• Non ci sono risultati.

Capitolo I PIACERE E DESIDERIO

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "Capitolo I PIACERE E DESIDERIO"

Copied!
47
0
0

Testo completo

(1)

13

Capitolo I

PIACERE E DESIDERIO

Basta con le parole «ottimismo» e «pessimismo», abusate fino al disgusto! Poiché di giorno in giorno manca sempre più la ragione di usarle *<+. Giacché, per quale ragione al mondo dovrebbe qualcuno essere ottimista, se non ha da difendere un Dio che deve aver creato il migliore di mondi, se egli stesso è la bontà e la perfezione? Ma quale pensatore ha ancora bisogno dell’ipotesi di un Dio? Manca, però, anche qualsiasi motivo per una professione di fede pessimistica, se non si ha interesse a far arrabbiare gli avvocati di Dio, i teologi o i filosofi teologizzanti, e a porre con forza l’affermazione contraria: che il male governa, che il dolore è più grande del piacere *<+. Prescindendo da ogni teologia e confutazione di essa, è chiaro come il sole che il mondo non è né buono né cattivo, e meno ancora il miglior o il peggiore, e che questi concetti hanno senso solo se riferiti agli uomini.

F. Nietzsche, Umano troppo umano

1. Premessa

In pochi giorni, tra il 12 e il 23 luglio del 1820, Leopardi fissa nelle pagine dello Zibaldone gli ‚assiomi‛ fondamentali della «teoria del piacere»1,

come lui stesso la definì, vera a propria intelaiatura del suo pensiero e della sua poetica, destinata a rimanere lo sfondo pressoché invariato di tutta la sua riflessione. Nonostante la sua precoce elaborazione, tale teoria non verrà mai smentita o accantonata da Leopardi, che tenderà piuttosto ad approfondirla, a radicalizzarla, ad ampliarne la portata fino a trarne le implicazioni più estreme e apparentemente contraddittorie. Il fatto è che la «teoria del piacere» racchiude molto di più di ciò che la sua denominazione lascerebbe intendere: dietro quella formulazione programmatica, che sembrerebbe riportare la

(2)

14 riflessione leopardiana entro l’ambito ben delimitato dell’edonismo settecentesco, Leopardi sviluppa una più ampia riflessione riguardante il desiderio e il suo rapporto con la realtà e con l’immaginazione2.

Elaborata inizialmente con l’intento di approfondire e semplificare «la scienza dell’animo umano» e contro il misticismo dei «moderni psicologi»3,

che vedevano ovunque nient’altro che segni della «grandezza immaginaria della nostra natura»4, la teoria del piacere non mancherà di sconfinare al di là

dell’ambito puramente ‚psicologico‛. Da principio dell’agire umano, il desiderio del piacere diventerà quasi un principio metafisico, capace di mostrare come «il sistema intero della natura si aggiri sopra pochissimi principii i quali producono gl’infiniti e variatissimi effetti che vediamo»5.

Come cercheremo di mostrare, il desiderio sarà la prima coordinata di un unico piano entro cui comprendere tutto l’esistente.

2. La «teoria del piacere»

2.1. Il desiderio come materiale, illimitato e astratto

Del desiderio Leopardi individua tre caratteristiche fondamentali, strettamente connesse tra loro e comuni a tutti gli esseri viventi: il suo essere materiale, illimitato e astratto. In primo luogo, il desiderio si dice «materiale» in quanto si presenta come «una conseguenza immediata» e «spontanea dell’amor di se e della propria conservazione»6, amore che è a sua volta

tutt’uno con la vita stessa. Secondo Leopardi non si può vivere senza desiderare e ogni essere vivente, in quanto esiste e per tutto il tempo in cui esiste, non smette mai di desiderare «la felicità, che considerandola bene, è tutt’uno col piacere»7. La vita, da questo punto di vista, non è che una

2 Cfr. A. PRETE, Un desiderio illimitato, in Id., Il pensiero poetante. Saggio su Leopardi

(1980), 1ª ed. accr., Milano, Feltrinelli, Milano 2006, pp. 13-35.

3 Zib. 53. 4Zib. 172. 5 Zib. 181. 6 Zib. 182. 7 Zib. 165.

(3)

15

successione ininterrotta di desideri, poiché il desiderio, al pari del pensiero, è un’operazione continua e inseparabile dalla vita stessa8; per questo, è solo

smettendo di vivere che si può propriamente smettere di desiderare e di pensare (come avremo modo di vedere più avanti9, proprio la noia e

l’attenzione involontaria saranno per Leopardi la «prova della perpetua continuità» di queste due attività che definiscono la vita o «sentimento dell’esistenza»10). Proprio in quanto è «ingenit[o] o congenit*o+ coll’esistenza»

e ha per oggetto la felicità o il piacere in generale, il desiderio si presenta, in secondo luogo, come «illimitato» non solo dal punto di vista della durata, ma anche da quello dell’estensione: «Il detto desiderio del piacere non ha limiti per durata, perchè *<+ non finisce se non coll’esistenza, e quindi l’uomo non esisterebbe se non provasse questo desiderio. Non ha limiti per estensione perch’è sostanziale in noi, non come desiderio di uno o più piaceri, ma come desiderio del piacere»11. È in questo senso, infine, che il desiderio potrà essere

detto ‚astratto‛ o ‚indeterminato‛, in quanto cioè si presenta come «desiderio del piacere» in generale e non di questo o quel piacere in particolare. L’essere vivente – scrive ancora Leopardi – «desidera sempre essenzialmente, e mira unicamente, benchè sotto mille aspetti, al piacere, ossia alla felicità»12. Dietro

ogni desiderio, dietro ogni oggetto verso cui si porta, il vivente è mosso sempre da una stessa, incessante e indeterminata, aspirazione al piacere, che si rivela essere l’oggetto unico, esclusivo del desiderio – il suo oggetto essenziale, o meglio ancora consustanziale. Per Leopardi dire «desiderio» è lo stesso che dire «desiderio del piacere», e quest’ultima espressione si rivela a ben vedere tautologica o quantomeno ridondante.

Nel suo carattere materiale, illimitato e astratto, il desiderio sembra quindi presentarsi come una forza immanente alla vita stessa, che spinge l’essere vivente sempre più avanti nella ricerca del piacere o della felicità. In questo

8 Cfr. Zib. 183. Su questo si veda in particolare: A. FOLIN, Il pensiero e il desiderio, in ID., Leopardi e il canto dell’addio, Marsilio, Venezia 2008, pp. 130-47.

9 Cfr. infra, cap. II, § 2.2 e cap. III, § 3.

10 Cfr. rispettivamente Zib. 3715, 17 ottobre 1823, e Zib. 3923, 27 novembre 1823. 11 Zib. 165.

12 Ibid. Tuttavia, benché in maniera astratta e indeterminata, ogni essere vivente – come

precisa Leopardi – desidera il piacere e la felicità non assolutamente, ma relativamente al proprio modo di essere e di esistere, di cui il desiderio è funzione. La felicità infatti non è altro che «la perfezione e il fine dell’esistenza» (cfr. Zib. 3498-9, 24 settembre 1823).

(4)

16 senso, come ha scritto Antonio Prete, «il desiderio leopardiano, corporeo, vitale, illimitato, ha a che fare con il greco thumos e annuncia la freudiana pulsione (Trieb): del primo ha l’energia tutta corporea ed espansiva, della seconda annuncia la naturalità di uno svolgimento che [...] coincide con la vita stessa *...+. Il desiderio leopardiano è infatti una ‚tendenza‛»13. Ci sembra

tuttavia che questa particolare connotazione del desiderio leopardiano meriti di essere approfondita ulteriormente. Essa sembra dirci infatti tutta la distanza che separa Leopardi da quella lunga tradizione che, da Platone in avanti, aveva fatto (e farà) consistere il desiderio nella mancanza. Secondo Leopardi il desiderio non si origina dalla mancanza, ma dalla pienezza: è esso stesso espressione e funzione della pienezza vitale14 e, come tale, non può che

caratterizzarsi per la sua assoluta positività. È sulla base di questa totale identificazione del desiderio con la vita e con la vitalità che sembra possibile individuare una qualche affinità tra Leopardi e Spinoza: come il desiderio leopardiano, così la cupiditas spinoziana non è altro che il conatus (tensione) con cui l’uomo, al pari di ogni altro essere vivente, è spinto a perseverare nel suo essere per un tempo indefinito e ad accrescere la propria potenza15.

