• Non ci sono risultati.

CAPITOLO 2: LA ‘NUOVA’ TEORIA DELLE AREE VALUTARIE

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "CAPITOLO 2: LA ‘NUOVA’ TEORIA DELLE AREE VALUTARIE"

Copied!
28
0
0

Testo completo

(1)

1

CAPITOLO 2: LA ‘NUOVA’ TEORIA DELLE AREE VALUTARIE OTTIMALI

2.1. Un nuovo approccio: la teoria della credibilità e la critica alla ‘vecchia teoria’

2.2. L’Eurozona è un’area valutaria ottimale? Analisi dei costi e dei benefici. Un confronto

2.3. Le unioni monetarie incomplete: come completarle?

2.4. Il futuro dell’Unione monetaria europea: risultati ottenuti e prospettive

Premessa

Scopo del presente capitolo è quello di evidenziare chiaramente il ‘nuovo’ approccio della teoria sulle aree valutarie ottimali, che già ha sostituito la tradizionale teoria dai primi anni Ottanta del XX° secolo: la teoria delle credibilità. Cercheremo di delineare le caratteristiche principali- e quindi le principali critiche della ‘nuova’ prospettiva teorica- della teoria delle aspettative razionali, per poi passare a tracciare il legame esistente fra questa e la teoria della credibilità, basato sull’assunto fondamentale dell’incoerenza temporale (“time inconsistency”). In seguito, ci porremmo numerosi interrogativi, tra i quali: la rinuncia alla discrezionalità monetaria per stabilire delle regole fisse, come l’adesione ad un’unione monetaria, ha delle conseguenze positive? Quali sono le condizioni che devono essere soddisfatte affinché non sia eccessivamente costoso rinunciare all’indipendenza monetaria e all’uso del cambio? Quando la rinuncia all’indipendenza monetaria può risultare costosa? I costi risultano veramente essere superiori ai benefici? Verrà effettuato un confronto con dei modelli esemplificativi per studiare nel dettaglio se l’imposizione di regole fisse possa portare a dei benefici superiori alla discrezionalità. Inoltre, analizzeremo un ipotetico scenario in cui delineeremo una possibile strategia per poter completare possibili aree valutarie incomplete. E cercheremo di tracciare una sorta di

(2)

2

“bilancio” sui risultati che l’Unione monetaria ha raggiunto e quelle che saranno le prospettive, il tutto in una sorta di contrasto tra presente e futuro.

2.1. Un nuovo approccio: la teoria della credibilità e la critica alla ‘vecchia teoria’

Domandandosi quali siano le caratteristiche necessarie affinché non sia eccessivamente costoso rinunciare all’indipendenza monetaria, la teoria delle aree valutarie ottimali si concentra principalmente sui costi, piuttosto che sui benefici dell’adesione. Volendo seguire questo approccio, è possibile osservare facilmente che la rinuncia all’indipendenza monetaria non è costosa quando la discrezionalità della politica monetaria risulta inefficace o addirittura deleteria.

Questo è il filone di pensiero dal quale Tavlas1 introduce la teoria della credibilità, che assume una prospettiva completamente differente, e da diversi lati anche critica, dalla tradizionale teoria delle aree valutarie ottimali vista nel capitolo precedente. Lo scopo primario della teoria di Tavlas è quello di prevenire l’inflazione, e solamente in secondo luogo, quello di stabilizzare l’abilità delle autorità di raggiungere gli obiettivi di stabilità e smorzare le fluttuazioni del ciclo economico. Questo orientamento ha lo scopo di ricercare la stabilità dei prezzi nel medio periodo e successivamente, l’eliminazione del rischio di tasso di inflazione della politica monetaria discrezionale, che nasce dagli incentivi a monetizzare il debito e dal tentativo di sovrastimare l’economia. Secondo l’approccio della teoria della credibilità, è lo stato delle aspettative del settore privato che determina il tasso di inflazione di un dato paese. Queste aspettative si formano principalmente in base all’assetto istituzionale del paese. Dunque, se ipotizziamo che la banca centrale non goda di un’elevata reputazione anti-inflazionistica, in tale contesto, il

1 Tavlas, George (1993), The ‘new’ theory of optimum currency areas, The world economy, vol. 16, pp.

(3)

3

permanere della discrezionalità porterà solo ad un aumento del tasso di inflazione (a parità di produzione di pieno impiego).2

Facciamo un piccolo passo indietro e seguiamo un filo logico. La teoria delle aspettative razionali, iniziata da Lucas (premio Nobel per l’Economia nel 1995), Sargent e Barro sulla base del contributo degli inizi degli anni Sessanta di Muth, implica che il settore privato ‘guardi avanti’ e formi le proprie aspettative sulle politiche future usando in modo efficiente, senza compiere errori, l’intero set di informazioni di cui dispone. Ciò ci conduce alla conclusione di inefficacia della politica monetaria attesa dal settore privato: la politica monetaria avrà i suoi effetti se e solo se riuscisse a “sorprendere” il settore privato. Se il settore privato si attendesse una possibile espansione monetaria, ne anticiperà senza dubbio gli effetti inflazionistici. In questo modo, sia il livello dei prezzi e dei salari si adegueranno di conseguenza al livello dell’offerta di moneta. Molte saranno le critiche avanzate a tale approccio, sia per lo scarso realismo delle assunzioni, sia per le implicazioni che ne derivano.

Poco più tardi, la teoria delle aspettative razionali implica un problema che lo stesso Lucas – come dicevamo, uno dei pionieri di tale teoria – individua già nel 1976. Egli notò che la previsione di una politica ottimale non potrà mai essere fatta basandosi su parametri stimati sul passato, perché le reazioni dei mercati producono- e produrranno – nuovi parametri. In sostanza, ciò che Lucas ci vuole dimostrare, è che il calcolo delle politiche ottimali non può essere fatto basandosi sui parametri stimati per il passato. Una politica che si riteneva efficace sulla base dei ‘vecchi’ parametri, potrebbe non esserlo altrettanto quando la reazione dei mercati all’annuncio di politiche future produce ‘nuovi’ parametri, più o meno reattivi dei primi.

Per meglio comprendere tale aspetto, sarà necessario chiarire perché la politica monetaria possa essere soggetta a problemi di credibilità. Tale tematica fu

2 Si veda a riguardo Della Posta, Pompeo (2003), ‘Vecchie e nuove teorie delle aree monetarie ottimali’,

Discussion papers del Dipartimento di scienze economiche, Università di Pisa, n. 5, http://www.ec.unipi.it/documents/Ricerca/papers/2003-5.pdf , cit., pp. 6-7.

