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Il comportamento discriminatorio alla luce dell’art. 11 del Codice di Giustizia Sportiva. - Judicium

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FRANCESCO MUTARELLI

Il comportamento discriminatorio alla luce dell’art. 11 del Codice di Giustizia Sportiva.

I) Premessa

La previsione dell’art. 11 del Codice di Giustizia Sportiva (in seguito CGS), nella sua prima formulazione, risale al luglio 1990 e per lungo tempo ha sanzionato esclusivamente le ipotesi di esposizione di striscioni incitanti alla discriminazione e all’odio razziale e territoriale. Dal 2001 è stata estesa ai cori e dal settembre 2006, su indicazione della FIFA, ai comportamenti dei calciatori, di altri tesserati e dei dirigenti. A partire da tale modifica, poi, la norma ha affiancato alle originarie ipotesi della discriminazione razziale e territoriale ulteriori e più dettagliate fattispecie, con l’intento di ricomprendere nell’alveo della disposizione ogni condotta che, direttamente o indirettamente, comporti offesa, denigrazione o insulto per motivi di razza, colore, religione, lingua, sesso, nazionalità, origine territoriale o etnica, ovvero configuri propaganda ideologica vietata dalla legge o comunque inneggiante a comportamenti discriminatori. Di recente, la norma ha subito ulteriori, importanti modificazioni. Nel giugno del 2013, infatti, il Consiglio Federale ha modificato il regime sanzionatorio delineato dai commi 2° e 3° dell’art. 11 CGS1 per adeguarlo alla nuova normativa emanata dalla UEFA in materia di discriminazione razziale2. E’ tuttavia con la riforma del 16 ottobre 20133 che la norma assume la sua attuale formulazione4, confermata dall’entrata in vigore del nuovo Codice di Giustizia Sportiva5 e da ultimo modificata solo con riferimento al primo comma6.

                                                                                                                         

1 CF, CU 4 giugno 2013, n. 189/A.

2 Art. 14 Codice Disciplinare UEFA – Normativa Contro il Razzismo, Edizione 2013.

3 CF, CU 16 ottobre 2013, n. 84/A

4 L’art. 11 del Codice di Giustizia Sportiva recita:

1. Costituisce comportamento discriminatorio, sanzionabile quale illecito disciplinare, ogni condotta che, direttamente o indirettamente, comporti offesa, denigrazione o insulto per motivi di razza, colore, religione, lingua, sesso, nazionalità, origine etnica, ovvero configuri propaganda ideologica vietata dalla legge o comunque inneggiante a comportamenti discriminatori.

2. Il calciatore che commette una violazione del comma 1 è punito con la squalifica per almeno dieci giornate di gara o, nei casi più gravi, con una squalifica a tempo determinato e con la sanzione prevista dalla lettera g) dell’art. 19, comma 1, nonché con l’ammenda da € 10.000,00 ad € 20.000,00 per il settore professionistico.

I dirigenti, i tesserati di società, i soci e non soci di cui all’art. 1 bis, comma 5 che commettono una violazione del comma 1 sono puniti con l’inibizione o la squalifica non inferiore a quattro mesi o, nei casi più gravi, anche con la sanzione prevista dalla lettera g) dell’art. 19, comma 1, nonché, per il settore professionistico, con l’ammenda da € 15.000,00 ad € 30.000,00.

3. Le società sono responsabili per l’introduzione o l’esibizione negli impianti sportivi da parte dei propri sostenitori di disegni, scritte, simboli, emblemi o simili, recanti espressioni di discriminazione. Esse sono altresì responsabili per cori, grida e ogni altra manifestazione che siano, per dimensione e percezione reale del fenomeno, espressione di discriminazione. In caso di prima violazione, si applica la sanzione minima di cui all’art. 18, comma 1 lett.

e). Qualora alla prima violazione, si verifichino fatti particolarmente gravi e rilevanti, possono essere inflitte anche congiuntamente e disgiuntamente tra loro la sanzione della perdita della gara e le sanzioni di cui all’art. 18, comma 1, lettere d), f), g), i), m).

