• Non ci sono risultati.

CAPITOLO 1 LA PREVIDENZA SOCIALE E LO SCENARIO MONDIALE ED EUROPEO

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "CAPITOLO 1 LA PREVIDENZA SOCIALE E LO SCENARIO MONDIALE ED EUROPEO"

Copied!
39
0
0

Testo completo

(1)

1

CAPITOLO 1

LA PREVIDENZA SOCIALE E LO SCENARIO MONDIALE ED

EUROPEO

1.1 Introduzione

Il “sistema previdenziale” rappresenta la voce più significativa della “previdenza sociale”, la quale a sua volta è uno strumento con cui lo Stato provvede in qualche misura ai cittadini che si trovano in difficoltà all’insorgere dei seguenti fattori di rischio:

1. La vecchiaia; 2. L’anzianità; 3. L’invalidità; 4. L’inabilità;

5. Gli infortuni sul lavoro e malattie professionali; 6. La maternità e il sostegno alla famiglia;

7. La disoccupazione.

Figura 1.1 - Struttura della spesa sociale nel 2013, UE-28, (in % alla spesa totale di protezione sociale) Fonte: Eurostat, ESSPROS (sistema europeo di statistiche integrate della protezione sociale)1

Nei 28 Stati membri dell'Unione Europea la spesa media per la protezione sociale in percentuale del PIL è leggermente aumentata, passando al 29,4% del PIL dell'UE-28 nel 2012 rispetto al 29,0% del PIL nel 2011. Nel 2012 dieci Stati membri hanno destinato oltre il 30% del PIL alla spesa per la protezione sociale (Danimarca, Francia, Paesi Bassi, Irlanda, Grecia, Finlandia, Belgio, Svezia, Italia e Austria), mentre in otto paesi lo stanziamento è stato inferiore al 20% (Lettonia, Estonia, Romania, Lituania, Bulgaria, Polonia, Slovacchia e Malta). In termini di percentuale di spesa, nel 2013 oltre metà della spesa totale è stata destinata agli anziani tramite le pensioni.

Proprio perché la spesa pensionisticarappresenta la voce preminente della spesa sociale in Italia e in tutti i paesi europei, questa tesi porrà l’attenzione sul programma dedicato alle

1

EUR-Lex - Access to European Union law -Progetto di relazione comune sull’occupazione della Commissione e Del Consiglio che accompagna la comunicazione della Commissione sull'analisi annuale della crescita 2016 http://eur-lex.europa.eu/legal-content/it/TXT/?uri=CELEX%3A52015DC0700

(2)

2 pensioni per invalidità, vecchiaia e superstiti, ma sarà preliminarmente opportuno procedere dall’analisi complessiva degli interventi pubblici tra cui si colloca anche il sistema previdenziale2.

E’ opportuno a tale proposito chiarire la distinzione usualmente operata tra previdenza in senso stretto ed assistenza. Il criterio fondamentale su cui si basa tale distinzione è quello di considerare “previdenza” le prestazioni legate al versamento di contributi di determinati soggetti che beneficeranno della copertura previdenziale (lavoratore o datore di lavoro), mentre le prestazioni che prescindono da tali versamenti sono compresi nella categoria dell’ “assistenza”. In realtà, l’entità delle prestazioni definite “previdenziali” ha spesso un legame molto labile con l’ammontare dei contributi pagati dagli individui: si tratta di prestazioni spesso largamente finanziate dalla fiscalità generale, che svolgono una funzione ridistributiva, oltre a quella assicurativa3

Nella maggior parte dei paesi europei interventi pubblici, spesso di tipo volontario, sono stati introdotti dagli anni ’80 del XIX secolo fino all’inizio della 1° guerra mondiale, fino a far diventare la previdenza sociale, negli ultimi cinquant’anni, proprio per il peso che questa assume nella politica economica di un paese, una delle funzioni pubbliche fondamentali della spesa sociale di questi Stati.

Qualsiasi sistema previdenziale è influenzato dalla situazione economica in cui viene attuato e le riforme promosse dai Governi trovano il loro fondamento nelle previsioni che vengono effettuate per ciò che riguarda alcuni indicatori, al fine di arginare eventuali rischi in cui il sistema potrebbe incorrere.

In questo capitolo ci occuperemo di descrivere cosa si intende per Welfare State e di delineare i fattori che influenzano il peso della spesa previdenziale sul totale della spesa sociale.

1.2 Il Welfare State in Europa e nel mondo

Il Welfare State si prefigge lo scopo di migliorare il benessere dei cittadini, e in particolare di fornire protezione sociale ad alcune categorie di cittadini a rischio, quali i meno abbienti, gli infermi, i disabili, i disoccupati, gli anziani. I sistemi di Welfare sono composti da programmi pubblici attraverso i quali lo stato persegue questo obiettivo, in quanto l’azione esclusiva dei singoli individui, delle famiglie e del libero mercato non è sufficiente a garantire le funzioni di assicurazione ed assistenza. Tali programmi si diversificano in funzione della tipologia di rischio che coprono e dell’assistenza che offrono; alcuni prevedono dei trasferimenti monetari ai beneficiari, altri garantiscono dei benefici in natura. I principali programmi comprendono:

- I sistemi pensionistici; - La sanità;

2

EUR-Lex - Op. cit., pag. 1

(3)

3 - I sussidi di disoccupazione e altre politiche attive del mercato del lavoro, quali training

e apprendistato;

- Le politiche familiari, quali gli assegni per i figli a carico, la spesa per asili nido, periodi di maternità e paternità;

- L’edilizia pubblica;

- I sistemi di reddito minimo garantito.

Attualmente i sistemi di Welfare esistenti presentano una grande varietà a seconda dei diversi contesti statuali in cui sono interpretati e attuati ed è per questo che faremo preliminarmente un’analisi complessiva delle dinamiche politiche, economiche e demografiche.

1.2.1 Cenni storici

Abbiamo definito il Welfare State come “stato interventista” che si occupa di fornire beni e servizi ai cittadini per permettere loro di vivere in uno stato di “benessere”.

Del concetto di “benessere” si parlava già nel ‘700, quando Adam Smith ipotizzò con la sua teoria della “mano invisibile” (o del “laissez faire”) che se il mercato fosse stato lasciato al suo destino, senza eccessive ingerenze statali, esso avrebbe creato il massimo beneficio possibile per tutti. Con questa teoria egli identificava nel capitalismo, frutto della libertà individuale e mosso dall’egoismo di ciascuno, la migliore formula per il raggiungimento del benessere sociale.

Il concetto di Welfare come oggi lo intendiamo ha riscontrato maggiore interesse dalla metà dell’800, quando s’iniziò a parlare di Welfare State e per la prima volta trova spazio in Europa la previdenza sociale con il modello bismarckiano in Germania; fu Bismarck nel 1898 ad istituire il primo modello di Stato sociale moderno che si poneva da un lato lo scopo di promuovere la qualità della vita dei lavoratori, dall’altro di combattere le condizioni di povertà o d’indigenza originate da diverse motivazioni quali la vecchiaia e la disoccupazione. Attraverso un’intensa stagione di riforme si affermò quindi un nuovo ruolo dello Stato nel perseguimento dei fini sociali: le organizzazioni private che prima si occupavano volontariamente di sostegno ai meno fortunati per carità ispirata a principi religiosi o per garantire (e garantirsi) la sicurezza sociale, venivano quindi affiancate dall’istituzione pubblica sulla base della logica del cancelliere secondo cui una cittadinanza felice, non crea disordini sociali (e soprattutto politici!).

Specificatamente per quanto riguarda la previdenza dal 1883 al 1889 fu introdotto in Germania uno schema di assicurazioni rivolte ai soli lavoratori a carattere obbligatorio gestite sotto il controllo pubblico, finanziate con contribuiti dei lavoratori e dei datori di lavoro e con il sostegno finanziario dello Stato, contro le malattie, gli infortuni, l’invalidità e la vecchiaia. Con questo atto la sicurezza sociale divenne un diritto del lavoratore garantito dallo Stato ed implicitamente si riconobbe l’esistenza di cause sociali di bisogno di cui il singolo non è

(4)

4 responsabile e si stabilì che il perseguimento del benessere individuale fosse compito della società.

Tra l’inizio del ‘900 e la prima guerra mondiale lo schema delle assicurazioni obbligatorie sotto la responsabilità pubblica si diffuse alla generalità dei lavoratori e in tutta Europa seppur con delle varianti. Già a metà degli anni ’20 infatti si assistette alla presenza di diversi schemi di assicurazione sociale imperniati sulla copertura di diverse tipologie di rischio (gli infortuni sul lavoro, la malattia e la maternità, l’invalidità e la vecchiaia, la disoccupazione) che sulla base di diverse variabili potevano essere a carattere obbligatorio o facoltativo, potevano essere rivolti ai soli lavoratori (tutela occupazionale finanziata tramite il versamento di contributi) o a tutti i cittadini che avessero bisogno di un reddito minimo (copertura nazionale o statale finanziata tramite il prelievo fiscale).

