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CCaappiittoolloo IIVV

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Academic year: 2021

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1. La distruzione di Babele

1.1

Funzionamento del “NSM”

Come già più volte sottolineato nei precedenti capitoli, l’idea base del “NSM” è il tentare di descrivere significati complessi attraverso termini di assoluta semplicità, disponibili in qualsiasi contesto culturale. Wierzbicka e il suo team impostano la loro metodologia partendo proprio da questa idea: “to state the meaning of a semantically complex word we should try to give a paraphrase composed of words which are simpler and easier to understand than the original”1. Tale metodo è detto, per l’appunto, “reductive paraphrase”.

Le esplicazioni semantiche in “NSM”, dunque, non sono altro che parafrasi esaustive costruite attraverso i primitivi semantici, la cui lunghezza può variare nettamente da poche parole a lunghi periodi. Tali definizioni sono dei veri e propri testi con l’unica paticolarità di essere composti sulla base di un sottoinsieme linguistico ristretto e universale.

Il modo migliore per comprendere il funzionamento di questo metalinguaggio, con i vantaggi e i dubbi che comporta, è la visualizzazione del suo modo di procedere per arrivare alla definizione e spiegazione di significati complessi appartenenti anche ad altre culture:

X feels happy =

X feels something good like people can feel when they think like this: something good happened to me

I wanted this to happen

I don't want anything else now2.

Tale descrizione semantica sfrutta la rappresentazione dello scenario tipico

1 The main principles of NSM approach, pubblicato sul sito ufficiale del NSM. 2 Wierzbicka (1992a), parte I, cap. 7, par. 3, cit.

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che coinvolge il concetto base da definire, ovvero to be happy. Il sentimento non viene descritto direttamente, ma solo attraverso il prototipo universalmente accettato di GOOD. I concetti astratti sono paradossalmente più facili da definire in questo senso, ecco perché è opportuno focalizzare l’attenzione prima su questi. Tuttavia, un’analisi che si concentra su una nozione piuttosto comune al nostro pensiero come può essere quella di happy anche per un italiano, non aiuta molto a realizzare le opportunità offerte dal “NSM”. Utilizzando un concetto ben lontano dai nostri costumi è possibile scorgere qualcosa di più. Un caso interessante è senza dubbio quello del termine giapponese amae, che tesse le fila della società e della psicologia di tutta la sua cultura di riferimento. Tramite un dizionario bilingue, sarà facile apprendere che si tratta di un nome che trae derivazione dal verbo amaeru, il quale essenzialmente significa dipendere dalla benevolenza altrui sapendo di potere contare sulla guida di un’altra persona, ovvero essere in stato d’impotenza e di bisogno di corrispondenza amorosa3. Molti studiosi e linguisti giapponesi hanno tentato di costruire possibili definizioni in altre lingue, come in inglese4, optando per un’esplicazione del vocabolo, data l’impossibilità di riscontrare un singolo termine corrispondente. Anche la consultazione di un vocabolario giapponese non aiuta in alcun modo ad individuare la componente essenziale del termine, perchè sia poi trasportabile con successo in qualsiasi altro contesto culturale. Wierzbicka ci propone, allora, di rintracciare il prototipo basilare contenuto nella parola amae. A tale proposito, la strada migliore è quella che passa attraverso un parlante madrelingua, come lo psicanalista giapponese

3 Cfr. Ivi, parte II, cap. 4, par. 1.1, cit. Cfr. anche Wierzbicka (1997a), cap. 6, par 2, cit.

4 Wierzbicka fa riferimento a Takeo Doi, The anatomy of dependence, Tokyo, Kodansha, 1981. E’ tratta, difatti, da

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Takeo Doi, menzionato più volte dalla ricercatrice. In questo modo, si giunge alla scoperta che l’idea sottostante amae è la relazione madre-bambino allo stadio in cui questo ha già realizzato l’esistenza indipendente della sua genitrice. In virtù di prototipo psicologico tale elaborazione è universalmente rappresentabile e diviene il nocciolo che il “NSM” può estirpare e spiegare:

X feels amae =

when X thinks about Y, X feels something good like people can feel when they think like this about someone:

”when this someone thinks about me, this someone feels something good this someone wants to do good things for me

this someone can do good things for me

when I am with this someone nothing bad can happen to me I don't have to do anything because of this”5.