Tuttavia, a differenza di Spinoza, Leopardi introdurrà una scissione tra desiderio del piacere e tendenza autoconservativa (o, detto nei termini di Spinoza, tra cupiditas e conatus)16: l’amor proprio – osserva Leopardi – «non può non

essere amore della propria esistenza, se non quando quest’esistenza è divenuta una pena. Ma ciò non in quanto esistenza»17, bensì in quanto vita,

cioè in quanto esistenza sentita. Per Leopardi, a differenza di Spinoza, né l’amore per la vita né l’odio per la morte sono innati nell’essere vivente, ma prodotti dall’abitudine di identificare la vita con il piacere e la morte con il

13 A. PRETE, Finitudine e infinito. Su Leopardi, Feltrinelli, Milano 1998, p. 89.

14 Cfr. in partic. Zib. 277-80, 16 ottobre 1920, e 2736-38, 1 giugno 1823, dove Leopardi

stabilisce una sorta di ‚rapporto direttamente proporzionale‛ tra pienezza vitale e intensità del desiderio.

15 Cfr. SPINOZA, Etica, III, propp. VII-IX con relativo scolio (seguiamo l’edizione a cura

di P. Cristofolini, Ets, Pisa 2010).

16 Questa è, a ben vedere, anche la differenza più decisiva tra Leopardi e D’Holbach, il

quale, pur avendo messo al centro dell’agire dell’essere vivente il desiderio di felicità, finiva tuttavia per subordinare quest’ultimo alla tendenza autoconservativa. L’amore di sé e della propria felicità, pensato in analogia con la forza d’inerzia, era anzitutto una tendenza alla conservazione di sé (cfr. D’HOLBACH, Sistema della natura, a cura di A. Negri, Utet, Torino 1978, capp. IV e VI in particolare).

(5)

17 dolore. Del resto, come vedremo meglio nel prossimo capitolo, per Leopardi non solo «amore del piacere» e «amore della vita» non coincidono, ma possono addirittura entrare in conflitto. Il desiderio del piacere può anche convertirsi in un desiderio di morte o di «insensibilità illimitata», cosa che per Spinoza sarebbe invece semplicemente contraddittoria o impossibile da concepire.

Ma non per questo si tratterà per Leopardi di andare, con Freud, al di là del principio del piacere e di fare dell’essere vivente il teatro dell’eterno scontro tra Eros e Thanatos. Per Leopardi la ricerca del piacere resta l’unica tendenza veramente innata, assoluta e incondizionata, capace di convertirsi tanto nel desiderio di vita quanto nel desiderio di morte. Come vedremo, se si ammette la possibilità che il «desiderio del piacere» non sia una tendenza meramente autoconservativa, diventa possibile vedere nel desiderio di morte qualcosa che non intacca l’assoluta positività del desiderio, dal momento che nella morte o nell’insensibilità illimitata ciò che si ricerca è ancora il piacere.

2.2. Desiderio e immaginazione

Abbiamo visto come, sulla base delle sue caratteristiche fondamentali e comuni a tutti gli esseri viventi (cioè come materiale, illimitato e astratto), il desiderio leopardiano sembra caratterizzarsi per la sua pienezza e per la sua assoluta positività. Tuttavia, quest’affermazione parrebbe assai difficile da sostenere, soprattutto se si pensa alle conclusioni che Leopardi stesso trae dalla cosiddetta «teoria del piacere»: «Posta la detta teoria – si legge nello Zibaldone – si viene a conoscere (quello ch’è veramente) che il desiderio del piacere diviene una pena, e una specie di travaglio abituale dell’anima», rispetto al quale ci paiono preferibili tutte quelle forme di «assopimento» o di «stordimento» della sensibilità, capaci di garantire distrazione e «riposo dal desiderio tormentoso, e impossibile a soddisfare pienamente»18. Tali sono,

secondo Leopardi, i vantaggi offerti dall’oppio, dal sonno, dal vino o dalla vita continuamente occupata19.

18 Zib. 172.

(6)

18 Come conciliare queste conclusioni con il carattere vitale ed essenzialmente positivo del desiderio, che pure abbiamo creduto di poter mettere in evidenza? Ora, nel considerare il passo appena citato ci sembra che si dovrebbe porre l’accento su quel «diviene»: Leopardi a ben vedere non sta dicendo che il desiderio è, di per se stesso, una pena o un tormento, bensì che lo diventa. Si tratta allora di capire perché, in che modo, il desiderio del piacere, che originariamente sembra caratterizzarsi per la sua pienezza e per la sua positività, finisca per essere avvertito come una «specie di travaglio abituale dell’anima», causa principale di inquietudine e di infelicità. Del resto, come aveva rilevato Cesare Luporini, proprio nella risposta a questa domanda risiede quella che, nell’antropologia leopardiana, sembra presentarsi come una delle principali ragioni della differenza tra l’uomo e l’animale: «Come ogni specie vivente – scrive Luporini – l’uomo è prima di tutto desiderio. Ma l’animale-uomo è dotato d’immaginazione, componente essenziale della plasticità della sua natura e quindi della sua storicità». Proprio «il combinarsi di desiderio vitale *<+ e di immaginazione produce una miscela straordinaria e pericolosa: il desiderio di una felicità senza limiti, immensa, infinita, ontologicamente impossibile»20. È nell’uomo quindi che il

desiderio diviene una pena o un tormento, perché solo l’uomo si forgia nell’immaginazione l’ideale di un piacere infinito, impossibile da realizzare. Scrive Leopardi a questo riguardo:

Indipendentemente dal desiderio del piacere, esiste nell’uomo una facoltà immaginativa, la quale può concepire le cose che non sono, e in un modo in cui le cose reali non sono. Considerando la tendenza innata dell’uomo al piacere, è naturale che la facoltà immaginativa faccia una delle sue principali occupazioni della immaginazione del piacere. E stante la detta proprietà di questa forza immaginativa, ella può figurarsi dei piaceri che non esistano, e figurarseli infiniti 1. in numero, 2. in durata, 3. e in estensione. Il piacere infinito che non si può trovare nella

20 LUPORINI, Leopardi progressivo, cit., p. 138. Quest’interpretazione dell’«antropologia

filosofica di Leopardi», che fa dell’immaginazione e non della ragione, il «marchio antropologico caratterizzante» (ivi, p. 122) resterà centrale anche nel libro postumo di Luporini: Decifrare Leopardi, Macchiaroli, Napoli 1998.

(7)

19 realtà, si trova così nella immaginazione, dalla quale derivano la speranza, le illusioni ec. 21

Al piacere reale, necessariamente finito, limitato, circoscritto, l’uomo contrappone un ‚ente di ragione‛22, il piacere immaginato, che – al pari del

desiderio, su cui viene come ricalcato dall’immaginazione – non conosce limiti né per durata né per estensione. Ma un oggetto infinito, l’unico che sarebbe in grado di produrre un piacere siffatto, è ontologicamente impossibile, perché incompatibile con la natura stessa della cose esistenti, la quale implica che «tutto esista limitatamente, e tutto abbia confini, e sia circoscritto»23. Così, mentre nell’animale, il desiderio illimitato resta

immanente alla vita stessa, identificandosi con la «copia delle sensazioni»24

che la costituiscono, nell’uomo la duplice illimitatezza del desiderio, si proietta, per mezzo dell’immaginazione, nell’ideale di un piacere ricercato e il desiderio illimitato di piacere diventa desiderio di un piacere infinito, destinato a rimanere insoddisfatto25. Se quindi nell’uomo il desiderio diviene una pena e

un tormento, è perché un simile ideale irraggiungibile, divenuto oggetto di un’aspirazione incessante, gli fa sentire ogni volta l’insufficienza di tutti i piaceri reali, lo scarto incolmabile tra la loro limitatezza e l’estensione smisurata del piacere desiderato:

Il fatto è che quando l’anima desidera una cosa piacevole desidera la soddisfazione di un suo desiderio infinito, desidera veramente il piacere, e non un tal piacere; ora nel fatto trovando un piacere particolare, e non

21 Zib. 167.

22 «Il piacere è un subietto speculativo, e non reale; un desiderio, non un fatto, un

sentimento che l’uomo concepisce col pensiero, e non prova; o per dir meglio, un concetto, e non un sentimento» (Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare, TPP, p. 530).

23 Zib. 165. L’infinito propriamente detto, preciserà poi meglio Leopardi, non esiste da

nessuna parte (neppure nell’immaginazione), ma solo nel linguaggio: «pare che solamente quello che non esiste, la negazione dell’essere, il niente, possa essere senza limiti, e che l’infinito venga in sostanza ad essere lo stesso che il nulla» (Zib. 4178, 2 maggio 1826).

