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Capitolo 2 : LE STRATEGIE DI INTERNAZIONALIZZAZIONE. 2.1. I fondamentali contributi teorici.
Il tema dell’internazionalizzazione ricopre un ruolo centrale nelle teorie di management e di mercato.
Numerose teorie economiche hanno indagato sui processi
d’internazionalizzazione, concentrandosi specialmente sulle ragioni che portano le imprese ad effettuare investimenti all’estero e su quale siano le motivazioni del commercio tra i Paesi.
Un importante contributo è stato apportato dal “paradigma eclettico”
elaborato da J. Dunning1, il quale individua tre condizioni/spinte specifiche
che muovono l’impresa a investire all’estero:
Ownership advantage: l’impresa dispone di particolari risorse e competenze
che le permettono un vantaggio competitivo rilevante anche a livello internazionale.
Location advantage: l’impresa trova all’estero determinate condizioni
favorevoli che le permettono di valorizzare le proprie risorse e competenze.
Internalization advantage: l’impresa è in grado di sfruttare al meglio la
valenza competitiva internazionale di particolari risorse di cui dispone all’interno della propria struttura organizzativa.
Lo sfruttamento dei vantaggi competitivi detenuti nel Paese di origine in nuove aree geografiche, ha catturato l’attenzione di molti autori.
Hymer apporta un importante contributo a partire dagli anni ’60, prima di
allora il fenomeno dell’internazionalizzazione non veniva ricondotto all’attività d’impresa, bensì a flussi internazionali di beni e capitali indipendenti da questa.
Egli osserva che la principale ragione per cui le aziende vanno all’estero consista, appunto, nella volontà di utilizzare in nuove aree geografiche i propri
1
Le prime elaborazioni di questo paradigma si trovano nei lavori di Dunning, verso la fine degli anni Settanta.
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vantaggi in termini di competenze, imprenditorialità, accesso ai capitali i quali
possono essere più forti all’estero.2
Tuttavia, lo sfruttamento in nuove aree geografiche degli elementi di forza detenuti nel mercato originario non è un automatisma, dipende dal modo in cui si manifesta, e Valdani lo ha definito “effetto prisma”.
Attraversando le frontiere un prodotto può subire variazioni nella percezione dei consumatori. Il suo posizionamento e la sua immagine possono risultare alterati.3
In un Paese estero, per esempio, il prodotto può essere valutato in modo migliore (effetto amplificante) rendendo necessarie politiche di adattamento per rendere coerente il marketing mix con il posizionamento su una fascia di mercato superiore.
Ancora, il prodotto può essere percepito in modo diverso4, (effetto
deformante) e allora al cambiamento della funzione d’uso attribuita dal mercato al prodotto deve pertanto corrispondere un adeguamento in termini strategici.
Infine, il prodotto può subire l’effetto “riducente” rendendo necessario porre
in essere azioni di riqualificazione.5
L’effetto prisma appare potenzialmente maggiore nel caso dei vantaggi legati alla differenziazione dell’offerta dell’impresa , piuttosto che per quanto
riguarda le determinanti dell’efficienza sui costi.
Al fine di ottenere una visione più complessiva del concetto
d’internazionalizzazione, la letteratura economica identifica le principali
2
“More potent abroad than at home” Hymer(1970;1976)
3
Tale effetto è la causa di una “deformazione del giudizio e delle percezioni maturate dai potenziali consumatori a causa delle diverse caratteristiche ambientali che influiscono sul posizionamento competitivo dell’impresa”.
4 Ad esempio i prodotti Paglieri sono considerati in Germania non come prodotti per l’igiene personale,
ma come prodotti da banco, da distribuire tramite il canale delle farmacie.
5
Come accade nelle nostre aziende operanti nel campo della meccanica di precisione che nei Paesi nordeuropei subiscono un’associazione “prodotto/paese” non favorevole.
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spinte interne ed esterne all’espansione estera di un’impresa, tra le spinte interne di annoverano:
Importazioni
Esportazioni
Accordi strategici e joint venture
Investimenti diretti esteri.
Si definiscono, dunque, le importazioni come la volontà di disporre di migliori condizioni di approvvigionamento degli input per la creazione di valore; le esportazioni come la ricerca di diverse opportunità di mercato e volontà di sfruttare in nuove aree geografiche la potenzialità di un prodotto; gli accordi strategici e le joint venture come la volontà dell’impresa di entrare in nuovi mercati geografici dove però essa non è in grado di accedere; e gli investimenti diretti esteri come investimenti per la realizzazione di attività produttive in un Paese estero.
Dunning (1988) indica, inoltre, tre tipologie di investimenti che possono essere realizzati mediante l’internazionalizzazione:
Investment market seeking: entrare in mercati che hanno elevati tassi di
sviluppo e nei quali l’impresa può sfruttare vantaggi competitivi rispetto agli operatori locali.
Investment natural resources: assicurano all’impresa un accesso privilegiato
agli input produttivi acquisibili in maniera difficoltosa in altre aree.
Investment low cost seeking: insediamento di determinate attività in aree nelle
quali risultano meno costose, così da acquistare un vantaggio di costo su scala globale.
Spinte esterne
Internazionalizzazione del mercato e della filiera produttiva.
Espansione internazionale dei principali clienti dell’impresa.
Reazione a comportamenti competitivi di altre imprese.
Azioni di soggetti pubblici o privati a favore dell’internazionalizzazione delle
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Presentarsi di significative opportunità commerciali.
Secondo le teorie oligopolistiche, le imprese che crescono all’estero godono di qualche tipo di vantaggio monopolistico che consente loro di esercitare un potere di mercato, e quindi di conseguire extra-profitti.
Le cause del vantaggio monopolistico possono essere molteplici: possesso esclusivo di risorse; tecnologie di processo; prodotti; marchi; può risultare duraturo nel tempo, o esaurirsi dopo un certo periodo.
Tra i diversi contributi teorici riconducibili a questo filone interpretativo
troviamo i modelli di Vernon e Hymer, i quali risalgono alla seconda metà degli anni sessanta, per poi introdurre alcuni cenni all’approccio strategico, sviluppato a partire dagli ultimi anni ‘70 da Graham.
Nel modello di Vernon la teoria è basata sul concetto del ciclo di vita del
prodotto, realizzata da egli stesso attraverso l’individuazione di un particolare meccanismo di crescita internazionale dell’impresa innovatrice e una particolare direzione dei flussi di commercio internazionale.
L’idea di fondo è l’esistenza di una stretta relazione tra il ciclo di vita del prodotto, caratteristiche dei Paesi e l’espansione internazionale delle imprese. Vernon parte dalla constatazione del fatto che gli Stati Uniti si trovano in una situazione particolare rispetto al resto del mondo. Ciò emerge allorché si abbandoni l'ipotesi che la conoscenza sia un bene disponibile a tutti senza problemi.
Le imprese statunitensi, oltre che avere più facile accesso alle più prestigiose università del mondo (in quanto per esempio più facilmente di altri paesi, sono in grado di assumere personale che in queste università ha lavorato) e quindi ad essere maggiormente in grado di percepire le opportunità aperte dagli sviluppi della fisica, della chimica e delle scienze biologiche ecc.; esse sono anche a diretto contatto con il mercato interno più avanzato del mondo, che quindi conoscono bene. Tale mercato è caratterizzato da:
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ii) abbondante capitale e alto costo del lavoro.
Queste due caratteristiche determinano esigenze particolarmente avanzate da parte dei consumatori.
Vernon sottolinea come negli anni ’50 e ‘60 i consumatori americani fossero all’avanguardia nell’adottare la lavatrice o le magliette che non si stirano e le imprese nell’introdurre macchinari automatici sostitutivi di lavoro.
Le imprese USA sono quindi, in grado di capire l'opportunità di trasformare le nuove conoscenze in nuovi prodotti commerciabili, prima delle imprese di altri paesi.
La comunicazione col mercato potenziale spinge ad innovare e sviluppare nuovi prodotti. Non a caso negli Stati Uniti e non altrove sono state create la macchina per cucire, la macchina da scrivere, il trattore ecc. Così, per quanto riguarda la plastica, il suo sviluppo in Germania può essere associato alla mancanza di materie prime e quindi alla percezione da parte delle imprese tedesche di un'esigenza particolarmente forte del mercato locale.