E’ con la Grande crisi del 1929 che per la prima volta si percepì la necessità di attuare politiche sociali contro la disoccupazione e la vecchiaia, volte ad assicurare ai ceti sociali un’esistenza dignitosa. Fu il presidente americano Roosevelt, fra il 1933 e il 1937, a promuovere un piano di riforme economiche e sociali, il New Deal, inserite in un programma indicato per la prima volta con il termine social security. Nel 1942 in Gran Bretagna venne attuato un piano di riforma del sistema di sicurezza sociale noto come Piano Beveridge e si cominciò a registrare una forte espansione nell’impiego di protezione sociale. Questo infatti permise di sancire due principi: l’universalità, permettendo una copertura assicurativa nei confronti di tutti i cittadini, e l’onnicomprensività, garantendo un reddito minimo per qualsiasi evenienza avversa.

1.2.2 Modelli attuali di Welfare a confronto

Il risultato delle conquiste sociali nei vari paesi nel corso degli anni hanno portato alla creazione di diversi modelli di Welfare State. Nel loro complesso, i sistemi di welfare possono essere classificati in diverse tipologie, in funzione del livello di spesa complessiva per la protezione sociale, della composizione dei diversi programmi (pensioni, sanità, politiche del lavoro e della famiglia) e dei criteri in base ai quali è garantita la copertura ai cittadini. In funzione al tipo di protezione sociale che lo Stato vuole assicurare ai propri cittadini si possono individuare quattro modelli:

 Il welfare corporativo, che è presente nell’Europa continentale (per esempio in Francia, Belgio, Germania), garantisce un elevato livello di protezione sociale a gruppi di individui selezionati, tipicamente ai lavoratori e a coloro che sono stati attivamente presenti nel mercato del lavoro. Questo modello di welfare esibisce una struttura altamente gerarchica, con pochi elementi o programmi redistributivi, e per queste caratteristiche si rifà al modello bismarckiano. Le modifiche che nel corso del tempo hanno interessato i programmi che compongono questo modello di welfare sono

(5)

5 avvenute attraverso accordi collettivi tra i diversi attori sociali (rappresentanti di categoria, degli imprenditori, sindacati, governo, ecc.).

 Il welfare socialdemocratico, che identifica tipicamente il modello dei paesi del Nord Europa (Svezia, Danimarca, Norvegia), prevede, al pari del modello precedente, un elevato livello di protezione sociale. Tuttavia, l’accesso a tale protezione si basa su criteri di cittadinanza o di residenza, piuttosto che sulla partecipazione al mercato del lavoro. Ne deriva che un maggior numero di individui è coperto dal welfare state. A differenza delle società con un welfare state corporativo, quelle che adottano un modello socialdemocratico fanno ampio ricorso al mercato, ad esempio per l’assicurazione privata in campo medico e per la previdenza complementare.

 Il welfare familiare, diffuso nell’Europa meridionale o mediterranea (Italia, Spagna, Grecia, Portogallo). La principale caratteristica di questo modello di welfare è un elevato livello di protezione sociale, che viene offerto al capofamiglia a cui spetta poi il compito di distribuire le risorse all’interno della famiglia. Il ricorso al mercato per l’acquisto di assicurazione contro i rischi e di servizi, quali per esempio sanità e istruzione, è più limitato.

 Il welfare liberale, caratteristico dei paesi anglosassoni (Regno Unito, Stati Uniti, Nuova Zelanda, Canada). Questo modello fornisce un basso livello di protezione sociale e prevede un elevato ricorso al mercato per l’acquisto di assicurazione privata, per esempio sanitaria e previdenziale. L’obiettivo di questo modello di welfare è di creare una rete di protezione sociale minima per tutti gli individui, a cui può essere aggiunta, su base volontaria, un’ulteriore assicurazione privata ottenibile sul libero mercato. Non è dunque sorprendente che il mercato dei fondi pensione privati (vedi paragrafo 2.6) sia più sviluppato nei paesi con un welfare liberale.

Figura 1.2 – Spesa sociale pubblica in percentuale al PIL (anno 2014) Fonte: OECD.stat4

(6)

6 Il grafico mostra i dati sulla spesa sociale (che include la spesa per pensioni, sanità, politiche per la famiglia e politiche per il mercato del lavoro) in rapporto al

P

IL nell’anno 2007 e 2014 per i paesi

O

CSE. Questi dati confermano le differenze evidenziate dalla classificazione nei quattro modelli di sistemi di welfare. I paesi anglosassoni con un welfare liberale (Canada, Australia, Stati Uniti, Nuova Zelanda, Irlanda e Regno Unito) la spesa sociale va dal 17% al 21,7% del

P

IL. I paesi con un welfare state corporativo o socialdemocratico, quali rispettivamente Francia, Austria, Belgio e Germania, da un lato, e Svezia e Danimarca dall’altro, presentano il livello di spesa sociale più elevato tra i paesi

O

CSE, con valori superiori al 26% del

P

IL. I paesi mediterranei sono invece meno omogenei, con un livello di spesa sociale compreso tra il 24% in Grecia ed il 28,6% in Italia.

Il paese

O

CSE che spende meno in welfare è il Messico, con il 7,9% del

P

IL. L’analisi della composizione della spesa sociale nei diversi programmi di welfare (sistema previdenziale che include pensioni di vecchiaia, anzianità, invalidità e reversibilità, sistema sanitario, politiche per la famiglia, politiche per il mercato del lavoro) conferma le differenze tra le diverse tipologie di sistemi di welfare.

I grafici nella figura 1.3 mostrano la composizione del welfare in quattro paesi (Italia e Stati Uniti, Svezia e Germania) rappresentativi dei quattro sistemi.

Figura 1.3 – Composizione della spesa sociale nei diversi programmi di Welfare in Italia e negli Stati Uniti Fonte: OECD.stat5

Nei paesi dell’Europa meridionale, che sono caratterizzati da un welfare orientato verso la famiglia, gran parte della spesa sociale è canalizzata verso il sistema previdenziale: il 66% in Italia, il 64% in Grecia e in Portogallo. In questi paesi, al netto di pensioni e sanità, poche risorse sono disponibili per la spesa in altri programmi (il 9% in Italia, il 12% in Grecia e il 13% Portogallo), quali il supporto alle famiglie (solo il 5,5% dell’intera spesa sociale italiana) e la spesa nel mercato del lavoro, sussidi di disoccupazione e politiche attive del mercato del lavoro (solo il 3,3% del totale in Italia). Una simile composizione della spesa per il welfare caratterizza

5 Treccani.it - I sistemi di Welfare in Europa e nel mondo,

(7)

7 alcuni paesi ex socialisti dell’Est europeo, quali Repubblica Ceca, Estonia, Slovenia e Polonia, che spendono più dell’85% della spesa totale in pensioni e sanità, ma anche il Cile (il 59% in pensioni e il 21% in sanità) e la Turchia, dove l’intero 12,3% del

P

IL speso in welfare è indirizzato a pensioni e sanità.

Anche negli Stati Uniti, malgrado il totale della spesa sia molto inferiore a quella dell’Italia (19,2% rispetto al 28,6%), il 90% della spesa è diretto a pensioni e sanità. In realtà, la spesa sociale statunitense è più orientata verso il sistema sanitario (45% del totale della spesa sociale) di quanto lo sia il welfare italiano. L’elevata rilevanza della spesa sanitaria rappresenta una delle caratteristiche principali dei sistemi di welfare dei paesi anglosassoni, che assegnano più di un terzo della spesa sociale alla sanità (35% in Australia, 41% in Canada, 38% in Nuova Zelanda, 35% in Irlanda, 33% nel Regno Unito). Anche il sistema di welfare coreano favorisce la spesa in sanità (43% del totale) a quella previdenziale (36%). Una composizione della spesa sociale che accomuna caratteristiche dei sistemi di welfare familiare e liberale si ha in Giappone, con il 59% della spesa in pensioni e il 33% in sanità.

Figura 1.4 – Composizione della spesa sociale nei diversi programmi di Welfare in Germania e in Svezia Fonte: OECD.stat

Nei paesi del Nord Europa, che sono caratterizzati da un welfare socialdemocratico, la spesa sociale è ripartita più equamente tra i diversi programmi. Particolare importanza ha la spesa per le famiglie, a cui viene allocato almeno il 10% del budget della spesa sociale, e che oscilla tra il 2,8% del

P

IL in Finlandia e Norvegia e il 3,4% del

P

IL in Svezia. Più eterogeneità è presente nella spesa per le politiche del mercato del lavoro, che va dallo 0,8% del

P

IL in Norvegia fino al 3,3% in Danimarca. Una simile ripartizione si trova anche nei paesi che hanno un welfare corporativo, come la Germania, dove i due maggiori programmi sono ancora le pensioni (con il 52% del budget totale) e la sanità (30%); tuttavia, alcune risorse sono destinate anche alle famiglie (7%) e al mercato del lavoro (8%). Questi dati suggeriscono dunque che la classificazione del welfare state in quattro modelli ha un supporto empirico quando si analizzano le dimensioni e la composizione del welfare state6.

