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Agropolis botanic garden. Centro di alta formazione paesaggistica per lo studio, la ricerca e la sperimentazione, all'interno del castello sforzesco di Vigevano

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(1)

Agropolis

Botanic Garden

Centro di alta formazione paesaggistica per

lo studio, la ricerca e la sperimentazione,

all’interno del castello sforzesco di

Vigevano

Tomo I

Politecnico di Milano Scuola del Design Design degli Interni Laurea Magistrale A.A. 2012-13

Katia Di Caprio 779068

Chiara Seno 781104

(2)

L’individuo, ha da sempre legato la sua storia all’ambiente, al territorio e al paesaggio ritrovando in esso i suoi valori esistenziali. Oggi come conseguenza dell’industrializzazione, agricola e urbana, e la globalizzazione, l’uomo ha perso i propri punti di riferimento, questa perdita lo ha portato ad ancorarsi al proprio luogo, a cercare quel che lo rassicura - le tradizioni, il campanile del paese, l’eterno ordine dei campi o il folclore pittoresco -, un comportamento sociale questo, che sta diventando sempre più diffuso.

Agropolis Botanic Garden, nasce dalla necessità di riqualificare il Castello Sforzesco di Vigevano , attraverso la creazione di un centro di alta formazione del paesaggio. Un centro che possa uscire dalla realtà locale di Vigevano e relazionarsi a realtà più ampie , specialmente in occasione dell’Expo acquistando così un respiro più internazionale. Agropolis ha come obiettivo quello di nobilitare il lavoro agricolo considerandolo come punto di partenza per un sapere più “alto”. E’ una Polis del mondo agricolo dove al suo interno non solo è possibile studiare

ABSTRACT *

(3)

3

e divulgare il sapere, ma una “città nella città”, ovvero un alveolo dove vivere a contatto con un paesaggio e con specialisti in grado di innalzare il valore di una semplice esperienza nel verde. Una visione sperimentale e divulgativa degli aspetti del paesaggio e del territorio è alla base dello sviluppo delle aree. Da qui la volontà di creare spazi finalizzati alla ricerca analitica ed empirica: il Green lab, Laboratorio di ricerca ad alto livello di sperimentazione; e altri dedicati ad un sapere condiviso, che si apra verso l’esterno: la Community, uno spazio di divulgazione e diffusione del sapere rivolto alla natura e alla qualità del cibo, all’interno del quale prendono forma la zona della corte giardino, con l’orto botanico e l’orto didattico, e la zona dell’Emporio del gusto, luogo di scambio e di interrelazione che ha come fil-rouge la qualità del cibo. Sono due dunque i valori attorno ai quali ruota il Botanic Garden: la sperimentazione e la divulgazione, ed è attraverso questi che si crea un circolo virtuoso in cui Agropolis non solo è un centro, nel quale nascono idee e valori, ma anche uno snodo attraverso il quale queste idee si possono diffondere.

(4)

Abstract

I giardini del sapere

Il paesaggio e la sua percezione

Il paesaggio tra natura artificio

3.1 I giardini dei Semplici

1.1 Paesaggio: tante definizioni per una parola sola

2.1 Paesaggio giardino: la terza natura 2.2 Archinatura

2.3 Il verde verticale

2.4 Sovrapposizione tra natura e architettura

3.2 Il giardino come macchina teatrale 1.2 L’uomo spettatore attore del paesaggio

3.3 Biosfera come realtà artificiale 3.4 Ricerca e Natura

2

1

006

024

028

048

057

108

012

122

130

080

2.5 Scuole e associazioni del paesaggio

072

1.3 Società paesaggista

018

3

(5)

5

Città e campana

4.1 Il primo giardino: l’orto

4.2 Città agricola e campagne urbane 4.3 Milano verso l’expo

4.5 Network di un sapere collettivo 4.4 Coltivazioni fuori suolo

4

150

166

176

184

202

Bibliografia

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IL PAESAGGIO E LA SUA PERCEZIONE

Il paesaggio e la sua percezione

(7)

7

1

Agropolis

(8)

Capitolo 1.1

PAESAGGIO: TANTE DEFINIZIONI IN UNA PAROLA SOLA

Illustrazione:

“Gruppo di alberi, paesaggi e studio di nubi”

Jhon Constable 1821

(9)

9 l termine paesaggio ha origine dal francese paysage che a sua volta deriva da pays e indica l’aspetto di un luogo, l’insieme delle sue forme e delle interazioni fra di esse. In generale oggi si considera il paesaggio come qualcosa di dinamico, in continua evoluzione e, di conseguenza, difficilmente definibile poiché strettamente legato all’azione dell’uomo, il quale condiziona il paesaggio e ne viene al tempo stesso condizionato. Nel corso dei secoli, diverse scuole di pensiero hanno provato a definire il termine paesaggio. Per mettere un punto fermo alla definizione di paesaggio, il 20 ottobre 2000, a Firenze si è tenuta la Convenzione europea del

paesaggio che ha finalmente stabilito una definizione ufficiale secondo la quale si intende come paesaggio: “una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni.” La Convenzione servì a prendere provvedimenti di riconoscimento e tutela del paesaggio tra gli stati comunitari. All’incontro di Firenze furono così tracciate politiche e obiettivi comuni e venne riconosciuta l’importanza culturale, ambientale, sociale e storica del patrimonio paesaggistico europeo. Il termine paesaggio, già per conto suo, sembra rimandare ad una valutazione, piuttosto che ad una descrizione come è

I

1 Invece il paesaggio come concetto viene fatto risalire al XIV secolo. Sarebbe stato infatti Petrarca il primo a darne una rappresentazione poetica nei versi dell’Ascesa al Monte Ventoso.

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per l’ambiente. Un paesaggio è ,innanzitutto, una parte del continuum dell’esperienza visiva che si segnala, che richiama l’interesse di un osservatore, perché bello oppure orrido, perché dolce ed armonico oppure perché violentemente contrastato. La nozione di paesaggio, quindi, implica la formulazione di un giudizio che è in definitiva essenzialmente giudizio estetico. Il paesaggio diviene oggetto estetico in ragione di un “conferimento di senso”2

che l’osservatore opera nei suoi confronti; non presuppone l’attività di un artista creatore, bensì si costituisce attraverso scelte di gusto e di cultura, che comunque attengono ad un attività intellettuale di senso estetico. Dell’oggetto estetico peraltro il paesaggio possiede quel carattere distintivo che è l’essere polisenso, capace cioè di trasmettere messaggi e significati non univoci, ma molteplici e differenziati in rapporto alla cultura ed alla sensibilità del fruitore. Il paesaggio, insomma, è tale in quanto si sottopone al giudizio di un osservatore, che in questo porsi di fronte all’oggetto manifesta il proprio gusto e la propria cultura storica determinata. Il paesaggio si forma, nella consapevolezza di chi lo vive, quando una sequenza di elementi diventa riconoscibile e comunica un valore rappresentativo. E’ una realtà fisica che acquisisce gli attributi narrativi di un testo, con un proprio linguaggio e una propria poetica. 3

Il paesaggio è.

Da principio il paesaggio è in quanto è

visto. Nella storia dell’arte il paesaggio è il contesto fisico e morale che è di sottofondo con i personaggi posti al centro di una rappresentazione, mentre ha una corrispondenza storica e geografica non precisa con il soggetto. Il paesaggio segue una continuità piuttosto psicologica con il personaggio. Nel patio romano la scena paesistica che decora le pareti è in funzione addirittura del dominus che vive nella casa. Poi le rappresentazioni si fanno più interattive fra soggetto e sfondo, dall’arte bizantina al Quattrocento. Man mano da dispositivo coreografico diventa un supporto completamente indispensabile, il protagonista lo domina e ne è al tempo stesso sostenuto. Il paesaggio in realtà è sempre progetto narrativo, sia in senso tecnico che simbolico, che commenta analiticamente la condizione morale del protagonista. Qui il paesaggio è, in quanto progetto.

Sempre più nel Seicento la descrizione di un paesaggio coincide con un atto creativo che vi pone un profondo contenuto simbolico. Così ad esempio nel Grand tour la classe dirigente europea “vede” il paesaggio romano svelandone la bellezza della drammatica armonia, e lo trasfigurano in un ricco testo letterario, in uno scenario. Questa percezione avrà una tale vitalità da concorrere a innescare un’invenzione del tutto nuova, il paesaggio romantico inglese. Il paesaggio è, anche, in quanto è inventato. Se nel comune sentire nel Settecento il paesaggio rimane un genere pittorico: “.. una veduta o una prospettiva di uno scenario naturale interno di un paese, tale

2 Cfr., R. Assunto, Introduzione alla critica del paesaggio, in De Homine, s.l,1963, citato in E. Turri, Il paesaggio e il silenzio, Venezia : Marsilio, 2004

(11)

11 da poter essere colto con uno sguardo da un punto di vista” 4, Rousseau ne fa un vero e proprio manifesto ideologico, evocandone la proprietà di fissare e catalizzare lo spirito di un luogo come principio etico.