24 Dialogo di un fisico e di un metafisico, TPP, p. 527.

25 In questo senso dunque «la leopardiana teoria del piacere racconta sullo scenario del

desiderio l’impossibilità del piacere: ma con l’occhio al prima della scena, all’altro dove il desiderio non è vuoto, ma, nella sua materialità corporale, si intreccia col gioco, col sogno, col riposo dei sensi. L’universo degli animali appartiene a questa forma del desiderio, totalmente identificata con la vita, con la ‚copia delle sensazioni‛, con l’intensità e il vigore» (PRETE, Il

(8)

20 astratto, e che comprenda tutta l’estensione del piacere [immaginato], ne segue che il suo desiderio [di un piacere infinito] non essendo soddisfatto di gran lunga, il piacere appena è piacere, perchè non si tratta di una piccola ma di una somma inferiorità al desiderio e oltracciò alla speranza. E perciò tutti i piaceri debbono essere sempre misti di dispiacere, come proviamo, perchè l’anima nell’ottenerli cerca avidamente quello che non può trovare, cioè una infinità di piacere, ossia

la soddisfazione di un desiderio illimitato26.

In ogni oggetto verso il quale si porta, l’uomo non cerca altro che «un’infinità di piacere», cioè la «soddisfazione di un desiderio illimitato» tanto per durata quanto per estensione; ma poiché l’infinito non esiste da nessuna parte, ogni desiderio nell’uomo è destinato a rimanere insoddisfatto. In questo senso, come scriverà Leopardi, «la felicità è impossibile a chi la desidera», a chi la ricerca espressamente, e tra gli esseri «il più felice possibile, è il più distratto dalla intenzione della mente alla felicità assoluta. Tali sono gli animali, tale era l’uomo in natura»27. Mentre l’animale, spinto dal

desiderio inesauribile, si limita a inseguire il piacere passando continuamente da un oggetto all’altro, in una successione potenzialmente illimitata di piaceri finiti (in loro, dice Leopardi, il desiderio della felicità è come «dissipato dall’azione continua»28), l’uomo, desideroso di un piacere infinito, sente il

piacere come qualcosa che interrompe il flusso continuo del desiderio. La particolare ‚mutazione antropologica‛ che il desiderio conosce per opera dell’immaginazione consiste in sostanza in questo: che il piacere smette di essere un processo immanente al flusso del desiderio, per diventare un atto che, come tale, sarà sempre deludente rispetto all’aspettativa, perché nessun oggetto reale potrà mai essere in grado di offrire un piacere infinito. La felicità o il piacere infatti non può consistere in un atto, perché nessun vivente «può essere attualmente felice»29.

A ben vedere, allora, la pena dell’uomo non sta tanto nel desiderio, quanto piuttosto nel piacere, o meglio nel soddisfacimento, che è sempre

26 Zib. 166-7.

27 Zib. 648-9, 12 febbraio 1821. 28 Zib. 648.

(9)

21 avvertito come un ripiegamento rispetto al desiderio assoluto, rispetto al desiderio di un piacere infinito: «Se tu desideri un cavallo», osserva appunto Leopardi, «ti pare di desiderarlo come cavallo, e come un tal piacere, ma in fatti lo desideri come piacere astratto e illimitato. Quando giungi a possedere il cavallo, trovi un piacere necessariamente circoscritto, e senti un vuoto dell’anima, perchè quel desiderio che tu avevi effettivamente, non resta pago»30.

A differenza dell’animale, l’uomo fa quindi esperienza della sproporzione tra il desiderio e il suo soddisfacimento, dello scarto tra infinito e finito. La noia, come vedremo meglio nel prossimo capitolo, è precisamente secondo Leopardi, il sentimento di questa sproporzione, di questo scarto incolmabile tra il piacere immaginato e quello reale, tra il desiderio e ogni possibile appagamento. Essa verrà anche definita, nel Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare, come il «desiderio puro della felicità», che noi possiamo sentire come tale solo nell’attimo stesso del piacere o del soddisfacimento, quando il desiderio rimane per così dire ‚vuoto‛, senza oggetto. La noia diventerà in questo senso la prova del fatto che «l’uomo in ciascun istante della sua vita pensata e sentita desidera infinitamente di più o di meglio di ciò ch’egli ha»31. Come vedremo meglio nel prossimo capitolo,

più che con il desiderio, il vuoto, la mancanza, sembrano piuttosto avere a che fare in Leopardi con la noia. Essa è appunto l’indice di una mancanza: di «una mancanza del piacere che è l’elemento stesso della nostra vita, e di cosa che ci distragga dal desiderarlo»32. Ma questa mancanza nell’uomo non è

originaria, costitutiva, ma prodotta dalla combinazione tra il desiderio e l’immaginazione, che ci fa sentire lo scarto tra il piacere immaginato e quello reale. In altre parole, è il desiderio di un piacere infinito, nel suo carattere sempre debordante, sempre eccedente, a produrre la mancanza, non viceversa. E se è vero che l’uomo si presenta in Leopardi come un essere mancante, egli tuttavia non sarà tale in quanto ‚desiderante‛, bensì in quanto immaginante, in quanto cioè si forgia nell’immaginazione l’ideale di un piacere infinito, impossibile da realizzare. È l’immaginazione a scavare nel desiderio

30 Zib. 165-66.

31 Zib. 4126, 12 marzo 1825. 32 Zib. 174.

(10)

22 la mancanza, a introdurvi quel senso di insufficienza di cui la noia è il sentimento più compiuto. In questo senso, il pensiero leopardiano mostra, nella maniera più radicale, la sua distanza da ogni ‚pensiero della trascendenza‛, cioè da ogni pensiero che, ponendo l’accento su una mancanza presunta originaria e costitutiva, lascia sempre aperta una via di fuga che orienta il desiderio verso una condizione di pienezza che si dà solo altrove33.

3. La teoria del piacere negativo

3.1. Pietro Verri e l’edonismo settecentesco

Abbiamo visto come la «teoria del piacere» sia innanzitutto per Leopardi una teoria del desiderio. Se nella maggior parte delle teorie settecentesche, di matrice prevalentemente sensista, il piacere e il dolore erano gli opposti irriducibili in funzione dei quali definire il desiderio, in Leopardi è invece solo a partire da una preliminare definizione della natura del desiderio – inteso come una tendenza innata al piacere, inseparabile dalla vita stessa – che viene ripensata la stessa opposizione tra piacere e dolore. Tuttavia, troppo spesso, la teoria leopardiana del piacere continua a essere

33 Ci sembra interessante segnalare, a margine di queste considerazioni sulla teoria

leopardiana del piacere, l’ipotesi avanzata da L. BIASIORI, Letture di Niccolò. Storia e fortuna di

Machiavelli, tesi di perfezionamento in Discipline storiche discussa presso la Scuola Normale

di Pisa (a.a. 2010-11), pp. 65-72, che indica, tra le fonti possibili di questa elaborazione teorica da parte di Leopardi, quella inedita rappresentata da Machiavelli. Nei Discorsi, in particolare nel proemio al libro II, 21, Leopardi poteva leggere ad esempio: «Sendo, oltra di questo, gli appetiti umani insaziabili, perché, avendo dalla natura di potere e volere desiderare ogni cosa, e dalla fortuna di potere conseguitarne poche, ne risulta continuamente una mala contentezza nelle menti umane e uno fastidio delle cose che si posseggono». Considerazioni analoghe si trovano anche in Discorsi I, 37, 4. Che questi passi potessero esseri noti a Leopardi già nell’estate del 1820, quando avviene la prima elaborazione della teoria del piacere, appare del resto ben possibile, stando alla ricostruzione di Biasori. A nostro avviso, resta comunque il fatto che l’impossibilità del soddisfacimento, che per Machiavelli è legata alla sproporzione tra ciò che la natura ci fa desiderare e ciò che la fortuna ci permette di conseguire, diventa per Leopardi il portato di una vera e propria incommensurabilità ‚ontologica‛ tra l’infinità del desiderio e la finitezza costitutiva di ciò che esiste. Per Leopardi, anche se la fortuna ci permettesse di conseguire tutto ciò che desideriamo, non per questo saremmo soddisfatti (cfr. ad esempio Dialogo di Malambruno e di Farfallero, TPP, pp. 511-12) perché il desiderio eccede costitutivamente ogni piacere possibile e l’infinito, vero e proprio oggetto delle nostre aspirazioni, non esiste da nessuna parte.