6

(8)

8

1.3 Scenario di riferimento

Ponendo l’attenzione, nell’ambito dei sistemi di welfare, sui sistemi previdenziali, sappiamo che questi sono influenzati dalla situazione economica in cui vengono attuati e le riforme promosse dai Governi trovano il loro fondamento nelle previsioni di alcuni indicatori. A tale proposito è opportuno segnalarne alcuni:

- Demografia: gioca un ruolo fondamentale nella composizione della forza lavoro nel lungo periodo, anche se da sola non è in grado di stabilire le modalità di accesso al mercato del lavoro. I cambiamenti demografici dipendono essenzialmente da due fattori: il primo è rappresentato dal numero di nascite, il secondo dall'invecchiamento della popolazione; da non sottovalutare inoltre il contributo del flusso migratorio. - Partecipazione al mercato del lavoro: la struttura demografica modifica inevitabilmente

le caratteristiche della forza lavoro;

- Produttività: crescita demografica e partecipazione al mercato del lavoro sono due elementi fondamentali per la previsione del tasso di crescita dell’economia di un paese. Analizziamo questi indicatori più nel dettaglio facendo riferimento ai dati forniti dalle previsioni Eurostat e OCSE.

1.3.1 Situazione demografica

La situazione demografica è in continuo mutamento ed influenzata da diverse variabili. La Figura 1.5 mostra una proiezione di quella che sarà la composizione della popolazione nel 2080, anno in cui un elevato numero di persone si troverà in procinto di ritirarsi dal mercato del lavoro, con generazioni sempre più afflitte dal calo delle nascite.

Figura 1.5 – Piramide della popolazione, EU-28, nel 2014 e nel 2080 (% del totale della popolazione) Fonte:Europop2013

Possiamo notare una lieve diminuzione della fascia d’età che comprende i bambini, una drastica riduzione degli individui che vanno dai 15 ai 65 anni (i quali rappresentano la fascia

(9)

9 della popolazione in età lavorativa) e un sostanzioso aumento dei soggetti con più di 65 anni di età. Per ciò che interessa questo studio, si prevede un generale invecchiamento della popolazione e si può notare che un maggior numero di individui vive più a lungo rispetto alle generazioni passate; ciò è sufficiente a far temere che l’equilibrio del sistema pensionistico potrebbe essere compromesso, fino a comportare una vera e propria crisi del sistema.

L'invecchiamento della popolazione è stata una delle principali forze trainanti che ha portato alle riforme in tema di politiche pensionistiche. A tale proposito infatti dobbiamo analizzare i tassi di fertilità7 e la speranza di vita, che rappresentano i più importanti indicatori dell'invecchiamento della popolazione.

L'invecchiamento è il risultato di due cambiamenti demografici:

 Il calo del numero delle nascite: nei decenni passati abbiamo assistito ad un drastico crollo dei tassi di fertilità in tutti Stati membri dell'Unione Europea dopo che nel dopoguerra si era verificato un picco delle nascite (c.d."baby boom") che aveva fatto raggiungere una media europea del 2,7 nella seconda metà del 1960 (vedi figura 1.6). L’interruzione di questo declino si è avuto in tutta l’Unione Europea nel suo complesso dal 2000 e da lì in poi la situazione è andata lievemente migliorando fino al 2010, anno dal quale il tasso di fertilità si è stabilizzato intorno all’1,6. Dalle proiezioni fornite dall’Eurostat possiamo presupporre un aumento graduale raggiungendo in media fra gli stati membri un tasso di 1,68 nel 2030 e in seguito a 1,76 entro il 2060. Il tasso di fertilità cresce in modo più o meno significativo a seconda dei paesi ma si prevede comunque che tutti dovrebbero rimanere al di sotto del tasso di sostituzione8 naturale per tutto il periodo considerato.

Figura 1.6 – Tasso di fertilità nell’Unione Europea e nell’Euro Zona Fonte: EUROPOP2013

Diversi studi infatti hanno dimostrato che per mantenere nel tempo una stabilità della popolazione, il tasso di fecondità necessario è di circa 2,1 figli per madre (ipotizzando un saldo migratorio pari a zero). E’ da notare che nei paesi in cui il sistema di Welfare è

7 Tasso di fecondità: numero di bambini nati da una donna durante l’arco della propria vita. 8 Tasso di sostituzione: numero di bambini necessari per mantenere costante la popolazione totale.

(10)

10 fondato sul legame familiare, si è visto una maggiore riduzione dei tassi di fertilità: in Italia, la spesa per la famiglia è la voce del welfare meno generosa, sia se confrontata con le altre voci di spesa, sia rispetto al resto d’Europa. La carenza del welfare per la famiglia non è priva di conseguenze, infatti la gestione dei figli in minore età è responsabilità quasi esclusiva della famiglia, in particolare delle mamme, sulle quali ricade la maggior parte dell’attività domestica e del lavoro di cura, in misura molto sbilanciata anche rispetto ai padri. Nonostante l’aiuto dei nonni, il tasso di fecondità italiano resta tra i più bassi in Europa (1,42 figli per donna, in aumento grazie alle nascite da madri straniere), la fecondità è la più tardiva, e si hanno conseguenze rilevanti anche per ciò che riguarda l’occupazione femminile9

.

Figura 1.7 – Tasso di Fertilità in Europa (2013)

Source: https://rwer.wordpress.com/2015/09/07/european-fertility-the-real-population-problem/

La stessa tendenza la riscontriamo anche nei rapporti relativi ai paesi OCSE. (vedi tabella 1.1). Anche allargando gli orizzonti in 32 su 34 paesi dell' OCSE nel 2013 il tasso di fecondità è inferiore al tasso di sostituzione che si attesta anche in questo caso a 2,1. Le eccezioni sono rappresentate da Israele con un tasso di fecondità totale di 3,0 e Messico al 2,2. Nei due terzi dei paesi OCSE i tassi di fecondità sono leggermente aumentati dal 2000 fino ad arrivare nel 2013 a raggiungere una media di 1,67, ben al di sotto del livello che garantisce la sostituzione della popolazione. La tendenza ad avere meno figli è iniziata dal 1960 e la caduta dei tassi di fertilità riflette i cambiamenti dello stile di vita degli individui riguardante la formazione della famiglia e la precarietà dei matrimoni, le crescenti incertezze legate al posto di lavoro, il rinvio della maternità (dai 24 ai 28 anni tra il 1970 e il 2005), gli elevati costi inerenti alla crescita dei figli. Il divario positivo (e crescente) tra il numero di bambini che le donne dichiarano di desiderare e il numero che hanno effettivamente dimostra almeno in parte l'influenza di questi vincoli. Questo collegamento è significativo in diversi paesi europei, come la

(11)

11 Grecia, l’Italia, la Polonia e la Svizzera, tuttavia, ad oggi più della metà delle nascite si verificano fuori dal matrimonio in Francia, Islanda, Norvegia e Svezia. La media percentuale di nascite fuori del matrimonio nei paesi OCSE è ad oggi un terzo del totale. Secondo le prospettive della popolazione delle Nazioni Unite il recente aumento nei tassi di fertilità si presume continuerà, anche se molto lentamente, fino a raggiungere una media di 1,9 nei paesi OCSE entro il 2060.

Tabella 1.1 – Tasso di fertilità nei paesi OCSE Fonte: Pensions at a glance 2015

Osservando le altre grandi economie, Argentina, India, Indonesia, Arabia Saudita e Sud Africa attualmente hanno tassi di fertilità ben al di sopra del livello del sostituzione di 2,1. Tuttavia, la tendenza futura seguirà quella dei paesi OCSE.

 L’allungamento della speranza di vita: il notevole aumento della speranza di vita nella maggior parte dei paesi sviluppati del mondo è uno dei più grandi successi della scienza nel secolo scorso. Dal 1960, abbiamo assistito ad un aumento significativo della speranza di vita alla nascita in tutti gli Stati membri dell’Unione Europea, soprattutto

(12)

12 per le donne. Nell’Eurozona, dove la speranza di vita alla nascita è aumentato fino a tre mesi ogni anno, l'aumento è stato ancora più evidente. La vita continua ad allungarsi, e si prevede che questa tendenza continui sia per gli uomini che per le donne, fino a raggiungere nel 2060 rispettivamente un’età superiore a 84 e 89 anni, come mostrano le figure 1.8 e 1.9.