In complesso, l'ipotesi di base del modello è che i produttori USA sono probabilmente i primi ad accorgersi dell'opportunità di introdurre nuovi prodotti destinati a consumatori ad alto reddito e a sostituire lavoro. Oltre ai costi dei fattori, forze localizzative potenti sono i problemi di comunicazione col mercato e le economie esterne, queste ultime intese come l’accesso alle fonti di nuove conoscenze e di capitale umano più avanzato.
In sintesi, il modello propone una dinamica localizzativa articolata su quattro fasi.
1. Nella prima fase (introduzione del prodotto sul mercato) il prodotto, introdotto nel Paese dal mercato più avanzato, è nuovo e non
standardizzato. Il suo disegno è ancora incerto, come nel caso delle prime automobili, prima dell'affermazione della carrozzeria metallica. Anche le tecniche di produzione sono in uno stato fluido, e
l'ottimizzazione dei costi è un problema che ancora non sussiste. C'è molta incertezza sulle dimensioni finali del mercato, sugli sforzi che faranno i rivali per accaparrarselo, sulle specifiche del prodotto che
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prevarranno. È più importante per l'impresa la capacità di essere
flessibile, di sperimentare vari modelli e materie prime e di apprendere, che non di ottimizzare. L'elasticità al prezzo del prodotto è bassa e le differenze di costo contano ancora poco. E' invece importante una localizzazione che favorisce un'immediata comunicazione col mercato e quindi l'impresa first comer sarà in esso localizzata, presto seguita da imitatori locali.
2. Successivamente, nella seconda fase (sviluppo) si afferma uno standard di base, anche se ciò non implica uniformità in quanto si possono moltiplicare le tipologie e le varianti di prodotto (per esempio, si afferma l'automobile con carrozzeria metallica, ma al tempo stesso il mercato si suddivide nei vari segmenti delle automobili sportive, di piccola cilindrata ecc.). La domanda cresce rapidamente. Diminuisce il bisogno di flessibilità. Si ricercano e si affermano economie di scala. Il problema dei costi diventa significativo. Si riducono le incertezze anche se non c'è ancora una vera concorrenza di prezzo. Comincia a manifestarsi una domanda del prodotto anche in altri Paesi, quelli a più alto reddito e più simili agli Stati Uniti anche in termini di alto costo del lavoro.
Si comincia quindi ad esportare, in teoria fino a che, supponendo che le capacità produttive non siano pienamente utilizzate per soddisfare il mercato interno, la somma dei costi di trasporto più i costi marginali di produzione sono inferiori al costo medio di produzione nei mercati ove si esporta. Quando diventano superiori, diventa conveniente investire all'estero. Se le capacità produttive domestiche sono pienamente occupate, il confronto è tra costi medi più costi di trasporto per la produzione interna e costi medi per la produzione estera, in quanto anche nel paese d’origine per esportare sarebbe necessario costruire un nuovo impianto.
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La convenienza o meno a moltiplicare i siti produttivi dipende in buona misura dall'importanza delle economia di scala (in rapporto
all'ampiezza del mercato).
Anche la forza della protezione brevettuale per il first comer entra in gioco. Se è debole e c'è minaccia di entrata da parte di investitori esteri, ciò può spingere a varcare i confini con investimenti diretti.
Va infine ricordato che quanto più la tecnologia è soggetta a vantaggi cumulativi ed a curve di apprendimento, tanto più il vantaggio
dell’impresa innovativa si accresce e si perpetua relativamente ai potenziali concorrenti ed imitatori, la cui entrata conviene cercare di ritardare.
3. Nella terza fase (maturità) le vendite sul mercato interno si stabilizzano, mentre le dimensioni dei mercati esteri continuano a crescere fino a permettere produzioni in loco efficienti, sfruttando le economie di scala. I costi diventano di primaria importanza e cresce l'intensità capitalistica dei processi. Inoltre i processi imitativi si rafforzano anche nei paesi esteri, rendendo possibile l’ingresso nel settore di produttori locali, anche perché i governi nazionali possono introdurre misure miranti a scoraggiare le importazioni e a incentivare la produzione domestica.
In complesso, crescono quindi in modo significativo gli incentivi e le ragioni per investire all'estero. L’impresa innovatrice, per mantenere la propria quota di mercato e difendersi dai potenziali entranti, investirà nelle fasi a valle della filiera (commercializzazione, assistenza e
manutenzione) e sostituirà le esportazioni con la produzione nei mercati esteri, trasferendovi le proprie tecnologie di processo. Poiché tuttavia le nuove entrate di produttori locali avvengono comunque, si creano flussi di esportazioni anche dai paesi second comer (europei) verso altri paesi terzi (altri europei) o gli Stati Uniti stessi.
4. Infine, nella quarta ed ultima fase (declino), la domanda del prodotto ha esaurito la crescita ed è ovunque stabile o in calo; i processi imitativi
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sono ormai completi, sia nel paese d’origine che nei paesi esteri, e la tecnologia è del tutto matura e standardizzata e perfettamente
accessibile agli imitatori locali. In questa fase le imprese decentreranno la produzione (almeno per quanto riguarda le fasi maggiormente
labour-intensive) nei Paesi ove i fattori produttivi hanno costo inferiore.
Pertanto, se nelle prime tre fasi il target è rappresentato da Paesi caratterizzati da modelli di consumo analoghi a quelli del Paese di origine dell’impresa multinazionale, ora l’IDE si rivolge
prevalentemente verso Paesi poco sviluppati e/o in via di sviluppo. In questa fase il Paese first comer diventa importatore netto.
In alternativa, può accadere che l’impresa abbandoni del tutto il mercato del prodotto in questione per attuare una strategia innovativa ed offrire nuovi prodotti sostitutivi, che consentano di ripercorre lo stesso iter basato sui vantaggi oligopolistici.
Quello del ciclo di vita del prodotto è stato per lungo tempo il modello interpretativo degli IDE più noto e generalmente accettato ed in effetti ha notevolmente contribuito alla comprensione dei processi di crescita
internazionale delle imprese statunitensi, perlomeno lungo il corso degli anni sessanta, quando gli USA rappresentavano di gran lunga la principale sorgente a livello mondiale del processo innovativo e degli IDE, che assumevano
prevalentemente la forma dell’investimento greenfield (ovvero della costruzione di nuove strutture produttive). Questo modello spiega ad esempio molto bene quanto è avvenuto nel settore della microelettronica. Alla fine degli anni cinquanta gli USA erano leader incontrastati del settore ed invasero il mercato europeo tramite esportazioni (seconda fase).
All’inizio del nuovo decennio, al fine di prevenire i processi di catching-up da parte dell’Europa e di evitare una politica incauta di licenze, che avrebbero potuto rafforzare la crescita dei produttori europei, le principali imprese statunitensi crearono propri stabilimenti nel vecchio continente (ad es. Texas
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Semiconductors in Scozia; Motorola in Francia, ecc.) (terza fase); nello stesso
periodo non ebbe invece successo il tentativo di penetrare il mercato giapponese con unità operative controllate direttamente, a causa della politica di difesa dei produttori nazionali effettuata dal governo nipponico.
Negli anni settanta, a fronte di processi imitativi assai più rapidi che in passato in via della progressiva maturazione del settore (l’ultima innovazione radicale, quella del microprocessore, risale infatti al 1971), e della crescita dei produttori europei (Siemens e Philips), comincia a manifestarsi la tendenza a mantenere i costi bassi mediante il decentramento della fase di assemblaggio (quella a più elevata intensità di lavoro) nei paesi del sud–est asiatico (Texas Instruments a Taiwan e Singapore; National Semiconductor a Hong Kong, Motorola in Corea) e la successiva reimportazione dei prodotti finiti nei Paesi sviluppati (quarta fase).
