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1 Ai miei nonni, Marina e Vittorio, per l’affetto e il sostegno che non mi hanno mai fatto mancare

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Academic year: 2021

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Ai miei nonni, Marina e Vittorio, per l’affetto e il sostegno che non mi hanno mai fatto mancare

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Introduzione:

“In passato l’uomo teneva a considerarsi il prodotto ultimo dell’evoluzione, ma la nostra evoluzione non si è arrestata, anzi ora è più rapida che mai, anche se non ha l’andamento familiare della lenta evoluzione darwinista. È tempo che cominciamo a riflettere su questa nostra identità emergente. Possiamo cominciare a progettare sistemi basati su forme inedite di “selezione innaturale” capaci di favorire piani e fini espliciti e persino di sfruttare l’eredità dei caratteri acquisiti1.“

Quello che ci si propone in questa trattazione, è di tentare una lettura in chiave etica e filosofica dei possibili esiti di una tendenza recente, riferibile al campo di ricerca della bionica, che si pone come obiettivo la progettazione, la sperimentazione e la realizzazione in un futuro prossimo di interfacce dirette uomo - macchina (IUM: Human Machine Interface), e in modo specifico di interfacce dirette cervello - computer (BCI: Brain Computer Interface).

I dispositivi BCI sono sistemi adattivi costituiti da componenti artificiali che si interfacciano con organismi biologici in grado di instaurare un nuovo tipo di interazione tra uomo e macchina.

Si tratta di impianti neurali che permettono un dialogo diretto tra sistemi artificiali e sistemi biologici, progettati sia da un punto di vista terapeutico per poter ripristinare delle funzionalità compromesse, sia per poter realizzare un ampliamento delle capacità cognitive, percettive e fisiche umane.

In entrambi i casi si tratta di impianti elettronici che non vanno semplicemente ad apporsi al sostrato organico, ma impianti progettati per dialogare con l’organico e in alcuni casi perfezionati in modo tale da controllarne le funzioni e dare vita a nuove performatività.

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Nella molteplicità ed eterogeneità dei progetti che caratterizzano questa tendenza restringeremo innanzitutto l’attenzione a quei progetti che prospettano un possibile, ampliamento delle prestazioni cognitive; faremo riferimento in particolar modo ad un progetto del gruppo di ricerca dell’ingegnere biomedico Ted Berger della Neural Lab University of Southern California of Los Angeles, il quale ha sottoposto ad una prima fase di sperimentazione, una prima versione di un chip cerebrale, che inserito nel cervello, dovrebbe poter svolgere una parte delle sue funzioni, la memoria, e in modo specifico la memoria ricognitiva.

Un prototipo quindi di memoria artificiale che potrebbe in un futuro prossimo permettere trasferimento e archiviazione su un supporto tecnologico esterno dei nostri contenuti mentali, operazione definita tecnicamente come Mind Uploading. La scelta di questo progetto di ricerca rispetto ad altri è motivata non solo dai recenti successi delle sue prime fasi di sperimentazione, ma anche dal fatto che rappresenta molto chiaramente le potenzialità di sviluppo che queste tecnologie ci possono offrire; questa particolare operazione di trasferimento dei contenuti mentali, che interfacce neurali di questo tipo ci potrebbero mettere nella condizione di fare, ci metterebbe di fronte a potenzialità operative sulla nostra natura di dimensioni totalmente nuove e inesplorate:

- La possibilità di un controllo diretto della mente umana sui sistemi tecnologici informatici;

- La possibilità di aumentare l’estensione della memoria di lavoro;

- La possibilità di uplodare i nostri contenuti mentali per modificarli e per conservarli su supporti che li rendono non deperibili;

- La creazione di un interfaccia utente che permetta l’accesso diretto della mente alle reti informatiche;