(11)

23 ricondotta nell’alveo dell’edonismo illuminista e confusa, più in particolare, con una teoria del ‚piacere negativo‛. Per questo, al fine di rendere più evidente la rottura operata da Leopardi, cercheremo ora di ricostruire brevemente, in quelli che sono i suoi caratteri più significativi34, quel

particolare ‚dispositivo concettuale‛ che è alla base dell’edonismo illuminista.

L’opera di Pietro Verri (pensiamo in particolare al Discorso sull’indole del piacere e del dolore e alle Meditazioni sulla felicità) sembra offrire a questo riguardo uno degli gli esempi più rappresentativi, sia perché in lui alcuni dei tratti caratteristici di questo dispositivo concettuale vengono portati all’estremo e diventano in qualche modo più espliciti, sia perché è alle sue dottrine che la teoria del piacere esposta da Leopardi è stata più spesso accostata35. La matrice di questo dispositivo concettuale dovrà comunque

essere rintracciata nelle dottrine di Locke e di Condillac.

Nel Discorso sopra l’indole del piacere e del dolore, Pietro Verri aveva affermato che il piacere (sia esso fisico o morale) non consista in altro che nella rapida cessazione del dolore. Il piacere infatti non è nulla di positivo o di reale, ma può essere definito solo negativamente, vale a dire a partire dal dolore, che è l’unica entità reale e in sé sussistente. Solo il dolore propriamente esiste e il piacere non è che la sua ombra, vale a dire un suo rovescio puramente negativo o un suo ‚effetto collaterale‛:

Dirà taluno: è vero che ogni piacer *<+ consiste nella rapida cessazione del dolore; ma egualmente potrà dirsi che ogni dolore *<+ consiste nella rapida cessazione di un piacere. Ma a ciò rispondo che una simile generazione reciproca non si può dare; e per conoscere che ciò non si può, basti il riflettere che se ciò fosse, non potrebbe l’uomo mai cominciare a sentire né piacere né dolor *<+. Dunque o né l’una né l’altra

34 Per una rassegna più particolareggiata, si può vedere in generale: R. MAUZI, L’idée de

bonheur dans la littérature et la pensée françaises au XVIII siècle, Colin, Paris 1965. Per quanto

riguarda l’Italia in particolare, si veda invece: F. VENTURI, Settecento riformatore, Einaudi, Torino 1969 (vol. I : Da Muratori a Beccaria).

35 Cfr. ad esempio S. CONTARINI, Una mappa della sensibilità, intr. a P. Verri, Discorso sull’indole del piacere e del dolore, Carocci, Roma 2001, p. 39 in partic.

(12)

24 di queste generazioni è vera; oppure, se una di esse è vera, l’altra è impossibile36.

Una «generazione reciproca» del piacere e del dolore non si può dare. Verri crede allora di poter uscire da questa impasse facendo del dolore una sorta di ‚positività‛ originaria, di motore immobile della vita psichica. Ciò vuol dire che il dolore è l’unico pungolo dell’attività, l’unico principio positivo o movente originario delle azioni umane e che in sostanza il desiderio (comunemente considerato un appetito ‚bifronte‛ e definito al tempo stesso come ricerca del piacere e come fuga dal dolore37) non è altro

che la spinta a uscire da uno stato doloroso. In questo senso, si deve dire che il desiderio nasce come «percezione acuta di una mancanza»38, di una mancanza

originaria. La stessa ricerca del piacere si risolve nella fuga dal dolore, che finisce così per coincidere con l’essenza stessa del desiderio. Il piacere, come uscita da uno stato doloroso, non è altro, in sostanza, che la scarica del desiderio39, il temporaneo ripristino dell’equilibrio. D’altra parte, dire che il

36 P. VERRI, Discorso sopra l’indole del piacere e del dolore, cit., § VI, pp. 92-3. Cfr. anche §

XI, dove Verri cercherà conferma empirica di questa sua teoria nel caso del bambino appena nato, che appare «gemente e smanioso», «addolorato».

37 Cfr. ad es. DESCARTES, Passions de l’âme,introductions et notes par G. Rodis-Lewis,

Vrin, Paris 1999, II partie, articles LXXXVII : «D’autant qu’il n’y a aucun bien dont la privation ne soit un mal, ni aucun mal, considéré comme une chose positive, dont la privation ne soit un bien *<+, il me semble que c’est toujours un même mouvement qui porte à la recherche du bien et ensemble à la fuite du mal qui lui est contraire». Si veda anche HOBBES, Leviathan, tr. it. a cura di A. Pacchi, Laterza, Bari 1989, parte I, cap. VI. Hobbes tuttavia (ma si tratta a ben vedere di una questione meramente terminologica) riserva il termine ‚desiderio‛ solo per il movimento di avvicinamento e preferisce chiamare conatus il complesso della fuga e dell’avvicinamento.

38 CONTARINI, Una mappa della sensibilità, cit. p. 12.

39 I. KANT, che nell’Antropologia dal punto di vista pragmatico (tr. it. di M. Bertani e G.

Garelli, introduzione e note di M. Foucault, Einaudi, Torino 2010, libro II, § 60) dichiara di sottoscrivere «con piena convinzione questi principi del conte Verri», fornisce circa la negatività del piacere e la preminenza ‚ontologica‛ del dolore questa ulteriore argomentazione che riguarda il tempo: «La sensazione di godimento è suscitata dalla coscienza di abbandonare lo stato presente, oppure dalla prospettiva di entrare in quello a venire? Nel primo caso, il godimento non è altro che la scomparsa di un dolore e qualcosa di negativo; nel secondo, esso sarebbe il presentimento di qualcosa di gradevole, dunque accrescimento dello stato di piacere, e quindi qualcosa di positivo. Ma si può già prevedere che unicamente il primo caso avrà luogo, dato che il tempo ci trascina dal presente all’avvenire (e non viceversa), e che noi siamo anzitutto necessitati a uscire dalla condizione presente, mentre ci è indeterminato quale sia l’altra in cui entreremo».

(13)

25 desiderio non è altro che fuga dal dolore, vuol dire assegnargli automaticamente una funzione precisa, che è appunto quella di garantire la conservazione del vivente.

Per comprovare questa sua concezione del desiderio come stato di pena, Verri si era richiamato all’autorità di Locke, che nell’Essay Concerning Human Understanding aveva definito il desiderio come uneasiness, cioè come quell’«inquietudine» o quel «disagio che un uomo avverte in se stesso per l’assenza di una qualunque cosa, la cui presenza attuale porta con sé l’idea del piacere»40. Sebbene non avesse ancora colto l’essenza solo negativa del

piacere (concepito, al pari del dolore, come una sensazione primitiva o «idea semplice»41), Locke sembrava tuttavia andare precisamente nella direzione

voluta da Verri nel momento in cui riteneva di una qualche utilità precisare (anche se solo per inciso) che «proprio tale disagio» o inquietudine – e non la ricerca del piacere – è «lo sprone principale, se non unico, dell’operosità e dell’agire umano»: «infatti, qualunque sia il bene proposto, se la sua mancanza non producesse alcun genere di dispiacere o dolore, se l’uomo fosse contento e a suo agio senza di esso, non vi sarebbe alcun desiderio di quella cosa, né sforzo per ottenerla»42. Anche per Locke quindi il desiderio

nasce sempre e solo da uno stato doloroso, senza il quale non solo il desiderio non esisterebbe, ma neppure il piacere sarebbe avvertito come tale.

Non molto diversa da quella di Verri era stata la posizione espressa da Condillac, che aveva portato alle estreme conseguenze alcune delle tesi di Locke. Come Pietro Verri, anche Condillac aveva riletto le osservazioni dell’Essay attorno al piacere, al dolore e al desiderio alla luce del modello fisico-quantitativo che, a partire soprattutto dall’opera di Maupertuis, veniva ormai normalmente applicato al campo della scienza morale43. Se Verri aveva

40 J. LOCKE, Saggio sull’intelletto umano, 2 voll., a cura di V. Cicero e M. G. D’Amico,

testo inglese a fronte, Bompiani, Milano 2007, libro II, cap. XX, § 6 (traduzione leggermente modificata).

41 Cfr. LOCKE, op. cit., libro II, cap. XX, § 1. Idee semplici, vuol dire appunto che «non

possono essere descritte, né possono essere definiti i loro nomi», e che «il tramite per conoscerle *<+ è solo l’esperienza».