La capacità esplicativa del modello di Vernon è tuttavia venuta in parte
logorandosi mano a mano che la diffusione internazionale degli IDE si è ampliata in nuove direzioni ed ha coinvolto nuovi soggetti. Anche se il modello di Vernon è particolarmente adatto ad interpretare il contesto storico di riferimento e nel tempo si sono affermate altre tipologie di internazionalizzazione, non si può dire che esso non offra elementi che mantengono piena validità (quali il vantaggio che offre alle imprese USA l’operare nel paese al centro del sistema scientifico mondiale e in un mercato ricco e avanzato).
Il modello di Hymer
A differenza del modello di Vernon, il modello di Hymer pone al centro dell’attenzione l’impresa e non il singolo prodotto. Hymer parte dalla
constatazione che la teoria tradizionale (neoclassica) non spiega l’esistenza di investimenti reciproci tra i paesi avanzati; egli ricerca quindi nelle caratteristiche dell’impresa le determinanti del processo di internazionalizzazione.
In una prima fase, l’impresa cresce a livello nazionale attraverso un processo di concentrazione (aumento delle quote di mercato, acquisizioni e fusioni) che le
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consente di ottenere profitti sempre maggiori. Ad un certo punto, tuttavia, il processo di concentrazione a livello locale non può più essere spinto oltre,
(perché sono rimaste solo poche grandi imprese) e l’elevato profitto derivante dal grado di monopolio raggiunto è utilizzabile per investimenti all’estero, aventi come obiettivo quello di estendere il processo di crescita anche oltre frontiera. Quali sono allora i fattori che consentono all’impresa di accrescere il proprio potere di mercato? E soprattutto, quali sono i fattori che le consentono di
superare i naturali svantaggi che caratterizzano l’operare di un’impresa all’estero rispetto ai concorrenti nazionali (minore conoscenza del mercato e del contesto ambientale, rapporti più difficili con le istituzioni e con gli altri operatori locali)?
Hymer elenca una serie di potenziali vantaggi dell’IMN, tra i quali include anche
l’innovatività del prodotto, così riconducendosi alla teoria del ciclo di vita del prodotto di Vernon. Altri vantaggi possono essere il possesso di un marchio, di
skills specialistici, la capacità di raccogliere capitali, le economie di scala, le
economie di integrazione verticale, ecc.
Posta l’esistenza di tali vantaggi, l’impresa sceglierà la via delle esportazioni o quella della produzione in loco, a seconda delle condizioni del mercato in cui essa si trova ad operare. Imperfezioni di mercato connesse all’esistenza di barriere tariffarie e non tariffarie, elevati costi di trasporto e trattamenti fiscali discriminanti sono tutti fattori che tendono a spostare l’ago della bilancia verso la produzione locale. Una volta scelta la produzione in loco nei confronti delle esportazioni, l’IMN dovrà decidere se intervenire direttamente (tramite IDE) oppure cedendo licenze a produttori locali. Tale scelta sarà condizionata soprattutto dalla natura degli specifici vantaggi competitivi posseduti dall’impresa. In particolare, l’IDE risulterà favorito quanto più i vantaggi
competitivi dell’IMN consistono nel possesso di know-how specialistico e di altri
intangible assets, che difficilmente possono essere giustamente valorizzati
tramite la cessione di licenze.
L’espansione dell’impresa all’estero non è dunque, per Hymer, altro che un momento del processo di sviluppo dell’impresa, in senso geografico e secondo sentieri di crescita sia orizzontali che verticali. Le chiavi interpretative proposte
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sono la teoria dell’oligopolio e la teoria moderna della formazione e sviluppo delle grandi imprese multidivisionali.
L’approccio strategico
Sia in Vernon che in Hymer il fenomeno dell’internazionalizzazione è legato ad una scansione logica, che parte dal vantaggio competitivo iniziale dell’impresa e sbocca nel suo sfruttamento attraverso un allargamento del mercato della stessa. Questa visione non considera però che un certo settore, in un certo periodo storico, può non essere dominato dalle imprese localizzate in un unico paese, ma invece può essere caratterizzato dalla presenza di un forte oligopolio
internazionale.
Ciò genera fenomeni di competizione oligopolistica a livello internazionale attraverso IDE tesi a creare minacce e deterrenti contro eventuali aggressioni sui mercati locali, più che a sfruttare qualche elemento di opportunità.
In effetti, a partire dagli anni ‘70 si è verificato un considerevole aumento dell’attività multinazionale delle imprese di diversi paesi avanzati, con
investimenti sia in entrata che in uscita (con la parziale eccezione del Giappone, rimasto assai poco permeabile agli IDE).
L’entrata di un’impresa su un mercato estero ha un effetto di disturbo sulla situazione esistente su tale mercato, poiché la nuova entrante tende a sottrarre quote di mercato alle imprese locali.
Il disturbo nei confronti degli oligopolisti domestici sarà tanto maggiore quanto più l’impresa estera è efficiente ed è in grado di portare nel mercato locale
intangible assets che le consentono di ottenere vantaggi competitivi e di
differenziare i suoi prodotti, rendendoli preferibili agli occhi dei consumatori. L’ingresso sul mercato dell’impresa estera indurrà dunque le imprese locali a contromosse ostili, sia nel proprio mercato sia nel mercato di provenienza dell’impresa estera.
Nel mercato locale questo comportamento si esprimerà tramite fusioni
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La rivalità potrà essere estesa anche al mercato estero, se le imprese locali sono a loro volta in grado di sviluppare intangible assets rispetto alle imprese operanti sul mercato estero, e se, la stabilità di quest’ultimo può essere intaccata dalla loro entrata.
Analizzando gli IDE incrociati tra USA ed Europa e gli IDE europei negli USA, Graham (1978) ipotizza che i due fenomeni siano tra loro collegati; in
particolare, egli sostiene che gli IDE europei negli Stati Uniti possono essere visti come una mossa difensiva delle imprese europee rispetto agli IDE statunitensi nel Vecchio Continente.
Questa situazione di azioni e reazioni, mosse e contromosse di carattere strategico, si presta chiaramente ad essere interpretata con gli strumenti della teoria dei giochi. Sono infatti stati sviluppati numerosi modelli.
La teoria “eclettica” .
L’approccio “eclettico” proposto da Dunning nel 1981 opera un importante sviluppo della teoria dell’internazionalizzazione, introducendo nello schema interpretativo variabili di tipo localizzativo, riferite alle caratteristiche
macroeconomiche ed istituzionali dei paesi.
A tal fine, Dunning propone una griglia interpretativa a tre livelli, che spiega le scelte di internazionalizzazione delle imprese in funzione dell’esistenza di diversi tipi di vantaggi:
i) vantaggi da proprietà (ownership advantages), derivanti dal controllo proprietario di specifiche risorse aziendali trasferibili all’estero a basso costo; ii) vantaggi da internazionalizzazione, derivanti dall’integrazione nell’impresa di attività diverse;
iii) vantaggi localizzativi, connessi alle caratteristiche dei paesi ospitanti. I vantaggi da proprietà delle imprese includono tutti i fattori competitivi nei confronti dei concorrenti, quali l’innovazione tecnologica, il possesso di competenze e skills specialistici, l’organizzazione manageriale, le capacità finanziarie e le economie di scala. Questo è l’aspetto su cui maggiormente si è concentrato il filone delle teorie oligopolistiche, che sottolinea i vantaggi competitivi e/o il potere di mercato dell’impresa.
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I vantaggi da internazionalizzazione sono, invece, quelli che derivano
dall’integrazione nell’impresa di attività diverse (eventualmente anche in senso unicamente geografico), grazie allo sfruttamento di economie di varietà e alla riduzione del rischio di comportamenti opportunistici.
I vantaggi che derivano dal controllo gerarchico e dal coordinamento all’interno dell’impresa delle attività internazionalizzate, sono tali in confronto alla
situazione opposta, ossia quella di relazioni mediate dal mercato.
Il riferimento è alla cessione di licenze (trasferimento contrattuale di tecnologie a un licenziatario esterno attraverso il mercato) rispetto agli investimenti diretti (trasferimento interno di tecnologie attraverso il controllo gerarchico
dell’impresa).