(4)

4

inizialmente analizzata da Kydland e Prescott3, che introdussero il problema dell’incoerenza temporale (“time inconsistency”). Secondo Kydland e Prescott, il governo tra un beneficio o un vantaggio sul settore privato, perché dopo aver annunciato la propria politica ottimale, e osservata la reazione del settore privato all’annuncio, riottimizza successivamente la decisione presa in fase iniziale. Ecco che ci sarà sempre un incentivo per il governo a modificare la decisione presa. Quindi, la decisione ottima sarebbe temporalmente incoerente perché col passare del tempo e col modificarsi della reazione del settore privato, esiste l’incentivo a modificarla. Tanto che, si parla di ‘equilibrio fooling’, quando il settore privato crede nella decisione ottimale iniziale del governo. Solo una politica coerente temporalmente (che non comporti l’incentivo ad una riottimizzazione futura) potrà essere creduta: si parla a riguardo di ‘equilibrio discrezionale’. Mentre, per sfuggire dal problema dell’incoerenza temporale, il governo dovrebbe seguire regole semplici e fisse alle quali il settore privato potrebbe adeguare le proprie aspettative. Vari e numerosi possono essere gli esempi quando si parla di incoerenza temporale. Il primo esempio si ritrova probabilmente nell’episodio raccontato da Omero nell’Odissea su Ulisse e le sirene4. Un altro esempio può

essere quello del famoso “dilemma del prigioniero” oppure, del problema della pianura alluvionale nella quale sia posto il divieto di costruire case poiché le possibili inondazioni potrebbero poi distruggerle. Il divieto viene rafforzato con la minaccia da parte del governo di far abbattere le case stesse. È ben possibile, però, che la minaccia non sia ritenuta credibile e che, una volta costruite le case da cittadini indisciplinati, il governo trovi più conveniente fare quello che non avrebbe voluto fare all’inizio: iniziare lavori di rafforzamento e protezione degli argini per evitare che le acque invadano la pianura alluvionale. È possibile anche

3 Si veda Kydland, Finn e Prescott, Edward (1977), ‘Rules rather than discretion: the inconsistency of

optimal plans’, The journal of political economy, Volume 85, Issue 3, pp. 473-492.

4 Sebbene Ulisse, informato dalla maga Circe, sapesse, al momento della sua partenza, che non avrebbe

dovuto cedere alle lusinghe del canto delle sirene perché ciò lo avrebbe condotto a morte certa, egli sapeva anche che una volta che si fosse trovato di fronte a loro avrebbe ‘riottimizzato’, dimenticando le informazioni in suo possesso e gettandosi fra i flutti. Ulisse era perfettamente consapevole di soffrire di un problema di incoerenza temporale. Come è ben noto, egli risolve il problema facendosi legare all’albero maestro della propria nave e turando le orecchie dei suoi marinai, in modo che non potessero udire né il canto ammaliatore delle sirene, né le sue richieste di essere liberato.

(5)

5

affiancare all’esempio suddetto, quello dell’abusivismo edilizio: incentivato dalla consapevolezza che una volta che siano stati compiuti degli abusi, la scelta ottimale per il governo sia quella di una legge di condono piuttosto che l’avvio di lunghe, onerose e improbabili pratiche amministrative e/o giudiziarie che conducano al ripristino delle condizioni iniziali come previsto inizialmente dalla legge. Abbiamo compreso il significato di “incoerenza temporale” e abbiamo illustrato esempi a riguardo. Secondo Tavlas quindi, se il paese disponesse dell’indipendenza monetaria e non godesse di una buona credibilità anti-inflazionistica a seguito di manovre passate, il settore privato reagirebbe regolando le proprie aspettative e considerando la possibile “inflazione a sorpresa”. Al contrario, se il paese fosse membro di un’Unione monetaria, non avendo a disposizione questo strumento, potrebbe guadagnare in termini di credibilità e ottenere maggiori benefici raggiungendo l’obiettivo di una bassa inflazione mediante la modifica delle aspettative degli operatori economici.

Mundell, McKinnon e Kenen hanno definito una struttura con le caratteristiche ideali per un’area valutaria ottimale, quali la mobilità dei fattori produttivi, il grado di apertura di un’economia e la diversificazione del prodotto che, secondo quanto sostenuto da Tavlas, è tuttavia inconsistente e fragile. In primo luogo, una piccola economia aperta non può preferire tassi fissi in quanto avrebbe anche un basso livello di mobilità del lavoro con gli altri paese dell’area, e ciò implicherebbe tassi flessibili. In secondo luogo, le piccole economie aperte, dovrebbero adottare cambi fissi e, allo stesso tempo, non essendo diversificate, dovrebbe scegliere la fluttuazione del tasso di cambio, ma questo non è logicamente ammissibile. Inoltre, la teoria tradizionale non ha ben spiegato -a detta di Tavlas- la relazione tra la grandezza di un paese ed il regime di tasso di cambio: i cambi fissi sono più idonei per grandi economie che per piccole. Questa tesi è contraddittoria con quanto affermato da McKinnon sul grado di ‘apertura’, secondo cui le economie aperte sono più adatte ad essere piccole e ad utilizzare cambi flessibili. In più, la diversificazione descritta da Kenen, è un paradosso in quanto le economie non diversificate, in teoria, dovrebbero lasciare fluttuare i loro cambi, ma, in realtà, se costituissero un’Unione monetaria, sarebbe riscontrabile un grado di

(6)

6

diversificazione maggiore rispetto a quello dei suoi singoli membri. Infine, un’economia aperta potrebbe diventare più specializzata dato che la rimozione delle barriere permetterebbe di concentrare la produzione e sfruttare le economie di scala, trasformando gli shock dello specifico settore in shock di uno specifico paese. In questo modo, sarebbero da preferire i cambi flessibili. Dopo trent’anni di scarsa considerazione della teoria, il dibattuto è stato ripreso, ma come evidenziato da Tavlas, partendo da una prospettiva diversa: non si guarda più all’abilità delle autorità monetarie di raggiungere gli obiettivi di stabilità, ma si vuole primariamente prevenire l’inflazione e, secondariamente, smorzare le fluttuazioni del ciclo economic. Questo cambiamento di prospettive ha portato a due principali implicazioni: in primo luogo, la ricerca della stabilità dei prezzi nel medio termine, in modo tale che, in presenza di shock esterni, il tasso di cambio nominale si aggiusti verso un nuovo equilibrio; in secondo luogo, bisogna eliminare il problema di “disturbi inflazionistici” della politica monetaria discrezionale, che scaturisce dal tentativo di sovrastimolare l’economia e dagli incentivi a monetizzare i deficit del budget ed il debito. In quest’ottica, secondo Tavlas, l’Unione monetaria può rivelarsi utile per raggiungere l’obiettivo di bassa inflazione mediante la modifica delle aspettative degli agenti.

Oltre a queste critiche piuttosto importanti, Julius Horvath, economista ungherese specializzato sui temi di politica economica internazionale, mostra come la discussione si sia spostata verso i temi del già spiegato “time inconsistency”, della formazione delle aspettative, della credibilità e, soprattutto, delle caratteristiche necessarie al fine di scegliere il regime di tasso di cambio ottimale. In quest’ultimo caso, studiando la letteratura, è possibile osservare tre differenti approcci per prendere una decisione al riguardo.

Il primo si basa su un modello macroeconomico e valuta quale sistema sia migliore per rispondere ai disturbi: un’economia dovrebbe adottare cambi flessibili per isolarsi nei casi di shock nominali esteri e reali domestici, ma non quando quest’ultimi sono di natura finanziaria, mentre dovrebbe utilizzare tassi flessibili al verificarsi di shock nominali domestici.

(7)

7

Il secondo approccio, invece, studia il problema nel caso in cui si voglia stabilizzare e considera un paese ad elevata inflazione che voglia portarla ad un livello costante con bassi costi di aggiustamento. In assenza di “money illusion”, legato alla neutralità della moneta, l’analisi dell’equilibrio generale determina un’unica soluzione per le variabili reali: il livello dei prezzi rimane indeterminato, nonostante l’altra variabile rimanga costante.

Il terzo approccio considera i contributi teorici moderni all’interno di un contesto di equilibrio generale. Secondo quanto mostrato dagli autori di quest’approccio, in uno scenario di neutralità della moneta ed eccessiva saturazione dei mercati azionari, il regime di tasso di cambio non ha alcun impatto sul benessere. Da ciò si deduce che la scelta dipenda dalle rigidità e dalle imperfezioni date. Helpman5

sostiene: “è possibile che un particolare regime di tasso di cambio sia più performante di altri in presenza di alcuni tipi di imperfezioni”.