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L’interesse per lo sviluppo della ricerca sulle BCI si lega a molti settori disciplinari, non soltanto allo sviluppo delle nanotecnologie che ne permettono la realizzazione e a settori come quello dell’Intelligenza Artificiale2, impegnata nell’obiettivo di creare

modalità di dialogo opportune tra calcolatori e sistemi biologici; la prosettiva della possibilità di manipolazione dei nostri contenuti mentali e la possibilità di ampliare le nostre prestazioni e potenzialità cognitive, rappresentano infatti un importante ambito di ricerca e banco di prova anche per settori tradizionalmente impegnati nello studio delle attività mentali e del comportamento mentale come le neuroscienze - che studiano, struttura, funzione, fisiologia del sistema nervoso centrale e periferico - , la psicologia cognitiva - che cerca di descrivere e di spiegare le funzioni complessive del cervello restando in un ambito di discorso puramente funzionale, cioè senza fare ricorso alle caratteristiche fisiche del cervello - , e in generale per le emergenti scienze cognitive3, ovvero quella recente area interdisciplinare, volta allo studio dei processi

cognitivi, nella prospettiva di uno studio integrato di mente e cervello, all’interno della quale confluiscono contributi provenenti da varie aree di ricerca: Psicologia cognitiva, Neuroscienze, Filosofia della mente, Linguistica, Intelligenza artificiale.

Questo nuovo settore di ricerca, rappresenta una passaggio importante nello studio della mente, nella misura in cui solleva due ordini di problemi che oggi sono cruciali in questo settore:

(i) La necessità di un approccio interdisciplinare allo studio della mente e delle sue attività mentali;

(ii) La necessità di mettere in collegamento lo studio della mente “naturale” con lo studio della mente “artificiale”, avvalendosi dell’opportunità di includere nello studio

2 Dreyfus H.L., What Computers cant’do, Harper & Row, New York, 1979. Tr. It. Di G.Alessandrini, Che cosa non possono fare i computer, Armando Editori, Roma, 1988; Jerry Fodor, Progettare la mente. Filosofia, Psicologia, Intelligenza Artificiale, a cura di J.Haugeland, 1981, trad.It., Il Mulino, Bologna, 1989

3

Per un approfondimento sulle scienze cognitive si veda: Jhonson-Laraid P.N., La mente e il computer, Introduzione alla scienza cognitiva, Il Mulino, Bologna, 1990; Per un approfondimento sui limiti e le potenzialità delle scienze cognitive si veda: L.Floridi, I fondamenti epistemologici della “Nuova scienza cognitiva”, Linee di ricerca, SWIF, 2005, reperibile su www.swif.it/biblioteca/Ir

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delle attività mentali i contributi di un settore di ricerca come quello dell’Artificial Intelligence, ovvero l’opportunità di conoscere la realtà non solo osservandola e descrivendola con precisione e obbiettività, e proponendo teorie che la spiegano, come da sempre fa la scienza, ma anche riproducendola attraverso sistemi artificiali.

L’interesse etico per lo sviluppo di BCI, si lega invece alla prospettiva di un loro possibile utilizzo ai fini di un ampliamento delle nostre facoltà e prestazioni di ordine cognitivo, percettivo e fisico e conseguentemente ai possibili scenari connessi alla possibilità di intervenire per modificare questi costitutivi aspetti della “natura biologica umana”.

La questione morale che si impone di fronte a questi possibili scenari, riprendendo la massima centrale del movimento Transumanista, potrebbe essere così formulata:

“Possiamo considerare etico e desiderabile utilizzare mezzi tecnoscientifici per superare la “condizione umana data”?”

La necessità di una lettura etica e filosofica di questa tendenza di ricerca nasce, in primo luogo, dalla constatazione che negli ultimi anni lo sviluppo di questo tipo di tecnologie ha subito un forte processo di accelerazione, a cui però è stata dedicata una scarsa attenzione nei dibattiti etici, troppo affollati dai problemi legati allo sviluppo dell’ingegneria genetica.

Molti di questi progetti di ricerca saranno concretamente realizzabili in un futuro non lontano, alcuni, in particolare quelli ad applicazione terapeutica stanno affrontando le prime fasi di sperimentazione positiva, un impianto in particolare, Brain Gate, è stato recentemente immesso sul mercato.

Questa caratteristica propria del progresso tecnologico, non ha di per sé un interesse filosofico ed etico, ma lo acquisisce quando questo tipo di sviluppo si traduce in un processo di accelerazione della tecnogenesi tale da prendere in contropiede la capacità dell’uomo di fare previsioni e di prefigurarsi i propri percorsi evolutivi.