I vantaggi dell’internazionalizzazione saranno tanto maggiori quanto più alta è la complessità delle risorse trasferite, in quanto il trasferimento attraverso il
mercato di tecnologie complesse può essere viziato da comportamenti opportunistici (tentativi delle parti di sfruttare senza buona fede a proprio vantaggio situazioni incerte; questi tentativi danno origine a costi di transazione superiori ai costi del controllo gerarchico).
I vantaggi specifici dei Paesi, di cui usufruiscono le imprese localizzate sul loro territorio (nazionali ed estere), saranno, invece, determinati da variabili quali la presenza di risorse naturali, la disponibilità, il costo ed il grado di qualificazione del lavoro, le infrastrutture, il potenziale scientifico-tecnologico nazionale, la dimensione dei mercati, la distanza (geografica e culturale) rispetto al paese investitore, i fattori istituzionali e le politiche pubbliche.
La scelta dell’impresa sulla modalità di internazionalizzazione (esportazione, IDE o trasferimento contrattuale di risorse attraverso le licenze) dipenderà dall’intreccio dei diversi tipi di vantaggi. Il possesso di vantaggi di proprietà nei confronti dei competitori esteri è un pre–requisito per tutte le forme di
internazionalizzazione; l’esistenza o meno di vantaggi da internazionalizzazione spiega il ricorso all’export ed all’IDE nei confronti delle licenze; i vantaggi localizzativi favoriscono la decisione di dare origine ad unità produttive all’estero tramite IDE e determinano in quale paese si investirà.
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Questo schema interpretativo, che nelle intenzioni di Dunning vuole costituire una teoria generale dell’internazionalizzazione, rappresenta un significativo passo in avanti nella comprensione dei processi di espansione internazionale dell’impresa, combinando in modo originale strumenti concettuali diversi. Esso è peraltro essenzialmente statico, in quanto spiega le condotte
internazionali delle imprese sulla base dell’esistenza di vantaggi dati, senza analizzarne gli sviluppi dinamici, né le interazioni con il processo di crescita internazionale. Ad esempio, la stessa capacità dell’impresa di produrre, commercializzare e fare ricerca su mercati più o meno ampi e diversificati
geograficamente ne condiziona le prestazioni e può diventare a sua volta fonte di vantaggio competitivo, attivando un circuito virtuoso tra vantaggi derivanti da
learning by doing da internazionalizzazione e competitività. Non solo la
dotazione ex ante a livello di impresa, di settore e di paese determina i flussi di internazionalizzazione, ma vale pure un processo causale inverso: i vantaggi da internazionalizzazione sono a loro volta generatori di competitività.
Il modello giapponese .
Il significato di questo gruppo di contributi teorici, che per molti aspetti si propongono come alternativi rispetto alle teorie oligopolistiche dell’impresa multinazionale ed alla teoria eclettica di Dunning, non può essere pienamente apprezzato prescindendo dalle specifiche caratteristiche storiche dell’IDE giapponese, per quanto riguarda la sua distribuzione geografica e settoriale, il
ruolo svolto dalle trading companies6 e le specificità dimensionali delle imprese
investitrici.
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Le trading companies sono grandi società commerciali che in generale fanno parte, con un ruolo molto importante, dei grandi gruppi sia verticali che orizzontali, chiamati keiretsu, che dominano l’economia giapponese. I keiretsu orizzontali sono formati da grandi imprese che operano in settori diversi (elettronica di consumo, auto, banche ecc.), e sono tenuti insieme da una struttura azionaria di partecipazioni incrociate e da un senso di reciproche obbligazioni. I keiretsu verticali sono invece costituiti da un raggruppamento di aziende minori sotto l'egida di una grande impresa (spesso a sua volta facente parte di un keiretsu orizzontale). Quest'ultima è spesso azionista e in grado di intervenire ai massimi livelli dirigenziali delle società "figlie", che svolgono il ruolo di fornitori.
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La “scuola giapponese” ha origine attorno alla metà degli anni settanta dai contributi di Kojima, secondo cui il modello dell’IDE giapponese, definito
trade–oriented, si differenzia profondamente dal modello statunitense, definito anti–trade–oriented.
In quest’ultimo caso, infatti, l’IDE è sostitutivo dei flussi di esportazione ed ha luogo prevalentemente nei settori più innovativi, nei quali gli Stati Uniti
detengono un vantaggio comparato. Al contrario, l’IDE giapponese tende ad
indirizzarsi verso i settori manifatturieri nei quali il vantaggio comparato del paese di origine va declinando: ad esempio settori maturi ad alta intensità di
lavoro, nei quali a causa delle dinamiche salariali e dell’andamento del tasso di cambio si sono annullati i vantaggi da costo di cui le imprese esportatrici giapponesi avevano goduto negli anni immediatamente successivi alla fine del secondo conflitto mondiale. In questo senso, l’IDE giapponese attuerebbe una
rilocalizzazione produttiva “creatrice di scambi” a favore di paesi dotati dei
fattori produttivi (come il lavoro) divenuti relativamente più scarsi nel paese d’origine, con effetti ottimizzanti sia per il paese di origine (che attua un processo di adattamento e ristrutturazione produttiva in risposta a mutamenti macroeconomici), sia per il paese di destinazione (che sviluppa un processo di industrializzazione export–oriented coerente con le proprie dotazioni fattoriali). Successivamente, lo stesso Kojima e Ozawa hanno analizzato il ruolo delle grandi trading companies come promotrici di operazioni internazionali da parte delle imprese manifatturiere (spesso di piccole o medie dimensioni) ad esse collegate.
All’interno dei vari gruppi, sotto l’egida della trading company si attuano processi di rilocalizzazione produttiva, che secondo Kojima e Ozawa
obbedirebbero appunto a criteri di dotazione dei fattori, con effetti ottimizzanti. Dal punto di vista metodologico il modello giapponese riprende le categorie concettuali tipiche del modello neo–classico cosiddetto “fattoriale”, in esplicita polemica con le teorie oligopolistiche ed in particolare con il modello del ciclo di vita del prodotto.
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Dal modello neoclassico è peraltro mutuata anche l’enfasi sugli effetti
“ottimizzanti” dell’IDE sia per il paese d’origine che per il paese di destinazione, ed il carattere irrealistico delle ipotesi semplificatrici sulle quali tale modello si basa, a partire dalla concorrenza perfetta.
Oltre a ciò, non pare adeguato il modo in cui questi autori utilizzano la variabile tecnologica nel loro modello. Il grado di intensità tecnologica viene infatti,
riferito a grandi settori produttivi e non a singoli prodotti o gruppi di prodotti. Gli indicatori di intensità tecnologica, già inadeguati a livello di comparti più
disaggregati, perdono così ulteriormente di significatività. Inoltre, l’approccio giapponese sembra del tutto ignorare l’esistenza dei costi transazionali e dei processi di internazionalizzazione quali determinanti microeconomiche dell’IDE. Inoltre, per quanto riguarda lo stesso Giappone, con il crescere del grado di
integrazione di tale paese nell’economia mondiale, a partire dalla metà degli anni ottanta si sono attuate nuove forme di internazionalizzazione di diversa natura, non interpretabili dal modello sopraesposto, quali gli investimenti delle grandi imprese del settore automobilistico (da Honda a Toyota) all’interno dei principali mercati di sbocco, in funzione di una solida conquista degli stessi (Stati Uniti, Europa). E’ chiaro che tali investimenti hanno tratto origine dal possesso da parte delle grandi imprese giapponesi di vantaggi competitivi spendibili
internazionalmente e non sono stati per nulla condizionati dalla ricerca di bassi costi. Benché l’orientamento degli IDE giapponesi verso i paesi in via di
sviluppo (PVS) ed i paesi in via di industrializzazione (NICs) resti il più elevato tra i principali paesi investitori, è decisamente cresciuta la quota di IDE diretti verso i paesi industrializzati, e gli Stati Uniti in particolare.
Tali orientamenti dell’IDE giapponese sembrano dunque più facilmente riconducibili ad altre teorie interpretative, ed in particolare alla teoria eclettica.
Il modello di Porter
Il modello di Porter (1990) è basato su due pilastri: il vantaggio competitivo delle imprese ed il vantaggio competitivo delle nazioni. Egli applica alla nazione i concetti relativi al vantaggio competitivo delle imprese, sostituendo al concetto
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di vantaggio comparato della nazione, il concetto di vantaggio competitivo della nazione.