In conclusione, Tavlas rivela come questi sviluppi lo abbiano portato a non considerare più come costo la perdita dell’indipendenza monetaria in quanto, come evidenzia la recente letteratura, i Paesi con una storia di elevata inflazione trarrebbero vantaggi in termini di credibilità dal prendere parte ad un’Unione monetaria e trasferire, quindi, le decisioni di politica monetaria ad una banca centrale comune, riducendo i tassi d’interesse e i costi di disoccupazione per spostarsi verso un equilibrio di bassa inflazione. Tali sviluppi hanno avuto lo scopo di portare alcuni paesi con un’alta inflazione a sostenere il loro desiderio di aderire all’Unione economica e monetaria europea.

5 Si veda Helpman, Elhanan (1981), ‘An exploration in the theory of exchange-rate regimes’, Journal of

(8)

8

2.2. L’Eurozona è un’area valutaria ottimale? Analisi dei costi e dei benefici. Un confronto

La teoria delle aree valutarie ottimali ci offre un utile schema per analizzare i fattori che determinano se un gruppo di paesi guadagnerà o perderà dal fissare i tassi di cambio reciproci. I guadagni e le perdite di una nazione in un’area a tassi di cambio fissi sono difficili da misurare numericamente, ma combinando la nostra teoria con alcune osservazioni sulla performance economica dei paesi europei potremo valutare se l’Eurozona è un’area valutaria ottimale.

Esaminiamo attentamente i benefici che un paese o una regione vanterebbe nell’adozione di una valuta comune. La formazione di un’area valutaria ottima elimina l’incertezza che sorge nel momento in cui i tassi di cambio non sono fissati in modo permanente, e con ciò stimola la specializzazione produttiva ed il flusso del commercio e degli investimenti internazionali tra le regioni o i paesi che ne fanno parte. La nascita di un’area valutaria ottima incoraggia inoltre i produttori a considerare l’intera area come un unico mercato e a sfruttare le conseguenti economie di scala della produzione. Con tassi di cambio permanentemente fissi, un’area valutaria ottima avrà verosimilmente una maggiore stabilità dei prezzi che nel caso di variazione dei tassi di cambio tra i paesi membri. La maggiore stabilità dei prezzi è dovuta al fatto che possibili shock che colpiscano diverse regioni o paesi all’interno dell’area tendono a compensarsi l’un l’altro e qualunque disturbo che dovesse permanere sarà verosimilmente tanto più piccolo quanto più si estende l’area. Una tale stabilità incoraggia l’uso della moneta come riserva di valore e come strumento delle transazioni, scoraggiando forme inefficienti di scambi basate sul baratto che invece si sviluppano in contesti più inflazionistici. Un’area valutaria ottima contribuisce inoltre ad eliminare il costo legato agli interventi ufficiali sul mercato dei cambi a sostegno delle valute dei paesi membri, i costi di copertura, e il costo che si sostiene scambiando una valuta contro l’altra nell’importazione di beni e servizi nonché quando i cittadini dei paesi membri viaggiano da uno all’altro (nel caso che l’area ottima adotti un’unica moneta). Mentre i costi di una valuta comune – come vedremo a breve – possono essere considerati per lo più di tipo

(9)

9

macroeconomico, i vantaggi sono per la maggior parti di tipo microeconomico e

traggono origine da due motivi principali: la rimozione dei costi di transazione e l’eliminazione dell’incertezza sulle possibili fluttuazioni future del tasso di cambio. L’eliminazione dei costi di transazione è il guadagno più evidente ed ha permesso un risparmio, stimato dalla Commissione Europea6, tra i 13 ed i 20

miliardi di euro l’anno, ovvero tra lo 0,25% e lo 0,5% del Pil della Comunità Europea. Tutto questo implica un beneficio diretto per i consumatori che non devono più sostenere una perdita secca (di una “imposta fissa” perché non riceve nulla in cambio), ma ha degli effetti che andranno a gravare sugli istituti bancari, i quali hanno sempre tratto circa il 5% dei loro ricavi dall’incasso di commissioni pagate per il cambio delle monete nazionali. Ad esempio, nell’Eurozona, si è assistito ad un incremento dell’efficienza delle banche a fine anni Novanta. Ciò ha favorito la creazione di un migliore sistema: i pagamenti mediante carta di credito, i trasferimenti bancari e i trasferimenti di crediti fino a 50.000 € effettuati oltre i confini nazionali. Di conseguenza, gli istituti dell’Eurozona hanno deciso di lanciare, nel gennaio 2008 il SEPA (Single Euro Payments Area) per facilitare e codificare la tipologia dei pagamenti. Oltre a citare i cosiddetti guadagni diretti, è necessario tenere conto di quelli ‘indiretti’, o più precisamente: la maggiore trasparenza dei prezzi. In virtù di una stessa unità di conto, si tende a favorire la concorrenza in quanto i consumatori possono confrontare i prezzi e scegliere più agevolmente dove poter acquistare ad un costo inferiore. In realtà, questo effetto non si verifica completamente perché, anche se un ribasso c’è stato, le frontiere ostacolano in maniera importante il commercio, favorendo la segmentazione del mercato e, di conseguenza, un’ampia differenziazione dei prezzi. In questo senso, sono stati effettuati degli studi sull’evoluzione della convergenza dei prezzi nel tempo che hanno evidenziato come si sia verificata fino al 1999, quando si è arrestata con l’introduzione della moneta unica. L’euro, per quanto possa facilitare il confronto dei prezzi, non è l’elemento determinante per il processo di

(10)

10

convergenza, infatti, i differenziali di prezzo sono spesso dovuti a costi di transazione e vendite al dettaglio molto segmentate a livello nazionale.

Dopo aver affrontato il tema dei benefici dal lato dell’eliminazione dei costi di transazione, si devono valutare i guadagni in termini di benessere derivanti dalla riduzione dell’incertezza sulle variazioni dei tassi di cambio futuro, che, in un mondo di individui avversi al rischio, genera una perdita in termini di welfare. Questa situazione influenza anche la teoria dell’impresa in quanto vi è un forte legame tra i profitti e le condizioni di certezza e/o incertezza dei prezzi, considerando che questi ultimi vengono determinati in base a quelli applicati nel mercato d’esportazione moltiplicati per il tasso di cambio. Prendiamo un esempio. Supponiamo due regimi (uno caratterizzato da tasso fisso ed uno da quello variabile) e la fluttuazione dei prezzi ad essi relativa: nel regime di incertezza, il profitto è maggiore che nel regime di certezza, quando il prezzo è alto, e minore, quando, al contrario, è basso. Nel primo caso, l’impresa, aumenta la quantità prodotta e trae profitto aggiuntivo per ogni unità di prodotto che avrebbe ugualmente realizzato; mentre nel secondo caso, il prezzo basso impone all’impresa di ridurre la produzione in modo da contenere la diminuzione del profitto totale.

Figura 1, Fonte: De Grauwe, Paul (2006), Economia dell’Unione Monetaria, sesta edizione, Bologna, Il Mulino, p. 84.