Nell’Ottocento la definizione popolare permane apparentemente invariata, ma con una sottolineatura di scelta: “ intero paese o parte di esso, in quanto è scelto a ritirarsi in pittura”. 5 La scelta interpreta le necessità culturali di un mondo che ormai modifica sistematicamente il territorio. E’ l’epoca in cui si esplica la rivoluzione industriale e con essa il movimento delle masse. Il paesaggio occore allora in qualche senso “ costruirlo ad hoc” come risorsa di valore sociale e politico. Il progetto del parco pubblico inglese per esempio ha una forte valenza ideologica, essendo concepito per le nuove popolazioni urbane, sofferenti della loro condizione, come opera complessa di walfare, orgoglio scientifico, progresso tecnologico. Si costruiscono paesaggi anche fuori dalle città, dove con l’invenzione dei parchi naturali, parti di natura per la loro eccezionalità diventano musei open air, riserve preservate da un destino di rapida estinzione e destinate alla fruizione didattica di visitatori che annunziano già il fenomeno del turismo. Le grandi capitali europee sono riprogettate per la loro nuova dimensione di potenze internazionali su idee-forma che discendono direttamente da idee-forma della cultura del giardino: Londra si sviluppa per square, crescent, parchi: Parigi per stelle e boulevard. I paesaggi sono dunque icone, in cui si fonda un’immagine di casa e di

patria, ma da bagaglio culturale di una classe eletta diventano sempre più luoghi vissuti e partecipati, manifestazione di un’esplicita volontà pubblica. Il paesaggio ottocentesco si presenta in vari scenari a una percezione soggettiva ormai molto più dinamica per la rivoluzione dei trasporti, che li collega agevolmente gli uni agli altri. Il paesaggio connota anche il comportamento e chi vi abita ha un proprio modo di essere molto codificato. Il paesaggio “è” in quanto visto, inventato, vissuto.

Il Novecento satura progressivamente ques-ti ambiques-ti con una congerie di disposiques-tivi e “segni aggiunti” delle sopravvenute neces-sità della società di massa, le grandi e pic-cole infrastrutture, poi finisce per ibridarli e renderli sempre meno riconoscibili. E’ il paesaggio della cultura industriale at-traverso la spaventosa discontinuità di due immani guerre catastrofiche,della ricostru-zione e del benessere, alla mobilità e poi l’informazione individuale, fino all’attuale cultura della comunicazione, causa ed ef-fetto di una progressiva espansione e disag-gregazione dell’habitat.

4 J.A.H, Murray, . et al., eds. The Oxford English Dictionary. 2 ed., London: The Booksellers. 1989,s.v. “Landscape” 5 G. Rigutini, P. Fanfani, Vocabolario italiano della lingua parlata ,Firenze:Tipografia Cenniniana, 1875 citato in E. Turri, Il paesaggio e il silenzio, op. cit.

(12)

Ambiente e territorio

“Il territorio è una porzione di superficie terrestre identificabile attraverso elementi organizzatori naturali, di carattere fisico, biotico, o ecologico, oppure attraverso elementi amministrativi o costruttivi im-posti dall’uomo.” 6 Per quanto riguarda invece il concetto di ambiente, definirlo è più complicato, difatti può essere inteso come una porzione di territorio costituita da elementi, strutture e relazioni di carat-tere energetico, fisico-morfologico e bi-otico, che si evolvono spontaneamente o che sono influenzati o determinati dalle attività umane. È un insieme dei fattori o delle condizioni che interagiscono sig-nificativamente con un determinato or-ganismo. E’ il luogo, lo spazio fisico, le condizioni biologiche in cui un organ-ismo (uomo, animale, pianta) si trova, vive; l’insieme delle condizioni sociali, culturali, morali in cui una persona vive; un insieme di persone accomunate da uno stesso ide-ale o interesse; il complesso di circostanze che rendono possibile il manifestarsi di un fenomeno. 7 Tuttavia anche se la

defi-nizione di territorio è più chiara e non ha molti problemi di interpretazione o definizione. Ambiente è inteso da molti autori di ambito della biologia determinis-tica come insieme delle condizioni fisiche, chimiche e biologiche in cui si svolge la vita degli organismi e in questo modo è definito da autorevoli dizionari. Il filosofo, Rosario Assunto,afferma: “ dal concetto di ambiente dovremmo dire che esso ha due

significati: uno biologico , che si riferisce alle condizioni di vita fisiche favorite ov-vero ostacolate dalle configurazioni di certe località (…) e uno storico- culturale (...)”

8 , ma non spiega le connessioni logiche

tra i due significati che peraltro, sembrano piuttosto ascrivibili a distinte fasi storico-evolutive della nozione di ambiente: la prima, più antica, propria della concezione deterministica di ambito fisico e biologico classico; la seconda, più recente, maturata nell’area di incontro e di scambio tra geo-grafia e scienze umane.

6 G. Abrami, Progettazione ambientale : premesse concettuali, processo progettuale, elaborati, Milano : Clup, 1987. 7 Il grande dizionario di italiano, Garzanti editore, 2011,s.v., “Territorio”

8 T. Assunto, Paesaggio, ambiente, territorio: un tentativo di precisione concettuale, in rassegna di architettura e urbanis-tica, 1980

(13)
(14)

Illustrazione:

“Gruppo di alberi, paesaggi e studio di nubi”

Jhon Constable 1821

L’UOMO ATTORE SPETTATORE DEL PAESAGGIO

Capitolo 1.2

(15)

15 acendo riferimento al libro di Eugenio Turri “il paesaggio come teatro” , si può dire che l’uomo si comporta nel con-fronto del paesaggio come attore e spet-tatore.

Con questa metafora il paesaggio è ripor-tato al piano della percezione ed è assunto come specchio della nostra coscienza ter-ritoriale. Ossia, nel paesaggio possiamo trovare il riflesso della nostra azione, la misura del nostro vivere ed operare nel territorio ( inteso come lo spazio nel quale operiamo, ci identifichiamo, nel quale ab-biamo i nostri legami sociali). In questo senso si può assegnare al paesaggio la fun-zione di “referente visivo fondamentale” 1

ai fini della costruzione territoriale. Ques-ta si realizza quando uno spazio di natura, anonimo, che vive senza l’uomo, si trasfor-ma in uno spazio culturale, cioè quando si carica di riferimenti, simboli, di denomi-nazioni e poi di oggetti umani proponen-dosi come palcoscenico o teatro nel quale gli individui e la società recitano le proprie storie. Ecco che allora il paesaggio diventa teatro. Capiamo così che il paesaggio non è soltanto, come lo intendono i geografi, lo spazio fisico costruito dall’uomo per vivere e produrre, ma anche il teatro nel quale ognuno recita la propria parte facendosi al tempo stesso attore e spettatore. 2 L’uomo è attore nel momento in cui trasforma, il suo ambiente di vita per

F

1 Cfr. E. Turri, Il paesaggio come teatro. Dal territorio vissuto al territorio rappresentato, Venezia: Marsilio, 2006 2Ivi , pp. 30 -3

(16)

soddisfare i suoi bisogni lasciando il segno della propria azione.

In questo modo l’uomo rappresenta se stesso attraverso il paesaggio e arricchisce lo spazio di riferimenti e simboli culturali. L’uomo è spettatore quando sa guardare e capire il senso del suo operare sul ter-ritorio; questa posizione insegna a capire meglio il senso e il significato dell’agire, di cogliere il modo giusto per operare nel ris-petto dell’esistente ereditato da chi ha op-erato prima di lui; si estranea e si ferma ad osservare in situazione di tranquillità smet-tendo di agire per ricavare utili conoscenze finalizzate all’azione. 3

L’uomo si specchia così nel paesaggio tramite la sua opera. Si guarda al paesag-gio per ricavare utili conoscenze necessarie per guidare l’azione, ed è cosi che questo diventa interfaccia tra il fare e il vedere quello che si fa, tra l’agire e il riguardare, per cui una società che ha bravi e sensi-bili spettatori avrà di conseguenza bravi attori. Si può dire che il paesaggio può porsi come misura delle capacità umane, è il riflesso delle nostre azioni dal quale dob-biamo imparare. In termini di rapporto uomo paesaggio vuol dire che egli adatta i suoi comportamenti, tra cui anche quelli legati al suo agire territoriale, a ciò che gli detta o suggerisce la visione del paesaggio – teatro. Questo va d’accordo con le for-mule proposte da diversi studiosi, per cui il paesaggio funziona da medium dell’agire umano nella natura, da referente primo di tale agire. 4

Il paesaggio oggi esprime bene quali

siano state, nei decenni appena trascorsi, le forze prevalenti e la fragilità di quelle che avrebbero potuto contrastarle attraverso l’enfatizzazione dei significati, del rispetto degli oggetti territoriali d’importanza cul-turale locale, regionale e nazionale. È così che gli italiani hanno assunto unilateral-mente il ruolo di attori,escludendo quello di spettatori. In altre parole non si sono preoccupati degli effetti dell’agire, invasati dal piacere delle macchine dopo secoli di lavoro succube e di opere sudate di me-moria contadina. L’uomo in un passato non troppo lontano si è preoccupato mag-giormente di fare l’attore piuttosto che lo spettatore e ha trasformato massicciamente il paesaggio, preso dall’urgenza di necessità produttive legate all’economia industriale e imponendo le sue esigenze sugli equilibri naturali. Ciò non avveniva in passato quan-do l’uomo nello svolgere le proprie attività produttive, era più condizionato e rispet-toso nei confronti della natura. Ora, c’è bi-sogno di una pausa e, secondo la ciclicità storico- culturale, è tempo che si assuma il ruolo di spettatori dopo decenni di attività unicamente volta alla trasformazione inva-siva del territorio.