La sua analisi si propone di identificare gli elementi fondamentali che si trovano alle radici dell’affermazione di un’industria nazionale, e spiega come questi elementi interagiscano tra loro.
Il vantaggio nazionale è determinato da un sistema di quattro elementi, conosciuto come diamante, che si rafforzano vicendevolmente:
Condizioni dei fattori;
Condizioni della domanda;
Settori industriali correlati e di sostegno;
Strategia, struttura e rivalità dell’impresa.
Secondo Porter, il vantaggio competitivo delle nazioni deriva, dalla performance delle aziende nazionali, che a loro volta risentono delle caratteristiche culturali, manageriali, delle risorse del know-how del Paese. Inoltre, per sostenere un vantaggio competitivo nel tempo, le nazioni devono avere un vantaggio dinamico, cioè devono nel tempo accrescere innovazione e potenziare le
competenze; la forza competitiva di una nazione è basata sul vantaggio dinamico che è riuscito a crescere, pur in presenza di un costo di risorse umane e
infrastrutture elevato e assenza di materie prime.
Sulla base di questi principi le nazioni devono sviluppare il vantaggio comparato, ossia produrre quei beni che possono utilizzare maggiormente le risorse del paese e dall’altra puntare ad un vantaggio competitivo dinamico. Ad esempio l’Italia ha un vantaggio comparato nelle imprese che basano il l
oro successo sulla creatività, innovazione, fantasia, piaceri della cucina. A questi elementi si aggiungono due variabili: il caso ed il governo. Si tratta di variabili interconnesse, ed i vantaggi di uno possono creare o potenziare i vantaggi degli altri.
Il modello elaborato da Porter ha avuto una adozione molto estesa, ribadisce la necessità di una analisi congiunta, quale condizione necessaria per interpretare le dinamiche della competizione internazionale.
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Tuttavia, molti concetti rilevanti non sono stati definiti precisamente, gli stessi
elementi del “diamante di Porter” 7rappresentano categorie di analisi molto
ampie, i cui confini si sovrappongono. Tale ambiguità si riflette sulla capacità esplicativa e soprattutto predittiva.
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Gli elementi del diamante di Porter sono: Il Caso; Il governo; le condizioni dei fattori; Strategia, struttura e rivalità delle imprese; Condizioni della domanda; settori, industriali correlati e di supporto.
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2.2. Obiettivi e rivisitazione della strategia.
Negli ultimi anni si è assistito ad un incremento costante degli scambi di
beni, di servizi e di capitali tra i vari Paesi. Questi sono quasi sempre cresciuti ad un tasso superiore a quello di espansione del PIL.
Se si assume la prospettiva economica generale, l’aumento degli scambi di beni fra Paesi diversi, quando avviene ad un tasso superiore a quello della crescita complessiva dell’economia (ovvero del PIL), significa, secondo il Dematté, che sempre di più “ciò che si produce in un luogo si consuma in un altro”; oppure “che le materie prime che si originano in un Paese vengono trasferite, per la loro successiva lavorazione, in un altro Paese”, oppure “ancora che componenti prodotte in un luogo vengano assemblate in un altro. Lo stesso vale per i servizi”.8
I motivi che possono spingere un’impresa ad un percorso di
internazionalizzazione sono diversi, tuttavia, dalla lettura e alla luce delle osservazioni empiriche dei comportamenti delle imprese è stato possibile
individuare le principali finalità9:
1. Market seeking; 2. Resource seeking; 3. Strategic asset seeking; 4. Tariff Jumping.
Si evince che la ricerca di nuovi mercati è uno degli obiettivi che spingono le imprese a porre in essere la scelta di internazionalizzazione, in genere accade dopo aver raggiunto la saturazione del mercato di origine; per mantenere elevati livelli di competitività diventa necessario l’ingresso in nuovi Paesi.
Con la seconda motivazione la strategia di internazionalizzazione diviene una via per accedere a fattori produttivi a condizioni di costo più vantaggiose di quelle che caratterizzano il mercato domestico.
8Si veda a riguardo: Strategie di internazionalizzazione a cura di Claudio Dematté e Fabrizio Perretti,
Milano, EGEA 2003
9
Enrico Cotta Ramusino, Alberto Onetti, (2005) Strategia d’impresa, obiettivi contestorisorseazioni
61
Ovviamente, il basso costo non è l’unico elemento che orienta la scelta
strategica, poiché a seconda del tipo di attività è rilevante la qualità delle risorse. L’internazionalizzazione può costituire un mezzo per il conseguimento di
obiettivi di carattere strategico; i motivi sottostanti tale scelta possono avere diversa natura.
Ad esempio, la conquista di mercato attraverso la presenza in nuovi paesi; oppure la necessità di seguire clienti importanti che si sono internazionalizzati; o ancora, può essere dettata da strategie imitative.
Alcune decisioni sono dettate dall’opportunità di sfruttare vantaggi fiscali o di accedere a particolari forme di incentivazione presente sui mercati esteri. Tale scelta può consentire di beneficiare di strutture normative, fiscali vantaggiose dell’atteggiamento favorevole da parte di alcuni Paesi verso gli investimenti esteri.
Le imprese sono consapevoli che operare in contesto internazionale comporti opportunità interessanti, ma anche notevoli minacce.
Si tratta di scelte che mettono in discussione tutta l’organizzazione aziendale, investono in maniera trasversale tutte le aree dell’azienda, e allora è importante porre in essere un’attenta pianificazione alla luce dei rischi e delle opportunità che potranno derivare da un processo di internazionalizzazione.
È fondamentale valutare la coerenza e la sostenibilità della strategia, e tutte le possibili implicazioni sulla formula imprenditoriale.
Le scelte di posizionamento spaziale per loro natura sono strategiche. Con riferimento ad un’azienda monobusiness , per strategia si intende “un sistema di scelte ed azioni che consente all’impresa di mantenere
simultaneamente e dinamicamente un posizionamento sul mercato di sbocco, sui suoi diversi mercati di rifornimento dei fattori di produzione e rispetto ai suoi principali interlocutori non commerciali tale da assicurare un vantaggio
competitivo difendibile e di conseguenza tre ordini di equilibrio che assicurano all’impresa sopravvivenza e sviluppo: l’equilibrio economico, quello finanziario e quello patrimoniale.”
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Ne consegue che la strategia è un sistema di scelte, da risolversi
simultaneamente, si caratterizzano per bassa reversibilità; la strategia crea le condizioni per la sopravvivenza e lo sviluppo dell’impresa, richiede
l’accettazione e la legittimazione da parte di tutti gli stakeholder. È importante tener presente alcuni presupposti:
-la strategia non è una scelta singola, ma un insieme di scelte;
- è un insieme di scelte che determinano il posizionamento strutturale rispetto ai mercati di riferimento;
- non riguarda scelte contingenti;
- consiste nella realizzazione dell’equilibrio simultaneo su tutti i mercati (sbocco, produzione, know-how, lavoro, capitali);
-mira a trovare un equilibrio dinamico tenendo conto delle condizioni interne ed esterne.
Il concetto di strategia si amplia quando si fa riferimento ad un’impresa multi business.
Il sistema di decisioni che qualifica la posizione strategica si definisce “formula imprenditoriale”, ossia le scelte di fondo relative ad i mercati a cui è rivolta la propria offerta, quindi il sistema competitivo in cui è inserita; i prodotti offerti con tutti gli elementi configuranti il sistema prodotto dell’impresa; la struttura che consente all’impresa di presentarsi al mercato con quella determinata offerta e agli attori sociali con quella proposta progettuale; il sistema degli attori sociali, a cui chiede contributi e consensi, con le loro aspettative nei riguardi
dell’impresa ed il loro potere di influire sulla vita della stessa; prospettive offerte e contributi richiesti agli interlocutori.
63 Gli elementi della F.I.
In sostanza, la formula imprenditoriale assume la configurazione di due
sottoinsiemi a forma circolare, facenti entrambi perno e ruotanti sulla struttura, che, mentre sintetizza la storia passata dell’impresa, ne rappresenta la capacità propositiva sia nei riguardi del sistema competitivo sia delle altre forze sociali, cui da i suoi contributi ricevendone impulsi, collaborazioni e risorse.