L’effetto positivo dell’incertezza sui profitti medi si dovrebbe confrontare con la maggiore incertezza dei profitti stessi, dove un loro aumento genera più utilità per l’impresa, e viceversa. La variabilità dei tassi di cambio incrementa la probabilità

(11)

11

di conseguire profitti molto alti e, di conseguenza, l’impresa trae molto beneficio dall’aumento della volatilità dei tassi di cambio, ma questo genera mutamenti rapidi e repentini delle condizioni economiche. Proprio questi cambiamenti possono portare ad un abbandono dei cambi flessibili in favore di un’unione monetaria per due ragioni: la difficoltà di gestione ordinata dei tassi di cambio e l’inutilità presunta per l’aggiustamento dagli shock asimmetrici. In questo senso, l’euro ha permesso la riduzione di costi fissi e variabili delle imprese esportatrici e l’apertura al commercio con gli altri paesi dell’Eurozona per quelle imprese, interessate, in precedenza, solo al mercato interno. Questo, tuttavia, non si è necessariamente trasformato in un incremento dei flussi commerciali. Un altro beneficio importantissimo che dobbiamo evidenziare, deriva dal fatto che la moneta possa diventare di “rango internazionale”, ossia venga utilizzata anche al di fuori dell’Unione, garantendo tre vantaggi importanti:

1. Extra ricavi per il paese emittente. Si ricordi quanto accaduto nel 1999 per il dollaro statunitense7;

2. Detenzione presso le banche centrali estere come riserva internazionale, fonte di finanziamento importante per i deficit dei paesi membri dell’unione;

3. Stimolo per l’attività dei mercati interni nazionali con conseguente aumento del flusso di capitali dall’estero, sebbene tale elemento dipenda dal grado di apertura verso gli altri partner.

In questo senso, considerando il caso dell’euro, è possibile individuare due distinti fattori da cui dipenda l’eventuale configurazione come moneta di rango internazionale: la dimensione del sistema economico ed il contesto della politica economica. Nel primo caso, la crescita dei mercati finanziari è un ingrediente fondamentale in quanto attira capitali esteri e favorisce la diversità e la scelta delle

7 Nel 1999, più della metà dei dollari emessi dalla Federal Reserve sono stati utilizzati al di fuori degli Stati

Uniti. Il che ha più che raddoppiato il valore delle poste del bilancio della FED. Correlativamente, anche i profitti della FED sono più che raddoppiati. E, dato che tali profitti vanno al governo federale, ciò significa che i cittadini americani, per ogni dato livello di spesa pubblica, verranno tassati di meno. Se anche l’euro venisse promosso a valuta di importanza mondiale come il dollaro, i cittadini dell’Eurozona godrebbero di un analogo beneficio. In effetti, l’euro è già in parte utilizzato nell’Europa centrale e quella dell’Est, generando così redditi per i cittadini dell’Eurozona.

(12)

12

opportunità di investimento, mentre, nel secondo caso, è necessaria la stabilità monetaria e finanziaria, raggiungibile solo mediante il perseguimento di un basso livello di inflazione. Se l’euro diventasse una moneta di rango internazionale, diventerebbe una valuta forte, favorendo una crescita della produzione e degli investimenti. Il tutto si rifletterebbe in un maggior benessere, legato anche ad una minor tassazione e ad un reddito pro-capite superiore. La nostra conclusione è che un alto grado di integrazione economica fra un paese e un’area a tassi di cambio fissi amplifica il guadagno di efficienza monetaria per il paese quando quest’ultimo fissa il tasso di cambio rispetto alla moneta di quell’area. Più intensi sono gli scambi ed i movimenti dei fattori, maggiore è il guadagno derivante dal tasso di cambio fisso.

Figura 2. La curva crescente mostra che il guadagno di efficienza monetaria di un paese, derivante dall’adesione con tassi di cambio fissi, aumenta al crescere della sua integrazione economica con quell’area. Fonte: Nostra elaborazione da Krugman, Paul, Obstfeld, Maurice e Melitz, Marc (2012),

Economia internazionale 2, quinta edizione, Milano-Torino, Pearson Italia, p. 389

La curva dei benefici, inclinata positivamente nella Figura 2, mostra la relazione fra il grado di integrazione economica di un paese con un’area a tassi di cambio fissi ed il guadagno di efficienza monetaria del paese che aderisce all’area. L’asse orizzontale della figura misura il grado di integrazione economica di un ipotetico paese che sta valutando se aderire o meno all’area a cambi fissi. L’asse verticale misura il guadagno di efficienza monetaria ottenuto dal paese che sta ancorando la

G u ad agn o d i ef fici en za m o n eta ria p er il p aes e ch e a d eris ce

Grado di integrazione economica tra il paese che aderisce e l'area a cambi fissi

(13)

13

propria valuta all’euro. La pendenza positiva della retta riflette la conclusione che il guadagno di efficienza monetaria che un paese ottiene aderendo a un’area con tassi di cambio fissi è crescente all’aumentare del grado di integrazione economica con quell’area.

Dopo aver affrontato il tema dei benefici derivanti dall’adozione di una valuta comune, è altresì importante prendere in esame i costi che ne scaturiscono. Lo svantaggio più grande di un’area valutaria ottima, come abbiamo più volte sottolineato, è che i paesi membri non possono perseguire ciascuno la propria individuale politica di stabilizzazione e di stimolo alla crescita, consona alle preferenze e alle caratteristiche del paese stesso. Questo porta alla perdita di sovranità sulla politica monetaria, trasferita alla banca centrale, capace di impedire la modifica del prezzo della propria valuta mediante rivalutazioni o svalutazioni, la determinazione della quantità di moneta in circolazione o, ancora, la variazione del tasso di interesse a breve. Questa perdita di stabilità economica dall’adesione, come il guadagno di efficienza monetaria, è collegata all’integrazione economica con i partner dell’area. In sintesi: la perdita di stabilità economica derivanti dall’adesione ad un sistema a cambi fissi dipende anche dal grado di integrazione economica. Come abbiamo evidenziato nel primo capitolo, sui meriti dei tassi di cambio fissi e flessibili, quando l’economia è disturbata da shock nel mercato del prodotto (spostamenti della curva di domanda aggregata), un tasso di cambio flessibile ha un vantaggio sul cambio fisso: esso protegge automaticamente la produzione e l’occupazione consentendo un’immediata variazione del prezzo relativo dei prodotti nazionali rispetto a quelli esteri. Va ricordato che, quando il tasso di cambio è fisso, l’obiettivo della stabilizzazione è più difficoltoso dato che la politica monetaria non ha potere di influire sul reddito nazionale. Fatte queste premesse, ci aspettiamo che le variazioni della curva di domanda aggregata abbiano effetti più severi su un’economia nella quale l’autorità monetaria deve fissare il tasso di cambio contro le monete estere. Ecco che, dopo l’adesione ad un sistema di cambi fissi, se il ‘nuovo’ paese membro deve affrontare una riduzione della domanda aggregata:

(14)

14

 I prezzi relativi tendono a scendere, portando gli altri membri ad aumentare molto la domanda aggregata se vi è una forte integrazione economica, perciò la perdita economica non è così grande;

 Il capitale finanziario o il lavoro migreranno verso aree con rendimenti o salari più elevati se vi è una forte integrazione economica, perciò la perdita economica non è così elevata;

 La perdita dell’aggiustamento automatico dei cambi flessibili non è così elevata se i mercati dei beni e dei servizi sono integrati

Infatti, se rappresentiamo la curva delle perdite:

Figura 3. La curva decrescente mostra che la perdita di stabilità economica di un paese che decide di aderire a un’area con tassi di cambio fissi diminuisce al crescere della sua integrazione economica con

quell’area. Fonte: Nostra elaborazione da Krugman, Paul, Obstfeld, Maurice e Melitz, Marc (2012), Economia internazionale 2, quinta edizione, Milano-Torino, Pearson Italia, p. 393.