Secondo E.Turri nell’uomo la contemplazi-one del paesaggio è vista come una con-templazione del sé perché è l’osservazione del suo stesso agire dove il risultato mas-simo di questa sua duplice funzione di at-tore e spettaat-tore avviene quando riesce a compiacersi di ciò cha ha fatto, della sua recitazione. Non è un caso che i paesaggi più belli, esteticamente più celebrati, che

3 Ivi, p. 64

4 In quanto medium si intende che il paesaggio sia da considerare come interfaccia tra uomo e ambiente, come elemento mediatore tra sistemi, quello culturale e quello naturale; in termini ecologici, come referente, infine da cui l’uomo ricava le informazioni necessarie al suo agire. (Bertrand e Dollfuss, 1973; Zerbi 1993)

(17)

17 meglio esprimono un‘ armonizzazione tra opera umana e forme naturali siano quelli in cui l’uomo si attribuisce una funzione importante come spettatore, in cui si pre-occupa del risultato visivo della sua azione, per testimoniare il compiacimento della propria potenza o grandezza come accade-va alle città italiane in età rinascimentale ( San Giminiano, che esprime la propria ric-chezza, bellezza, potenza con l’ergersi delle sue torri sopra il paesaggio toscano).

E’ tuttavia a questa contemplazione di un paesaggio nel quale l’uomo si rispecchia come sua opera e nel quale recita si con-trappone un’altra legata alla contemplazi-one di una paesaggio nel quale l’uomo non è più presente come attore ma è la natura che occupa il primo piano di questa scena e anzi si riappropria di quei luoghi abbando-nati dall’uomo formando il così detto Terzo Paesaggio teorizzato da Gilles Clement, paesaggista francese, ingegnere agronomo, botanico, entomologo e scrittore, che ha in-fluenzato con le proprie teorie molti paes-aggisti europei ed ha pubblicato il suo libro Manifesto del terzo paesaggio nel 2005. Per G.Clement i giardini tradizionali, dis-egnati pacificano lo spirito e non alimen-tano una nostalgia che porta a interrogarsi sulla propria vita e sulla propria esistenza. Quando entriamo in un giardino ben cu-rato non ci domandiamo di che cosa ab-biamo paura non mettiamo in discussione la nostra personalità, mentre quando guar-diamo un terreno incolto e abbandonato rurale ma anche urbano le così dette friches siamo assalite da uno sconvolgimento

inte-riore. Le friches portano a delle domande, ad una trasformazione. Le piante non ven-gono considerate come un oggetto finito, non vengono isolata dal contesto che la fa esistere ma hanno piena libertà di evolversi e crescere in ogni direzione. Un paesaggio di questo tipo sempre in movimento non dovrebbe essere giudicato sulla base della loro forma ma sulla base della sua capacità di tradurre una certa felicità d’esistere. 5

Nei giardini tradizionali l’ordine è per cepi-to tramite la forma: bordure, siepi, viali ma è anche solo apparenza, tutto quello che se ne discosta è considerato disordine. Glement introduce dunque una nuova nozione di ordine, un ordine più intimo, interiore che autorizza la trasformazione delle piante ma anche dell’uomo. Queste frisches diventano cosi il luogo privilegiato dei cambiamenti permanenti, anche se l’uomo ha sempre lottato contro i cambiamenti ma non si ac-corge che ogni opera costruita è già morta. L’uomo oppone all’entropia generale che regge l’universo una forza costruttiva il cui unico scopo sarebbe quello di aggirare la morte, di sottrarvisi. Le opere dell’uomo sono in un processo di degrado irreversi-bile, incapace di evolvere.

Mentre la natura no. È in continua evoluzi-one e segue la definizievoluzi-one di entropia di La-rousse “Abbandonato a se stesso un sistema isolato tende verso uno stato di disordine o verso uno stato di maggiore probabilità che è la stessa cosa” .

Il Manifesto del Terzo paesaggio è l’affermazione della necessità di nobilitare gli spazi residuali, il tentativo di renderli

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visibili all’uomo facendogli accettare il presupposto che questi spazi hanno un loro codice che può rimanere indecifra-bile. Il contributo più prezioso che Gilles Clément fornisce all’analisi del paesaggio consiste nel portare alla luce qualche cosa a cui fino ad ora non è stato riconosciuto al-cun valore, ma che ricopre un’importanza primaria nella vita del nostro pianeta per-ché é il luogo dove si rifugia la diversità. Nell’insistere affinché l’uomo prenda co-scienza di questa ricchezza, Clément si pone contro ogni forma di tutela e regola-mentazione, affermando che l’uomo non deve applicare al Terzo Paesaggio i prin-cipi comuni dell’organizzazione del ter-ritorio, ma elevare la “non azione” 6, o

un’azione minima, come possibile forma di rispetto nei confronti dei tempi e dei modi di crescita che appartengono alle diverse entità che compongono il comp-lesso mosaico della biodiversità. Ne deriva che i tradizionali strumenti di gestione del patrimonio, dalla sorveglianza alla tu-tela, possono annullare le qualità proprie del Terzo Paesaggio. Questa affermazione di Clemént si contrappone alla visione is-tituzionale, ma anche alle strategie di ges-tione “spontanee” che si vogliono appli-care a questi luoghi, come alcuni fenomeni di guerrilla gardening che si sviluppano in varie città. La miglior tutela di questi luoghi residuali - “non bene patrimoni-ale, ma spazio del futuro” 7 - è quella che

consente la loro sopravvivenza come el-ementi di connessione e vivificazione tra i

vuoti della maglia delle attività antropiche. Questa concezione ecologica e non pat-rimoniale del territorio conferisce valore positivo ad elementi come l’instabilità, la contiguità, l’improduttività, il nomadismo biologico e a quelle che vengono definite da Clemént “pratiche consentite di non organizzazione” 8. Questa visione del

paes-aggio contrappone l’innovazione biologica all’accumulazione economica, definendo così il Terzo Paesaggio come un modello inclusivo - la biodiversità non esclude - es-sendo basato sulla mescolanza planetaria, elemento costitutivo del funzionamento ecologico e della ricchezza ecosistemica. La non esclusione mette in discussione la modalità abituale del costruire e abitare lo spazio in ambiti e luoghi separati - la res-idenza, il parco, l’area produttiva e quella commerciale - proponendo un paesaggio altro, terzo appunto, di cui si percepisce la presenza come “frammento condiviso di una coscienza collettiva” 9. La proposta di

lettura del paesaggio offerta da Clemént si oppone a quella dominante intesa come strumento di controllo non neutrale della circolazione dei modelli spaziali, operata attraverso una selezione strumentale degli elementi del territorio - forme naturali e antropiche, gruppi sociali e identità locali, specie autoctone e allogene - che conflu-isce inevitabilmente in una lettura e in una visione dello spazio propria di una classe so-ciale e quindi tendente ad escludere quelle di altri gruppi sociali.

6 G. Clement, Il giardino in movimento. Da La Vallée al giardino planetario, a cura di E. Scarin, Macerata:Quodlibet, 2011 7 Ivi, p. 105

8 Ivi, p. 117

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LA SOCIETA’ PAESAGGISTA

Capitolo 1.3

Illustrazione: Peter Root “Ephemicropolis“ 2010

(21)

21 i parla di paesaggio perché questo termine, ambiguo e mutevole, è diventato oggi il tema di una rif-lessione più ampia che coinvolge il modo di costruzione di territori, ma so-prattutto di società. La società, e per questo l’individuo, ha da sempre legato la sua sto-ria all’ambiente, al territorio e al paesaggio ritrovando in esso i valori esistenziali che ne caratterizzano l’agire, oggi come con-seguenza dell’industrializzazione, agricola e urbana, e la globalizzazione, l’uomo ha perso i propri punti di riferimento, questa perdita lo ha portato ad ancorarsi al proprio luogo, a cercare quel che lo rassicura – le tradizioni, il campanile del paese, l’eterno ordine dei campi o il folclore pittoresco –

S

1 M. Mininni, “Abitare il territorio e costruire paesaggi”, prefazione a, P. Donadieud, Campagne Urbane, Una nuova proposta di paesaggio della città, Roma, Donzelli editore, 2006, pp. 6 -12

un comportamento sociale questo, che sta diventando sempre più diffuso.