Gli elementi caratteristici di amae e della sua idea prototipica di base sono così esplicati con assoluta chiarezza ed esaustività, di modo che possano risultare comprensibili, a parere di Wierzbcika, a qualsiasi utente appartenente a qualsiasi cultura, ovviamente operando prima una debita traduzione nel modello di “NSM” richiesto a seconda della lingua d’origine.

Non importa, dunque, quanto un termine, un’emozione, una sensazione, un gesto, così come qualsiasi altra elaborazione concettuale e linguistica siano unici, poiché ogni elemento può essere spiegato: “it can be translated on the level of semantic explication in a Natural Semantic Metalanguage and that explication of this kind make possible that “translation of emotional words””6.

5Wierzbicka (1992a), parte II, cap. 4, par. 1.1, p. 136, cit.; e Wierzbicka (1997a), cap. 6, par 2, p. 241, cit. Volendo

mostrare appieno le potenzialità di questo metalinguaggio posso tentare una traduzione in italiano: Quando X pensa a Y, X prova qualcosa di buono come la gente può provare quando pensa così di qualcuno: ”Quando lui pensa a me prova qualcosa di buono/vuole fare delle cose buone per me/può fare delle cose buone per me/quando io sono con lui niente di brutto può accadermi/non devo fare nulla per questo. Tale traduzione è costituita da potenziali traduzioni dei primitivi semantici usati nell’analisi in inglese. Certamente vi sono problemi dovuti a polisemia o più possibilità di scelta.

6Wierzbicka (1992a), parte II, cap. 4, introduction, p. 135, cit. Wierzbicka qui fa riferimento all’opera di

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Un approccio del genere non è privo di problemi metodologici e perplessità. Ciò che, infatti, sorprende è come la studiosa polacca non si concentri più di tanto sul fatto che, in ogni caso e in ogni circostanza di applicazione del “NSM”, è sempre necessario fare appello alla conoscenza certa del significato da esaminare e a ciò che esso contiene e rivela. In pratica occorre far riferimento ad una fonte attendibile, disposta a fornire il nucleo centrale dei concetti che si desidera studiare, di modo che sia necessario sempre ricorrere ad una prospettiva interna alla cultura osservata. Il ruolo del “NSM” è esclusivamente quello di esplicare, nel senso di estrapolare, sotto forma di parafrasi semplici ed immediatamente comprensibili a chiunque, dei significati che devono già conoscersi in partenza. Senza Takeo Doi, ad esempio, difficilmente un’europea come Wierzbicka sarebbe riuscita a trasporre in NSM il significato intriseco all’espressione giapponese amae. Questo significa che la comunicazione inter-culturale può anche ricevere beneficio dall’elaborazione di questo metalinguaggio, ma sarà comunque sempre necessario attingere a fonti interne alla cultura con cui desideriamo intessere il dialogo e preparare una sorta di “bagaglio preventivo” prima di stabilire qualsiasi tipo di relazione. L’utilità del “NSM” è notevolmente ridotta, proprio perché è necessario evitare che vengano fraintese le sue potenzialità: esso può spiegare e rendere intelligibile dei significati solo dopo che siano stati trasposti in esso attraverso studi complessi e accurate ricerche inter-linguistiche. La questione pare non essere direttamente affrontata dalla linguista, come se a suo parere, si trattasse di un aspetto secondario.

anthropology and cross-cultural psychiatry of affect and disorder, A. Kleinman e B. Good (eds.), Berkeley, University of California Press, 1985.

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1.2

Altri esempi d’applicazione del “NSM”

Wierzbicka si cimenta in tante diverse aree “di significato”, come quella delle emozioni e delle espressioni facciali, quella della classificazione di animali, quella dei colori, quella delle parti del corpo, quella dei nomi propri o dei titoli (familiari e sociali), quella delle interiezioni, e infine quella di alcuni termini tecnici: politici, morali, religiosi e filosofici. Queste indagini sono state ritenute dall’autrice estremamente utili per esplorare la psicologia della varietà culturale esaminata. Possiamo proporre qui un piccolo esempio per comprendere come il “NSM” riesca a “far risalire” i significati nascosti in qualsiasi idioma, lingua, gesto, espressione, comportamento o pensiero e per dimostrare come un’analisi antropologico-culturale può prender piede7.