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La contrazione dei tempi di evoluzione dei processi di tecnogenesi è un problema non di ordine secondario, è anzi la principale causa del sentimento di disadattamento e di tensione che si registra nei confronti delle innovazioni.

La variabile del tempo si rivela infatti fondamentale nei processi di descrizione, comprensione e metabolizzazione dei fenomeni evolutivi complessi come nel caso della realizzazione della simbiosi tra biologico e artificiale.

Se alla velocità dei mutamenti si affianca l’aspetto della complessità dell’evoluzione dei fenomeni, delle loro molteplici varianti e incognite, accentuate dalla particolarità di creare una simbiosi tra sistemi eterogenei, si intuisce la difficoltà della scienza e della cultura nel tracciarne un quadro esplicativo coerente e completo e di fornire risposte certe ai problemi applicativi e di ordine etico.

Questi due aspetti ci portano sempre più ad avanzare ipotesi sul futuro costruite con un metodo di tipo congetturale, lo strumento della previsione razionale si dimostra sempre più inesatto e inefficacie.

Ci siamo rassegnati a costruire ipotesi sul futuro con un metodo che Giuseppe Longo definisce “semiartigianale”.

In questo senso l’evoluzione biotecnologica sembrebbe caratterizzata dallo stesso carattere di fatalità aleatoria prorio dell’evoluzione biologica, anche se per un meccanismo diverso e quasi opposto.

La nostra capacità di agire, includendo cambiamenti durevoli e talora irreversibili, è ormai molto più sviluppata della capacità di prevedere gli effetti dei nostri interventi. Si instaura un divario, una dissimetria tra sapere predittivo e potere di azione, gli effetti del secondo rimangono in larga misura inaccessibili alla capacità rappresentativa del primo.

Si instaura quello che si può definire un rapporto di non linearità tra causa ed effetto. Questa è la base che alimenta quel sentimento diffuso che Hans Jonas definisce come euristica della paura e che può condizionare il nostro modo di approcciarci agli sviluppi della tecnologia.

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“All’unicità per quanto imperfetta, del prodotto dell’evoluzione si sostituisce, con la progettazione razionale e col finalismo cosciente tipici dell’ingegneria genetica della neuroingegneria, un ventaglio di possibilità non sempre rassicuranti e comunque destinate ad aggrovigliare l’intreccio natura cultura, con forti ripercussioni anche sulla psicologia e sull’etica. Per le limitazioni della nostra razionalità computante, i calcoli, le previsioni e le simulazioni che sostengono il finalismo cosciente possono illuminare gli scenari del futuro solo per breve tempo, mentre gli effetti delle decisioni possono essere durevoli e irreversibile

Questo tragico trapasso dal contingente all’irreversibile che ciascuno di noi sperimenta a livello individuale, si trasferirebbe così a livello di specie4

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Il rischio è quindi quello di non prestare una giusta e ponderata riflessione rispetto a questioni che potrebbero risultare più determinanti nel condizionare l’evoluzione della natura umana, di quanto siamo portati a valutare, sia scegliendo di rendere moralmente lecito l’impianto di interfacce neurali, sia rendendolo moralmente illecito.

In secondo luogo, il timore che si crei un vuoto etico rispetto a questo tipo di questioni, trova una motivazione teorica anche nell’esistenza di una certa tradizione di pensiero interna alla filosofia del novecento, che considera la sfera della technè come neutrale, secondo cui la tecnologia sarebbe da considerare come un fenomeno superficiale, incapace di fornire un contributo sostanziale ai dibattiti filosofici, non determinante neppure nei dibattiti antropologici e sociologici, ma in particolar modo inadeguata rispetto agli interrogativi sulla natura dell’uomo e delle cose; a maggiore ragione la si ritiene incapace di agire su questa natura per produrre significative modificazioni della sua essenza e della sua struttura.