Il paesaggio sta diventando così un’entità spaziale, culturale e sociale che assume il compito di garantire alla società, i pre-supposti di un contesto di vita migliore di quello che si stà costruendo, tanto in ter-mini di spazi di vita che di nuovi orizzonti ecologici e simbolici.

La società oggi, ma anche nel passato ha costruito, consapevolmente o inconsape-volmente relazioni con il territorio in cui viveva, relazioni fisiche, simboliche ed eco-logiche che oggi vanno rifondate dentro nuove idee di fare comunità.1

(22)

2 P. Donadieu, La Société paysagiste, Arles, Actes sud, 1970, citato in P. Donadieu, Campagne Urbane, Una nuova proposta di paesaggio della città, a cura di M. Mininni, Roma, Donzelli editore, 2006, p. 59

3 Cfr. C. Raffestin, Dalla nostalgia del territorio al desiderio di paesaggio. Elementi per una teoria del paesaggio, Firenze, Alinea Editrice, 2005

4 Cfr. F. Cassano, Il pensiero meridiano, Roma-bari, Laterza, 1996

5 si fa riferimento a Pierre Donadieu,Augustine Berque, Michel Conan, Bernard Lassus, Alain Rogers, autori di alcune opere manifesto collettanee (mouvance, cinquante mots pour le paysage, edition de La Villette, Paris 1999, e Cinq proposi-tions pour une theorie du paysage, Edition Champ Vallon, Seyssel 1994) studiosi di paesaggio facenti capo alla Ecole Na-tionale Superieure du Paysage di Versailles, citati in M. Mininni, “Abitare il territorio e costruire paesaggi”, prefazione a, P. Donadieu, Campagne Urbane, Una nuova proposta di paesaggio della città, a cura di M. Mininni, Roma, Donzelli editore, 2006, p. 34

Riprendendo il pensiero di P. Donadieu, ingegnere agronomo, geografo ed ecologo considerato uno dei massimi esperti euro-pei del paesaggismi in Europa, si può par-lare oggi di “società Paesaggista”, un gioco di parole, un ossimoro per definire il nuovo rapporto tra territorio e società. Pretendere che la società sia paesaggista, secondo Don-adieu, significa affermare che essa obbedisce ad una doppia motivazione. “Da una parte questa cerca di realizzare gli ideali filoso-fici, etici ed estetici che ritrova nei valori del paesaggio, dall’altra, essa vorrebbe aver presa sulle forme sensibili di un mondo, in-teso sia come fonte di benessere che come ispiratori di sogni che muovono emozioni e idealità, e da questi presupposti costruire un utopia possibile” , in altre parole trasporre i valori paesaggisti all’interno della soci-età urbana, e viceversa, quelli della socisoci-età all’interno del paesaggio.2

Oggi la società paesaggista esprime il bi-sogno di ricostruire un’idea di bellezza posta dentro e oltre una cultura urbana e industrializzata, per raggiungere una nuova contemporaneità, per trovare una maggiore possibilità di rappresentarsi. Da quando la città esiste, la società paesaggista costruisce forme idealizzate della natura in città, come i parchi e i giardini, “che soddisfano il bi-sogno di campagna e di foreste pittoresche”,

e ,nei tempi più recenti, rincorrendo un modello urbano di sostenibilità ecologi-ca che si opponga alla degradazione delle risorse ambientali. Da una parte questa soci-età è affascinata dalle immagini di efficienza e di lavoro della città, dal suo movimento e dalla sua capacità di produrre idee e cultura, dall’altra segue un bisogno di fuggire da essa andando verso paesaggi di montagne, lito-rali e nature incontaminate dove perdersi e spaesarsi lontano dalla vita cittadina. Questo bisogno di “cambiare aria” si ac-compagna anche al bisogno di confrontarsi con modalità diverse dell’abitare. Il “deside-rio del paesaggio” 3 nasce dal fatto che la società non si accontenta dei luoghi in cui vive, e quindi di un solo modo di abitare, ma vuole appagarsi della meraviglia che prova a “riguardare” il mondo, ovvero nel “rivederlo” e nell’averne “riguardo” .4 Merito di questo rinnovato interesse verso il paesaggio come progetto di vasta por-tata, spetta alla capacità di alcuni studiosi che hanno come campo d’interesse il gi-ardino e il paesaggio. 5 Essi promuovono una riflessione sul concetto sopra esposto, dell’incertezza da parte dei cittadini tra la voglia di vivere in città con le comodità di cui non riesce più a fare a meno, e il sogno di un mondo agricolo, naturale, lontano, in cui perdersi e sognare.

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23

6 Cfr. E. Turri, “Diritto alla nostalgia” in il paesaggio come teatro, Dal territorio vissuto al territorio rappresentato, Venezia, Marsilio Editori 2005

7 E. Mancuso, R. Morabito, La green economy nel panorama delle strategie internazionali, «EAI» Speciale I-2012 , Verso la green economy

8 UNEP/ILO/IOE/ITUC, Green Jobs: Towards Decent Work in a Sustainable, Low-Carbon World, Settembre 2008

Abbiamo visto fin ora che la società ha “desiderio di paesaggio” e tende a far rif-erimento al “paesaggio della memoria” nel quale essa trova la sua identificazione. Ques-to aspetQues-to del volere collettivo è importante e da salvaguardare, non solo in termini fisici riferiti al territorio, ma anche per quel che riguarda i sentimenti che un determinato paesaggio ci suscita. Si potrebbe parlare di “diritto alla nostalgia” 6 , la nostalgia è quel sentimento vitale che ognuno avverte nei confronti di un determinato territorio, in cui ha fatto esperienze, e che gli suscita-no ricordi. La suscita-nostalgia diviene una forza preservatrice, la forza che assicura la conti-nuità dei luoghi vissuti, che genera rispetto e che salvaguardi la memoria collettiva del paesaggio.

Oggi abbiamo la responsabilità di tutelare il paesaggio, inteso come memoria e come forma dell’abitare. Numerosi sono i termini che negli ultimi anni sono entrati a far parte della quotidianità, legati alla tutela ambien-tale: sostenibilità, ecologia, energie rinnova-bili ,biodiversità, green economy ecc. tutti termini che creano un panorama di sensi-bilizzazione verso il patrimonio naturale a nostra disposizione.

La green economy o economia del verde, per esempio ha il compito di superare il vecchio modello economico basato sullo sfruttamento di risorse naturali e sulla scarsa attenzione agli impatti ambientali, ricono-scendo i limiti del pianeta, quali confini di una nuova visione basata su un uso

sosteni-bile delle risorse e su una riduzione drastica degli impatti ambientali e sociali. 7

Il concetto di economia verde chiama in causa temi quali il miglioramento delle prospettive di salute, la sicurezza energetica e nuove prospettive di lavoro.

In particolare, numerose e stimolanti sono le occasioni di mercato oggi offerte da quelli che vengono definiti “Green jobs”, quelle “occupazioni nei settori dell’agricoltura, del manifatturiero, nell’ambito della ricer-ca e sviluppo, dell’amministrazione e dei servizi che contribuiscono in maniera in-cisiva a preservare o restaurare la qualità ambientale. ”Queste includono attività che aiutano a tutelare e proteggere gli ecosis-temi e la biodiversità; a ridurre il consumo di energia, risorse e acqua tramite il ricorso a strategie ad alta efficienza; a minimizzare o evitare la creazione di qualsiasi forma di spreco o inquinamento”. 8

Quello della green economy può rap-presentare un settore strategico, ad elevata potenzialità occupazionale, soprattutto nei territori ad alta valenza culturale e ambi-entale, in cui lo sviluppo economico deve essere coniugato con la possibilità di avere maggiore e migliore occupazione, anche attraverso il recupero di figure e mestieri tradizionali.