EMOZIONE (russo) toska:

X thinks something like this: I want something good to happen I don’t know what

I know: it cannot happen

Because of this, X feels something

Toska è una parola chiave della cultura russa, che esprime un certo senso di malinconia, lontananza, noia. La sensazione di vuoto è l’elemento più comune a tutte le traduzioni che se ne danno usualmente. La tentazione è quella di assegnare alla parola più significati, ma sarebbe errato, poiché apparirebbe sempre come qualcosa di indefinibile e inafferrabile. Essa rappresenta l’esperienza di qualcosa di vago e angosciante, molto simile alla nostalgia. Da questo punto di vista si allaccia agli aspetti che caratterizzano la vita religiosa russa e all’escatologia

7 Sempre ribadendo il fatto che occorre assolutamente fare riferimento a dgeli studi opportunamente già

avviati da elementi in grado di sostenerli: madrelingua, antropologi specializzati, studiosi di lingue specifiche e così via…

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cristiana8. Toska trasmette, quindi, un certo senso di oppressione, paura, ansia, angustia e dolore, tipici della drammaticità dell’esistenza russa, fiaccata dai rigidi inverni come da terribili regimi. Possiamo contare tre componenti essenziali: timore, malinconia e repulsione9. Dostoevsky10 ci ha restituito moltissimi esempi di questo tipo di sofferenza. L’analisi si completa esprimendo il fulcro di significati fondamentali di questo concetto in “NSM” e cercando di spiegare il tutto attraverso altri fattori culturali, come lo stesso assetto politico-geografico o la memoria storica, che in questo caso sono estremamente significativi, poiché accentuano e motivano il sentimento di nostalgia, dovuto alle distanze impercorribili, all’intensità del ricordo dei tempi passati o dei caduti nelle sanguinosissime rivoluzioni, al senso d’oppressione politica e alla smania per qualcosa che, in un’ottica tragicamente fatalista e pessimista, non potrà mai ottenersi, come ad esempio la stessa libertà individuale.

I colori11 sono per lo più spiegati e compresi attraverso le associazioni agli elementi naturali che costituiscono l’ambiente circostante, ecco perché si riscontrano notevoli differenze fra le varie culture.

8 Cfr. Wierzbicka (1992a), parte II, cap. 4, par. 1.11, cit.

9 Cfr. Irina B. Levontina & Anna A. Zalizniak, in: Wierzbicka & Harkins (eds.) (2001), cap. 9, par. 2.2, cit. 10 Per l’appunto, Wierzbicka, pur essendo di origini slave, non è in grado di dare testimonianza degli aspetti

che sta trattando, di conseguenza, fa affidamento alla sua capacità di reperire fonti attendibili appartenenti alla cultura in questione.

11 In questo caso gli studiosi cui Wierzbicka si appoggia sono Paul Kay e Brent Berlin. Che, a loro volta, hanno

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COLORE (giapponese) X is aoi:

Atsome times people can see the sun in the sky

when one sees things like X one can think of the sky at these times

In some places there is a lot of water

when people are far from these places they can see this water when one sees things like X one can think of this

In some places things grow out of the ground at some times there is water in those places when one sees things like X one can think of this.

Come appare evidente dall’analisi in “NSM” del termine aoi, questo è un colore che ha tre diversi prototipi di riferimento: il cielo sereno, il mare e la vegetazione. I giapponesi, difatti, tendono ad associare il verde e il blu, come colori freddi. L’idea è che la flora, se intrisa di umidità, in una sorta d’impressione visiva assume questo tipo di sfumatura, ben diversa dal verde puro e semplice. Anche il mare può raggiungere colori estremamente diversi e cangianti, fino a toccare qualche gradazione di verde. L’associazione, allora, non è così assurda come potrebbe sembrare a prima vista. In questo caso, il metalinguaggio utilizzato da Wierzbicka si mostra capace di esprimere anche modelli di riferimento o prototipi ben precisi come quelli sopra elencati12.

Un altro esempio che può rivelarsi utile è l’analisi di un termine italiano come sorte non perfettamente traducibile in altre lingue.