Figura 1.8 – Aspettativa di vita alla nascita - uomini Figura 1.9 - Aspettativa di vita alla nascita - donne

Fonte: EUROPOP2013 Fonte: EUROPOP2013

Ciononostante le proiezioni ufficiali generalmente presuppongono che l’aumento della speranza di vita alla nascita rallenterà rispetto alle tendenze storiche. Ciò è dovuto dal fatto che il tasso di mortalità giovanile è già molto basso e futuri aumenti della speranza di vita richiederebbero una diminuzione dei tassi di mortalità in età avanzata (che statisticamente hanno un impatto minore sull’aspettativa di vita alla nascita).

A tale proposito è possibile tenere in considerazione la speranza di vita alla nascita o, in alternativa, la speranza di vita a 65 anni, anno in cui solitamente l’individuo è prossimo all’uscita dal mondo del lavoro (vedi tabella 1.2 e 1.3); quest’ultimo è particolarmente importante per le decisioni dei governi dei vari paesi, e per attuare eventuali manovre correttive, circa il finanziamento dei sistemi pensionistici. Per quanto, infatti, l’aumento della speranza di vita rappresenti per la scienza una grande conquista, per l’economia può tradursi in un aumento della spesa pensionistica dovuta all’ampliamento della coorte anziana.

Indipendentemente dal dato utilizzato per le proiezioni, non esiste un consenso unanime tra i demografi, alcuni dei quali considerano che esista un limite biologico naturale della vita dell’individuo, mentre altri confidano sul crescente aumento della longevità grazie all'impatto delle future scoperte mediche, dei programmi di sanità pubblica e dei comportamenti della società quali la riduzione del numero dei fumatori o della maggiore attenzione nei riguardi di un’alimentazione sana ed equilibrata che dovrebbe ridurre i casi di obesità.

(13)

13 Tabella 1.2 – L’aspettativa di vita alla nascita negli stati membri dell’Unione Europea

Fonte: Eurostat, EUROPO2013

Tabella 1.3 – L’aspettativa di vita a 65 anni negli stati membri dell’Unione Europea Fonte: Eurostat, EUROPOP2013

Anche prendendo in considerazione i rapporti OCSE riscontriamo un generale aumento della longevità e la si può attribuire al miglioramento del tenore di vita e all’accesso a servizi sanitari di qualità. Nel 2010-15, la proiezione della speranza di vita alla nascita mostrava una media di 77,2 anni per gli uomini e 82,7 anni per le donne. Per le donne, la cifra più alta si registrava in Giappone (86,9 anni), seguita da Spagna, Francia, Italia e Svizzera. Per gli uomini,

(14)

14 la speranza di vita alla nascita era più alta in Islanda (80,2 anni), seguita da Australia, Svizzera, Giappone e Israele (vedi figura 1.10).

Figura 1.10 - Proiezione dell’aspettativa di vita di uomini e donne nati nel 2010-2015 nei paesi OCSE Fonte: Pensions at a glance 2015

Anche per ciò che riguarda l’aspettativa di vita in età avanzata, nel 2010-15, in media nei paesi OCSE, le donne sessantacinquenni potevano aspettarsi di vivere altri 20,8 anni, e fino a 25,8 negli anni 2060-65. Gli uomini della stessa età potevano aspettarsi di vivere ulteriori 17,4 anni nel 2010-15, ed altri 21,9 anni nel 2060-65.

Vi sono differenze notevoli tra i vari paesi OCSE circa la speranza di vita ad età avanzata. Per ciò che riguarda sia gli uomini che le donne, il paese che presenta la più alta aspettativa di vita è il Giappone che registra rispettivamente nel 2060-65 una media di 24,1 e 29,7 anni. Il collegamento fra migliori condizioni di vita e longevità è confermato anche dall’osservazione delle principali economie non-OCSE, in cui gli individui vivono in condizioni sicuramente peggiori e l’aspettativa di vita è generalmente inferiore. La speranza di vita alla nascita è infatti di gran lunga più bassa in Sud Africa: 55 anni per gli uomini e 59 anni per le donne. La più alta speranza di vita alla nascita è registrata in Argentina per le donne, 80 anni, e in Cina per gli uomini, 74 anni. La più bassa speranza di vita a 65 anni è rilevata per le donne indiane (a 14,5) ed è più bassa per gli uomini in Sud Africa a 10,9 anni. (vedi figure 1.11 e 1.12).

Figura 1.11- Proiezione dell’aspettativa di vita degli uomini all’età di 65 anni nei paesi OCSE Fonte: Pensions at a glance 2015

(15)

15 Figura 1.12- Proiezione dell’aspettativa di vita delle donne all’età di 65 anni nei paesi OCSE

Fonte: Pensions at a glance 2015

 L’immigrazione: come anticipato il mutamento demografico, soprattutto per ciò che riguarda l’Unione Europea, è influenzato anche dal crescente flusso migratorio verso gli stati membri. I paesi europei sono infatti diventati gradualmente una destinazione per i migranti, a partire dal 1950, che sceglievano come destinazione paesi che avevano un passato coloniale e richiedevano forza lavoro a seguito della guerra.

Il flusso migratorio netto è diminuito significativamente tra il 1992 e 1997, a causa di controlli più severi esercitati nei principali paesi di destinazione, ma ricominciò a crescere alla fine degli anni 1990. Nel complesso, il flusso migratorio medio annuale è più che triplicato da circa 198.000 persone all’anno nel corso del 1980 a circa 750.000 persone all'anno nel corso del 1990, decennio segnato anche dall’elevata immigrazione clandestina.

All'inizio del 2000 il flusso migratorio verso i paesi dell'Unione Europea è aumentato raggiungendo il picco di 1,8 milioni di persone nel 2003 per poi mantenere livelli prossimi ai 1,5 milioni di persone fino alla comparsa della crisi economica e finanziaria, quando l’immigrazione netta è scesa bruscamente a circa 700.000 negli anni 2009-2011. Negli ultimi due anni i flussi migratori netti sono nuovamente crescenti, raggiungendo livelli pre-crisi (vedi figura 1.13).

Figura 1.13 – Flusso migratorio netto dal 1961 al 2060 Fonte: Eurostat, EUROPOP2013

(16)

16 Vi è inoltre da considerare che ogni paese mostra un'elevata variabilità in tema di immigrazione (vedi tabella 1.4). Tradizionalmente, Germania, Francia e il Regno Unito detenevano il record del maggior numero di arrivi nell'Unione Europea, ma negli ultimi dieci anni si è registrato un aumento dell’immigrazione in Italia, Spagna e Irlanda, che da paesi di transito sono diventati paesi di destinazione. Dal 2009 la situazione è cambiata ancora una volta, con rilevanti uscite da Spagna e Irlanda.

In termini di persone, il più grande calo degli afflussi annuali dal 2010 è stato registrato in Belgio, Spagna, e Regno Unito (tra 69.000 e 332.000 in meno). Di contro, i più elevati afflussi sono stati registrati in Germania e in Italia (tra 336.000 e 984.000 in più).

Si prevede che gli afflussi netti nell’Unione Europea nel suo complesso tenderanno ad aumentare da circa 874.000 persone nel 2014 a 1.364.000 nel 2040, fino a raggiungere 1.037.000 persone entro il 2060 (prevedendo un afflusso annuo di 0,2% della popolazione dell'UE). Si prevede che l’immigrazione interesserà maggiormente alcuni paesi di destinazione quali l’Italia (15,5 milioni totali fino al 2060), Regno Unito (9,2milioni), Germania (7 milioni) e Spagna (6,5milioni) e si avrà nei prossimi decenni la conferma che Italia e Spagna sono diventati non più paesi di semplice transito degli immigrati, ma veri e propri paesi di destinazione. Per i paesi che attualmente assistono ad un deflusso netto (BG, CZ, EE, IE, EL, ES, HR, CY, LV, LT, PL, PT e RO), si prevede un affievolirsi del fenomeno fino ad invertire la tendenza nei prossimi decenni.

Tabella 1.4 – Previsioni del flusso migratorio netto in Europa Fonte: Eurostat, EUROPOP2013

(17)

17 Data la dinamica della fertilità, dell'aspettativa di vita e dell’immigrazione la composizione della popolazione dell’Unione Europea cambierà fortemente nei prossimi decenni. Si prevede che la dimensione complessiva della popolazione sarà leggermente più ampia entro il 2060, ma molto più vecchia di quanto sia attualmente.

E’ previsto un aumento della popolazione dell'Unione Europea (da 507 milioni nel 2013) fino al 2050 di quasi il 5%, quando raggiungerà il picco (a 526 milioni) e da allora in poi diminuirà lentamente (a 523 milioni nel 2060).