Questa tradizione continua a considerare la tecnologia solo dal punto di vista del suo carattere strumentale (di interfaccia), la confina al livello di un accessorio periferico e

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trascurabile, la vede nell’ottica di una protesi, un’estensione del nostro corpo, uno strumento che riproduce delle funzionalità automatiche per cui è programmato; non siamo portati a vederla come qualcosa di integrato o integrabile alla nostra natura biologica.

Il problema della tecnologia è sempre stato visto esclusivamente nell’ottica del problema degli effetti che un determinato tipo di uso rispetto ad un altro possono provocare, ignorando un fattore importante, quello del valore non neutrale che di per sé la tecnologia ha solo per il fatto che scegliamo di utilizzarla e di fruirne.

In realtà non solo la tecnologia non rimane soltanto qualcosa di esterno al corpo, ma non è neppure uno strumento così neutro come si possa ritenere, e questa neutralità è annullata dalla caratteristica propria della tecnologia di essere un interfaccia.

Questo fraintendimento, che porta a sottovalutare l’impatto della tecnologia nella costruzione dell’immagine di noi stessi e del mondo, si genera probabilmente da un’idea sbagliata e distorta di come debba essere inteso il concetto di interfaccia e il suo ruolo.

Quando ci si riferisce all’integrazione di un sistema biologico e un sistema tecnologico attraverso l’utilizzo di interfacce, dobbiamo pensare a queste non come un semplice luogo di trasduzione tra due domini, ma come un nuovo strumento per realizzare performance.

Il chip della memoria da cui questa trattazione prenderà stimolo rappresenta proprio la potenzialità della tecnologia di passare da “strumento in senso strumentale” a “strumento operativo” capace di incidere sulla nostra essenza, nella misura in cui questa essenza si possa legare ai nostri contenuti mentali.

La distinzione tra uomo e tecnologia non è netta come talora si pretende, perché la tecnologia concorre a formare l’essenza dell’uomo.

Se oggi l’evoluzione biologica è ferma, quella culturale è più rapida che mai: ma la separazione tra i due è artificiosa, poiché i due processi si sono ormai intrecciati in un’evoluzione “bioculturale” o “biotecnologica”al cui

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centro si trova un’unità evolutiva inedita, una sorta di simbionte5 in via di formazione, per il quale vorrei coniare il termine homo technologicus, in questa evoluzione biotecnologica sono all’opera, in un groviglio difficile da sbrogliare, sia i meccanismi darwiniani di mutazione e selezione sia quell’eredità dei caratteri acquisiti che nella selezione delle idee (appunto!) ha perso il confronto con il darwinismo6

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Il primo punto su cui dovremmo concordare è quello di riconoscere l’evoluzione della tecnologia e dell’uomo che ne fruisce come una coevoluzione.

Prendere coscienza di questo significa non discutere sull’opportunità che questa coevoluzione si attui, ma eventualmente discutere sulle modalità e sulle finalità con cui affrontiamo questo nuovo percorso evolutivo; significa abbandonare quell’abito mentale per cui riteniamo di poter invertire un processo così avanzato come la diffusione della tecnologia del suo utilizzo, e del campo delle sue applicazioni, senza particolari conseguenze.

Gli sviluppo dell’interazione uomo macchina dischiudono una vasta gamma di problematiche che si collocano su diversi livelli di riflessione:

- Problematiche di etica applicata, relative ai temi della responsabilità individuale e collettiva, della dignità e del rispetto dei diritti fondamentali delle persone.

- Problematiche di ordine ontologico relative alla possibile alterazione dell’identità personale e della sua integrità indotta attraverso interventi di recupero o ampliamento di capacità sensomotorie e cognitive.

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Longo utilizza il termine simbionte piuttosto che quello di cyborg per indicare un organismo all’interno del quale si realizza una simbiosi tra componenti eterogenee.

Il termine simbiosi (dal greco vita in comune) indica un’associazione stabile e strettamente integrata tra due organismi di cui uno, detto ospite, costituisce l’habitat dell’altro.

Questo tipo di simbiosi è esattamente quello che si cerca di creare mediante la progettazione di interfacce neurali.

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- Problematiche di epistemologia generale, che riguardano la nostra limitata capacità di prevedere il condizionamento operato da dispostivi tecnologici integrati sulla nostra autonomia e capacità decisionale.