12 Cfr. Wierzbicka (1996), parte II, cap. 10, par. 8, p. 313, cit.

TERMINE FILOSOFICO

(italiano) sorte: different things happen to people

not because someone wants it

one can think: more bad things will happen to me than good things one cannot think: I know what will happen to me

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Wierzbicka propone uno studio dettagliato dei concetti associati alla fortuna, dotati di un valore particolare in tutte le lingue derivate dal latino. La comprensione di termini come questi ci dice molto sulla percezione della vita stessa nel paese della lingua di cui fanno parte. Il dizionario cui la ricercatrice fa riferimento14 spiega la nozione di sorte secondo questa linea come insieme di contingenze indipendenti dalla volontà umana. Questa definizione appare chiaramente incoerente nel momento stesso in cui se ne rintraccia il corrispettivo inglese, ovvero fate. Tale vocabolo, difatti, traduce sia l’idea di destino che quella di sorte, che invece sono ben distinte in italiano. La differenza principale è che il destino è un qualcosa che assume una direzione precisa, che si impone ineluttabilmente al corso degli eventi come alla volontà. La sorte è invece assolutamente casuale, non si muove verso alcuna meta, può mutare, non dipende da nulla e può volgersi verso l’individuo come verso gli accadimenti della vita in generale. Sicuramente, entrambi questi concetti poggiano sull’idea di totale incapacità di controllo volontario, ma questo non può farli del tutto combaciare. Il termine russo corrispondente a “destino” (sud’ba), ad esempio, non è per nulla comparabile a nessuno dei due, dato che contiene una nota malinconica assolutamente assente in entrambi e facilmente rintracciabile come associata al fatalismo della psicologia di quel contesto culturale.

Questo non significa che non ci siano elementi semanticamente costanti, sicuramente una traduzione è sempre possibile, sebbene risulti poco adeguata.

13 Wierzbicka (1992a), parte I, cap. 2, par. 5, p. 88, cit.

14 Tratta da: Devoto Oli, 1977, citata da Wierzbicka, ib. In questo caso Wierzbicka utilizza come fonte di

riferimento anche un dizionario. Spesso, tuttavia, lamenta proprio il problema di non poter fare pieno affidamento a risorse di questo genere, data la loro incapacità a fissare gli elementi essenziali del significato, la stringatezza, la selezione e la circolarità che interessa questo tipo di definizioni.

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Quello che è fondamentale è il riuscire a maneggiare l’intera prospettiva del significato di un termine straniero, in modo da potere indovinare sempre l’interpretazione migliore. Così facendo si acquisisce consapevolezza di come un concetto possa essere differentemente concepito in altre culture che adottano scale di valori diverse e che hanno vissuto un passato diverso.

In questo senso, la schiera dei primitivi è terreno per l’analisi semantica del linguaggio naturale. Spesso si dice che il significato di una parola dipende da più parole nel lessico, ma per Wierzbicka non è così. Nella sua ottica il significato è fissato dalla configurazione dei primitivi semantici in ciscuna parola. Questo processo conduce a “definire positivamente”. Ci possono essere casi di sovrapposizione, ma uguaglianza e diversità si colgono comunque solo dopo aver identificato ciascuna componente base dei significati sotto esame. I cambiamenti in seno ai significati delle parole sono comprensibili solo se se ne conosce la conformazione originaria. Il comparare significati è perciò possibile solo se si realizzano le simmetrie e le irregolarità nella struttura semantica individuata; mentre lo scomporre i significati ha senso se si ha una metodologia sistematica, facente riferimento sempre alla lista di ipotetici indefinibili. Gli universali sono praticamente incapsulati nelle parole: solo svelando la loro combinazione specifica si scoprono gli elementi basilari e comuni fra diversi termini e diverse culture15.

Le conquiste in campo lessicografico sono notevoli, resta comunque da ricordare che occorre un profondo lavoro empirico di raccolta dati attraverso l’utilizzo di fonti a diretto contatto con la cultura da studiare (senza le quali poco

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si otterrebbe dalla lista di primitivi), la cui attendibilità pare anche difficile da constatare, data la lontananza di prospettive in cui spesso ci si trova a lavorare.

2. Esiste una correlazione fra linguaggio e cultura?

2.1

Alcune verità svelate dal Natural Semantic Metalanguage

“Cultures are in some ways like living beings. They have a unity of their own, they tend to persevere in their being, and their relationship to their environment is vital… These properties of a culture have their roots in the collective identity of the people, the living human beings who, generation after generation, find it expressed in their culture and above all, in its system or ideas and values”16. Come si evince dalle elaborazioni di Dumont, il carattere di una nazione viene per lo più plasmato dal corso degli eventi e dalla storia. Non è eterno, ma muta continuamente e questo suo perenne assumere nuove forme si riflette nel mezzo attraverso cui si emana la sua essenza: il linguaggio. La lingua è lo specchio della cultura, il veicolo per la sua propagazione17. L’evoluzione linguistica non è mai statica, poiché ricalca i mutamenti culturali e lo scorrere del tempo. Guardando al mondo come ad un caleidoscopico melting pot di etnie e idiomi, si rischia di esagerare la misurazione dello scarto della diversità: le differenze lessicali, come quelle comportamentali dovrebbero apparire come

16 Louis Dumont, Are culture living beings? German identity in interaction, Man 21, p. 587, 1986, citato da

Wierzbicka in Wierzbicka (1992a), parte IV, cap. 12, introduction, cit. Dumont è un antropologo francese, elaboratore di un’antropologia olistica, molto interessato alle filosofie sociali e alle ideologie occidentali.