L’asse orizzontale misura l’integrazione economica del paese aderente con l’area a tassi di cambio fissi e l’asse verticale la perdita di stabilità economica. Come abbiamo visto, la curva dei costi ha inclinazione negativa, perché la perdita di stabilità economica derivata dall’ancorare la propria moneta a quella dei paesi membri dell’area che diminuisce al crescere del grado di interdipendenza economica. La Figura 3 ci permette di concludere che, un alto grado di integrazione economica fra un paese e l’area a tassi di cambio fissi a cui esso aderisce riduce la

Perdit a d i s ta b ili tà econ o m ica p er il p aes e ch e a d eris ce

Grado di integrazione tra il paese che aderisce e l'area a cambi fissi Integrazione economica e curva dei costi

(15)

15

perdita di stabilità economica che risulta da shock sul mercato dei profitti. La perdita in termini di rinuncia all’utilizzo delle politiche di stabilizzazione diminuisce all’aumentare del grado di integrazione economica.

Facciamo un esempio per chiarire ancora meglio. Una regione o un paese depresso all’interno di un’area valutaria ottimale potrebbe richiedere politiche fiscali e monetarie di tipo espansivo per ridurre il tasso di disoccupazione eccessivamente elevato, mentre un paese o una regione più prospera potrebbe richiedere politiche restrittive per ridurre la pressione inflazionistica. In qualche misura, un tale costo implicito in un’area valutaria ottima viene compensato (con l’arbitraggio) dal maggiore flusso di capitale e di lavoro da paesi e regioni in eccesso di offerta (nei quali la produttività e i redditi tengono a essere piuttosto bassi) verso regioni e paesi in eccesso di domanda (nei quali la produttività e i redditi sono maggiori). Come abbiamo avuto modo di accennare in precedenza, il principale costo dell’adozione di una moneta comune consiste nella perdita di autonomia nel fissare una politica monetaria indipendente. In particolar modo, non sarà più possibile attuare una svalutazione del tasso di cambio al fine di rilanciare un’economia soggetta a uno shock asimmetrico. Risulta quindi fondamentale chiedersi quanto efficace sia effettivamente tale strumento: per rispondere a questa domanda, riprendiamo ancora una volta l’esempio proposto nel modello mundelliano, in cui i consumatori di un paese (A) spostando le proprie preferenze verso prodotti di un altro paese (A) non fanno altro che spostare la curva di domanda (del paese A) verso il basso. Attuando una svalutazione (in A), si correggerebbe tale andamento e la curva di domanda tornerebbe all’equilibrio iniziale. Ma quest’impostazione è difficile che sia duratura nel tempo, poiché nel lungo periodo la svalutazione aumenta il prezzo delle importazioni e quindi, dei costi di produzione; andando ad aumentare il livello dei prezzi interni. A questo si aggiungerà un aumento del livello dei salari per compensare la perdita di potere di acquisto subita dai lavoratori/consumatori. Tutto questo si trasforma in un aumento della curva di offerta aggregata e gli effetti della svalutazione nel tempo verranno neutralizzati

(16)

16

dall’aumento dei prezzi interni.8 Se ci ricordiamo quanto detto sul problema del

‘time inconsistency’, tale azione non può essere usata sistematicamente in quanto il settore privato adeguerebbe la propria aspettativa fino a renderla inefficace. Un altro costo che deriva direttamente dalla perdita della discrezionalità, riguarda la mancata possibilità di finanziare il proprio debito pubblico tramite il signoraggio, cioè l’emissione di moneta ad alto potenziale in modo tale da far crescere l’inflazione e quindi ridurre l’onere reale del debito. Ulteriori costi di un’Unione monetaria derivano principalmente dalle differenze tra i paesi coinvolti: tale diversità riguarderanno i sistemi giuridici e fiscali; i mercati del lavoro; le preferenze sull’occupazione e sull’inflazione.

Quindi, dopo aver trattato dei costi e dei benefici di un’Unione monetaria, è necessario determinare il livello critico di apertura che rende conveniente l’adesione ad un’area valutaria costituita insieme ai suoi partner commerciali. Se prendiamo l’esempio della Norvegia, che ha come moneta la corona: come dovrebbe ragionare la nazione norvegese nel decidere se fissare il tasso di cambio fra corona ed euro? La Figura 4 ci viene in aiuto.

8 Si veda De Grauwe, Paul (2006), Economia dell’unione monetaria, sesta edizione, Bologna, Il Mulino,

pp. 14-18.

Confronto grafico curva dei costi e dei benefici

Costi Benefici Guadagni > Perdite ɛ Perdite> Guadagni

(17)

17

Figura 4. La decisione di fissare il tasso di cambio. L’intersezione delle curve dei costi e dei benefici determina un ‘punto critico’ di integrazione economica “ɛ” fra l’area valutaria ed il paese che deve

decidere se aderirvi (Norvegia nel nostro esempio). Per ogni livello di integrazione superiore a ɛ,

l’adesione produce beneficinetti positivi per il paese che decide di aderire. Fonte: Nostra elaborazione da

Krugman, Paul, Obstfeld, Maurice e Melitz, Marc (2012), Economia internazionale 2, quinta edizione, Milano-Torino, Pearson Italia, p. 393.

La figura 4 mostra che per livelli di integrazione economica inferiori a ɛ la curva dei benefici giace al di sotto della curva dei costi. Quindi, la perdita che la Norvegia subirebbe dalla maggiore instabilità della produzione e dell’occupazione dopo l’adesione, eccede il guadagno di efficienza monetaria, e il paese farebbe meglio a restare fuori. Quando il grado di integrazione è maggiore o uguale a ɛ, invece, il guadagno di efficienza monetaria misurato dalla curva dei benefici è maggiore del sacrificio di stabilita misurato dalla curva dei costi, e pertanto, fissando il tasso di cambio della corona rispetto all’euro, la Norvegia otterrebbe un guadagno netto. Quindi, l’intersezione della curva dei costi con quella dei benefici determina il livello “minimo” di integrazione (da noi indicato con ɛ) al quale la Norvegia desidera ancorare la sua moneta all’euro. Lo schema spiegato ha delle implicazioni fondamentali su come variazioni del contesto economico di un paese influenzino la sua disponibilità ad ancorare la sua moneta a un’area valutaria esterna. Consideriamo, per esempio, un aumento improvviso dell’intensità e della frequenza delle fluttuazioni della domanda delle esportazioni del paese. Come mostrato nella Figura 5, tale variazione sposta la curva dei costi in alto, da C’ a C’’. A qualsiasi livello di integrazione economica con l’area valutaria, l’instabilità ulteriore della produzione e della disoccupazione che il paese subisce fissando il proprio tasso di cambio è ora maggiore. Di conseguenza, il livello di integrazione economica oltre il quale vale la pena aderire all’area valutaria aumenta (determinato dall’intersezione fra C’’ e B). A parità di altre condizioni, una maggiore variabilità nei mercati dei prodotti rende i paesi meno disponibili ad aderire ad aree a tassi di cambio fissi.

(18)

18

Figura 5: Nostra elaborazione da De Grauwe, Paul, op. cit (2006), pp. 14-15. Asse verticale: guadagni e perdite per il paese che aderisce alla valuta comune (Norvegia nell’esempio); Asse orizzontale: Grado di

integrazione economica tra il paese che aderisce e l’area a cambi fissi.