Il livello su cui si è scelto di concentrarsi in questa trattazione è quello della cosiddetta “etica applicata”.

Il percorso di riflessione che ci proponiamo prenderà le mosse dal tentativo di comprendere che cosa queste nuove tecnologie di interfaccia cervello - computer ci possono offrire e quali possibili cambiamenti si possono legare a questo nuovo percorso evolutivo.

Si tratterà quindi di valutare in che misura questo tipo di interfacce producano:

(i) Una modificazione delle caratteristiche fisiologiche del nostro cervello e quindi della nostra dotazione biologica.

(ii) Un ampliamento delle capacità cognitive della nostra mente, sia potenziando facoltà già possedute, sia corredando l’uomo di nuovi apparati e funzionalità.

(iii) In che misura permettendo di intervenire sui nostri contenuti mentali, e ampliando le nostre potenzialità cognitive possano incidere sulla nostra identità personale e di specie.

(iiii) Secondo quali modalità e finalità possiamo giudicare eticamente lecito intervenire sulla natura umana per modificarla nelle sue prestazioni cognitive.

I primi due aspetti hanno un interesse prevalentemente di natura tecnica e saranno trattati senza la pretesa di essere esaustivi, con l’intento di chiarificare quello che queste tecnologie ci possono offrire e con l‘intento di stabilire se effettivamente siamo in grado di poter prevedere gli effetti prodotti dall’impianto di queste protesi neurologiche.

I due aspetti successivi sono quelli sui quali ci soffermeremo con particolare attenzione perché di interesse peculiarmente filosofico ed etico.

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La valutazione delle opportunità che si legano a queste possibili modificazioni andrà a costituire la base di una riflessione etica che contempli la possibilità di ricorrere a questi impianti come prassi.

Riconosciuto il fatto che questo tipo di impianti potrebbero produrre delle modificazioni di diversa natura e grado nelle nostre capacità e nel nostro modo di vedere il mondo, ci interrogheremo sulle finalità e sulle modalità con cui avvallare questi interventi e scegliere di usufruirne.

La riflessione sui fini diventa fondamentale per evitare quel modo di pensare secondo cui lo sviluppo tecnologico è cieco e fine a se stesso, secondo cui l’uomo è un semplice oggetto di determinazione da parte di forze necessitanti tra cui quelle interne delle abitudini della tecnica.

Nel primo capitolo di questa trattazione cercheremo di descrivere il principio di funzionamento di un dispositivo BCI, ci riferiremo poi alle molteplici prospettive di ricerca legate alla loro progettazione, focalizzando l’attenzione su tutti quei progetti che non si propongono finalità di tipo terapeutico, ma che si propongono di realizzare un possibile ampliamento delle prestazioni cognitive e percettive umane.

Non si pretende di fornire una presentazione dettagliata e tecnica dei vari progetti, perché quello che ci interessa, al fine di tentare una lettura etica e filosofica di questa tendenza, è valutare le opportunità che si legano alla possibilità di instaurare un dialogo diretto tra cervello e supporti tecnologici.

Sarà poi illustrato in modo più dettagliato il progetto di realizzazione d un prototipo di memoria artificiale che ci servirà come stimolo e espediente teorico pratico per affrontare le implicazioni etiche e filosofiche legate allo sviluppo di queste tecnologie.

Nel secondo capitolo la riflessione sarà rivolta a tutte quelle considerazioni di ordine etico, a quelle obiezioni di principio, che nascono intorno all’ipotesi di intervenire per modificare la natura umana e in generale intorno all’ipotesi di liberalizzare la ricerca

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e l’impiego di interfacce neurali, al fine di realizzare un’ampliamento delle capacità operative sui nostri contenuti mentali.

Per muoverci in questo orizzonte ci riferiremo preliminarmente alla riflessione di Hans Jonas, in particolar modo alla necessità da lui palesata di una nuova etica che rifletta i nuovi modi dell’agire umano, alla necessità di una nuova etica per la civiltà tecnologica.

La tecnica moderna ha introdotto sfere d’azione, oggetti, conseguenze di dimensioni così nuove che l’ambito dell’etica tradizionale, un’etica per cui il valore morale dell’azione si rapporta alle intenzioni dell’agente e alle predisposizioni della sua volontà, al di là degli effetti che ne potrebbero derivare, non è più in grado di soddisfare.