Vi sono ampie differenze nelle tendenze della popolazione fino al 2060 tra gli Stati membri. Mentre la popolazione europea nel suo complesso dovrebbe essere più numerosa nel 2060 rispetto al 2013, si stima che ci saranno delle diminuzioni del totale della popolazione in circa la metà degli Stati membri (BG, DE, EE, EL, ES, HR, LV,LT, HU, PL, PT, RO, SI e SK) mentre per gli altri Stati membri (BE, CZ, DK, IE, FR, IT, CY, LU,MT, NL, AT, FI, SE e UK) si prevede un aumento.

La più forte crescita della popolazione è prevista da Eurostat in Lussemburgo (+ 111%) grazie all’immigrazione massiccia, Belgio (+ 38%), Svezia (+ 36%), Cipro (30%) e nel Regno Unito (+ 25%). Il più forte declino è previsto in Lituania 38%), Lettonia 31%), Bulgaria (-25%), Grecia (-23%) e Portogallo (-22%) (Vedi figura 1.14).

Figura 1.14 – Proiezione del totale della popolazione (variazione percentuale ed assoluta nel periodo 2013-2060) Fonte: Eurostat, EUROPOP2013

Nel 2013, gli Stati membri con la più grande popolazione sono stati: Germania (81 milioni), Francia (66 milioni), Regno Unito (64 milioni), Italia (60 milioni) e Spagna (47 milioni). Secondo Eurostat, nel 2060, il Regno Unito dovrebbe diventare il più popoloso paese dell'Unione Europea (80 milioni), seguito dalla Francia (76 milioni), Germania (71 milioni), Italia (66 milioni) e Spagna (46 milioni).

La piramide della popolazione presentata nella figura 1.5 mostra che la struttura per età della popolazione dell'Unione Europea cambierà radicalmente. Nel 2013 l’età media per maschi

(18)

18 e femmine era rispettivamente di 40 e 43 anni. Nel 2060, si prevede che salirà a 45 e 47, a causa del crescente numero di persone anziane che farà aumentare la quota della popolazione e il continuo aumento previsto della speranza di vita. Allo stesso tempo, la base della piramide in cui troviamo la coorte più giovane diventerà più stretta a causa dei bassi tassi di fertilità degli ultimi decenni, ma il declino delle nascite sarà più contenuto grazie all’immigrazione di donne straniere che mostrano tassi di fertilità più alti rispetto alle donne europee . Di conseguenza, la forma del grafico cambia da “piramide” per passare gradualmente a dimensioni simili a quella di “pilastro”.

Si prevede che la coorte dei giovani (di età compresa tra 0-19) rimarrà abbastanza costante entro il 2060 in tutta l’Unione Europea (20% circa), mentre la fascia 20-64 anni diventerà sostanzialmente più piccola, in calo dal 61% al 51%. Gli individui di 65 anni di età ed oltre rappresenteranno una quota sempre maggiore (crescente dal 18% al 28% della popolazione) e quelli al di sopra degli 80 anni aumenteranno progressivamente fino a raggiungere alti livelli nel 2060 (in aumento dal 5% al 12%) (Vedi figura 1.15).

Figura 1.15 – Proiezione delle variazioni della struttura della popolazione europea in funzione ai gruppi di età (in percentuale al totale della popolazione)

Fonte: Eurostat, EUROPOP2013

Le risultanze ottenute dalle proiezioni finora descritte circa la mortalità, i tassi di fecondità e l’immigrazione sono utili per il nostro studio per valutare il c.d. indice di dipendenza demografica, definito come il numero di individui di 65 anni ed oltre (solitamente in procinto del pensionamento) per ogni 100 persone in età lavorativa, definita tra i 20 e 64 anni di età: il risultato del rapporto è preoccupante e le proiezioni future non sono confortanti in quanto se da una parte l’aumento dell’aspettativa di vita fa aumentare al numeratore il numero delle persone anziane (e di conseguenza il numero dei pensionati), dall’altra parte il calo dei tassi di fertilità, implicando il decrescere delle generazioni, fa diminuire al denominatore il numero dei lavoratori presenti nel mercato del lavoro.

Nell’ambito dell’Unione Europea si prevede che questo indice aumenterà in media da 29,3 a 55,2 durante il periodo della proiezione; ciò implica che da quasi quattro persone in età

(19)

19 lavorativa per ogni persona di età uguale o superiore a 65 anni avremo solo meno di due persone in età lavorativa per ogni anziano.

Guardando oltre i confini dell’Unione Europea riscontriamo la stessa tendenza anche per l'OCSE nel suo complesso, dove si prevede un continuo aumento del rapporto di dipendenza in futuro, fino a raddoppiare entro il 2075 rispetto ad oggi. Al momento, facendo una media di tutti i paesi OCSE, vi sono 28 individui di 65 anni e oltre ogni 100 persone in età lavorativa (età 20-64). Nel 1950 l'indice di dipendenza demografica era pari a 14 e ha raggiunto 28 nel 2015. L'indice di dipendenza demografica dovrebbe continuare ad aumentare e raggiungere 35 nel 2025, 51 nel 2050 e 55 dal 2075.

Nonostante le differenze riscontrate fra i diversi paesi, si prevede una notevole convergenza del trend con paesi demograficamente più giovani che invecchieranno più rapidamente.

Nel 2015 il paese OCSE demograficamente più anziano era il Giappone, con un rapporto di dipendenza demografica pari a 47 (significa che per 100 persone in età lavorativa vi sono 47 individui di 65 anni e oltre). Anche la Germania e l'Italia avevano rapporti di dipendenza elevati, pari rispettivamente a 35 e 37. Nel 2075 il rapporto di dipendenza raggiungerà 80 in Corea, 77 in Giappone, 76 in Portogallo e 66 in Germania.

Di contro, Messico e Turchia sono i paesi più giovani, con indici di dipendenza di 12 e 13 rispettivamente, seguita da Cile, con 17. Dal 2075, i loro rapporti di dipendenza saranno più alti della media OCSE, raggiungendo 63 in Cile, 59 in Messico e 55 in Turchia.

Quattro dei sei principali paesi OCSE di lingua inglese (Australia, Canada, Irlanda e Stati Uniti) hanno indici di dipendenza relativamente bassi, tra 21 e 26. Ciò è parzialmente dovuto all’ingresso di immigrati in età lavorativa, e, in Irlanda e negli Stati Uniti, ad alti tassi di fertilità, che attualmente sono appena sotto il livello di sostituzione. Gli altri paesi che attualmente hanno una popolazione più giovane sono rispettivamente la Repubblica Slovacca e la Polonia, con rapporti di dipendenza di 21 e 24; entrambi i paesi però invecchieranno rapidamente in futuro, e il loro rapporto di dipendenza sarà molto vicino alla media OCSE nel 2075.

Il paese che di gran lunga invecchierà più velocemente tra paesi dell'OCSE sarà la Corea: il rapporto di dipendenza aumenterà da 6 nel 1950 a 80 del 2075 e, da essere attualmente il quarto paese più giovane dell'OCSE, diventerà il più anziano nel 2075.

Tutte le altre economie principali non-OCSE hanno indici di dipendenza inferiore alla media OCSE. Tuttavia, molti dovranno affrontare il rapido invecchiamento della popolazione nei prossimi decenni. In Brasile e in Cina, ad esempio, il rapporto di dipendenza aumenterà dagli attuali 13 e 14 a 60 e 51 nel 2075, rispettivamente. Entro l’orizzonte di cui si occupa la previsione, solo il Sud Africa sarà demograficamente più giovane rispetto alla media OCSE, con un rapporto di dipendenza di 28, seguita dall'India con il secondo più basso a 33.

(20)

20 Tabella 1.5 – Indice di dipendenza demografica: valori storici e previsti, 1950-2075

Fonte: Pensions at a glance 2015

In conclusione possiamo dire che il generale invecchiamento della popolazione non può che preoccupare i vari Governi circa la spesa pensionistica e per questo motivo in tutti i paesi si sono succedute negli ultimi anni numerose riforme pensionistiche che hanno da una parte aumentato l’età pensionabile, dall’altra hanno ridotto l’ammontare delle prestazioni pensionistiche. Riguardo a quest’ultima leva, si può incidentalmente notare che affinché i futuri pensionati possano ricevere una pensione di un ammontare sufficiente a far loro mantenere una vita dignitosa è indispensabile la ricerca e l’introduzione di alternative come i Fondi Pensione, atti a compensare tali riduzioni.

Dall’altro lato, al fine di frenare la contrazione dei tassi di natalità, le manovre da attuare dovrebbero essere finalizzate al sostegno della famiglia.

(21)

21

1.3.2 Il mercato del lavoro e la disoccupazione

La modifica della struttura della popolazione ha fatto sì che nel corso degli ultimi decenni si sia modificata anche la partecipazione della forza lavoro. Riscontriamo infatti che la forza lavoro è sempre più composta da persone anziane e questa tendenza è in aumento.