42 LOCKE, op. cit., libro II, cap. XX, § 6 (traduzione leggermente modificata).

43 Cfr. MAUPERTUIS, Essai de philosophie morale, in Id., Œuvres, par G. Tonelli, Georg

Olms Verlag, Hildesheim – New York 1956-1974, vol. I, pp. 173-251. Maupertuis aveva in particolare definito la misurabilità dei piaceri e dei dolori (fisici o morali) in base a una formula che ricorda molto quella della velocità: «l’estimation des moments heureux ou

(14)

26 utilizzato soprattutto il paradigma dell’elasticità e aveva paragonato la nostra sensibilità a una molla, suscettibile di essere compressa o dilatata entro certi limiti44, Condillac aveva invece preferito spiegare il rapporto tra desiderio e

piacere in analogia con il funzionamento di una leva o di una bilancia45. Il

desiderio veniva in sostanza pensato da Condillac come una forza, dotata di diversi gradi di intensità, che tende a colmare il dislivello tra due stati o, più precisamente, a ristabilire l’equilibrio tra lo stato presente e uno passato, sentito come migliore e in cui si vorrebbe ritornare. L’intensità del desiderio dipende quindi dalla differenza o dal dislivello tra questi due stati (Condillac contempla tutta una scala che può andare dal semplice malaise o inquiétude, quando il dislivello è minimo, al vero e proprio tourment, quando è massimo). Tuttavia, perché ci sia desiderio, occorre che questo dislivello sia avvertito come tale, occorre cioè che si dia la possibilità di istituire un confronto tra diverse sensazioni successive, senza il quale, non ci sarebbe nemmeno alcuna idea del piacere o del dolore. Una statua capace di sentire ma non di ricordare le sensazioni passate, o la cui esistenza non fosse altro che una successione uniforme e ininterrotta di sensazioni sempre identiche, non avrebbe, secondo Condillac, nessuna idea del piacere o del dolore e sarebbe priva di ogni desiderio; per essa vivere significherebbe semplicemente esistere nell’uno o nell’altro stato.

Per quanto possa apparire del tutto astratto e artificioso, l’esperimento mentale messo in opera nel Traité des sensations, e che consiste

malhereux » sarebbe data dal prodotto tra l’intensità del piacere o del dolore e la sua durata. La felicità (o l’infelicità), a sua volta, non è altro che il bilancio (positivo o negativo) che si ottiene dalla somma dei beni meno la somma di tutti i mali.

44 «Una molla di fino acciaio stassene immobile sin tanto che non venga compressa: il

mistero della sensibilità vi ha molta somiglianza; l’uomo privo di sensazioni rimane parimenti immobile; comprimilo, addoloralo, ei si rannicchia in se stesso, e si move. Se la compressione è passeggera e tenue, la molla rimbalzando se ne libera e nel primo slancio si dilata anche oltre il limite cui prima trovavasi; così la sensibilità, se il dolore sia moderato e passeggero, al cessare di esso, la gioja sembra che la dilati e la estenda anche quasi fuor di sé: il dolore è quasi un raggruppamento, una condensazione; ed è espansiva, e sembra grandeggiare la gioja. Comprimi la molla con eccessivo peso , ella perderà l’elasticità, o sarà infranta: opprimi l’uomo con eccessivo dolore, o lo renderai stupido, o lo ucciderai» (VERRI, Discorso sull’indole, § XIII, p.p. 152-3).

45 Cfr. CONDILLAC, Traité des sensations, Fayard, Paris 1984, I parte, capp. 3-4. Sul

metodo dell’analogia e sulla trasposizione da parte di Condillac della scoperta di Newton dal campo della fisica all’ordine psicologico, si veda in particolare il saggio di J. DERRIDA,

(15)

27 nell’immaginare una statua che acquista progressivamente la capacità di sentire e l’uso delle facoltà intellettuali, ci consente tuttavia di isolare con una certa nettezza altri aspetti che contribuiscono a chiarire il quadro concettuale dell’edonismo illuminista, di matrice prevalentemente sensista. Il desiderio viene pensato in sostanza non come una tendenza innata, ma come una facoltà che presuppone lo sviluppo di altre facoltà, quali l’attenzione e la memoria. Da quest’ultima dipende, in particolare, la capacità di riconoscersi come ‚soggetti‛ del proprio vissuto o flusso di sensazioni. Il desiderio si presenta quindi come funzione di un ‚io‛ o di un ‚soggetto‛ che si costituisce innanzitutto a partire dalla collezione delle sensazioni che siamo in grado di ricordare. Poiché il desiderio presuppone la memoria, e dunque la consapevolezza di se stessi, oltre che come fuga dal dolore e come tendenza autoconservativa, esso si presenta anche tendenza soggettiva, che sorge solo in un secondo momento, cioè come una funzione di un io già costituito.

Nel Traité des animaux, Condillac aveva osservato inoltre come, mentre nell’animale il desiderio non è altro che fuga dal dolore, nell’uomo esso assuma una forma per così dire più astratta e diventi desiderio di sfuggire alla morte. Nell’uomo si ‚espliciterebbe‛ cioè il carattere autoconservativo del desiderio, ancora latente nell’animale, che, non concependo la morte come qualcosa che lo riguarda, ne ignorerebbe del tutto la paura. Mentre nell’animale il desiderio coincide con il bisogno fisico e ha, come quest’ultimo, carattere intermittente, nell’uomo il desiderio, emancipandosi dai bisogni immediati e portandosi dagli oggetti fisici a quelli morali (nei quali entra in gioco l’immaginazione) diventa il più pressante di tutti i bisogni e il suo pungolo si fa sentire continuamente.

Prima di procedere oltre, ci pare necessaria una precisazione sul ruolo svolto dalla filosofia di Spinoza nella definizione del quadro che abbiamo appena tratteggiato. La definizione del desiderio formulata da Locke e a cui si rifaranno, direttamente o indirettamente, molti degli autori successivi sembra richiamare per certi versi quella spinoziana di desiderium, a cominciare proprio dal riferimento alla memoria di una cosa assente. Chiamiamo desiderium – aveva affermato appunto Spinoza nella III parte dell’Etica – la tristezza che nasce dalla cupiditas di possedere una cosa assente, tristezza accompagnata dunque dall’idea della cosa e di ciò che ne esclude l’esistenza.

(16)

28 Così definito, il desiderium rientra nel novero delle «passioni tristi», cioè di quelle passioni che riducono la nostra potenza di agire e di pensare46. Ma se è

a Spinoza che la concezione leopardiana del desiderio può essere ricondotta è non tanto in riferimento al desiderium quanto piuttosto alla cupiditas, vale a dire a quella tensione o potenza di esistere e di agire propria di ogni essere vivente e di cui il desiderium non è che una semplice «modificazione».Mentre il desiderium sembra non essere altro che un’emanazione soggettiva, funzione di un soggetto, del suo vissuto e di ciò che ricorda, la cupiditas è invece, al pari del desiderio leopardiano, una tendenza o una ‚pulsione‛ insita nella vita stessa.

Quello che ci interessa qui comunque non è suggerire una filiazione o un rapporto diretto tra Leopardi e Spinoza – cosa che del resto sarebbe assai difficile da sostenere, visto che Leopardi sembra aver conosciuto solo mediatamente il pensiero del filosofo olandese47. Certamente, attraverso le

sue numerose letture, qualcosa di quello spinozismo che aveva percorso il XVIII secolo, alimentando il pensiero dei libertini e degli ideologi francesi, doveva essere penetrato in Leopardi, come dimostra del resto il giovanile Dialogo filosofico sopra un moderno libro intitolato ‚Analisi delle idee ad uso della gioventù‛48, scritto nel 1812, dove, seppure formalmente respinte, si trovano

46 Cfr. SPINOZA, Etica, cit., parte III, def. XXXII con relativa spiegazione. Data la sua

definizione, la traduzione più appropriata del desiderium spinoziano ci sembra quindi essere quella proposta da Cristofolini che, traducendo questo termine con ‚nostalgia‛, si riserva di utilizzare la parola ‚desiderio‛ per rendere il latino cupiditas: «La nostalgia è desiderio, ossia voglia di giovarsi di una cosa, sollecitata dal ricordo della cosa stessa, e al tempo stesso coartata dal ricordo di altre cose che escludono l’esistenza di quell’oggetto di desiderio». E, poco più oltre, nella spiegazione: «Per cui la nostalgia è in realtà una tristezza *<+. Ma siccome la parola nostalgia sembra riguardare il desiderio, questo moto dell’animo lo collego ai moti del desiderio».

47 Le sue principali fonti al riguardo erano soprattutto i manuali scolastici, destinati alla

sua formazione teologica, e la voce «Spinoza» del Dizionario storico critico di Bayle. Per la complessa questione dello spinozismo di Leopardi, sollevata per primo da A. NEGRI, Fra

infinito e comunità. Appunti sul materialismo in Spinoza e Leopardi (in Id., Spinoza, Derive

Approdi, Roma 1998), si vedano in particolare: M. BISCUSO, Stratonismo e spinozismo.

