliziato, vedendosi solo sul pa- tibolo, si era raddrizzato sulla tavola a bilancia, e lì, in piedi, spaventoso, gron- dante sangue, sostenendosi la testa, per metà mozza che gli pendeva sulla spalla, domandava con deboli grida che qualcuno andasse a slegarlo”. Ma, all’opposto, un giovanissimo aiutante del boia anche questa volta fece uso del coltello per fi- nirne l’opera.

Ai supplizi, che Voltaire, per distinguerli da quelli intenzionali, avrebbe detto

“non recherchés”, e che come tali potevano conseguire alle semplici disfunzioni dello strumento di morte, fa da correlativo, in termini di attualità (sono recenti dei casi occorsi nello Stato dell’Oklahoma e dell’Arizona) il supplizio eventualmente derivante dall’erroneo dosaggio delle miscele chimiche di morte che sono in uso oltreoceano, ancor più micidiali, ma sempre secondo legge, della cicuta di Socrate.

Siano o meno intenzionali i supplementi di crudeltà connessi all’esecuzione della pena capitale, siamo in molti, ad ogni modo, a ritenere che un passo ulterio- re, e in qualche modo definitivo, ormai si imponga nella storia e nel panorama globale dell’umanità: quello di riuscire a far considerare la stessa esecuzione capi- tale di per sé, che si concluda senza “incidenti” di sorta, anche soltanto con la mort simple, come un trattamento crudele, e quindi disumano e degradante, da estromettere da ogni sistema penale.

4. S’è fatto riferimento a Beccaria e quindi, per implicito, al 250° anniversario di “Dei delitti e delle pene”.

Viene pertanto alla memoria che, ancora cinque anni dopo la sua prima pub- blicazione, la Constitutio Criminalis Theresiana ovvero Costituzione criminale, e- dita a Vienna nel 1769, a specificazione del § XVII dell’art. XXXVII, intitolato

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Dei motivi e indizi sufficienti alla tortura non che quando, contro chi, e come questa sia da istituirsi, conteneva un’appendice n. 4, recante il titolo: Designazione e di- chiarazione della specie di tormenti, e del modo di applicarli. Vi erano delineate quattro figure: I. “lo strettorio dei pollici, ò li cosidetti sibili”; II. i “requisiti ap- partenenti all’allacciatura”; III. “l’eculeo, e corda ripetitiva, ò sia macchina per elevare in alto, e stendere per aria, con li pesi, che vi abbisognano”; IV. “lo stret- tojo della gamba, ò sia il cosiddetto stivale spagnolo”.

Non a caso J. Kelly, nella sua “Storia del pensiero giuridico occidentale”, scri- veva che, nell’epoca di Bach e di Mozart, i sistemi della giustizia penale ci descri- vono ancora “un’Europa piena di scene di terrificante crudeltà”.

Nei domini di casa d’Austria la tortura sarà poi abolita nel 1776, e otto anni dopo anche nella Lombardia austriaca.

5. Oggi, è vero, nessun ordinamento, a quanto è dato saperne, prevede più una disciplina dei presupposti e delle modalità o tecniche di applicazione della tortura giudiziaria, né più si ispira ai criteri antichi del considerare la tortura, o magari la stessa pena carceraria, alla stregua di una medicina dell’anima. Il che non toglie – diciamolo pure in parentesi – che in modo anacronistico, dimenti- cando la netta distinzione beccariana tra peccato e delitto, per inerzia si continui a parlare ( … quia peccatum est!) di penitenza, e cioè di penitenziari e di diritto penitenziario …

Ma, chiudendo la parentesi, è anche vero, d’altronde, che molti, troppi, siste- mi penali offrono ancora diffusi spazi di crudeltà oggettiva, e per l’appunto siste- matica e sistematizzata, palese od occulta.

Crudeltà palese, come quella che, di fatto, porta a configurare il carcere come un luogo dove si va a finire, non come punizione – la punizione conseguente alla semplice privazione della libertà – (si direbbe, parafrasando Montaigne, come peine simple), ma per la punizione: in vista, dunque, o nella scontata previsione di un sovrappiù negativo costituito da trattamenti, non di rado, per davvero inuma- ni e degradanti. Non dimentichiamo la “abominevole istituzione” deprecata dal marchese De Sade, che pur era il teorico della ferocia: il carcere dove – scriveva – il malfattore viene ridotto “alla solitudine vegetale, ad un funesto abbandono”, così che “i suoi vizi germinano, il suo sangue ribolle, la sua testa fermenta;

l’impossibilità di soddisfare i suoi desideri ne fortifica la causa criminale ed egli non esce di là che più malandrino e più pericoloso”.

E c’è poi anche la crudeltà strisciante ed occulta, come quella – nelle osserva- zioni a Beccaria Diderot ne parlava, a suo tempo, come di una “autre atrocité – che si realizzava, e magari ancora qua e là si realizza, quando, dopo anni di carce-

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re, l’imputato, riconosciuto innocente, ma devastato nella stima, nel patrimonio e nella salute, si trova a venir rilasciato senza poi poter conseguire alcun indennizzo.

E trova corso anche un’altra forma di crudeltà, sempre strisciante ed occulta, e che perciò appare meno grave, sottesa alla indifferenza, o almeno alla trascura- tezza, per la posizione, a volte assai tragica, delle vittime dirette o indirette dei de- litti, specie quelli di violenza: i delitti che lo Stato – il quale richiede per sé il mo- nopolio della forza fisica legittima e si assume il compito di tutelare la sicurezza e l’ordine pubblico – non era stato in grado di prevenire.

Tante tipologie di crudeltà, dunque, aggiungendosi a quelle, multiformi e la- ceranti, che vedono protagonisti gli autori dei reati più gravi, ancora affliggono il nostro mondo dei delitti e delle pene.

Ma dovrà pur venire un giorno – si può parlare, a tale riguardo, di utopia; ma c’è chi, invece, la può chiamare speranza della ragione e della ragionevolezza – un giorno (si diceva) in cui, da non so quale metaforico ed altissimo monte discende- rà come un benefico vento impetuoso, che tutte disperderà, ad una ad una, quelle residue manifestazioni crudeli, per liberarne la storia e l’avvenire degli uomini.

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