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2

Agropolis

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PAESAGGIO GIARDINO: LA TERZA NATURA

Capitolo 2.1

Illustrazione: Jhon Constable

Campagna alberata vista dalla riva di un fiume (n. 5987) acquerello su carta bianca

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27 a natura non è un pensiero unico, essa può assumere diverse forme, diversi significati, è quindi in continuo movimento. I modi di percepire il paesaggio possono essere con-siderati come i prodotti dell’arte del paesag-gio fra i quali l’arte del giardino è la forma più strutturata del linguaggio architettoni-co. Per spiegare cosa s’intende per “diverse forme della natura” potremmo riprendere il concetto delle “tre Nature” 1, la parola terza natura ha origini rinascimentali, era il modo con cui gli umanisti chiamavano i giardini. “Per li giardini...la industria dei paesani ha fatto tanto, che la natura incorporata con l’arte è fatta artefice, e connaturale de l’arte,

e d’amendue è fatta una terza natura, a cui non saprei dar nome. “

Jacopo Bonfadio, Le Lettere, agosto 1541. “L’industria di un accorto giardiniero che incorporando l’arte con la Natura fa che d’amendue ne riesca una terza natura.” 2 Bartolomeo Taegio, La villa, Milano 1591. Questo concetto fu ripreso nel corso de-gli anni da vari studiosi, tra cui John Dixon Hunt uno storico paesaggista di origine an-glosassone, che formulò la teoria delle tre nature, dove per prima natura s’intende la natura selvaggia, indipendente dagli uomini, la seconda, altera natura, come la chiamava Cicerone, è quella che oggi definiremmo paesaggio culturale, campi, argini, strade, la

L

1 Cfr. John Dixon Hunt, “The idea of a Garden and the Three Natures”, in Greater Perfections, The practice of garden theory, Thames and Hudson, London, 2000

2 Bartolomeo Taegio, La villa, Milano, 1559, pag. 66; Jacopo Bonfadio, Le lettere, Aulo Greco, Roma, 1978, citati in, John Dixon Hunt, The greater perfection. The practice of garden theory, Thames and Hudson, London 2000,

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3 Cfr. M. Heidegger, Costruire abitare pensare, in Saggi e discorsi, ediz. ital. a cura di G. Vattimo, Milano, Mursia, 1976 4 Cfr. G. Clement, il giardiniere planetario, Traduzione di G. Denis ; ed. it. a cura di C. Serra, Milano, 22publishing, 2008. Piccolo volume in cui si sviluppano le teorie sul giardino planetario. Un libro che parla di ecologia, che vede nella diversità delle specie la possibile salvezza dall’effetto omogeneizzante della globalizzazione e soprattutto una garanzia di futuro per l’umanità.

terza è appunto quella del giardino, natura artificiale, creata ad imitazione delle prime due per il piacere dei sensi.

Tralasciando la prima natura, intesa come forma primigenia del paesaggio, è evidente come l’azione dell’uomo influenzi la natura in tutti i suoi aspetti, sia questa progettata o coltivata.

L’uomo abita la natura, la modifica e se ne prende cura.

Il termine antico tedesco per costruire, baun, significa abitare, ci chiarisce meglio Heidegger. Ma nello stesso tempo buan designa l’atto di circoscrivere, avere cura e, anche, coltivare un campo, una vigna. Abitare è l’occupazione attraverso la quale l’uomo perviene all’esistenza, “lasciando disporsi le cose intorno a se, ponendo le sue radici” . Abitare significa mettere al sicuro e circondare di protezione. “Il tratto fonda-mentale dell’abitare è questa preservazione. I mortali abitano quando salvano la terra.”3 Il giardino come creazione dell’uomo, ha un evoluzione topografica vicino all’abitazione , più di quanto non lo fossero i campi colti-vati. Nel medioevo orti e case rappresenta-vano un progetto unico di città-campagna, un paesaggio in miniatura dentro e vicino alle cinte murarie, mentre i campi aperti si sgranavano e inselvatichivano man mano che ci si allontanava dalla città. Così si as-socia la natura selvaggia a ciò che è lontano e che si addomestica nell’avvicinarsi ai ter-ritori abitati, attraverso la campagna, fino a farsi giardino a ridosso delle case.

Salvare la terra oggi significa abitarla e cos-truirla, piuttosto che segregarla o abban-donarla alla mancanza di cure.

Siamo tutti proprietari di un grande “gi-ardino planetario”, secondo l’idea del paes-aggista Gilles Clement, abitiamo la terra e spetta a noi curarcene, come ognuno cur-erebbe il proprio giardino di casa. “Il ardino planetario è un principio, il suo gi-ardiniere è l’intera umanità [...]L’estensione del concetto di giardino all’intero pianeta suggerisce che tutte le tecniche agricole ri-entrano nel campo di un giardinaggio plan-etario” .

“La Natura, imbrigliata nel reticolato ide-ologico proprio di ogni cultura, paga un tributo tanto più pesante quanto più il sis-tema culturale fa dell’uomo il padrone del Cosmo”. Ed è la comparsa dell’ecologia che ha determinato la possibilità di questa svolta: “la Terra presa come territorio ris-ervato alla vita è uno spazio chiuso, limitato dalle frontiere dei sistemi di vita”.

Gilles Clément oppone il giardiniere al progettista poiché afferma di avere per-sonalmente esperito l’immenso disaccordo tra l’attitudine naturale delle specie a svi-lupparsi e il nostro desiderio di “abbellire” e, dunque, è “Impossibile conciliare le due posizioni finché rimaniamo abbarbicati ai canoni estetici dell’”arte dei giardini”.4 Anche se Clément ha affermato che l’arte dei giardini è per lui il segno ideologico del potere, non bisogna scaricare tutte le colpe sull’arte dei giardini, se il vero problema è

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29 invece il modo in cui utilizziamo e sfrutti-amo la natura. Non sisfrutti-amo pura esistenza, e innescare una lotta con i criteri estetici per privilegiare esclusivamente quelli ecologi-ci, non è costruttivo: non si devono ridurre i nostri strumenti culturali, ma è necessario accrescerli.

Spesso, anzi, è proprio l’eliminazione di ciò che ha valore estetico a costituire la porta d’ingresso alla distruzione e alla mancanza di cura, allo sfruttamento e alla mercifica-zione.

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ARCHINATURA

Capitolo 2.2

Illustrazione: Canaletto, Capriccio con rovine,

olio su tela, Firenze, Palazzo Vecchio

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31 rchitettura e natura sono da sempre interagenti e comple-mentari, a tal punto da creare sodalizi in grado di migliorare la qualità di vita dell’uomo; un potenziale che oggi viene sempre più spesso vinto da una logica economica e del profitto im-prenditoriale predominanti sul benessere dei fruitori e sul rispetto dell’ambiente. Oggi più che mai l’architettura considera il mondo naturale come modello per la pro-gettazione degli edifici, il solo in grado di suggerire esempi di economicità, efficacia e sostenibilità. 1 Molti professionisti

cer-cano di creare un’architettura in armonia con la natura e ancor più questo concetto vale per l’architettura del paesaggio, una

disciplina che conosce un nuovo grande successo, grazie alle emergenze ambientali della nostra epoca e soprattutto grazie alla dissoluzione sempre crescente delle forme urbane tradizionali. L’interpretazione dell’architettura in chiave contemporanea sta nell’accezione di “sostenibile”, dove la natura non fa più da sfondo all’edificio, ma entrambi si completano per adattarsi alla funzione da svolgere. C’è bisogno di una vita più sostenibile, soprattutto in questo periodo di crisi economica e sociale, e sa-pere che un nuovo mondo sta nascendo è una speranza per tutti. 2 C’è anche bisogno

di apertura mentale da parte dei cittadini, di partecipazione intelligente (smart com-munities) per far sì che il rinnovamento

A

1 F. Fabbrizzi, Architettura verso natura, natura verso architettura, Firenze: Alinea editrice, 2003, p. 18 2. P.Portoghesi, Natura e architettura, abitare la terra, Roma: Skira, 2005

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abbia inizio: una trasformazione è possi-bile se ognuno di noi rendesse il proprio tenore di vita più sostenibile, ripensandolo. Il cambiamento deve partire da noi stessi. Il paesaggio nasce direttamente dall’architettura o , più precisamente quan-do l’architettura diventa paesaggio. Nei contesti naturali più o meno consolidati o modificati nel tempo si possono inser-ire diverse architetture che diventano loro stesse paesaggio, dando una valenza nuova al sito nel quale si inseriscono. Fin dai pri-mi rapporti che l’uomo ha avuto con la natura ha cer-cato di darle un ordine, di avere un po-tere su di essa perché con-siderata una potenza forte e distruttiva nei confronti dell’uomo. Si è sempre cer-cato così at-traverso tutte le tecniche e

tecnolo-gie che con gli anni si sono scoperte di darle una forma. 3 Anche formalmente la

natura è caratterizzata dalla linea curva e sinuosa tipica delle forme naturali, mentre quella retta geometrica e severa è sinoni-mo della mano ordinatrice dell’uosinoni-mo. L’architettura, il costruito dall’uomo, ha come sua qualità specifica l’essere altro

dalla natura, che ne resta il costante scenario di riferimento. Proprio questa abissale dis-tanza ha sfidato da sempre gli architetti, che prima hanno osservato studiato la natura, poi hanno cercato di imitarla, o in modo intellettualmente più raffinato di coglierne i principi, infine ne hanno ricercato la pos-sibile alleanza, quasi una complicità, quasi introiettandola, utilizzandola come elemen-to della composizione architetelemen-tonica, arriv-ando infine a quella sorta di mutazione che è la bio-architettura.