Il significato della figura sopra menzionata è molto importante. La posizione della curva dei costi dipende dall’interpretazione del tasso di cambio come strumento per correggere gli effetti di andamenti differenziati della domanda e dei costi dei paesi considerati. Non possiamo escludere dalla nostra trattazione le due correnti di pensiero ‘keynesiane’ e ‘monetariste’ a riguardo. Secondo la corrente monetarista – a partire dagli anni Ottanta – le variazioni del tasso di cambio non erano efficaci per correggere gli shock asimmetrici (permanenti o temporanei); mentre secondo la tesi ‘keynesiana’, erano del tutto inutili sia instaurare politiche monetarie quanto quelle relative al tasso di cambio.

C’ C’’ B

(19)

19

Figura 6, Costi e benefici di un’unione monetaria nelle due visioni: monetarista e keynesiana. Fonte: De Grauwe, Paul (2006), op.cit., p. 98.

Come si può evincere dalla Figura 6, nel primo caso il punto critico (T*) è vicino all’origine, quindi, molti paesi trarrebbero vantaggio dall’adesione ad un’Unione monetaria; al contrario, nell’altro caso, la curva dei costi è lontana dall’origine, e ci sarebbero pochi paesi interessati ad adottare una valuta comune e molti grandi paesi migliorerebbero la loro posizione economica se si suddividessero internamente in più aree monetarie. L’analisi costi-benefici è influenzata dalla vischiosità dei prezzi e dei salari; infatti, nel momento in cui si verificano shock asimmetrici, che richiedono cambiamenti nei prezzi relativi, la perdita dell’impossibilità di modificare il tasso di cambio diventa uno svantaggio in quanto il percorso di aggiustamento sarebbe molto più difficile. Di conseguenza, i paesi caratterizzati da una scarsa rigidità di prezzi e salari, comportano costi minori quando si aderisce ad un’Unione monetaria. Da un punto di vista grafico, una diminuzione della rigidità dei prezzi e dei salari o, analogamente, una maggiore mobilità del fattore lavoro sposterebbero la curva dei costi verso il basso, determinando un nuovo punto critico, più vicino all’origine. Inoltre, è fondamentale tenere presente che la decisione di un paese di aderire ad un’Unione monetaria, seppur non risponda a criteri di ‘area valutaria ottimale’, tende ad autoavverarsi, rendendo più veloce il processo di integrazione. In questo senso, lo studio di Frankel e Rose9, si rivela molto pertinente in quanto sottolinea la presenza di una componente endogena che faciliti la partecipazione ad un’area valutaria

9 Frankel, Jeffrey e Rose, Andrew (1998), ‘The endogeneity of the optimum currency area criteria’,

(20)

20

ottimale. Quando un paese scegli di aderire ad un’Unione monetaria, si modifica il risultato dell’analisi costi-benefici, riducendo i primi rispetto ai secondi, mentre l’esito sarebbe sfavorevole qualora si decidesse di non partecipare. Frankel e Rose basano il loro lavoro sull’idea che la correlazione tra il modello del commercio internazionale e il ciclo economico internazionale sia endogeno10, ovvero sul fatto

che i paesi con legami economici stretti tendano ad avere cicli economici sincronizzati. In questo senso, la partecipazione ad un’Unione monetaria potrebbe condurre i paesi a soddisfare i criteri di un’area valutaria ottimale, aumentando la simmetria all’interno dei cicli economici. In conclusione, possiamo affermare che i benefici derivano essenzialmente dall’eliminazione dei costi di transazione e dell’adozione di una “moneta di rango internazionale”; mentre i costi sono causati da differenze sotto molteplici aspetti tra i vari paesi, come le preferenze d’inflazione e disoccupazione, la struttura del mercato del lavoro, i tassi di crescita dell’economia e i sistemi fiscali.

Abbiamo studiato i costi, i benefici ed abbiamo effettuato un confronto tra essi, ma non abbiamo ancora risposto alla domanda del titolo del paragrafo in questione. “L’Eurozona è un’area valutaria ottimale?” La teoria delle aree valutarie ottimali ci ha fornito un ottimo schema per analizzare i fattori che determinano se un gruppo di paesi guadagnerà o perderà dal fissare i reciproci tassi di cambio. Detto questo, risulta molto difficoltoso misurare quantitativamente tali guadagni o perdite, e quindi, per rispondere al nostro quesito, analizzeremo il nostro interrogativo sotto varie tematiche.

1) Sulla base del grado di apertura, l’Eurozona è un’area valutaria ottimale. L’adesione all’Unione Monetaria Europea ha stimolato ulteriormente l’integrazione commerciale.

2) Sulla base del criterio della mobilità del lavoro, l’Unione Monetaria Europea non è ancora un’area valutaria ottimale. Questo perché vi è una bassa mobilità del lavoro tra i paesi membri e tra i vari settori, e inoltre, vi è un’elevata rigidità dei prezzi e dei salari (divergenza nei tassi di

(21)

21

disoccupazione in seguito a shock economici). Inoltre, la diversificazione della base produttiva è crescente (Kenen). Le strutture industriale dei paesi europei sarebbero meno concentrate e più diversificate rispetto agli USA, e questa circostanza renderebbe meno probabile l’insorgere di shock asimmetrici.

In conclusione, gli studi effettuati nel periodo precedente la nascita dell’euro, hanno portato a concludere che l’area monetaria europea non è ottimale, nonostante le previsioni riguardanti l’integrazione commerciale siano state molto ottimistiche. A rendere negativo il giudizio finale sono i problemi relativi agli strumenti a disposizione per superare gli shock asimmetrici:

 Il mercato del lavoro non è sufficientemente flessibile per garantire l’equilibrio ed eliminare la disoccupazione che è ancora elevata;

 I mercati finanziari non sono completamente integrati, anzi, le operazioni finanziarie avvengono ancora per la maggior parte a livello nazionale;  I differenti livelli di produttività non sono accompagnati da una maggiore

divergenza nella dinamica dei salari reali;

 Infine, non è previsto un sistema fiscale in grado di svolgere un ruolo decisivo, dando così ulteriori incertezze riguardo il futuro delle politiche economiche.

2.3. Le unioni monetarie incomplete: come completarle?

Dopo aver illustrato i benefici ed i costi di una valuta comune, e, in particolare, l’influenza degli shock asimmetrici sui secondi, merita soffermarci su quello che sono definite unioni monetarie “incomplete”. Secondo De Grauwe, se il mercato del lavoro non è flessibile oppure manca il coordinamento tra politiche economiche ed istituzionali, un incremento dell’asimmetria rende più oneroso il processo di aggiustamento. Siamo in presenza delle cosiddette “unioni monetaria

incomplete”, in cui ogni paese membro mantiene l’indipendenza sulla propria

(22)

22

tipologie: le prime si basano su regimi di cambi fissi e le seconde sulla mancanza di un’unione di bilancio.

I regimi di cambi fissi, come il sistema di Bretton Woods o il Sistema Monetario Europeo (SME), dipendono dal grado di ancoraggio della propria valuta ad una forte: ad esempio, il dollaro, e tendono a sgretolarsi in seguito a delle crisi importanti11. La fragilità di questi sistemi dipende da due ragioni: da una parte, un

problema di credibilità perché, nel momento in cui si promette di mantenere il cambio ad un certo valore, eventuali dubbi sulla difesa del tasso possono indurre attacchi speculativi nei confronti della valuta; dall’altra parte, il limitato stock di riserve in valute estere, utile a mantenere il cambio fisso che potrebbe far venire meno la promessa di comportamenti degli investitori. Queste due motivazioni sono fortemente interconnesse tra loro in quanto, se lo stock di riserve è limitato, allora si riduce la credibilità del tasso di cambio fisso, inducendo gli investitori a vendere valuta nazionale e la banca centrale a liberarsi di quella estera, con una conseguente ed ulteriore riduzione di riserve valutarie.