L’invenzione della tradizione materialistica in Leopardi, in C. Santinelli, D. Bostrenghi (a cura di), Spinoza. Ricerche e prospettive: per una storia dello spinozismo in Italia, Atti delle giornate di studio

in ricordo di Emilia Giancotti, Urbino, 2-4 ottobre 2002, Bibliopolis, Napoli 2007, pp. 351-70, e G. DE LIGUORI, Da Teofrasto e Stratone. L’itinerario filosofico di Giacomo Leopardi, «Quaderni materialisti», 3-4 (2004), p. 217. Su Leopardi e Bayle, cfr. invece: M. A. RIGONI, Leopardi e il

metodo di Bayle, in «Rivista di Storia della Filosofia», 1/99, pp. 43-53. 48 Cfr. TPP, p. 733-9.

(17)

29 molte delle tesi centrali nella filosofia di Spinoza illustrate con un tale vigore argomentativo da aver fatto sospettare la messa in opera, da parte del giovane Leopardi, di una «strategia di dissimulazione»49. E forse non è un

caso che proprio in questo dialogo, compaia quello che è probabilmente il primo riferimento esplicito di Leopardi a quel «desiderio di felicità» che diventerà poi così centrale nella successiva elaborazione della teoria del piacere. Tuttavia, al di là di ogni possibile rapporto, sia esso diretto o indiretto, tra Leopardi e Spinoza, quello che ci interessa qui è soprattutto mettere in luce l’esistenza di un’analogia ‚formale‛ o ‚concettuale‛ tra il desiderio leopardiano e la cupiditas spinoziana.

3.2. La distanza di Leopardi

Lo scarto che la teoria leopardiana del piacere implica rispetto al quadro dell’edonismo illuminista, che abbiamo cercato di tratteggiare nel paragrafo precedente, appare subito evidente. In quanto tendenza «ingenita o congenita coll’esistenza», il desiderio leopardiano si presenta innanzitutto, al pari della cupiditas spinoziana, come una tendenza innata: è soprattutto su questa totale identificazione del desiderio con la vita che consiste a nostro avviso il profondo spinozismo di Leopardi. Il desiderio non è più concepito come una tendenza soggettiva, funzione della memoria o di un io già costituito, ma come una processo innato, primitivo, quasi biologico. Inoltre, come abbiamo visto, dire desiderio, per Leopardi, è lo stesso che dire desiderio del piacere: non più la pena, il disagio, la fuga dal dolore, ma la ricerca positiva del piacere si presenta come il principio fondamentale e originario al quale ricondurre ogni agire, ogni tendenza. Nell’uomo, così come in ogni altro essere vivente, il primo impulso che scaturisce dalla vita stessa, conseguenza immediata dell’amor proprio, non è la fuga dal dolore, ma la ricerca del piacere o della felicità, pensata come una sorta di produttività originaria. Ne scaturisce un’altra conseguenza fondamentale: il desiderio del piacere diventa una tendenza

49 G. POLIZZI, «<per le forze eterne della materia». Natura e scienza in Giacomo Leopardi ,

Franco Angeli, Milano 2008, p. 214. Ma per i numerosi riferimenti a Spinoza contenuti in questo Dialogo si veda anche A. FRATTINI, Leopardi e gli Ideologi francesi del Settecento, in

Leopardi e il Settecento, Atti del I Convegno internazionale di studi leopardiani (Recanati 13-16

(18)

30

assoluta e incondizionata, non più legata all’autoconservazione. Se, inteso come fuga dal dolore, il desiderio appariva inevitabilmente subordinato alla tendenza autoconservativa, considerata più fondamentale e originaria, pensato invece come ricerca positiva del piacere, il desiderio non è più necessariamente legato all’autoconservazione. Come vedremo meglio nel prossimo capitolo, è nell’orizzonte aperto da questa nuova maniera di concepire il desiderio che dovrà essere compresa la stessa possibilità di un desiderio di morte o di insensibilità illimitata che non tradisca la ricerca del piacere.

Ma questa diversa maniera di concepire il desiderio implica un radicale rivolgimento anche nel modo in cui viene concepito il rapporto tra piacere e dolore. Questi ultimi smettono di essere pensati come opposti irriducibili, perché la vera contrapposizione fondamentale per Leopardi diventa quella tra desiderio e soddisfacimento, o (detto altrimenti) tra piacere e noia50,

pensati come due diversi gradi di intensità del desiderio. Come vedremo meglio tra poco, per Leopardi la felicità (il piacere inteso nel suo senso più proprio e più pieno) non sta nella cessazione del dolore o nella scarica del desiderio, ma nel suo continuo rilancio, rispetto al quale lo stesso dolore può diventare funzionale. Il desiderio, in altre parole, non è più concepito da Leopardi come quella forza inerziale che tende a riportare in equilibrio il pendolo o la molla della nostra sensibilità. Il desiderio diventa semmai ciò che turba a ogni istante questo equilibrio, non sopportando la stasi, la quiete, l’uniformità: «L’uniformità è noia, e la noia uniformità. D’uniformità vi sono moltissime specie *<+. La continuità de’ piaceri *<+ anch’essa è uniformità, e però noia, e però nemica del piacere. E siccome la felicità consiste nel piacere, quindi la continuità de’ piaceri *<+ è nemica della felicità per natura sua, essendo nemica e distruttiva del piacere»51. Il desiderio del piacere è ciò che

scuote continuamente la nostra sensibilità e ci spinge a passare incessantemente da una sensazione all’altra, sia essa ‚formalmente‛ piacevole o dolorosa. Non si tratta qui (come accadeva in Verri) di ottenere piacere per mezzo del dolore o della sua cessazione, ma di mantenere il desiderio in continuo movimento, di schivare con ogni mezzo la stasi e l’immobilità. Il

50 Cfr. infra, cap. II.

(19)

31 desiderio per Leopardi è infatti vita, movimento e solo in questo può consistere il piacere o la felicità.

3.3. Del piacere figlio d’affanno

Piacer figlio d’affanno; gioia vana, ch’è frutto del passato timore, onde si scosse

e paventò la morte chi la vita aborria.

Il primo ad aver colto la decisiva rottura che la teoria del piacere elaborata da Leopardi rappresenta rispetto all’orizzonte dell’edonismo settecentesco è stato Adriano Tilgher, il quale tuttavia la rilevò come contraddizione che segnava ancora internamente il pensiero leopardiano. Secondo Tilgher, Leopardi avrebbe sempre oscillato tra due diverse teorie del piacere, fondamentalmente inconciliabili tra loro: la sua propria teoria, fondata sull’analisi della natura del desiderio, e quella del piacere negativo, più propriamente settecentesca52. Tuttavia, come cercheremo di mostrare, la

seconda teoria è presente nel pensiero leopardiano solo in quanto vi riveste una funzione polemica e decostruttiva del sapere illuminista. Che piacere potrà mai essere, agli occhi di Leopardi, quello che nasce dalla semplice cessazione di un dolore?

52 «O è vero che il dolore del vivere deriva dalla insoddisfazione del desiderio infinito

di piacere, e allora il piacere non può essere semplice pausa del dolore, appunto perché il dolore nasce dalla mancanza del piacere infinito cui il vivente aspira – o è vero che il piacere è una semplice pausa del dolore, qualcosa di negativo quindi, e allora il dolore non può nascere dalla mancanza del piacere, poiché in tal caso, al contrario, è il piacere che nasce dalla cessazione del dolore. Secondo la prima teoria, è il dolore che nasce dall’assenza di piacere; secondo la seconda, al contrario, è il piacere che nasce dalla cessazione del dolore » (A. TILGHER, La filosofia di Leopardi (1940), M. Boni, Bologna 1979, pp. 21-2). A ben vedere, Tigher faceva passare la contraddizione tra la teoria leopardiana e quelle settecentesche altrove rispetto a dove la collochiamo noi e ne faceva una questione puramente logica. Ma il problema di Leopardi non è più, come per Verri, quello della «generazione» del piacere dal dolore o viceversa, e l’originalità della sua posizione non consiste nell’aver definito il dolore a partire dall’assenza di piacere (che per Leopardi, propriamente parlando, non è dolore ma noia), ma nell’aver inaugurato una nuova concezione del desiderio. Ci sembra che in sostanza Tilgher abbia insistito un po’ troppo sull’opposizione piacere-dolore, trascurando quella più fondamentale nel pensiero leopardiano tra piacere e noia.