La strategia competitiva ha l’obiettivo di ottenere vantaggi competitivi sui concorrenti, che assicurino una soddisfacente redditività nel tempo ed il conseguimento degli obiettivi stabiliti dall’impresa.
I fattori che determinano la redditività nel medio- termine sono:
l’attrattività di settore, definita dall’intensità della competizione delle
forze competitive e determina il profitto potenziale del complesso delle
imprese del settore;10
la capacità competitiva dell’impresa, la quale determina la quota di
valore di cui l’impresa può appropriarsi11
In sostanza, la strategia deve definire i mercati in cui operare ed i vantaggi
competitivi da acquisire. Inoltre, per ottenere nel lungo termine risultati superiori alla media del settore, un’impresa deve acquisire un vantaggio competitivo sostenibile nei confronti dei concorrenti.
10
Porter 1982
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Alla luce di queste considerazioni, si può affermare che impostare una strategia di internazionalizzazione significa, in prima approssimazione, individuare il posizionamento spaziale che consente all’impresa di ottimizzare i suoi risultati. In termini più espliciti consiste nella definizione e nella scelta dei mercati geografici di approvvigionamento, dei luoghi nei quali investire in ricerca e sviluppo, dei punti nei quali dislocare la produzione, dei Paesi nei quali vendere i propri prodotti, nelle piazze finanziare dalle quali attingere il capitale di rischio e quello di credito. Queste scelte non sono disgiunte l’una dall’altra: proprio in questo discende la specificità strategica.
I processi di internazionalizzazione hanno natura strategica in quanto alterano, modificando, la struttura di fondo dell’impresa.
Se si assume che l’assetto strategico di un impresa sia caratterizzato dalla posizione della stessa sopra i seguenti assi:
1. geografico;
2. del prodotto offerto;
3. dei segmenti di mercato serviti; 4. delle tecnologie impiegate;
allora si può dire che l’internazionalizzazione può essere intesa come il movimento lungo uno dei quatto assi fondamentali – quello geografico ovviamente – che caratterizzano l’assetto strategico dell’impresa.
L’internazionalizzazione, però, non si esaurisce quasi mai in un semplice movimento lungo l’asse geografico, ma comporta spesso una revisione dell’intero assetto strategico d’impresa.
L’internazionalizzazione ha luogo, quindi, nel momento nel quale un’impresa amplia le sue politiche di approvvigionamento, di vendita o di trasformazione, di progettazione al di là dei confini dello Stato nel quale ha la sua sede.
Il superare i confini nazionali fa sorgere ovviamente dei problemi quali ad esempio l’ostacolo dei confini e delle dogane, i confini valutari, la discontinuità normativa e giurisdizionale, le barriere linguistiche e la discontinuità nel
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Per questo motivo una delle prime valutazioni da fare quando si
pianifica l’internazionalizzazione, dovrebbe essere quella di accertare se
l’ingresso in nuovi Paesi comporti mutamenti radicali nel modo di far business dell’azienda, oppure si tratti solamente di una mera estensione territoriale dell’attività aziendale.
Ogni strategia di internazionalizzazione deve essere fondata su una attenta
analisi. È evidente infatti che l’ingresso in nuovi contesti porti con se la necessità di conoscere accuratamente le caratteristiche di una realtà diversa da
quella in cui l’azienda è abituata ad operare.
Spesso si rilevano, soprattutto per quanto riguarda le pmi, modalità di internazionalizzazione simili ad un “learning by doing”,
piuttosto che incentrate su forme programmate di tipo razionale e sistematico. Questo modello operativo non influenza solamente il modo nel quale viene affrontato il processo decisionale, ma anche le modalità attraverso le quali viene poi realizzato l’accesso ai mercati esteri, una volta presa la decisione di estendere ad essi gli approvvigionamenti, la produzione, la vendita o tutte queste funzioni. Nell’ipotesi sopra descritta, a spingere l’azienda verso i mercati stranieri
possono essere, secondo le circostanze, fattori diversi: un’informazione, talvolta occasionale, che segnala la presenza in certi mercati un minor costo dei fattori o di maggiori prezzi dei prodotti, la consapevolezza che i costi potrebbero
diminuire se la produzione (e per conseguenza la vendita) fosse fatta su più larga scala, le pressioni causate dalla saturazione del mercato interno.
Talvolta, il processo viene innescato su basi occasionali, altre volte prende il via da qualche azione – come la partecipazione ad una fiera – che espone l’impresa all’attenzione di potenziali fornitori o clienti esteri, senza però una scelta
preliminare né del campo geografico a cui si vuole accedere né del tipo di clienti o fornitori che si vogliono attrarre; altre volte invece l’impresa mette in moto azioni mirate verso specifici Paesi – con viaggi o partecipazioni a fiere in loco – ma senza averli scelti preventivamente attraverso un’attenta analisi.
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Questi primi contatti – occasionali o deliberati – producono risultati a volte positivi, a volte negativi, ma generano sempre una massa di informazioni
aggiuntive che, se opportunamente raccolte e gestite, agiscono come meccanismo di orientamento per i passi successivi.
Nessuna, o quasi nessuna, delle imprese minori imposta il processo di internazionalizzazione facendolo precedere da un’analisi preliminare, che consenta di muovere i primi passi su basi più ragionate e più sistematiche. Secondo il giudizio fatto dal Dematté, sul comportamento delle aziende che hanno attuato di strategie di internazionalizzazione di successo, però, si può notare come queste abbiano lasciato spazi per immettere nei processi di
internazionalizzazione “elementi di maggiore razionalità”, non dimenticandosi però che tali processi sono necessariamente caratterizzati da “dinamiche
omeostatiche che nessun meccanismo razionale può anticipare perché basate su informazioni che si precisano man mano che l’internazionalizzazione si
sviluppa”.12
Si evince l’importanza di indagare attentamente sulle modalità che consentono di acquisire informazioni al minor costo possibile, sulle strutture ed i processi organizzativi.
Inoltre, è importante individuare quali siano le attitudini personali che
permettono una valutazione ed un controllo, non solo a priori ma anche in itinere.
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2.3. Le diverse strategie che le imprese possono adottare in nuovi mercati. Una strategia di internazionalizzazione può essere realizzata secondo forme differenti, tenendo in considerazione la complessità di insieme, ad esempio il tipo di attività svolta nell’area geografica estera, i soggetti coinvolti ed altre variabili afferenti all’attività d’impresa.
Le principali tipologie di internazionalizzazione sono :
transazionale/commerciale: esportazioni (-dirette; - indirette);
relazionale: nuove forme (-equity;- non equity):
gerarchica: IDE, investimenti diretti all’estero, (greenfield; acquisizioni)13.
La prima delle modalità elencate costituisce la forma più flessibile di
realizzazione della strategia, (non prevede investimenti diretti all’estero) : ossia, l’internazionalizzazione riguarda i prodotti, mentre la struttura dell’impresa resta domestica.
L’esportazione può a propria volta essere gestita in modo diretto o indiretto: nel primo caso l’impresa sostiene le proprie esportazioni tramite personale
commerciale proprio, dedicando una via prevalente o esclusiva ai mercati esteri; nel secondo caso, invece, l’imprese delega la vendita dei propri prodotti ad agenti indipendenti, a imprese specializzate indipendenti o a produttori esteri, che
offrono sul mercato locale prodotti complementari.
La realizzazione di investimenti diretti all’estero, IDE, rappresenta invece
un’opzione maggiormente impegnativa, sia se effettuata mediante greenfield che tramite soggetti giuridici già esistenti, caratterizzata da minore reversibilità nel
breve termine.14
La scelta dell’impresa all’estero con un soggetto giuridico di cui si detiene il controllo, costituisce una scelta di campo difficilmente reversibile. I contratti di agenzia o di distribuzione, invece, possono essere disdetti in tempi minori e a costi relativamente contenuti, lo smantellamento di una filiale è un’operazione
13 Enrico Cotta Ramusino, Alberto Onetti,Strategia d’impresa, Il Sole 24 ore Libri 14
Gli investimenti sui mercati esteri determinano in genere i “Sunk costs”- costi non recuperabili quando si dismette un’attività economica precedentemente intrapresa- che rappresentano una barriera
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che in genere richiede orizzonti temporali lunghi e può essere associata a perdite significative.