L’etica tradizionale, come guida immediata all’azione, fa riferimento ad un concezione della responsabilità morale che non soddisfa le esigenze sollevate dalle nuove potenzialità della poiesi umana, perché non coglie i rischi e le opportunità che si possono legare a determinate scelte.

La nuova responsabilità morale si deve confrontare con una capacità di azione che amplia i propri orizzonti temporali - la responsabilità della specie umana viene proiettata sul proprio destino e sulla qualità della vita delle generazioni future, anche il futuro diviene quindi oggetto di responsabilità - e spaziali - oggetto di responsabilità non è più solo la natura, intesa come un contesto esterno all’agire umano, oggetto di responsabilità è oggi la stessa natura umana.

Cercheremo quindi in questo capitolo di affrontare una riflessione sul concetto di responsabilità e sulle sue possibili declinazioni che interrogativi nuovi come quelli posti dalla possibilità di intervenire per ampliare le nostre capacità cognitive sembrano esigere.

Cercheremo in particolar modo di capire se l’unica forma di responsabilità morale autentica che questo nuovo ordine di questioni ci richiedono possa essere ricondotta ad una concezione precauzionale forte della responsabilità morale come quella proposta da Hans Jonas e esemplificata dal contemporaneo Principio di Precauzione.

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Esamineremo quindi l’opportunità di proporre una dimensione di responsabilità che tenga conto del fatto che oltre alla necessità di autoconservazione e sopravvivenza, è altrettanto insito nella natura umana un desiderio di emancipazione dai propri limiti e dalle proprie possibilità, per stabilire se anche l’ideale di poter realizzare un ampliamento delle proprie capacità cognitive costituisca un obiettivo altrettanto lecito e responsabile.

Nel terzo capitolo ci riferiremo all’ipotesi di un individuo adulto, capace di intendere e di volere che privatamente è messo nella condizione di scegliere se sottoporsi all’impianto di un interfaccia neurale progettata per poter realizzare un ampliamento delle sue prestazioni cognitive, al di là quindi di uno scopo strettamente terapeutico.

Affronteremo quindi il problema delle pratiche di accesso a interventi di Human Enhencement da punto di vista della Responsabilità individuale.

Nel tentativo di ricercare un criterio etico che giustifichi i possibili impieghi delle interfacce neurali faremo riferimento a due criteri:

(i) Un criterio proprio dell’etica medica che si rifà alla classificazioni tra obiettivi terapeutici e obiettivi non terapeutici. In questo senso ci chiederemo se alla luce della nuova definizione di salute introdotta dall’OMS (Organizzazione mondiale della salute) e al conseguente ampliamento delle finalità della medicina, si possono ritenere moralmente giustificabili anche interventi che vanno al di là dell’intervento strettamente terapeutico e nella direzione di un possibile ampliamento delle nostre funzionalità e prestazioni cognitive, fisiche e percettive.

(ii) Un criterio che fa riferimento alle direttive contenute nella legge quadro dell’Unione Europea in materia di interfacce neurali incentrato sul grado di invasività prodotto dai vari tipi di impianti a livello di modifica sostanziale apportata alla nostra conformazione biologica e al senso di sé.

Ci chiederemo quindi in che modo l’interazione di una BCI con il sistema nervoso centrale possa modificare l’attività mentale, e quali modifiche potrebbero essere

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ritenute accettabili da un punto di vista etico in relazione ad una possibile alterazione dell’identità e dell’autonomia della persona, due aspetti peculiari per poter ritenere un soggetto responsabile da un punto di vista morale

Ci chiederemo poi se esiste e in che misura, anche alla luce dei progressi delle neuroscienze, una connessione concettuale fra l’identità di una persona ed i suoi stati mentali.

L’obiettivo che ci proponiamo è di stabilire se la prospettiva di un’eventuale modifica dei contenuti mentali e della nostra identità personale e di specie fornisca una base adeguata per fondare il divieto etico di ricorrere a questo tipo di impianti neurali.

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