La società dell’epoca classica si regge su un ordine

immu-tabile: tutto ciò che esiste e il modo in cui esiste viene dalla natura, e l’uomo non crea dal nulla, ma “svela” dalla natura. L’oggetto arc h i t e t t o n i -co è tratto da un’idea sovrannatu-rale prima con-cretizzata nella natura e poi introdotta nel quotidiano dall’uomo.

L’ ordine cosmico di un Dio severo e im-prevedibile, dà all’uomo solo tre possibilità nel relazionarsi con questa: imitarla, separa-rne una parte, e proteggersi da essa. Il rap-porto con la natura, infatti, nell’antichità era spesso ambivalente; se da un lato è

og-3 F. Fabbrizzi, Architettura verso natura, natura verso architettura, cit., p. 18 Alhambra, Granada, Spagna

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4 M. Vitta, Il paesaggio. Una storia fra natura e architettura, s.l, Einaudi, 2005

getto di adorazione dall’altro per la neces-sità di proteggersi bisogna separarsi da essa per sopravvivere. Spesso nei documenti dell’antichità i giardini hanno alte e sp-esse mura e all’interno di queste è ritag-liato un frammento di verde. Dal metodo dell’imitazione delle forme della natura nasceranno le prime architetture. Dalla natura prenderà regole, forme, proporzioni, principi, dinamiche e decorazioni, tali da far diventare questo primo manufatto ar-tificiale, una copia umanizzata della natura

4 . Nei giardini romani la raffinatezza del

disegno, la presenza smater ializzatr ice dell’acqua denun-ciano la ricerca di una immagine che trasferisca la natura dalla dimensione dell’essere spirituale a quella umana della comunicazione. Nei giorni nostri notiamo però due diversi approcci tra architettura e natura: quando la natura es-iste per l’architettura

e nell’altro caso quando l’architettura nasce per favorire la natura. Il primo caso è una corrente che risale ai primi giardini meso-potamici e che si trascina fino ad oggi. In questo caso all’inizio lo scopo era quello di realizzare un luogo in cui si formasse un equilibrio armonioso tra i due poli contrap-posti tra l’intervento dell’uomo e la natura.

L’uomo, nei millenni, è passato da un habitat quasi totalmente naturale ad un artificiale e ha tentato di costruire luoghi, i giardini, in cui l’estraneità spesso ostile della natura fosse addomesticata. Questo è il caso in cui l’architettura tende a geometrizzare la nat-ura, a darle un ordine ma con un equilibrio interno. Con la Modernità, che ha spazzato tutto il sapere tradizionale e ha destruttu-rato tutti i cardini del sapere in tutti i cam-pi, anche per quanto riguarda il rapporto natura architettura questo equilibrio che si era formato è entrato in crisi. E’ da tempo che si sono poste le

premesse per distrug-gere quell’equilibrio, che si sta operando per stravolgerlo to-talmente, per ridurre la natura a corpo vile, del tutto sot-toposto all’arbitrio dell’astratto artifi-cio. E’ da tempo che vengono costruiti giardini in cui mate-riali e forme astratte predominano sulla polarità del Naturale.

Natura per l’architettura

Tuttavia anche se questa bilancia ora pende verso l’architettura sono presenti casi in qui l’artista come nel caso di Martha Shwartz gioca con la natura in modo sapiente e fun-zionale.

Va citato anche un esempio di rottura tra le

Martha Shwartz, HUD Plaza, Washington D.C. U.S. General Services Administration.

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Robert Burle Marx

GH3, Scholars’ Green Park Mississauga, ON, 2012

vecchie concezioni paesaggiste e un nuovo modo di interpretare il verde soprattutto negli e per gli spazi pubblici, stiamo par-lando di Burle Marx paesaggista del 900 che con le sue piazze dalle forme sinuose e con il suo anarchismo sistematico ha scardi-nato alcuni principi cardine del paesaggio. Profondamente radicato nella realtà brasili-ana, la sua attività si muove tra le forme, i colori e il paesaggio dinamico di una città. Attraverso colori, materiali e linee curve Marx ha riprodotto in queste piazze una natura che sì, è antropizzata perché creata dall’uomo, ma tuttavia non risulta snaturata, anzi il segreto dei suoi progetti sta nello studio attento della natura, delle sue forme e del suo ritmo. 5 È questa conoscenza pro-fonda che gli permette di avere un con-trollo progettuale, che gli consente accos-tamenti ed associazioni di piante ad altri impossibili. Il suo studio si è spinto anche alla dimensione temporale quindi allo stu-dio dei ritmi e delle modalità di evoluzione di ogni pianta da lui sperimentata. Questa capacità di progettare fa sì “che le sue com-posizioni, partecipano di uno spazio dila-tato alla conquista del paesaggio circostante; non quindi “hortus conclusus” ma sempre panorami lontani, profili di monti, linee del mare, tutto per allontanare i confini precisi di una composizione.. […]” 6 . I campi

cro-matici, con cui affronta i temi più diversi a tutte le scale, sono formate da painte autoc-tone spesso sconosciute, fino a quel tempo ritenute selvagge e ostili, nuovo mondo bo-tanico la lui stesso scoperto e classificato. E’ l’invenzione del giardino brasiliano

mod-5 P.M. Bardi, I giardini tropicali di Burle Marx, Milano:Gorlich editore, 1964.

6 G. G. Rizzo, Il progetto dei grandi parchi urbani di Roberto Burle Marx. In “Paesaggio Urbano”, vol. 4-5; p. 82-89, 1995.

W Architecture and Landscape Architecture, Edge Park, NY

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7 cit. Roberto Burle Marx, il giardino del Novecento, Firenze: Ed. Cantini, 1992

8 A.M.Ippolito, L’archinatura: le diverse modalità di dialogo dell’architettura con la natura, Roma: Collana di architettura Franco Angeli, 2010

erno con un suo originale valore estetico legato esplicitamente a un patrimonio pri-mario della nazione, la natura, e alla batt-aglia ecologica per proteggerla.7 E’ forte

la tendenza negli ultimi anni di progettare dei parchi in cui la natura è fortemente ge-ometrizzata e segue il percorso di linee e diagonali dettati dal progettista le quali dis-egnano uno schema sul suolo. Sonomolti i casi di disassamento di progetti in cui la pavimentazione del giardino è fortemente schematizzata e rigorosa, come nel casi del Edge Park o del Scholars’ Green Park.

Architettura per la natura

Nel caso dell’architettura per la natura av-viene un’ astrazione dove l’innaturale di-viene naturale, queste strutture con la loro conformazione sono segno di riferimento nel paesaggio, il progetto nasce dal contesto, per quel contesto e non potrebbe esistere senza le colline, le montagne o un deter-minato territorio, in un incontro diretto tra architettura e natura. L’osservazione che traspare è nella forza di contribuire ad ac-crescere le valenze del paesaggio, realizzan-do un paesaggio unico, architettonico, natu-rale, artistico.8 In questo caso l’architettura

non tende a geometrizzare la natura, non la vuole modellare nè cercare di ingabbiarla dentro delle strutture meccaniche e artifi-ciali.

La natura è lasciata al suo corso, non le viene data una direzione, è il caso del Chateau d’eau di Christian de Portzamparc dove una struttura in metallo viene ricoperta e scom-pare per la crescita delle piante selvatiche

Dam Graham, 1. Double Exposure,” 1995-2002, in Porto, Portugal

Christin de Potzanpark, Chateau d’Eau de Quatre- Pavés, Noisiel, France, 1971-1979

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. Viene chiamata cosiì perché l’architetto ha utilizzato l’acqua per far crescere sulla struttura la vegetazione.

Nel caso di Dam Graham le opere con-cettuali sono completamente integrate all’interno dell’ambiente anzi si smaterial-izzano, l’uomo quando interagisce con essa non ha più un rapporto diretto e canoni-co di fruizione canoni-come aveva canoni-con un’opera d’arte tradizionale, ora anche si sente sma-terializzato di fronte a queste superfici ri-flettenti e mette in dubbio se stesso oltre che l’ambiente circostante.