Tuttavia, si tratta di due soluzioni estreme, tra le quali è possibile rinvenire una pluralità di soluzioni intermedie, che in letteratura vengono definite in diversi modi, ossia “nuove forme di internazionalizzazione” o modalità “relazionali”, per indicare da un lato una maggiore strutturazione rispetto alla modalità
commerciale pura (esportazioni) e , dall’altro la minore rigidità rispetto alla soluzione gerarchica (investimenti diretti).
Le nuove modalità di internazionalizzazione possono essere classificate considerando come variabile discriminante l’impegno del capitale da parte dell’impresa che si internazionalizza.
Tra le modalità che prevedono l’impiego di capitale ( le cosiddette forme equity) troviamo:
l’acquisizione di partecipazioni azionarie in percentuali tali da non garantire il
controllo dell’impresa partecipata;
gli scambi di partecipazioni (ossia, le assunzioni di quote di una società estera
in cambio della cessione di proprie quote);
le joint venture (costituzione di una nuova impresa insieme ad altre imprese
con quote di partecipazione paritarie).
L’elemento in comune delle tre operazioni è la realizzazione di un
investimento diretto all’estero, senza la possibilità di esercitarne un controllo esclusivo sullo stesso.
Il vantaggio principale che ne deriva è un impegno economico ridotto rispetto ad altre modalità, lo svantaggio è connesso all’obbligo di dover condividere le decisioni strategiche con gli altri.
Tra le forme di internazionalizzazione di tipo non-equity si annoverano le seguenti:
gli accordi di partnership strategica e di trasferimento delle conoscenze, ossia
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congiuntamente conoscenze su tecnologie, processi produttivi, tecniche di distribuzione ecc;
accordi di cross licensing, contratto tramite il quale un’azienda (licensor)
trasferisce ad un’altra (licensee) il diritto di utilizzare il proprio know how o
altri asset intangibili quali patent, diritti d’autore, marchi;15
gli accordi Oem (Original equipment manufacturing), ossia furniture i cui beni
vengono integrati e venduti all’interno dell’offerta dell’impresa cliente con il marchio di quest’ultima;
i contratti di production sharing, ossia uno dall’altro un accordo in base al
quale un’impresa fornisce ad un’altra gli impianti, tecnologie e/o servizi a fronte dell’impegno di quest’ultima di corrispondere, in un arco di tempo definito, parte della produzione così ottenuta;
il franchising 16( forma di collaborazione per la distribuzione di beni o servizi
di un’impresa- franchisor- da parte di uno o più affiliati –franchisee- indipendenti uno dall’altro.
L’elemento che accomuna queste diverse forme è un’elevata strutturazione e stabilità nel tempo: costituiscono, pertanto, una via intermedia tra esportazione e investimenti diretti, consentono di beneficiare di una serie di vantaggi in termini di contenimento dei costi fissi, risparmio delle risorse impiegate, rapidità di attuazione, flessibilità e reversibilità del processo.
L’impresa attraverso il tipo di strategia che intende adottare determina il canale di entrata nel Paese estero, il quale a sua volta si articola su due livelli: 1. canali tra Paesi;
2. canale all’interno dei Paesi;
Il primo è quello attraverso cui una determinata offerta è trasferita dal Paese in cui è realizzata a quello dove essa è venduta. Il secondo, descrive il modo
15
Champion Usa (Gruppo sara Lee) nel corso degli anni Ottanta ha subito un drastico
ridimensionamento delle proprie esportazioni a seguito della forte rivalutazione del dollaro. Per far fronte a questa situazione Champion ha deciso di affidare una licenza di produzione in esclusiva ad alcuni suoi distributori nazionali.
16
Starbucks, nata come azienda fornitrice di caffè tostato, dal 1987 ad oggi, è passata, applicando la formula del franchising, da 11 negozi a Seattle a oltre 3300 nel mondo.
70
attraverso cui l’offerta raggiunge la sua domanda finale all’interno del Paese estero dove è stata precedentemente trasferita.
Il grado di sviluppo della presenza internazionale di un’impresa è correlato alla complessità dell’insieme dei canali di entrata nel Paese estero.
La produzione e lo sviluppo di risorse e competenze concentrate nel paese di origine di un’impresa fanno si che l’espansione estera di quest’ultima sia di tipo commerciale e che le modalità di ingresso siano rappresentate da esportazioni dirette o indirette.
Le esportazioni indirette possono essere attuate secondo tre modalità caratterizzate dalla natura del soggetto che interviene a supporto:
consorzi e altri organismi;
società specializzate indipendenti;
intermediari;
la scelta avviene sulla base della complessità della loro organizzazione e l’acquisizione della proprietà di beni che vengono venduti all’estero. Le esportazioni indirette si manifestano quando il produttore non gestisce direttamente le operazioni commerciali con l’estero, ma si avvale di operatori indipendenti operanti nel suo stesso paese, i quali svolgono un’azione di
intermediazione commerciale, acquistando i beni dal produttore e rivendendoli in mercati esteri.
In questo processo i soggetti di cui l’impresa si avvale sono gli intermediari internazionali, ossia quei soggetti che svolgono attività commerciale tra Paesi diversi, agendo da canale di collegamento tra uno o più produttori in un determinato Paese ed i compratori esteri.
Le tipologie di intermediari internazionali sono 3:
buyer;
broker;
export manager company.
Il buyer è un soggetto indipendente che risiede in un determinato Paese e rappresenta un certo numero di imprese estere interessate ad avere un contatto
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diretto e continuo con i potenziali fornitori operanti nella sua stessa area geografica.
Essi identificano le offerte più convenienti per soddisfare le esigenze congiunturali e i prodotti e marchi da inserire nel proprio portafoglio per
migliorare la differenziazione dell’offerta. Tali soggetti operano per conto degli acquirenti esteri, sulla base di una precisa “lettera di intenti” che indica le condizioni basilari della transazione che essi possono impostare con i fornitori del proprio Paese.
Il Buyer rappresenta un veicolo molto efficace per un’impresa che intende sviluppare una clientela estera in un certo Paese.
Il broker è un soggetto che svolge la funzione di collocare il produttore con il potenziale compratore estero, e di fornire un eventuale rapporto di consulenza per favorire la transazione tra i due. Egli opera sia dal lato delle importazioni che esportazioni, svolgendo un lavoro di selezione tra le domande/offerte migliori.
L’export management company è un’impresa commerciale che opera nei mercati
internazionali come unità di vendita per un determinato numero di produttori, operanti a livelli diversi della stessa filiera. Tale tipologia di intermediario opera all’estero per conto di ogni produttore, gestendo le relazioni commerciali in un mercato straniero.
Le esportazioni indirette possono avvenire anche mediante società specializzate, ad esempio le trading companies, ossia società operanti nella vendita con
compratori internazionali di prodotti realizzati in un determinato Paese.
Le funzioni più rilevanti che esse possono svolgere vanno dalla valutazione della convenienza dei mercati esteri alla creazione di pacchetti di finanziamento per le imprese clienti, fino ad arrivare alla ricerca di partner nei mercati esteri per la realizzazione di accordi commerciali.
I consorzi per l’esportazione sono delle strutture che hanno la funzione di aggregare un adeguato numero di operatori in maniera tale da raggiungere la dimensione critica necessaria per rendere convenienti ed economicamente sostenibili le operazioni necessarie per vendere con successo nei mercati esteri.
72
Tali strutture possono essere sia monosettoriali, ossia raggruppano imprese dello stesso settore, o plurisettoriali, costituiti quindi da aziende di settori diversi. Un’ulteriore classificazione può essere effettuata anche su base territoriale, raggruppando quindi imprese di una certa filiera produttiva collocate in uno stesso ambito geografico.