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spiragli attraverso cui osservare la varietà dell’unico universo in cui viviamo18. A molti studiosi pare assiomatico definire il linguaggio come lo specchio di una cultura. Il problema essenziale è che le diversità non si riflettono esclusivamente nel lessico: sebbene, infatti, questo tenda a variare più rapidamente e rappresenti la prima evidenza tangibile di disuguaglianza, non è altro che il piccolo indizio di una voragine che divide profondamente i mondi culturali. Il fatto, ad esempio, che gli inglesi dispongano lessicalmente di un vocabolo per indicare in modo spregiativo i giapponesi e che i polacchi abbiano, invece, molti termini negativi per riferirsi ai russi non può considerarsi frutto della casualità. Analogamente si può dire dell’esistenza del termine privacy inglese o dell’inesistenza di un corrispettivo di weekend in Polonia, dove abitudinariamente il sabato è un giorno lavorativo19. Al di là di queste semplici differenze, facili da contestualizzare e comprendere, è opportuno dedicare attenzione ad un fattore assai più rilevante: la grammatica.

A lungo si sono non considerate le differenze interne alla struttura grammaticale come direttamente associabili a diversi fatti ed aspetti culturali. I cambiamenti storici, così come i mutamenti socio-antropologici sono incarnati radicalmente fino nelle strutture profonde del linguaggio e non a caso questo è stato definito come il principale mezzo di comunicazione. Secondo la ricercatrice polacca, tale considerazione appare sterile e poco redditizia. Nella sua ottica, allora, quale porzione di linguaggio riflette meglio la cultura di cui esso è voce? Il merito di tale prerogativa va a quelle parti della lingua, inclusa la grammatica, che

18 Cfr. Ivi, Parte I, cap. 1, par. 11, cit.

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trattano nello specifico la relazione fra parlante e ascoltatore, sia che si tratti di atti linguistici, sia che si tratti di distinzione del sesso della terza persona singolare o della cosiddetta T-form. Tali elementi possono catalogarsi sotto l’etichetta “pragmatic aspects of grammar”20 e possono ritenersi anche componenti in rapido sviluppo e prontamente soggette a variazioni. Più dettagliatamente, Wierzbicka rintraccia quattro elementi che rispecchiano in modo più concreto e diretto i caratteri culturali di sottofondo: “form of address; expressive derivation; illocutionary devices of different kinds, such as interjections and particles; and speech acts”21. La svolta fondamentale per orientarsi in questa visione della comunicazione interculturale si è avuta con l’avvento della grammatica generativa, cosa che Wierzbicka è costretta a riconoscere, sebbene resti del parere che tale approccio fosse debole a livello di sperimentazione empirica22. Infatti, dopo la rivoluzione chomskyana, secondo il parere dell’autrice, ci si è definitivamente resi conto dell’inaccettabilità della riduzione del linguaggio al ruolo di strumento comunicativo: esso viene a configurarsi come mezzo per l’interazione umana stessa. Nella prospettiva di Wierzbicka non si tratta di sminuire il ruolo comunicativo della lingua, piuttosto di riabilitare il significato, come elemento chiave per giungere alla comprensione dei processi sociali, antropologici e psicologici profondi che caratterizzano l’umanità. E’ in questa possibile applicazione della linguistica che si inserisce il lavoro che stiamo qui ricostruendo e presentando.

20Wierzbicka (1992a), parte IV, parte VI, cap. 11, introduction, p. 375, cit.

21 Ivi, cit. A questo proposito,infatti,l’analisi di Wierzbicka si orienta soprattutto verso la semantica dei nomi

propri, dei vezzeggiativi e dispregiativi, delle espressioni di disgusto, delle frasi canoniche, dei verbi degli atti linguistici e delle loro particolari costruzioni, dei termini relativi alle emozioni, dei saluti e delle espressioni di gioia.