Altro esempio di come l’architettura sia uno strumento per usufruire dei vantaggi della natura o più in generale per creare degli ambienti che valorizzino lìaspetto più vegetativo è l’Ecoboulevard Madrid. Il progetto risponde perfettamente alla neces-sità più tipica di un quartiere periferico, nel caso specifico il quartiere di Vallecas, a sud della città: creare le condizioni migliori per lo sviluppo di una socialità diffusa a dispetto del grigiore dei palazzi.9

Esigenza a cui ancora una volta è l’intervento sul paesaggio e quindi la creazione di un nuovo rapporto uomo-ambiente a cos-tituire la risposta vincente. La vera inno-vazione di questo progetto è nella unione tra verde, la presenza di giardini verticali all’interno di ogni struttura comporta quei riconosciuti benefici che abbiamo più volte analizzato, e tecnologia, il fabbisogno ener-getico è dispensato dai pannelli solari, per cui è possibile parlare di: giardino verticale fotovoltaico. 10

I padiglioni bioclimatici condizionano

Ecosistema Urbano Architects, Ecoboulevard, Madrid,2007

9 N. Sinapoli, E. Antonini, G. Gemmani., A.Zappa. ( a cura di), Strutture bioclimatiche polifunzionali per la riqualificazi-one dello spazio pubblico del quartiere Vallecas a Madrid, Ecosistema Urbano Architects, Costruire, n. 307, 2008, pp. 111 -115

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11 O. E. Bellini,L. Daglio, Verde verticale: aspetti figurativi, ragioni funzionali e soluzioni tecniche nella realizzazione di living walls e green façades, s.l, Maggioli Editore, 2009, pp. 142 - 147

l’aria senza ricorrere ai sistemi termomec-canici, così dannosi per l’ambiente, permet-tendo di poter attendere con più tranquillità la crescita dei piccoli arbusti messi a dimora nel territorio circostante, del cui fresco si potrà beneficiare non prima di vent’anni. Al loro interno la presenza di un giardino verticale costituito da piante rampicanti e di un sistema di ventilazione, basato sul prin-cipio dell’evapo-traspirazione, permette di creare aria umida abbassando la tempera-tura esterna anche di 10 gradi. 11

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l caso di Spidernetwood R&Sie(n) è uno dei multiformi manifesti con cui il piccolo studio di Francois Roche porta avanti la sua parti-colare visione dell’architettura, dichiarata-mente contraria al mito funzionalista, e determinata invece da parametri relativi al contesto ambienale, sociale e culturale. Una delle affermazioni attraverso ciu sintetizza il loro programma – la lettura del sito e del suo intorno dovrebbe diventare l’essenza dell’atto stesso del costruire- rappresenta la chiave di lettura di questo profetto. Si tratta di una casa uinifamiliare per vacanze, collo-cata in un uliveto, nel la francia meridionale dove il rapporto con il luogo, l’inserimento nel paesaggio naturale è interpretato in

ter-I

Francois Roche

C a p i t o l o 2 . 2 . 1

1

SPIDERNETWOOD R&SIE(N)

mini quasi parossisitici. La costruzione è concepita non solo per integrarsi ma per essere nel contempo letteralmente assorbita dal bosco che la circonda, a fina a celarsi completamente e rendersi introvabile. L’edificio si trova in posizione baricentrica rispetto ad un labirinto di spazio aperti, dal-la complessità geometrica, delimitata da una rete di plastica bianca, sospesa a tubolari in acciaio, tiranti al terreno, che attraversano il volume costruito creando ampi corridoi, senza soluzione di continuità fra esterno ed interno. Nel corso dei circa 4-7 anni, a svi-luppo completato delle essenze arboree e dei cespugli, l’edificio scomparirà completa-mente e non sarà più visibile come volume dall’esterno: la presenza della costruzione Casa unifamiliare per vacanza, Spidernetwood R&SIE(N), Francois Roche 2007

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potrà essere percepita solo dall’interno dei suoi ambienti che si prolungano in modo centrifugo negli spazi all’aperto. Ne deriva uno spazio introverso da vivere attraverso un’esperienza sensorale, tattile ed olfattiva oltre che visiva, il quale muta e si evolve perché vive nel tempo. L’allusione alla tela del ragno è esplicita non solo nel nome ma anche nell’omaggio che i progettisti rendono all’architettura sapiente della na-tura rinunciando del tutto alla creazione di una forma riconoscibile e “firmata”. In questo senso Spidernetwood vuol essere un esempio di quell’architettura sponta-nea, senza architetti.il rapporto con il luo-go, l’inserimento nel paesaggio naturale è interpretato in termini quasi parossisitici. La costruzione è concepita non solo per integrarsi ma per essere nel contempo let-teralmente assorbita dal bosco che la cir-conda, a fina a celarsi completamente e rendersi introvabile.1

1 R&Sie(n):Spidernetwood, Nimes, France, 2007, in «Lotus International», n. 133, 2008, pp.104 - 109

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area dismessa delle officine Oerlikon a Zurigo e’ stata re-centemente interessata dalla conversione in parco pubbli-co che si pubbli-configura pubbli-come una vera e propria architettura verde, una specie di casa parco che ridefinisce il tema del giardino in cit-ta’. Secondo di quattro parchi ideati per il nuovo centro residenziale di Zurigo-Nord, l’MFO e’ un grande padiglione rivestito es-ternamente e ines-ternamente da manti veg-etali che mutano di colore e forma in base alle diverse stagioni. La struttura in acciaio lunga 100 m e alta 17, disegnata sul profilo del volume preesistente e’ paragonabile a una grande pergola progettata su scala

ur-L’

1 Fabris, L.F.M., Sospesi fra le piante. Parco MFo a Zurigo, Costruire, n. 293, 2007 pp. 295-297

Burckhardt + partner AG - R.Raderschall, 2001

C a p i t o l o 2 . 2 . 2

1

MFO PARK ZURIGO

bana. Oltre 1200 diverse piante rampicanti, dalla vegetazione rigogliosa e profumata, caratterizzate da una grande varieta’ di col-ori, si abbarbicano per il loro naturale svi-luppo nei pilastri in acciaio, nei tiranti, nelle travi reticolari metalliche che limitano ed organizzano il parco, rivestendoli comple-tamente. 1

Nel corridoio della struttura con pareti in-verdite si alternano scale in acciaio zincato e passerelle, e aggettano secondo un ritmo regolare logge coperte di legno che servono da belvedere.

Al piano piu’ alto l’ampio solarium offre la vista sul nuovo quartiere residenziale. L’atmosfera di serena tranquillita’ del

giardi-Mfo Park in primavera Mfo Park in autunno

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no invita alla sosta e alla lettura, ma il pa-diglione puo’ diventare il luogo ideale per lo svolgimento di rappresentazioni e con-certi. Una vasca d’acqua e diversi elementi di seduta costituiscono il principale punto di attrazione dell’area. Di notte, il volume inverdito, completamente illuminato risalta nello spazio urbano e in occasione di mani-festazioni l’illuminazione e’ integrata da corpi sospesi sulla copertura.2

L’MFO e’ un esempio di come una costru-zione realizzata con 33 tonnellate di travi d’acciaio di sostegno e 30 chilometri di cavi, possa essere meravigliosamente trasformata in un’immensa pergola fiorita, un rifugio non solo per gli uccelli ma anche per le persone. L’acciaio scompare e la vegetazine diventa protagonista assoluto, così da diseg-nare un’architettura dove il naturale sem-bra vincere sull’artificiale. Questo risultato è stato raggiunto attraverso un rigoroso e puntuale progetto di piantumazione che ha permesso di studiare, preventivamente, la corretta disposizione delle piante rispetto all’orientamento e all’effetto visivo e cro-matico che potevano produrre a sviluppo venuto. 3

2 O. E. Bellini,L. Daglio, Verde verticale: aspetti figurativi, ragioni funzionali e soluzioni tecniche nella realizzazione di living walls e green façades, s.l, Maggioli Editore, 2009, pp. 54 - 59

3 A.Lambertini, M.Ciampi, Giardini in verticale, s.l., Verba Volant, 2007

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C a p i t o l o 2 . 2 . 3

FLOWER FACTORY

Marco Zanuso, Napoli sotterranea

eno. La natura come prodotto progettato; la natura come esito della artificializzazione spinta dell’ambiente; la intracciabilità del confine tra natura ed artificio come risul-tato del processo tecnologico avanzato; la macchina e la fabbrica come produttori di qualità ambientale; la naturalità come qual-ità progettuabile del prodotto industriale. Questi sono i temi al centro della logica di questo progetto. Le grotte del Vallone San Rocco a Napoli costituiscono un ambiente eccezionalmente favorevole alla realizzazi-one di un fitotrrealizzazi-one di grandi dimensioni, progettato pergenerare, su scala industriale, prodotti vegetali di elevata qualità organica. Il principio funzionale del fitotrone consiste nella determinazione del microambiente ottimale per la crescita di una pianta: tem-peratura, umidità dell’aria, illuminamento, fotoperiodismo, alimentazione, eliminando tutti i fattori negativi legati all’ambiente na-turale: variazioni climatiche, precipitazioni, durata del giorno solare, oltre che, natural-mente,

l’inquinamento dell’atmosfera e dell’acqua e la presenza di specie vegetali infestanti. Nelle condizioni create all’interno di un fitotrone, una pianta cresce con ritmi ac-celerabili in assoluta assenza delle sostanze inquinanti oramai largamente presenti nelle piante coltivate “naturalmente”, diserbanti, insetticidi, pesticidi, piogge acide, depositi di smog, concimi chimici.