(20)

32 O natura cortese,

son questi i doni tuoi, questi i diletti sono

che tu porgi ai mortali. Uscir di pena è diletto fra noi.

Pene tu spargi a larga mano; il duolo spontaneo sorge: e di piacer, quel tanto che per mostro e miracolo talvolta

nasce d’affanno, è gran guadagno. Umana prole cara agli eterni! Assai felice

se respirar ti lice d’alcun dolor: beata

se d’ogni dolor morte risana53.

Il piacere negativo, il «piacer figlio d’affanno», non è che un ombra o un surrogato del piacere vero e proprio, di ciò che, propriamente parlando, dovrebbe essere definito piacere. Alla magra consolazione di un piacere tutto negativo, è da preferire persino la quiete della morte o dell’insensibilità illimitata, che almeno toglie ogni dolore. Piuttosto che accettare questa definizione puramente negativa del piacere, Leopardi preferisce affermarne l’impossibilità – impossibilità, tuttavia, non costitutiva o originaria, ma prodotta nell’uomo dall’immaginazione, che trasforma il desiderio illimitato di piacere in desiderio di un piacere infinito. Dichiarare l’impossibilità del piacere vorrà dire allora rivendicarlo nel suo senso più pieno, più alto, laddove la teoria del piacere negativo comportava, proprio su questo punto, una definitiva rinuncia. In questo senso, si può dire che per Leopardi il ‚pessimismo‛ non è che un atteggiamento o uno strumento, che si rivela avere soprattutto e innanzitutto una funzione critica54.

53 La quiete dopo la tempesta, vv. 42-54 (TPP, P. 166).

54 È unicamente in questo senso che ci sembra possibile parlare di ‚pessimismo‛ nel

caso di Leopardi: il pessimismo è in lui non tanto un’affermazione, quanto piuttosto un atteggiamento o meglio una postura temporaneamente assunta con funzione critica o strumentale. Leopardi stesso mostra del resto di non riconoscersi sotto questa etichetta, se è vero quello che scrive in Zib. 4174, 22 aprile 1826: dal punto di vista delle singole cose esistenti l’affermazione «tutto è male», benché urti con le nostre aspettative, si rivela ben più plausibile di quella secondo cui «tutto è bene»; riconoscere questo tuttavia non vuol dire propriamente

(21)

33 La teoria del piacere negativo, su cui Pietro Verri puntellava il suo volontarismo ed erigeva una visione tutto sommato pacificata dell’esistente, non poteva quindi che apparire del tutto paradossale a Leopardi. Per questo, ci sembra che in fondo il bersaglio polemico di questa canzone non sia solo la «natura cortese», ma quello stesso ottimismo provvidenzialistico, di matrice leibniziana, che aveva ripreso vigore nel secolo dei lumi e che giustificava il male come premessa necessaria al bene, come motore di un progresso illimitato, capace di garantire una «felicità pubblica» sempre crescente55: «Io

non dirò – aveva scritto ad esempio Pietro Verri – che il dolore per sé sia un bene; dirò bensì che il bene nasce dal male, la sterilità produce l’abbondanza, la povertà fa nascere la ricchezza, i bisogni cocenti affinano l’ingegno, la somma ingiustizia fa nascere il coraggio, in una parola il dolore è il principio motore di tutto l’uman genere». Così, ne concludeva Verri, «ogni bene del mondo ha la sua radice nel male, così il dolore è il principio dell’azione»56. A

questa razionale accettazione dei mali, a questo facile ottimismo in bilico su un abisso, ereditato dai pensatori del «secolo decimonono», sostenitori del progresso e della sua capacità di garantire una felicità illimitata e sempre crescente, Leopardi sembrerà rispondere con le parole di Tristano: «Io non mi sottometto alla mia infelicità, nè piego il capo al destino, o vengo seco a patti, come fanno gli altri uomini; e ardisco desiderare la morte, e desiderarla sopra ogni altra cosa»57.

Tuttavia, pare che Leopardi non sia stato sempre ironico nei confronti della teoria del piacere negativo58, la quale sembrerebbe anzi pienamente

appoggiata in vari luoghi dello Zibaldone. Poiché, come abbiamo visto in precedenza, «l’uniformità è certa cagione di noia» e la stessa uniformità e

essere pessimisti, perché veramente pessimista sarebbe solo quel sistema filosofico che si presentasse come l’esatto rovescio di quello ottimista dei leibniziani e che si spingesse fino ad affermare che il nostro non è il migliore ma «il peggiore degli universi possibili». Tuttavia, si chiede Leopardi, «chi può conoscere i limiti della possibilità?».

55Cfr. J. ELSTER, Leibniz et la formation de l’esprit capitaliste, Aubier, Paris 1975.

56 VERRI, Discorso sopra l’indole del piacere e del dolore, cit., § XI., p. 134. Pur abbracciando

la conclusione pessimistica di Maupertuis, secondo cui «dans la vie ordianaire la somme des maux sourpasse la somme des biens» (Essai de philosophie morale, cit., p. 203), Verri ne ricavava quindi una visione tutto sommato ottimistica, essendo che solo dai mali possono avere origine i beni (dello stesso autore cfr. anche le Meditazioni sulla felicità, Muggiani, Milano 1944)

57 Dialogo di Tristano e di un amico, TPP, p. 606.

58 Cfr. ad esempio BLASUCCI, I tre momenti della Quiete, in Id. I tempi dei «Canti». Nuovi studi leopardiani, Einaudi, Torino 1996, pp. 123-40.

(22)

34 «continuità de’ piaceri» genera noia ed è per questo nemica del piacere, sembra allora che

i mali vengono ad essere necessari alla stessa felicità, e pigliano vera e reale essenza di beni nell’ordine generale della natura *<+. Laonde le convulsioni degli elementi e altre tali cose che cagionano l’affanno e il male del timore all’uomo naturale o civile, e parimenti agli animali ec. le infermità e cento altri mali inevitabili ai viventi *<+ si riconoscono per

conducenti, e in certo modo necessarii alla felicità59.

Tuttavia, a ben vedere, la tesi sostenuta qui non coincide perfettamente con la teoria del piacere negativo: Leopardi sta dicendo (come lui stesso precisa poche righe dopo) che i mali sembrano necessari alla felicità dei viventi «non solo *e non tanto+ perch’essi mali danno risalto ai beni, e perchè più si gusta la sanità dopo la malattia, e la calma dopo la tempesta: ma perchè senza essi mali, i beni non sarebbero neppure beni a poco andare, venendo a noia»60. I mali e i dolori hanno dunque una funzione positiva non tanto

perché dalla loro cessazione possono nascere i piaceri, ma perché, alternati ai diletti, spezzano l’uniformità e creano quella varietà che permette di allontanare la noia e di tenere il desiderio in continuo movimento61. Nella

Storia del genere umano, questo sarà uno degli ‚espedienti‛ con cui Giove cercherà di combattere la noia e distrarre gli uomini dal desiderio di un piacere infinito, impossibile da realizzare. La ‚teodicea‛ leopardiana – se così la si può definire – si gioca tutta sul terreno del piacere.

Il piacere del dolore, il piacere che nasce dalla sua cessazione è, secondo Leopardi, un piacere tutto interno alla sensibilità moderna e completamente sconosciuto agli antichi, che avevano tutt’altra maniera di rapportarsi al piacere e di concepire il desiderio.Meno condizionati dalla paura della morte, gli antichi perseguivano direttamente il piacere e il loro desiderio di felicità non poteva trovare alcun conforto o consolazione nel dolore o nella sventura. Il loro era un dolore disperato, senza rimedio perché ogni sventura era sentita

59 Zib. 2600-2601, 7 agosto 1822. 60 Zib. 2601-2, 7 agosto 1822.

61 Sul nesso noia-uniformità da una parte e piacere-varietà dall’altra, si veda anche Zib.

346, 22 novembre 1820. Ma cfr. anche MONTESQUIEU, Essai sur le goût, in Id., Œuvres

(23)

35 come una vera e propria maledizione degli dei: gli antichi, «correvano sempre dritto alla felicità, non come a un fantasma, ma cosa reale *<+. Nè il desiderio della felicità era in essi temperato e rintuzzato e illanguidito da nessuna considerazione e da nessuna filosofia. Perciò tanto formidabile era l’effetto di quanto impediva loro l’adempimento di questo desiderio»62. Solo l’uomo

moderno può trarre qualche conforto dal dolore, può accontentarsi del piacere puramente negativo che nasce dalla sua cessazione e illudersi del carattere provvidenziale dei mali. L’uomo moderno, spinto dalla paura della morte, ha rinunciato una volta per tutte al piacere e al desiderio, si è rifugiato nel piacere negativo, nel piacere del dolore. Oltre che nel «progresso della filosofia»63, le cause principali di questo «cangiamento nella natura del

dolore» vanno ricercate, secondo Leopardi, anche nell’avvento del Cristianesimo, «che ha solennemente dichiarata e stabilita e per così dire attivata la massima della certa infelicità e nullità della vita umana»64.