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Il “NSM” può inserirsi in questo processo come un mezzo potenziale volto alla realizzazione di un dialogo con la diversità e di un confronto con essa. Questo strumento, benché debba comunque appoggiarsi ad una preventiva conoscenza di ciò su cui intende operare, esplica i significati inclusi in ogni tipo di espressione umana per quanto aliena essa possa essere. Le modalità d’interazione seguono dei canoni precisi che sono incarnati nel linguaggio, come componenti semantiche intuibili nel contesto specifico di riferimento. L’indagine condotta prima degli studi di Wierzbicka era avariata dagli stessi termini tecnici di cui si alimentava, i quali rispecchiavano una mentalità ed una cultura di spicco anglosassone, per nulla adattabile a contesti interculturali23. Attraverso un percorso costituito da elementi universalmente disponibili, è possibile tentare di spiegare i significati soggiacenti ad ogni tipo di interazione umana e con essi, le norme sociali, le strategie comunicative, gli stili conversazionali e i valori, rimasti a lungo nascosti dietro l’incomprensibilità linguistica e la mancata accessibilità ad una visione interna della prospettiva culturale da indagare.

2.2

Temi culturali nella lingua russa: un caso emblematico

Il russo è un significativo caso emblematico che la ricercatrice costantemente propone per far realizzare ai suoi lettori come un linguaggio possa divenire una vera e propria mappa visiva, raffigurante tutti gli elementi essenziali della cultura che lo ha plasmato e che, a sua volta, scaturisce e prende vita attraverso questo: “Wierzbicka argues that the Russian language furnishes an

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excellent example of a particular semantic theme (which can be roughly labelled ‘‘fatalism’’) manifesting itself across lexicon, phraseology, and syntax”24.

La chiave per la comprensione di tale mondo culturale poggia su pochi concetti fondamentali, che caratterizzano radicalmente la sua identità. Wierzbicka ci propone uno studio estremamente dettagliato di queste nozioni, fra cui possiamo annoverare: duša, sud’ba e toska25. Tali termini sono in grado di inglobare gli aspetti principali dello spirito russo e di riflettere le relazioni intrecciate ad altre tematiche basilari quali la presenza di un’emotività intensa, l’irrazionalità in contrasto con la scientificità introdotta dal regime sovietico, la passività di fronte destino, esplicata in un fatalismo contrastante con l’enfasi occidentale per l’individualismo, senza dimenticare, infine, il forte dominio della dimensione morale della vita. La lingua russa catalizza ampiamente questi temi culturali, costruendosi e foggiandosi su di questi.

In primo luogo, si può vedere il largo uso di diminutivi e vezzeggiativi, sintomo del vigoroso desiderio espressivo russo, del calore e della passione tipici di questa cultura. Il complesso e ricco sistema di storpiatura dei nomi propri in nomignoli o soprannomi veicola un ventaglio variegato di sentimento: dall’affetto all’odio e alla compassione26. Un esempio indicativo può vedersi nel suffisso –ik, utilizzato con nomi propri femminili, il cui significato è assai profondo:

-ik

I feel something good toward you I feel something good speaking to you

I don’t want to speak to you the way other people speak to you

24 Cfr. Goddard (2003), par. 4.1, cit.

25 La cui traduzione può ridursi a: anima, fato, desiderio struggente. Chiaramente tali controparti italiane sono

da considerarsi assolutamente incapaci di rendere quello che è il significato originario, su cui Wierzbicka, come molti altri studiosi, si dilunga per numerose pagine.

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I want to speak to you as if you were a small boy, not a girl27.

Vi sono, dunque, molte possibilità per veicolare il sentimento e il desiderio di vita sociale. L’espressività audace e la sua importanza divengono manifeste nella lingua russa28, estremamente ricca di verbi associati a varie tipologie di sentimenti, che possono considerarsi come veri e propri atti linguistici. Strutture simili rivelano un certa riflessività: l’emozione è segno di attività interiore, non è, perciò, dovuta a cause esterne. Spesso, poi, queste forme verbali sono utilizzate nel dialogo diretto, per riportare senza deviazioni le emozioni nel dialogo. Tale devozione ai sentimenti si scorge anche nell’uso delle preposizioni. Il mondo anglosassone, ad esempio, disapprova una manifestazione così disinibita29; i russi, invece, si lasciano letteralmente trasportare dalle emozioni, tanto che esiste una forma precisa per indicare tale loro atteggiamento, tradotta da Wierzbicka in inglese come giving oneself to emotions30.