Figura 1.16 – Tasso di occupazione in Europa Figura 1.17 - Tasso di occupazione in Europa nel 2013 e nel 2060 - uomini nel 2013 e nel 2060 - donne

Fonte: The 2015 Ageing Report Underlying Assumptions and Projection Methodologies

Insieme al puro fattore demografico, in merito alla sostenibilità del sistema di welfare, sono da tenere in considerazione altri fattori quali:

 Fattori sociali, come il cambiamento del ruolo della donna nelle famiglie. Negli anni il ruolo della donna è cambiato e dai risultati di recenti ricerche di Eurostat si riscontra che all’interno del mercato del lavoro nell’Unione Europea le donne sono passate dal 53,6% al 59,7% (figura 1.18) nell’ultimo decennio: sia per emancipazione, sia per migliorare il bilancio familiare, la donna da casalinga è diventata lavoratrice, anche tramite l’utilizzo di contratti a tempo parziale (a lavorare part-time nel 2014 era il 32,2% delle lavoratrici), fino a vedere in taluni casi ricoprire posizioni di vertice. L’incremento può essere spiegato anche dai cambiamenti e dagli sviluppi derivanti dalle riforme istituzionali a lungo termine, ma anche dal fatto che le donne tendono a lavorare in settori particolari e sono capaci di adattarsi a lavori flessibili, nonostante siano ancora oggi sottopagate e sottostimate rispetto ai colleghi uomini e ricevano pensioni più basse10.

Figura 1.18 - Tasso di occupazione femminile (15-64) in alcuni paesi europei e nella media EU-27 – Anni 2000-2014 Fonte: http://www.ingenere.it/articoli/occupazione-femminile-centri-per-impiego-inefficaci

10 Il sole 24 ore Mondo – L’occupazione femminile nell’Unione Europea cresce nonostante la crisi

http://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2015-10-30/l-occupazione-femminile-nell-unione-europea-cresce-nonostante-crisi-094909.shtml?uuid=ACY59IQB

(22)

22  Fattori istituzionali, relativi alle riforme dei sistemi previdenziali che hanno sempre più fatto leva sull’età di pensionamento per mitigare il problema della sostenibilità finanziaria legato all’aumento dell’aspettativa di vita. L’indice degli anni previsti in pensione illustrato in figura 1.19 è la lunghezza della speranza di vita rimanente prevista dal momento dell'effettiva uscita dal mercato del lavoro.

Figura 1.19 Aspettativa di vita dall’inizio del pensionamento (2014) Fonte: Pensions at a glance 2015

L’aumento del numero di anziani e la crescente aspettativa di vita hanno allarmato gli istituti previdenziali che prevedono di dover finanziare le prestazioni pensionistiche per un maggior numero di individui e per un maggior numero di anni ed è per questo motivo che molte delle variazioni apportate dai vari paesi hanno riguardato l’età per accedere al pensionamento, ritoccandola in termini assoluti o calibrandola all’aspettativa di vita degli individui (vedi figura 1.20).

Figura 1.20 - Impatto delle riforme pensionistiche sull'età media effettiva di pensionamento Fonte:The 2015 Ageing Report- Underlying Assumptions and Projection Methodologies

(23)

23  Fattori economici, come ad esempio, l’aspettativa di un trattamento pensionistico relativamente esiguo (almeno che i lavoratori non abbiano preventivamente provveduto personalmente ad assicurarsi una vecchiaia dignitosa tramite piani di previdenza complementare) spinge i lavoratori ad uscire dal mercato del lavoro in età più avanzata anche utilizzando forme di occupazione a tempo parziale.

Il fatto che il mercato del lavoro sia sempre più occupato da persone anziane, meno preparate e meno adattabili al cambiamento tecnologico, preoccupa soprattutto per le conseguenze sulla produttività e sulla crescita economica dei paesi, che vedono frenare l’economia per la reticenza dei lavoratori a sfruttare le tecnologie più all’avanguardia in ambito lavorativo.

Dall’altro lato, il problema principale che affligge tutti i paesi, soprattutto a seguito della crisi finanziaria del 2008, è la presenza di disoccupati11 di lunga durata12. Nonostante il miglioramento generale del mercato del lavoro, la disoccupazione di lunga durata infatti resta a livelli molto elevati in diversi Stati membri. In seguito alla crisi, tra il 2008 e il 2014 il tasso di disoccupazione di lunga durata è aumentato in tutti gli Stati membri, con la significativa eccezione della Germania (vedi figura 1.21). Nel complesso i tassi sono ancora relativamente elevati, in particolare in Grecia e, in misura minore, in Spagna; in entrambi i casi il tasso registrato nel 2014 è ancora molto vicino al livello massimo. La disoccupazione di lunga durata riguarda gli uomini, i giovani e i lavoratori poco qualificati in misura relativamente maggiore rispetto ad altri gruppi sul mercato del lavoro e colpisce in particolare coloro che lavoravano nelle professioni e nei settori in declino13.

Figura 1.21 – Tassi di disoccupazione di lunga durata (2008, 2014 e livelli massimi) Fonte: Employment and Social Developments in Europe 2015, Commissione Europea

11 Disoccupati: persone con un’età compresa tra i 15 e i 74 anni che non hanno lavoro, né svolgono alcun tipo di attività lavorativa

(per un’ora o più durante la settimana). I disoccupati sono tali se sono alla ricerca di un lavoro e sono disponibili a lavorare.

12

Disoccupati che dopo un anno sono ancora senza lavoro

(24)

24 Lo stato complessivo dell'economia rimane un fattore importante che influenza le variazioni dei livelli della disoccupazione di lunga durata, e ne è a sua volta influenzato poiché essa limita la possibilità di crescita dei paesi stessi in quanto le risorse non vengono impiegate per lo sviluppo del paese, ma sono utilizzate per la cassa integrazione o impiegate quale reddito da dare a persone disoccupate onde evitare di generare un nuovo problema sociale per il paese. Non è inoltre da sottovalutare il fatto che la disoccupazione di lunga durata comporta anche ripercussioni sia dal punto di vista sociale che psicologico del lavoratore, che, scoraggiato, può transitare dalla categoria dei disoccupati a quelli degli “inattivi” (ad esempio in Italia si registrano transizioni verso l’inattività particolarmente rilevanti). Particolarmente preoccupante è anche la situazione che riguarda i cc.dd. “NEET” (dall’inglese “not in empoloyment, education or training”), ossia i giovani non occupati e non impegnati in attività di istruzione o formazione14.

Parlando di disoccupazione sappiamo infatti che questa misura dipende molto dal numero degli attivi, di coloro cioè che un lavoro lo cercano effettivamente, e che un basso tasso di occupazione non corrisponde alla prossimità della piena occupazione ma potrebbe indicare che molti di coloro che non hanno un lavoro sono semplicemente inattivi, casalinghe o lavoratori in nero. Questo fatto è facilmente riscontrabile anche in Italia, soprattutto al Sud, tanto che recenti studi Eurostat aggiornati al 2015 confermano che per alcuni paesi parlare di tasso di disoccupazione nazionale ha poco senso, data la presenza di numerosi individui che esulano dalla categoria di “disoccupati” concentrata in particolari zone del paese.

La situazione europea per ciò che riguarda la disoccupazione è molto eterogenea. La mappa delle regioni d’Europa in base al tasso di disoccupazione è infatti impietosa, facendo risultare un continente estremamente diviso, che viaggia ancora secondo linee nazionali, seppur vi siano enormi differenze anche all’interno dei paesi stessi.

Andando ad osservare i dati riscontriamo che l’Europa meridionale registra i più alti tassi di disoccupazione, trovando in testa la Grecia (25,1%), seguita dalla Spagna (22,6%) e dal Portogallo (13,1%). L’Italia è al quarto posto con un tasso di disoccupazione raddoppiato rispetto al 2007 (12,6% contro 6,1%). La Germania non è più la terra della disoccupazione come negli anni ’90 attestandosi al di sotto del 5%. Austria e Svizzera seguono il trend della Germania ed anche le regioni dell’Est Europa legate all’economia tedesca, come ad esempio l’Ungheria, ne hanno beneficiato15

.

La figura 1.22 mostra il tasso di disoccupazione dei vari paesi europei e le differenze regionali all’interno degli stessi.