Vediamo di analizzare, da un punto di vista pratico, il caso in cui in un regime di cambi fissi, un paese possa subire uno shock asimmetrico con conseguente perdita di competitività, incremento delle importazioni e del rapporto spesa/Pil. Sono individuabili quindi, due possibilità per correggere tale deficit:

 Sostenere il tasso di cambio fisso per ridurre la spesa mediante un aumento della tassazione. Essendo consapevoli che, questa strategia porta inevitabilmente ad una resistenza da parte della popolazione, e una conseguente perdita di consenso elettorale da parte del governo in carica;  Svalutare la moneta per ridurre i costi di correzione dello squilibrio esterno,

restituendo competitività alle esportazioni in un modo politicamente meno costoso.

11 Si ricordi la crisi petrolifera del 1973, che sancì la fine degli accordi di Bretton Woods; la crisi speculativa

delle valute del Sud-Est asiatico del 1997-1998, con l’abbandono da parte dei paesi coinvolti dell’ancoraggio al dollaro; quella dei paesi latinoamericani (il Messico per la precisione) negli anni Novanta; le difficoltà incontrate tra il 2007 ed il 2008 dai paesi che avevano ancorato la loro moneta all’euro.

(23)

23

L’altro tipo di Unione monetaria incompleta, caratterizzata da fragilità simili a quelle descritte precedentemente, deriva da un’assenza di un’unione di bilancio, come nell’Eurozona, per cui i vari governi nazionali emettono il loro debito pubblico in una valuta sui cui hanno un controllo diretto. Per una migliore comprensione, analizziamo il caso da un punto di vista grafico, ed elaboriamo un modello con un paese investito da uno shock di solvibilità, dove più è forte più cresce la difficoltà di ripagare il debito, ponendo che sia il calcolo dei costi e dei benefici, derivanti dall’inadempienza sul debito sovrano, ad orientare le scelte del governo, il cui comportamento è, a sua volta, oggetto di previsione da parte degli investitori. Quindi, abbiamo due curve dei benefici:

 “B U” è inclinata verso l’alto, perché il beneficio dovuto all’inadempienza inattesa dagli investitori cresce proporzionalmente alla forza dello shock, e dipende da tre fattori, quali il livello iniziale del debito, l’efficienza del sistema tributario e l’entità del debito estero;

 “B E” indica il beneficio derivante dall’inadempienza attesa e giace sopra “B U” perché, quando ci si aspetta un’insolvenza, gli investitori vendono titoli di Stato per farne salire il tasso d’interesse, provocando un aumento del disavanzo del deficit di bilancio.

Oltre ciò, l’inadempienza genera anche la perdita di reputazione, che noi ipotizziamo come costo fisso e che complica la richiesta del governo di futuri prestiti. Si distinguono tre tipi di shock di solvibilità:

 Debole (S<S1): quando il costo di inadempienza, sia attesa che inattesa, risulta essere maggiore dei benefici. Il governo scarta l’inadempienza e gli investitori, aspettandosi tale comportamento, propendono per la copertura del gettito fiscale, attraverso l’acquisto di titoli di Stato, in modo tale che non si verifiche una carenza di liquidità.

 Forte (S>S2): quando il costo di inadempienza, attesa o inattesa, è minore dei benefici. Di conseguenza, il governo decide per l’inadempienza come previsto dagli investitori, che, così non permettono al governo di trovare il denaro necessario – e sufficiente – per finanziarsi.

(24)

24

 Intermedio(S1<S<S2): Siamo in una zona di indeterminatezza (‘zona grigia’), in cui possono esserci solo due equilibri e ne prevarrà uno in base alle aspettative, che tende ad autoavverarsi: nell’equilibrio (cattivo) D, gli investitori si attendono l’insolvenza e il beneficio è maggiore del costo, portando il governo a scegliere di non adempiere, mentre, nell’equilibrio (buono) N, gli investitori non si aspettano che il governo non rimborsi il debito, quindi, il costo supera il beneficio e il governo adempie. La scelta di N o D dipende dalle previsioni “ottimistiche” o “pessimistiche”, con la possibilità che piccole variazioni degli umori conducano a spostamenti significati da un equilibrio all’altro.

Figura 7, Fonte: Nostra elaborazione da De Grauwe, Paul (2006), op. cit., pp. 134.

Fino ad ora abbiamo illustrato i vari ‘punti deboli’ dei due tipi di unioni monetarie incomplete. Vale la pena soffermarci su alcune possibili soluzioni con cui poter giungere al suo completamento. In primo luogo si potrebbe aumentare il costo dell’inadempienza, in modo tale che la curva C si innalzi spostando verso destra la zona dei ‘pericoli’ suscettibili di autoavverarsi: risultato ottenibile attraverso l’espulsione dei paesi inadempienti. Un’altra modalità potrebbe essere quella di assegnare il ruolo di “prestatore di ultima istanza” alla banca centrale, che dovrebbe fornire liquidità ai mercati dei titoli dei paesi membri, eliminando la minaccia di una crisi di liquidità, una delle fragilità delle unioni monetarie incomplete. La funzione di prestatore di ultima istanza, in capo alla banca centrale, ha l’obiettivo di rassicurare i titolari dei depositi per prevenire la corsa agli

(25)

25

sportelli, cosicché il suo intervento si renda necessario solo in alcune situazioni. Anche l’unione di bilancio è un’altra possibile soluzione, e prevede il consolidamento di parte dei bilanci e dei debiti pubblici dei singoli Stati in un’unica componente centrale. Questo risultato è necessario per due motivi: la creazione di un’autorità fiscale comune che emetta strumenti di debito in una valuta comune, non sotto il suo controllo, proteggendo da forzature del mercato per quanto riguarda il rimborso del debito, e l’organizzazione di meccanismi di trasferimenti automatici, che ridistribuiscono le risorse, in seguito ad uno shock economico negativo. Quest’ultima modalità richiede un grado molto elevato di unione politica, visto che i paesi membri sono chiamati a rinunciare alla loro sovranità sulla tassazione e sulla spesa pubblica, ma, ad esempio, in un’ottica europea, sarebbe di complessa attuazione e si dovrebbe procedere per piccoli passi, a partire dall’emissione congiunta di eurobbligazioni, che consentirebbero di internalizzare le esternalità dell’Eurozona.

Paul Krugman, in un’intervista nel mese di Aprile 2012 considerava il processo di completamento dell’unione monetaria uno degli atti più urgenti da compiersi. Per prima cosa – come in parte abbiamo accennato - egli considerava necessario un sostegno delle banche in tutta Europa, il che avrebbe comportato una sorta di assicurazione dei depositi federalizzati e la volontà di compiere salvataggi a livello centralizzato. Per esempio se la Banca d’Italia si fosse trovata in difficoltà in modo tale da minacciare la stabilità dell’intero sistema, al fine di garantire le risorse necessarie, tutti i governi dei paesi membri avrebbero dovuto immettere capitale in cambio di partecipazione, piuttosto che finanziare un prestito direttamente al governo italiano. L’intento è quello di scollegare il tema del salvataggio delle banche da quello della solvibilità dello Stato. In aggiunta, riprendendo l’argomento conclusivo di poc’anzi, la BCE avrebbe dovuto ricoprire il ruolo di prestatore di ultima istanza, come già lo erano le banche centrali nazionali. Vi sarebbe stato da affrontare il problema del ‘moral hazard’, ma la negata possibilità alla banca centrale di fornire liquidità ha causato in passato un’eccessiva vulnerabilità del sistema alle crisi autorealizzantisi. Infine, si è potuto notare come sia particolarmente arduo attuare una svalutazione interna tramite deflazione, per cui,

(26)

26

Krugman suggeriva di mantenere un tasso di inflazione più alto permettendo così ai paesi in difficoltà di ridurre l’onere dell’aggiustamento recuperando, in questo modo, competitività.