In questa forte espressività è impossibile non ritrovare un pizzico di irrazionalità e, soprattutto, una sensibile passività31. Il mondo russo, contrariamente a quello occidentale, da sempre appare orientato verso un visione fatalista, intrisa di tragicità, di sofferenza e di valori religiosi32. La dura morale e il

27 Esplicazione in NSM del significato del suffisso –ik (generalmente tipico dei nomi maschili) usato con nomi

propri femminili. Ivi, cap. 7, par. 2.2.3, p. 251, cit.

28 Anche le lingue mediterranee si costruiscono sull’audace espressività, intesa come un valore effettivo.

Favoriscono anch’esse, quindi, lo sviluppo di un ricco sistema di derivazione dei nomi. La scelta di Wierzbicka del russo è, probabilmente, motivata anche da una sua maggiore conoscenza di tale realtà e di tale idioma.

29 Cfr. ivi, cap. 12, par. 2.1.1, cit.

30 Cfr. ivi, par. 2.1.2, cit. Wierzbicka si cimenta in questa traduzione per farci comprendere come gli elementi

essenziali di una lingua non risultino sempre riproducibili in altre, senza suonare insoliti o assurdi.

31 Elemento, ad esempio, meno presente nel panorama mediterraneo, anche se, chiaramente, il tutto è

opinabile, dal momento che, nell’ottica anglosassone l’espressività e il culto delle emozioni è sempre segno di debolezza.

32 Wierzbicka fa riferimento alle considerazioni di Georgij Fedotov, studioso di teologia, storia e filosofia, una

delle più grandi personalità russe che visse gli anni delle rivoluzione d’ottobre. Nei suoi studi si riagganciò alle tradizioni mistiche dell'ortodossia russa delle origini analizzandole analiticamente e sottolineando il forte carattere fatalistico della psicologia russa. In questo caso, quindi, l’autrice si appoggia ad un’altra fonte

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senso del dovere schiacciano l’autonomia, l’ambizione e il successo personale. La religione stessa è vissuta in maniera violenta e passiva.

Tali aspetti della psicologia russa sicuramente fanno capo agli eventi storici che la caratterizzano: secoli di tirannia, sanguinose rivoluzioni e un rigido regime hanno schiacciato lo spazio per l’individualità per mezzo di un’opprimente omologazione. Tuttavia, queste considerazioni non interessano Wierzbicka, dal momento che sono facilmente intuibili e poco intriganti. Quello che preme alla ricercatrice, infatti, è l’individuazione di questi elementi all’interno delle strutture linguistiche. Come già si è osservato, nel carattere fortemente emotivo delle costruzioni verbali e delle derivazioni linguistiche è possibile anche scorgere la forte nota fatalista. La grammatica è piena di costruzioni che presentano la realtà come indipendente dalla natura umana: non c’è spazio per la volizione, né per il desiderio. La differenza con l’inglese, che invece dà molto peso alla volontà e indipendenza, è netta. Nella prospettiva russa non si è padroni della propria vita e delle proprie azioni: l’uomo si realizza attraverso altri mezzi come il sentimento, la forza morale, la passione...

L’idea di Wierzbicka è che tutto gravita attorno al linguaggio: tale fenomenologia, ad esempio, si percepisce nell’assenza del soggetto o nel suo declinarsi non al nominativo, e nel largo e particolare uso dei verbi impersonali33. I diversi modi di vedere la vita comportano diversi usi della lingua quali la predominanza di strutture attive o passive (what I do, what happens to me). interna, legata allo studio della psicologia, elemento che, in questo tipo di analisi e in questa circostanza è saliente. E’ interessante vedere come la scelta della fonte varia a seconda del proposito che Wierzbicka si impone: nel caso in cui si deve preoccupare della frequenza d’uso dei termini fa riferimento a giornali, riviste e tipiche conversazioni comuni riportate su testi o grammatiche; nel caso in cui debba trattare del valore di un concetto e del suo significato, si appoggia, invece, alla letteratura classica.

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Volizione e destino sono in un perenne confronto: in inglese predomina il primo, difatti si predilige l’uso di costruzioni attive e si relega quello delle passive a situazioni particolari. Il russo opta, invece, per il secondo caso, di modo che l’assenza del soggetto, o il declinarlo al dativo più che al nominativo, sono aspetti che si verificano frequentemente. L’utilizzo del dativo per indicare un agente-esperiente e la risultante forma impersonale del verbo, completato poi da un avverbio, sono casi estremamente emblematici e rappresentano una delle maggiori componenti semantiche associate alla modalità di passiva perdita di controllo e volizione nei confronti della realtà.