Attraverso la paura della morte, consolidata col terrore di pene e dolori eterni, il Cristianesimo ha indotto gli uomini a sopportare il dolore e a rinunciare una volta per tutte alla ricerca del piacere. Il Cristianesimo funziona, da questo punto vista, come una sorta di ‚principio di realtà‛ che opera tuttavia in maniera puramente negativa ed esige la rinuncia al piacere non in vista di un bene futuro e più pieno, ma attraverso il terrore di un male ancora maggiore. In questo senso, come ha scritto Leopardi, tutta la forza del Cristianesimo si fonda sul suo essere una religione «minacciante» e non «promettente»65.

Abbiamo visto come Leopardi metta in luce le contraddizioni dell’edonismo settecentesco e del facile ottimismo che su di esso si fonda. La «teoria del piacere» sembra poter essere letta, da questo punto di vista, anche in chiave politica, cioè come reazione all’orizzonte dischiuso dall’edonismo

62 Zib. 88. Di qui la diversa espressione del dolore nelle opere d’arte antiche e moderne

(cfr. Zib. 77).

63 Cfr. Zib. 78.

64 Zib. 105, 26 marzo 1820.

65 «E perciò può dirsi con verità che il Cristianesimo è più atto ad atterrire che a

consolare, o a rallegrare, a dilettare, a pascere colla speranza. Ed è certissimo infatti che l’influenza da lui esercitata sulle azioni degli uomini, è sempre stata ed è tuttavia come di religion minacciante assai più che come di religion promettente; ch’egli ha indotto al bene e allontanato dal male, e giovato alla società ed alla morale assai più col timore che colla speranza» (Zib. 3507, 23 settembre 1823).

(24)

36 illuminista, tutto teso verso la ricerca della «felicità pubblica» e dell’utile collettivo66. Come Leopardi scrive nel Frammento sul suicidio, dopo il

fallimento della Rivoluzione Francese, la felicità è diventata un problema «pubblico» che la politica pretende di risolvere «matematicamente», attraverso un calcolo. L’edonismo leopardiano resterà invece sempre estraneo a ogni forma di ‚utilitarismo‛, del tutto privo di qualsiasi vocazione sociale o politico-economica. Leopardi, del resto, vedrà sempre un’irriducibile contraddizione tra la dimensione politica «stretta», caratteristica delle nostre società civili, e la realizzazione del bene comune67.

Tuttavia, il discorso leopardiano attorno al piacere e al desiderio non si limita a questa sarcastica decostruzione della prospettiva settecentesca. Leopardi comprende che, se non si vuole rinunciare del tutto al piacere, se non si vuole trovare nella morte l’unica, paradossale, soddisfazione del desiderio illimitato, si deve cercare di ripensare radicalmente il rapporto tra desiderio e piacere. Perché, del resto, continuare a chiamare «teoria del piacere» una serie di riflessioni il cui unico scopo sembra non essere altro che quello di dimostrare l’impossibilità del piacere?

La quiete dopo la tempesta viene solitamente letta in perfetta continuità tematica, oltre che formale, con Il sabato del villaggio, composto solo pochi giorni dopo68. Queste due canzoni sono sempre state considerate come una

sorta di ‚dittico‛ all’interno dei Canti, la cui funzione sarebbe quella di rappresentare liricamente due diversi aspetti della teoria del piacere e, più precisamente, della negatività del piacere: nell’uno come nell’altro caso il nucleo concettuale coinciderebbe «con un corollario della riflessione leopardiana sull’essenza ‚negativa‛ del piacere, o in quanto prodotto della cessazione del dolore (Quiete), o in quanto coincidente con la sua stessa attesa

66 Si veda in generale e la voce ‚bonheur‛ del Dictionnaire Européen des Lumières, sous la

direction de M. Delon, Puf, Paris 1997. L’affermarsi di questa visione tutta economicistica delle realtà aveva trovato in Italia una delle sue espressioni più significative nell’opera di G. ORTES: cfr. in partic. Calcolo sopra il valore dell’opinioni e sopra i dolori e i piaceri della vita umana (in: Id., Calcolo sopra le verità della istoria e altri scritti, Costa&Nolan, Genova 1984, pp. 122-48). Su Ortes, cfr. VENTURI, op. cit., p. 395 e sgg.

67 Cfr. infra, cap. V.

68 La quiete dopo la tempesta fu composta a Recanati tra il 17 e il 20 settembre del 1829,

(25)

37 (Sabato)»69. L’ipotesi che vorremmo provare a sostenere è invece che in queste

due canzoni, composte nello stesso arco di tempo, Leopardi intenda in realtà mettere in scena due maniere completamente opposte di concepire il piacere e il desiderio: se la Quiete rappresenta ironicamente il «piacer figlio d’affanno», il piacere come cessazione del dolore o come scarica del desiderio, il Sabato celebra invece quello che per Leopardi è l’unico diletto possibile, cioè il diletto del sabato o del giorno che precede il «dì di festa»:

Questo di sette è il più gradito giorno, pien di speme e di gioia:

diman tristezza e noia

recheran l’ore, ed al travaglio usato

ciascuno in suo pensier farà ritorno70.

Il piacere del sabato, il piacere del puro desiderare e dell’attesa è per Leopardi il piacere sommo possibile, in cui si mostra la pienezza e l’assoluta positività del desiderio: «Il piacere umano (così probabilmente quello di ogni altro essere vivente, in quell’ordine di cose che noi conosciamo) si può dire ch’è sempre futuro, non è se non futuro, consiste solamente nel futuro. L’atto proprio del piacere non si dà. Io spero un piacere; e questa speranza in moltissimi casi si chiama piacere»71. Più che metafora o allegoria della

giovinezza, il sabato, in questo componimento, non è che figura del piacere dell’attesa o della speranza: di quel piacere più generale, il piacere del sabato (così come quello della giovinezza), non è che una particolare modalità o «una manifestazione specifica»72. Ciò ci permette, del resto, di ridimensionare

lo stesso ‚mito‛ leopardiano della giovinezza: Leopardi celebra quest’età della vita non in se stessa, ma per la sua funzione edonistica, in quanto età dell’attesa e del rilancio del desiderio.

La non coincidenza tematica tra la Quiete dopo la tempesta e Il sabato del villaggio ci permette di spiegare la sostanziale differenza di tono che si registra

69 L. BLASUCCI, I tre momenti della Quiete, cit., p. 124. 70 Il sabato del villaggio, vv. 38-42 (TPP, pp. 168-9). 71 Zib. 532, 20 gennaio 1821.

72 Utilizziamo qui il termine ‚figura‛ nel modo in cui se ne è servito, sempre in

contrapposizione a metafora o allegoria, di L. BLASUCCI, I tre momenti della Quiete, cit., pp. 124-25.

Riferimenti

Documenti correlati

Transplantation into NOD-SCID mice confirmed using an in vivo model that severe hypoxia selects a cell subset endowed with stem cell potential from bone marrow mononuclear

La raccolta delle poesie complete di Antoni Coronzu (Alghero 1944) riunisce in un solo, prezioso, volume, la produzione dell’autore: gli esordi, con Mosaic (1961-1971), che

cambiata, è sempre sul concetto della regola. E’ vero che loro ormai hanno un totale rifiuto della regola e non conoscenza addirittura di certe regole basilari, però

These measures put these two bursts on the E peak - E iso relation, and suggest that luminosity indicators for GRBs could also be applicable to XRFs.. The situation is however

E’ stato inoltre effettuato uno studio su 10 giocatori d’azzardo patologici e 11 controlli sani mentre guardavano dei filmati sul gambling sono state osservate spesso anomalie

Improved survival in patients with early stage low-grade follicular lymphoma treated with radiation: a surveillance, epidemiology, and end results database analysis.. Patient

Responses of Populus deltoides x Populus nigra (Populus x euramericana) clone I-214 to high zinc concentrations. Responses of the Populus × eurame- ricana clone I-214

In effetti, alla luce delle osservazioni di Fachinelli si potrebbe forse sostenere che il presente ci consegna il venir meno di un certo rapporto tra il soggetto pensante e