14Intermarket & More – Italia: paese di poveri vecchi e di giovani senza futuro -

http://intermarketandmore.finanza.com/italia-paese-di-poveri-vecchi-e-di-giovani-senza-futuro-72446.html

15 Termometro Politico – Disoccupazione in Europa, dal 2,5 di Friburgo al 31 dell’Andalusia, tutti i nuovi dati

http://www.termometropolitico.it/1217829_disoccupazione-in-europa-dal-25-di-friburgo-al-31-della-andalusia-tutti-i-nuovi-dati.html

(25)

25 Figura 1.22 – Tasso di disoccupazione in Europa

Fonte: Eurostat16

In generale possiamo affermare che attualmente la situazione occupazionale e sociale è in lento miglioramento ed, in linea con la graduale ripresa economica, in quasi tutti gli Stati membri i tassi di occupazione sono nuovamente in aumento e i tassi di disoccupazione stanno diminuendo. Nel 2014 il tasso annuo di disoccupazione per l’Unione Europea era ancora superiore al 10%, e ancor più elevato nella zona euro, ma è ulteriormente diminuito nel corso del 2015. Dal 2013 sono in calo anche la disoccupazione giovanile e quella di lunga durata, pur rimanendo a livelli complessivamente elevati17

.

Abbiamo poc’anzi accennato come la crisi finanziaria del 2008 abbia negativamente influito sull’occupazione. Possiamo infatti notare dalla figura 1.23 come alcuni stati europei (Grecia, Spagna, Portogallo, Italia) abbiano maggiormente subìto la crisi, traducendosi, negli anni a seguire, in un aumento vertiginoso del tasso di disoccupazione. Ma tale tendenza non può essere giustificata dalla sola crisi economica, in quanto, come ha dimostrato la Germania ed altri paesi europei, la crisi del 2008 sembra aver dato la possibilità di riorganizzare gli assetti economici, tanto da far rilevare addirittura una diminuzione del tasso di disoccupazione (dall’ 8,6% del 2007 al 4,9% nel 2015).

16

Termometro Politico – Op. cit., pag. 24

(26)

26 Figura 1.23 – La disoccupazione in alcuni paesi europei in percentuale alla popolazione attiva

Fonte: Il sole 24 ore del 30/06/2015

Politiche rivolte al contenimento del tasso di disoccupazione sono funzionali, come vedremo nel proseguo del lavoro, anche per l’equilibrio dei conti pubblici ed in particolare per ciò che riguarda la voce di spesa dedicata alle pensioni, proprio per il fatto che, nel sistema attuale, sono i lavoratori in essere a “finanziare” i benefici pensionistici.

1.3.3 Il PIL

E’ opportuno infine porgere l’attenzione su un dato significativo, il Prodotto Interno Lordo (PIL), che esprime il valore complessivo dei beni e servizi finali prodotti all'interno di una nazione in un certo arco di tempo, solitamente un anno. Il PIL è un indicatore economico molto importante in quanto misura la ricchezza prodotta in un Paese, ossia la sua crescita reale18 e, ai fini del nostro studio, gioca un ruolo importante sia per determinazione dell’ammontare delle prestazioni pensionistiche (in Italia la media mobile quinquennale del tasso di crescita del PIL è utilizzato quale coefficiente di rivalutazione dei benefici pensionistici) sia come parametro per verificare il peso che la previdenza sociale, e nello specifico la spesa previdenziale, ha sul bilancio dello Stato. La figura 1.23 mostra i dati di una spesa destinata alla previdenza sociale particolarmente elevata soprattutto in Grecia e in Italia, rapportata al PIL e confrontata con gli altri paesi europei, spesa perlopiù destinata alle pensioni.

(27)

27 Figura 1.23- Spesa pubblica in previdenza sociale nei paesi EU in percentuale al PIL (2012)

Fonte: http://icebergfinanza.finanza.com/2015/06/29/grecia-un-mondo-di-balle-fact-checking/

Vedremo nel prosieguo del lavoro come questo fattore giochi un ruolo fondamentale sulla determinazione della spesa pensionistica; in questo contesto è opportuno porre l’attenzione sul fatto che la produttività dipende da altri fattori quali la forza lavoro e il progresso tecnologico, a loro volta influenzati dai mutamenti demografici. Formalmente, queste valutazioni derivano da uno schema in cui l’invecchiamento della popolazione riduce contemporaneamente la popolazione in età lavorativa, la forza lavoro e il reddito pro-capite. Avremo infatti:

(Y/N) = (L/N) x (Y/L)

dove il PIL pro-capite (Y/N) è scomposto dal prodotto di due fattori, il tasso di occupazione (L/N) e la produttività del lavoro (Y/L). L’invecchiamento della popolazione riduce per definizione il tasso di occupazione L/N, in quanto i lavoratori che escono dal mercato del lavoro per aver raggiunto l’età pensionabile saranno via via rimpiazzati da un numero minore di lavoratori; il reddito pro-capite si riduce anch’esso, a meno che la produttività Y/L non aumenti in misura proporzionale alla diminuzione del tasso di occupazione. Si assume in genere che quest’ultimo aumento non si verifichi, ritenendo che una forza lavoro più anziana possa essere assimilata ad uno shock tecnologico negativo: è pacifico che con l’avanzare dell’età gli esseri umani sperimentano un progressivo deterioramento delle loro capacità cognitive e per quanto con l’età si acquisisca esperienza è altresì verosimile che raggiunto un certo livello l’effetto marginale sulla produttività di ulteriore acquisizione di esperienza sia prossima allo zero. Una spinta positiva alla produttività può essere data solo dalle invenzioni e dalle innovazioni e i lavoratori anziani, poiché tendono ad essere meno flessibili, rallentano l’innovazione e lo sfruttamento del progresso tecnologico o i processi di riorganizzazione del lavoro necessari per sfruttare a pieno le nuove tecnologie19.

19Consiglio nazionale dell’Economia e del Lavoro, Centro Europa Ricerche (2009) – Modello previsionale della spesa pensionistica

(28)

28

1.4 Uno sguardo all’Italia

Il sistema di welfare italiano si trova tutt’oggi a fronteggiare numerosi elementi di criticità dovuti alla crisi economica che ha attraversato anche il nostro Paese. In tale contesto si dipanano gli effetti delle trasformazioni demografiche e sociali, caratterizzate dall’accelerazione del processo di invecchiamento e dalla rallentata crescita economica.

1.4.1 Il quadro demografico italiano

Già dall’analisi della situazione demografica mondiale ed europea abbiamo potuto constatare che in Italia si vive sempre più a lungo, registrando un forte aumento dell’aspettativa di vita (83,2 anni, 2,6 anni in più della media OCSE) ma resta bassa la propensione ad avere figli, persistendo livelli molto bassi di fecondità, in media 1,42 figli per donna (contro la media OCSE e dell’Unione Europea che si attestano rispettivamente a 1,67 e 1,58). L’Italia, tra l’altro, ha la seconda età media più elevata nei paesi OCSE per le donne al primo concepimento, pari a 31 anni nel 2014, 3 anni più alta rispetto al 199520.

Le previsioni demografiche consentono di apprezzare come si modificherà la struttura per età della popolazione nei prossimi 30 anni (vedi figura 1.24). Si può osservare l’inasprirsi del processo di invecchiamento, soprattutto nel Mezzogiorno, dove dal 2011 al 2041 la proporzione di ultrasessantacinquenni per 100 giovani con meno di 15 anni risulterà più che raddoppiata passando da 123 a 278. Nello stesso periodo al Centro-Nord l’indice di vecchiaia aumenterà di oltre una volta e mezza, da 159 a 242. In particolare la base più ristretta della piramide rispetto alla parte centrale, è dovuta all’effetto della denatalità che erode la consistenza quantitativa delle nuove generazioni, mentre la crescente longevità produce al contrario un’espansione del vertice. Il “rigonfiamento”, in corrispondenza della popolazione in età attiva e nel 2041 degli ultrasessantacinquenni, è, come noto, dovuto alle generazioni del “baby-boom”, o più in generale ai nati tra gli anni ’60 (circa un milione annuo) e la seconda metà degli anni ’70.

Figura 1.24 – Piramidi demografiche Centro-Nord e Mezzogiorno Fonte: Istat, Censimento popolazione e abitazioni; Previsioni demografiche

(29)

29 Le nascite sono successivamente aumentate fino al massimo relativo di 576,7 mila nel 2008, mentre il massimo della fecondità si è osservato nel 2010 (1,46 figli per donna). Questa fase di aumento della fecondità è da attribuire largamente ai comportamenti riproduttivi dei cittadini stranieri ed è ravvisabile solo nelle regioni del Nord e del Centro del Paese, dove la loro presenza è più stabile e radicata.

Sappiamo infatti che gli ingressi di cittadini stranieri hanno anche in parte rallentato il ritmo di invecchiamento della popolazione residente, sia direttamente grazie al giovane profilo per età degli immigrati sia indirettamente grazie al contributo dei cittadini stranieri alla fecondità. Per ciò che riguarda l’immigrazione, infatti, l’Italia continua ad attrarre comunque numerosi cittadini stranieri dall’estero. Nel 2012, dei 351 mila iscritti dall’estero, 321 mila sono cittadini stranieri e, sebbene in calo rispetto agli anni precedenti, il dato mostra che l’Italia è ancora meta, nonostante la crisi, di consistenti flussi migratori dall’estero.