Nell’area delle emozioni è più evidente l’operare della sintassi del cosiddetto “dativo impersonale”: il russo possiede, infatti, un’intera categoria di espressioni di sentimenti involontari utilizzabili solo in questa forma. L’esperiente, incapace di controllarla, scompare sotto la forza delle emozioni. Il dativo convoglia naturalmente una sottile involontarietà dell’evento in questione che si impone sulla realtà del soggetto. Esistono altri espedienti che suscitano il senso di impossibilità di controllo delle proprie azioni e dei propri sentimenti, come le costruzioni infinite o riflessive. In tali casi, le esperienze soggettive vengono presentate tramite una notevole enfasi sull’accadimento più che sul rapporto causa-effetto. La prospettiva predominante, dunque, è quella di un esperiente passivo più che un soggetto attivo capace di controllare la propria vita34. Questa particolarità dell’uso del dativo può esprimersi attraverso il “NSM” in questi termini:

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Inglese: He envied. Russo: He (dat.) was (neutr.) envy (avv).

He felt envy.

X thought something about something Because of this, X felt something

X couldn’t not feel this35

Quindi, i due modi di percepire la vita: quello attivo (in termini di: what I

do) e quello passivo (what happens to me) sono facilmente codificati nel linguaggio stesso. Le strutture dative pervadono la grammatica russa, scavalcando nettamente il ruolo del nominativo, con lo scopo implicito e inconscio di dare forma agli aspetti fatalistici caratteristici di tale visione della vita. Anche gli enunciati volitivi personali, ad esempio, non adottano una forma generale nominativa, ma contribuiscono anch’essi al dominio delle forme tipiche del dativo. Persino la dimensione di necessità e di impossibilità è totalmente soggetta a questo fenomeno e lascia trapelare una forte passività.

Wierzbicka ci propone un’interessante esplorazione della modalità in russo, altro caso interessante per comprendere concretamente le caratteristiche della psicologia di tale cultura e la sua stretta correlazione al linguaggio. In particolare, destano interesse le costruzioni infinite che convogliano significati modali senza includere i verbi corrispondenti. La visualizzazione di queste attraverso una possibile traduzione in “NSM” ci dice molto di più di qualsiasi ulteriore indagine. Un caso emblematico:

I WANT

Formula sintattica in russo: Negazione + Verbo Infinito + Dativo Spiegazione NSM: One can’t think: “if I want it, I will do it”

35 Esempi tratti da ivi, p. 404, cit. La spiegazione in NSM è chiaramente relativa a tutte le costruzioni di

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One cannot do it36.

Questa parziale dimostrazione della forte correlazione fra sintassi e cultura sicuramente non è del tutto esaustiva, tuttavia apre interessanti possibilità di orientamento dello studio della linguistica verso un contesto antropologico-culturale.

Wierzbicka si è orientata verso lo studio della lingua russa perché estremamente vicina alla sua lingua madre e, presumibilmente, facile da prendere in considerazione, date le fonti e le capacità37 di cui la studiosa dispone. Questo non significa che non possa condursi uno studio dettagliato di qualsiasi altra lingua. Chiaramente, è necessario essere parte integrante della cultura di fondo (o avere buone basi di riferimento, come nel caso dell’autrice con il russo) e sapersene, al contempo, dissociare quanto basta per acquistare piena coscienza di ciò che è altrimenti offuscato dalle abitudini38.

36 Ivi, par. 3.1.2, p. 418, cit. Il paragrafo illustra tutte le altre possibilità, che sono altrettanto interessanti. 37 Wierzbicka ha una buona conoscenza della lingua in questione. Tuttavia, non lascia trapelare a fondo gli

spunti teorici che la ispirano, come le stesse modalità di raccolta di dati empirici che ha utilizzato. Potremmo, quindi, rimproverare all’autrice di aver trascurato l’esposizione della metodologia adottata e di aver proposto solo il risultato finale come mostra e dimostrazione delle sue conclusioni.

38 E’ in questo senso che il “NSM” si rivela utile, non certo nel reperire le fonti o nel constatare la loro

attendibilità. Questo oggetto, infatti, non può svelare i significati reconditi racchiusi nelle strutture sintattiche esaminate senza alcuna dritta e alcun orientamento.

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