In fine, le esportazioni indirette possono essere attuate anche mediante un accordo tra due soggetti, il Piggyback. Tale accordo identifica un rider e un
carrier, dove il primo vende i propri prodotti in un mercato estero attraverso la
struttura distributiva del secondo.
Il carrier è normalmente un’impresa di grandi dimensioni con una struttura organizzativa internazionale già consolidata, mentre il rider al contrario è solitamente un’azienda di modeste dimensioni, nella fase iniziale del suo processo d’internazionalizzazione.
Condizione fondamentale per l’attuazione di quest’accordo e che il prodotto del rider non sia in competizione diretta con quelli del carrier.
Dal punto di vista del carrier, il Piggyback determina tre vantaggi essenziali:
Estensione della gamma della propria offerta e delle possibili sinergie
commerciali che ne conseguono.
Migliore utilizzazione della capacita distributiva internazionale, con benefici
in termini di economie di scopo e di sviluppo organizzativo.
Opportunità di “attaccare” determinati concorrenti in aree di business per loro
rilevanti.
Attraverso le esportazioni dirette, l’impresa vende nei mercati esteri attraverso una propria struttura commerciale. Tale struttura può sia arrivare direttamente al cliente finale, sia interagire con il sistema della distribuzione.
Il passaggio alla forma diretta da quella indiretta delle esportazioni apporta notevoli vantaggi per un’impresa. Tali vantaggi possono essere quantificati sia in termini di semplificazione del canale di entrata nel Paese estero e il conseguente recupero di margine economico sulle vendite estere, sia attraverso un maggior controllo su tali canali e quindi sull’operato dei distributori locali.
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Le modalità di esportazioni dirette sono diverse:
La rete vendita per estero;
Ufficio di rappresentanza;
Centrale logistica;
La sussidiaria commerciale estera (brench);
Il commercio elettronico;
La rete vendita per estero:
E’ noto come le esportazioni dirette siano attuate attraverso una rete di vendita costituita appositamente all’estero. Tale rete può essere formata o da dipendenti dell’impresa, oppure da personale indipendente legato all’azienda da specifici contratti di collaborazione.
Gli agenti indipendenti vengono individuati direttamente nel Paese estero dove l’impresa intende operare, hanno il compito di individuare potenziali clienti, realizzare le vendite e coordinare le attività di consegna al cliente.
La costituzione della rete di agenti interni per l’estero rappresenta il primo rilevante cambiamento organizzativo nel processo d’internazionalizzazione dell’impresa; essi si occupano principalmente di tutte le attività connesse alla vendita (ricerca acquirenti, comunicazione e produzione, negoziazione e chiusura dell’ordine, assistenza post vendita).
Ufficio di rappresentanza:
La costituzione di un ufficio di rappresentanza commerciale in un Paese estero si verifica in tre situazioni:
Presenza dell’impresa nel mercato estero significativa in termini di volumi,
valore delle vendite e numerosità degli interlocutori locali con cui essa ha relazioni;
le caratteristiche del business richiedono una presenza “strutturata”
dell’impresa;
l’impresa intende raggiungere una presenza commerciale significativa nel
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La rappresentanza commerciale non ha personalità giuridica, essa può svolgere cinque funzioni rilevanti:
- realizzazione di studi e ricerche sul mercato locale e sulle dinamiche della competizione e predisposizione di rapporti informativi alla casa madre; - sviluppo di relazione con attori locali rilevanti;
- coordinamento della rete di attività della rete di venditori dell’impresa del mercato estero
- organizzazione delle attività logistiche connesse al trasferimento di prodotti dagli stabilimenti di produzione fino ai magazzini degli acquirenti nel mercato estero;
- predisposizione delle condizioni per la costituzione di una struttura operativa giuridicamente autonoma per la gestione delle attività commerciali nel Paese
Centrale logistica:
La centrale logistica dell’impresa esportatrice rappresenta il luogo dove viene immagazzinata la produzione per l’estero e dove questa e successivamente distribuita ai compratori di uno o più mercati geografici stranieri.
La funzione di questa struttura e di fornire una maggiore rapidità di distribuzione dei prodotti nel mercato estero, riducendo l’impatto del limite tipico delle
esportazioni, relativo ai tempi lunghi necessari per trasferire il prodotto dallo stabilimento di produzione alla struttura del compratore estero.
La sussidiaria commerciale estera:
Le esportazioni all’interno di un determinato Paese sono realizzate attraverso la costituzione al suo interno di una sussidiaria operativa cui sono trasferite gran parte delle funzioni strategiche in altri casi svolte dall’unita organizzativa per le esportazioni.
La sussidiaria ha una propria identità societaria e non agisce come semplice unità organizzativa che supporta la realizzazione di un certo insieme di attività
necessarie per attuare le vendite sul mercato estero, ma essa piuttosto opera secondo un proprio piano strategico per la realizzazione di precisi obiettivi commerciali ed economici.
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Una delle ragioni principali che portano le imprese a costituire una sussidiaria commerciale estera è la possibilità di ridurre il complessivo carico fiscale dell’impresa, trasferendo quote di costi alle aziende che operano in Paesi con elevata tassazione sui redditi dell’impresa e massimizzando la redditività di quelle che invece si trovano nei Paesi dove tale tassazione è minore.
Tale struttura deriva, quindi, dalla scelta di esternalizzazione delle attività di commercializzazione dei prodotti dell’impresa nei mercati stranieri. Tale scelta può essere giustificata da tre punti di vista:
La specializzazione delle competenze
La focalizzazione competitiva a livello di singolo mercato geografico
L’aumento della flessibilità organizzativa e strategica dell’impresa nel suo
complesso
Il commercio elettronico:
Negli ultimi anni il grande sviluppo del commercio elettronico ha determinato il manifestarsi di una nuova rilevante modalità di esportazione diretta, internet, attraverso la quale l’impresa può comunicare la propria offerta a compratori potenziali in tutto il mondo, e gestire la transazione commerciale con acquirenti in Paesi anche molto lontani dal proprio.
Tale tipologia di commercio offre oltre alla riduzione dei livelli d’intermediazione, numerosi vantaggi:
Possibilità di raggiungere una presenza di mercato globale;
Riduzione dei costi di comunicazione;
Possibilità di stabilire una relazione diretta e continua con il cliente;
Aumento della rapidità di risposta alle esigenze espresse dal cliente;
Avendo ormai una panoramica complessiva ed esaustiva riguardo alle
esportazioni dirette e indirette si procederà di seguito ad analizzare gli accordi strategici e le joint venture che un’impresa può instaurare per accedere a mercati esteri.
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Gli accordi strategici possono essere definiti come intese di medio – lungo termine tra due o più imprese, strutturate contrattualmente per il raggiungimento di obiettivi ben determinati a cui sono interessati tutti i partner coinvolti.
Risulta necessario affermare che essi si distinguono dalle intese tra imprese esportatrici e i distributori locali in un certo Paese estero, poiché i contenuti non sono solo di natura commerciale, si ha una proiezione dell’accordo verso il medio e lungo termine che tende a vincolare reciprocamente le scelte strategiche dei partner coinvolti, si ha l’esistenza di una governance dell’accordo in base alla quale le azioni di ciascun partner sono stabilite nell’ambito dell’accordo, ed in fine l’investimento delle risorse da parte di tutti gli attori coinvolti sono
direttamente finalizzate all’attuazione degli obiettivi dell’accordo. Le tipologie di accordi strategici sono le seguenti:
Il licensing; Il franchising; Il contratto di produzione; Il contratto di gestione; Le alleanze commerciali; Il licensing:
Il licensing è un contratto in base al quale un soggetto di un Paese (licenziante) attribuisce a un soggetto di un altro Paese (licenziatario) il diritto di utilizzare e sfruttare economicamente, in un determinato ambito territoriale, specificati prodotti o asset di sua proprietà.
Questo tipo di accordo permette, quindi, a un’impresa di diffondere a livello internazionale la propria offerta attraverso l’azione diretta di una o più imprese localizzate nei Paesi esteri.
Oggetto del contratto è la cessione di asset (marca, logo, tecnologie), in cambio dei quali il licenziatario s’impegna ad attuare determinate azioni di sviluppo nel mercato interno e pagare al licenziante dei compensi legati ai risultati economici.