Il fitotrone progettato nelle grotte di San Rocco prevede un ciclo completo di pro-uesto progetto vuole

trasfor-mare la cavità del Vallone S. Rocco, un ettaro e mezzo di stanze sotterranee immerse nel tufo vulcanico, in una “fabbrica della natura”, luogo di produzione di fiori e di piante, spazio coltivato, luogo non solo produttivo ma anche architettonico, strut-tura di una seconda nastrut-tura.

Un’architettura fatta di tralicci, cristalli e impianti aggrappati alle pareti della caverna, gioco di luci, brusio delle macchine, pas-saggi scavati, colture in crescita dal seme al fiore, movimenti di mezzi silenziosi e di uomini in camice bianco.

Nella penombra delle cavità che hanno un’altezza variabile tra i 15 e i 32 metri, le nuove strutture architettoniche percorrono sinuosamente il sottosuolo: all’interno di questo treillage di cavi metallici e cristalli, inedito giardino pensile, crescono e fior-iscono lilium, iris, giacinti, narcisi, gladioli, rose, strelitzie, begonie, margherite giganti e fiori prestigiosi come i lopgiflori, le amaril-lidi.

Affrontando il tema delle grotte di Napoli è stata colta l’occasione per elaborare un progetto che pone il tema della “natura” come esito di un processo produttivo o di alta sofisticazione tecnologica: la macchina produce natura, fiori o vegetali commes-tibili, ed è alimentata da energia in parte prodotta da accumulatori solari, mentre i residui di produzione sono fibre vegetali e aria pura fortemente arricchita di

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“Abbiamo colto l’inconsueta suggestione del luogo e la complessa realtà napoletana per elaborare un progetto che non fosse inteso esclusivamente ad autocelebrare so-fisticate e già dimostrate capacità di elab-orazione linguistica, ma che fosse invece capace, proprio per la sua evidente pro-vocatorietà, di comunicare un’idea di ar-chitettura che si propone come esito di convergenti competenze disciplinari gestite a livello cibernetico. Un’idea di architettura in cui la gestione della complessità appare invece capace, proprio per la sua evidente provocatorietà, di comunicare un’idea di architettura che si propone come esito di convergenti competenze disciplinari gestite a livello cibernetico. Un’idea di architettura in cui la gestione della complessità appare come condizione della innovatività del pro-getto. Progettare l’innovazione, come occa-sione per innovare la progettazione. Così come il principio provocatorio del pro-getto consiste nel proporre una riflessione sul ruolo e sul contenuto della tecnologia, nella dialettica contrapposizione tra natu-rale e artificiale, l’immagine elaborata pone la questione della figuratività architettonica della macchina in un luogo dove la struttura naturale dello spazio consente di rovesciare le leggi della statica.

Abbiamo disegnato un’architettura che si propone come elemento ordinatore e o ganizzatore dello spazio artificiale. Il nostro interesse al progetto è poi certamente sol-lecitato dalla curiosità di intervenire in un dialogo tra ambientalisti e tecnocrati, rimi-surando il potenziale “ 1

duzione di fiori, piante di piccole dimen-sioni o vegetali commestibili.

In un laboratorio sterile, posto all’ingresso del sistema, si procede alla clonazione e micropropagazione delle essenze vegetali. Le pianticelle vengono poste per un de-terminato periodo di tempo in camere di crescita, fino al raggiungimento di una di-mensione economica per il loro trapianto su vassoi che, dotati di forature di diametro e distanza adatti alla morfologia delle sin-gole piante, e a volte attrezzati con speciali strutture di sostegno per la pianta in fase di crescita, ne costituiscono il supporto de-finitivo, fino alla completa maturazione che avverrà all’interno del fitotrone.

Lo sviluppo longitudinale delle gallerie ha suggerito la forma e la struttura delle mac-chine: queste consistono sostanzialmente in tunnel larghi un metro e ottanta e lunghi circa cento metri; I vassoi vengono portati all’imboccatura del tunnel da un sistema automatico di trasporto verticale e inseriti nel piano di crescita fino al suo riempimen-to. Da questo momento inizia lo sviluppo della pianta.

L’illuminazione ottimale sarà garantita da lampade fluorescenti di appropriato spettro luminoso.

Quando le piante sono giunte a matura-zione, vengono portate a terra con il pro-cedimento inverso a quello di carico; qui, con intervento manuale, sono raccolti i frutti o i fiori, e le piante riportate al piano o alle camere di crescita, o eliminate; i fiori e i frutti, caricati su carrelli elettrici, vengo-no portati al magazzivengo-no frigorifero, pronti per la spedizione e la vendita.

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Pianta sezione e prospetto, della fabbrica dei fiori Dettaglio delle camere di crescita, piano di coltivazione

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IL VERDE VERTICALE

Capitolo 2.3

Illustrazione: I giardini di Babilonia

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51 erché mai accontentarsi di far crescere le piante nella terra e in orizzontale? La natura non è così monotona. Basta pensare alle piante che, nel sottobosco delle foreste tropicali, vivono sui rami e sui tronchi degli alberi, oppure abbarbicate alle rocce. Non dobbiamo dimenticare che per la vita delle piante la presenza della terra non è in-dispensabile. Quello che conta è l’acqua, perché è lì che si trova tutto quello che serve alla loro sopravvivenza. I miei muri vegetali sono nati proprio dalla voglia di fare entrare nelle nostre case e nelle nos-tre città un po’ di questa verticalità esotica e inconsueta. E dalla voglia di far nascere superfici verdi anche in mezzo all’asfalto e al cemento. Perché queste pareti vegetali,

che non occupano spazio in orizzontale, possono trovar posto dappertutto, anche nelle metropoli più congestionate”. (Pat-rick Blanck)

I giardini verticali sono stati poi, e oggi sem-pre più, i segni di un’architettura innovativa; moderni sistemi di impianto che ricopren-do superfici verticali portano l’antico mito del giardino in vita, e collocano il verde nelle case, negli uffici e nelle strade domi-nate per lo più dal grigio del cemento. Prati e giardini dovrebbero essere, per i fautori di tali progetti, un tutt’uno con l’architettura, circondandola. E dal momento che non c’è spazio tra strade, parcheggi e alti palazzi, al-lora il verde lo si mette in verticale, vere e proprie piante che ricoprono la facciata degli edifici diventando un tutt’uno con

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essi. Le piante non hanno necessariamente bisogno di terreno per crescere, ma solo di acqua, ossigeno e anidride carbonica per la fotosintesi clorofilliana. Ne è una prova il fatto che in natura le piante sembrano prosperare nei luoghi più inospitali: i fiori alpini crescono nelle fessure, felci, muschi e licheni colonizzano i bordi delle cascate. Le alghe crescono anche dove non c’è ossigeno; le 8000 specie

che crescono in Malesia, in gra-do di sviluppar-si sulle rocce e tutte le altre va-rietà di piante che, anche nei climi tempera-ti, crescono su supporti rocci-osi. E da queste considerazioni che derivano le

facciate verdi. Uno studio parigino guidato da Patrik Blanc è stato pioniere di questi esperimenti, trovandosi anche di fronte al problema della potenza distruttiva delle radici delle piante che in alcuni interventi avevano danneggiato seriamente le strut-ture (ad esempio nel tempio di Angkor). Hanno notato quindi che, se le piante sono regolarmente bagnate dall’acqua, tendono a mantenere le proprie radici in superficie evitando così di penetrare nella profondità della struttura danneggiandola. E’ stato così che Blanc ha iniziato la realizzazione di fac-ciate verdi, un sistema leggero (meno di 30 kg per metro quadrato) e adattabile a sup-porti di qualsiasi dimensioni ed altezza. Il verde verticale si trova anche all’interno degli edifici in posti più o meno illuminati

naturalmente.

A seconda del clima del luogo dove lo si vuole installare, sono scelte per il giardino verticale, specie di piante differenti.

Se vivere nelle città ha fatto perdere il con-tatto con la natura, i giardini verticali rista-biliscono un contatto grazie ad ambientazi-oni naturali che riducono lo stress e aiutano l’aria a purificarsi dagli inquinanti. Una

facciata veg-etale isola l’edificio e pro-tegge gli interni dall’inquinamen to. C’è chi li chiama giardini verticali, chi green wall o pareti verdi, ma il succo – non-ostante le dif-ferenze tecniche – è sempre lo stesso: coprire una parete con delle piante che poggiano su un impianto sottostante, più o meno integrato con l’edificio.

Nell’ambito delle ricerche condotte dagli architetti contemporanei per coniugare la tutela dell’ambiente e produrre un habi-tat più confortevole s’inseriscono le speri-mentazioni su quello che è genericamente denominato verde verticale, che – seppur contraddistinto da molteplici definizio-ni terminologiche - s’identifica con una stratigrafia in cui le piante e i supporti che ne consentono la crescita e lo sviluppo, di-ventano parte integrante dell’involucro edi-lizio.

Si tratta di soluzioni più o meno complesse, che prendono ispirazione dalla capacità delle piante di non aver bisogno della terra

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