Figura 1.25 Immigrazioni, emigrazioni e saldo migratorio con l’estero - Anni 2007-2012 Fonte: Istat, Iscrizioni e cancellazioni all’anagrafe per trasferimento di residenza

Di contro, sono sempre più numerosi gli italiani che si trasferiscono all’estero: aumentano gli espatri e calano i rientri. Nel 2012 gli italiani di rientro dall’estero sono circa 29 mila, 2 mila in meno rispetto all’anno precedente, al contrario è marcato l’incremento dei connazionali che decidono di trasferirsi in un Paese estero. Il numero di emigrati italiani è pari a 68 mila unità, il più alto degli ultimi dieci anni, ed è cresciuto del 35,8% rispetto al 201121.

La vita media in continuo aumento, da un lato, e il regime di persistente bassa fecondità, dall’altro, ci hanno fatto conquistare a più riprese il primato di Paese con il più alto indice di vecchiaia del mondo e questa misura rappresenta il “debito demografico” che il paese ha nei confronti delle generazioni future, soprattutto in termini di previdenza, spesa sanitaria e assistenza. Si prevede infatti che il rapporto fra individui over 65 e popolazione 15-64 è destinato a raddoppiare in circa 35 anni, e ciò vale a dire che la situazione attuale di un pensionato per ogni tre in età lavorativa, si arriverà in pochi anni a contare due pensionati ogni

(30)

30 tre individui in età lavorativa (vedi figura 1.26)22.

Figura 1.26 - Indice di dipendenza degli anziani dal 1950 al 2065 in Italia

Fonte: elaborazioni su dati UN Population Division - World Population Prospects, the 2015 revision

Alle sfide che la globalizzazione e le crisi finanziarie impongono al paese, l’Italia si presenta con una struttura per età fortemente squilibrata, in termini di rapporto tra popolazione in età attiva e non, e con una dinamica demografica che non potrà che aggravare il processo di invecchiamento, a meno di politiche sociali in grado di mutare in profondità i comportamenti individuali e familiari23.

1.4.2 Il mercato del lavoro in Italia

Dalle analisi precedenti abbiamo evidenziato la situazione italiana in termini di disoccupazione, trovando l’Italia tra i paesi meno virtuosi, con tassi di disoccupazione elevati rispetto alla media europea ed OCSE.

Figura 1.27 – Tasso di disoccupazione in Italia rispetto alla media dei paesi OCSE per fascia d’età Fonte: Pensions at a glance 2015, Italia

Va inoltre evidenziato come la partecipazione al mercato del lavoro sia ridotta nel nostro Paese, e ciò risulta particolarmente evidente per i giovani: se è vero che tra i 15 e i 24 anni i giovani sono ancora in larga parte studenti, è pur vero che nel 2014 meno di 3 giovani su 4 tra i 25 e i 34 anni hanno fatto parte della forza lavoro. In aumento, a seguito della crisi, anche la proporzione dei NEET: secondo i dati OCSE la proporzione dei giovani rientranti in questa

22 Centro Studi e Ricerche di itinerari Previdenziali – Rapporto n. 3 anno 2016 – Il Bilancio del Sistema Previdenziale Italiano -

http://www.bollettinoadapt.it/wp-content/uploads/2016/02/RAPPORTO-2016.pdf

(31)

31 categoria, che prima del 2007 era intorno al 20% in Italia (4 punti percentuali sopra la media OCSE), tra il 2007 e il 2014 è costantemente aumentata raggiungendo il 27%. Il tasso dei NEET ha registrato una modesta riduzione nel 2015, ma resta significativamente sopra i livelli pre-crisi, quasi il doppio della media OCSE (15%)24.

Figura 1.28 – Tasso di NEET, 2005-2015 Fonte: OECD – Society at a glance 2016

Gli individui cha hanno un’età tra i 55 e i 64 anni, cioè prima dell’età normale per il pensionamento, soltanto meno della metà degli individui partecipa alla forza lavoro e di questi quasi la totalità è occupata, vale a dire che in queste classi d’età la ricerca attiva di lavoro è prossima allo zero. Inoltre, nonostante le persone continuino a vivere più a lungo e in buona salute, a partire dagli anni ’70 il pensionamento anticipato è divenuto una pratica molto diffusa in Italia come in atri paesi europei e l’età effettiva di pensionamento si è ridotta25

ben al di sotto dell’età ufficiale di pensionamento fino a raggiungere nel 2014 61,4 anni e 61,1 anni per uomini e donne, rispettivamente. Gli effetti delle riforme più recenti, che mirano all’inversione di questa tendenza saranno pienamente visibili nei prossimi anni e sebbene il tasso di occupazione dei lavoratori anziani abbia già registrato un lieve aumento, si attesta al 37% in Italia rispetto al 49% in media nell’ OCSE 26.

Figura 1.29 Età effettiva di pensionamento in Italia rispetto alla media OCSE Fonte: Fonte: Pensions at a glance 2015, Italia

24 OECD – Uno sguardo sulla società 2016 – Op. cit. pag. 28

25 Centro Studi e Ricerche di Itinerari Previdenziali – Op. cit., pag. 30

(32)

32

1.4.3 Gli strumenti per la previdenza sociale in Italia

Abbiamo visto che nel parlare di previdenza non ci riferiamo semplicemente a ciò che riguarda il sistema pensionistico, nonostante questo rappresenti il più importante programma di assicurazione sociale.

Prima di passare ad analizzare specificatamente il sistema previdenziale è pertanto opportuno indicare quali sono gli strumenti che l’Italia utilizza per sostenere i propri cittadini che si trovano in un’eventuale condizione di difficoltà.

1. Pensioni di Invalidità, Vecchiaia e ai Superstiti (IVS): rappresenta il più consistente programma di assicurazione sociale e le relative prestazioni vengono erogate in funzione di determinati presupposti quali:

- Pensione di vecchiaia: è percepita dai lavoratori che abbiano raggiunto l’età per la cessazione dell’attività lavorativa e soddisfino i requisiti contributivi minimi;

- Pensione di anzianità: viene erogata al lavoratore che abbia raggiunto un certo numero di anni contributivi;

- Pensione di invalidità: viene erogata ai lavoratori dipendenti e autonomi a fronte di incapacità di lavoro che non supera 1/3 del normale; l’assegno di invalidità è rinnovabile di 3 anni in 3 anni e non è reversibile;

- Pensione di inabilità: attribuita nel caso di totale inabilità al lavoro, che è calcolata in base agli anni di contribuzione, incrementata del numero di anni intercorrenti fino al compimento dell’età pensionabile;

- Pensione ai superstiti (o di reversibilità): spetta ai familiari superstiti del lavoratore ed è calcolata come percentuale della pensione percepita dal defunto, tenendo conto dei redditi percepiti dal/i superstite/i.

L’intero apparato IVS è oggi finanziato da un contributo sociale gravante sulle retribuzioni, se pur alcune prestazioni non siano propriamente collegate alla vita contributiva, dei lavoratori dipendenti (oggi al 33%, per l’9,19% a carico del lavoratore e il 23,81% a carico del datore di lavoro) e autonomi (22,65%).

2. L’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali: gestita dall’Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro (INAIL), riguarda tutti i lavoratori dipendenti che svolgono attività lavorativa retribuita utilizzando macchine, apparecchi, impianti, o che operano in ambienti organizzati, e artigiani, coltivatori diretti e lavoratori parasubordinati. Le prestazioni sono di due tipi: un’indennità nel caso di invalidità temporanea e una rendita vitalizia in caso di inabilità permanente, sostituita dal 2000 da un “indennizzo per la menomazione della integrità psicofisica (danno biologico) e per le sue conseguenze patrimoniali”.

Riferimenti

Documenti correlati

[r]

[r]

- raccolta ed analisi, attraverso opportune strutture informatiche di date base, dei dati di input della popolazione iscritta alla previdenza complementare distinta per tipologia

 incoraggiare l’iscrizione dei disoccupati di lunga durata presso un ufficio di collocamento, anche attraverso la diffusione di informative che chiariscano il ventaglio dei

 Fino alla fine del XVIII° secolo in Europa i tassi di natalità e i tassi di mortalità (soprattutto infantile) sono stati elevati e di conseguenza la crescita della popolazione

La risoluzione LI si sofferma, inoltre, sulla necessità di incrementare il dialogo del mondo forestale con il mondo esterno, al fine di sensibilizzare il pubblico ai problemi

Capitolo 1 “Il contesto di riferimento”. Introduzione

Focus ci si sofferma su quello con le caratteristiche più negative dal punto di vista della sostenibilità (nel contempo, bassa produttività del lavoro, basso tasso di occupazione