Recentemente, alcuni esponenti delle classi politiche – italiane e di molto paesi membri – si sono chiesti se lasciare fallire il progetto ‘Euro’ fosse la strada giusta da perseguire. Gli stessi esponenti politici, forse, non sono consapevoli degli effetti dirompenti che una tale rottura provocherebbe danni estremamente gravi, nonché equivarrebbe ad un’enorme sconfitta del più vasto progetto politico che fin dalle sue origini ha giovato notevolmente al benessere di ogni cittadini europeo. Il paragrafo finale del presente lavoro ha proprio lo scopo di delineare i risultati che la valuta comune ha permesso di raggiungere, e, in ultimo luogo, quali sono i passi da compiere in prospettiva.

2.4. Il futuro dell’Unione monetaria europea: risultati ottenuti e prospettive

Il 22 giugno 2015, i cinque presidenti dei principali organi europei, il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker, il presidente del Vertice euro, Donald Trusk, il presidente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem, il presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, e il presidente del Parlamento europeo, Martin Schulz, hanno redatto una relazione in cui sono stati fissati gli ‘ambiziosi’ obiettivi per l’approfondimento dell’Unione Economica e Monetaria a partire dal 1° luglio 2015 e per il suo completamento al più tardi entro il 2025.

Nonostante i numerosi passi in avanti, le divergenze nella zona Euro e le crisi hanno evidenziato la necessità di sopperire alle molte carenze. Nella stessa relazione, l’attuale Unione è definita come “una casa costruita nel corso di

decenni ma solo parzialmente completata, di cui si sono dovuti stabilizzare in fretta e furia pareti e tetto quando è scoppiata la tempesta”.

Al fine di rendere sempre più praticabile l’Unione Europea e Monetaria (UEM) essi hanno presentato misure concrete da attuare mediante delle fasi ben precise.

(27)

27

Alcuni interventi, come l’introduzione di un sistema europeo di garanzia dei depositi, dovranno essere effettuati nel breve tempo, mentre altri, come la creazione di una futura tesoreria per l’area Euro, seguiranno in un secondo momento poiché richiedono alla loro base una più profonda condivisione della sovranità fra i paesi membri. Vale la pena qui richiamare le tre diverse fasi, così come sono state presentate nella relazione:

 Fase 1, ossia “Approfondire facendo” (1 luglio 2015-30 giugno 2017): con lo scopo di utilizzare gli strumenti esistenti e i vigenti trattati per rilanciare la competitività e la convergenza strutturale, attuare politiche di bilancio responsabili a livello sia nazionale che di zona euro, completare l’Unione finanziaria e rafforzare il controllo democratico.

 Fase 2, ossia “Completare l’UEM”: saranno avviati interventi di più ampia portata per rendere il processo di convergenza più vincolante, ad esempio attraverso una serie di parametri di riferimento per la convergenza decisi di comune accordo, che avrebbero carattere giuridico, e la creazione di una tesoreria comune per la zona euro.

 Fase finale (al più tardi entro il 2025): una volta che tutte le misure saranno pienamente a regime, un’UEM autentica e approfondita costituirebbe il contesto stabile e prospero per tutti i cittadini degli Stati membri dell’Unione europea che condividono la moneta unica.

Dal rapporto è evidente che i pilastri su cui dovrà poggiare la ‘futura’ – ma non troppo – Unione, saranno quattro: l’introduzione di un sistema di autorità per la competitività per la zona Euro; un impegno maggiore all’occupazione e alle politiche di welfare; un rinforzamento dell’attuazione delle procedure per alleviare gli squilibri macroeconomici e un più forte allineamento delle politiche economiche all’interno di un semestre europeo rinnovato. Nel breve periodo queste azioni correttive dovranno essere attuate concretamente, mentre nel medio termine il percorso di convergenza dovrà divenire più stringente, con l’adozione di una serie di standard comuni di alto livello definiti nella legislazione comunitaria.

(28)

28

Analizziamo come le autorità europee stanno seriamente percorrendo la strada in direzione di una ‘Unione finanziaria’. Come è risultato dalla nostra analisi precedente, l’Unione finanziaria deve essere una priorità assoluta per i policy maker dell’Unione. Infatti, nella relazione tale obiettivo è posto nella Fase 1. Al fine di rendere il sistema bancario realmente unico ed essendo il denaro principalmente costituito da depositi bancari, i cinque presidenti evidenziano l’importanza sulla fiducia nella sicurezza di tali depositi, indipendentemente dalla nazione in cui la banca opera. Si punta quindi alla realizzazione di sistemi unici per la garanzia dei depositi, per la vigilanza bancaria e per la risoluzione delle banche. Per gli ultimi due aspetti, si sono già ottenuti notevoli risultati. Il passo successivo consiste nel consolidamento di un sistema europeo di garanzia dei depositi che dovrà nascere come un sistema di riassicurazione a livello centralizzato dei regimi nazionali di garanzia dei depositi.

Ulteriori considerazioni sono state mosse sulle politiche di bilancio insostenibili messe in opera da alcuni membri che hanno minato sia la stabilità finanziaria sia quella dei prezzi dell’Unione. Nel breve è stata prospettata l’attuazione di un Comitato consultivo europeo per le finanze pubbliche con il compito di esaminare indipendentemente e a livello europeo le performance dei bilanci e coordinare i consigli nazionali per le finanze pubbliche al momento esistenti. Nella Fase 2, al fine di permettere un migliore assorbimento dei grandi shock asimmetrici, non gestibili a livello nazionale, e una maggiore resilienza dell’UEM, si propone l’istituzione di una funzione comune di stabilizzazione macroeconomica che potrebbe muovere i primi passi dal Fondo europeo per gli investimenti strategici.

Riferimenti

Documenti correlati

(c) A seguito dello spostamento della domanda aggregata, la Circuitania potrebbe mettere in atto una politica monetaria restrittiva per ridurre le fluttuazioni del prodotto

La rilevazione conferma l’elevatissimo numero di piccole e piccolissime aziende agricole non solo in relazione alla superficie agricola utilizzata (Sau), ma anche all’input di lavoro

La rilevazione conferma l’elevatissimo numero di piccole e piccolissime aziende agricole non solo in relazione alla superficie agricola utilizzata (Sau), ma anche all’input di lavoro

Allegato A Quadro sinottico delle Aree/Paesi “focus” per gli interventi regionali a favore dell’internazionalizzazione per il 2016-2018. Aree/Paesi “focus” per gli

[r]

si è diffusa molto presto la contraccezione, si è ridotto il peso delle autorità laiche e religiose e la popolazione è diventata sempre più multiculturale, promuovendo l’idea di

•Primato del ruolo delle esportazioni e sottovalutazione di quello dei salari nella dinamica della domanda interna. •I salari come un fattore di mero costo, da contenere/ridurre

Con questo slogan i Consorzi del prosciutto di Par- ma e del San Daniele hanno chiamato a raccolta ieri a Parma i rappresentanti delle aziende produttrici consorziate assieme