In caso di violazione successiva alla prima, oltre all’ammenda di almeno euro 50.000,00 per le società professionistiche e di almeno euro 1.000,00 per le società dilettantistiche, si applicano congiuntamente e disgiuntamente tra loro, tenuto conto delle concrete circostanze dei fatti e della gravità e rilevanza degli stessi, le sanzioni di cui all’art. 18, comma 1 lettere d), e), f), g), i), m) e della perdita della gara.

4. Le società sono responsabili delle dichiarazioni e dei comportamenti dei propri dirigenti, tesserati, soci e non soci di cui all’art. 1 bis, comma 5 che in qualunque modo possano contribuire a determinare fatti di discriminazione o ne costituiscono apologia, applicandosi le sanzioni di cui al precedente comma 3.

La responsabilità delle società concorre con quella del singolo dirigente, socio e non socio di cui all’art. 1 bis, comma 5 o tesserato.

5. Prima dell’inizio della gara, le società sono tenute ad avvertire il pubblico delle sanzioni previste a carico della società in conseguenza del compimento da parte dei sostenitori di comportamenti discriminatori. L’inosservanza della presente disposizione è sanzionata ai sensi della lettera n) dell’art. 18, comma 1.

5 Adottato con decreto del Commissario ad Acta del 30 luglio 2014 ed approvato con deliberazione del Presidente del CONI n. 112/52 del 31 luglio 2014.

6 CF, CU 18 agosto 2014, n. 58/A.

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II) Il concetto di discriminazione e suo perimetro

Il primo comma dell’art. 11 CGS si preoccupa di fornire all’interprete la nozione di comportamento discriminatorio utile per delimitare i confini entro i quali valutare quei contegni cui sono ricollegate le sanzioni stabilite nel corpo dei commi successivi.

La laconicità della disposizione – che si limita a qualificare come discriminatorio ogni comportamento che rechi offesa, denigrazione o insulto per motivi di razza, colore, religione, lingua, sesso, nazionalità o origine etnica – è il risultato lessicale di un difficile bilanciamento tra la necessità di evidenziare con inequivoca chiarezza i valori oggetto di tutela e l’opportunità di delineare una fattispecie tipica che si connoti per i caratteri della generalità e dell’astrattezza. Trattasi di norma aperta, dunque, la cui applicazione richiede un’attenta contestualizzazione di carattere storico e sociale, non essendo possibile cristallizzare in un’unica disposizione normativa i concreti comportamenti che possono assumere il carattere discriminatorio.

Con questa premessa, si impone all’interprete l’esigenza di verificare la sintonia della norma sportiva con l’assetto ordinamentale in cui la stessa opera, e in particolare con i principi affermati a livello nazionale e internazionale, rispetto ai quali la disposizione in esame non può certo definirsi eccentrica.

In tale prospettiva, è agevole osservare come il cuore della tutela costituzionale della discriminazione è costituito dal rispetto della dignità personale e sociale (art. 3 Cost.) ed ancora che il d.lgs. 9 luglio 2003, n. 215 (attuativo della direttiva 2000/43/CE per la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dalla origine etnica), nel fornire la nozione di discriminazione (art. 2, n. 3), precisa che sono considerati discriminatori anche le molestie e i comportamenti indesiderati

“posti in essere per motivi di razza o di origine etnica aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo”. Analoga sensibilità verso la dignità della persona è presente nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo che, per giungere a vietare i comportamenti discriminatori, nel preambolo precisa che la

“dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana […] costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo”.

Alla luce di quanto osservato, deve ritenersi che la corretta ermeneusi della previsione del CGS sul comportamento discriminatorio oneri l’interprete di valutare i singoli comportamenti di offesa, di denigrazione o di insulto per motivi di razza, colore, religione, lingua, sesso, nazionalità o origine etnica con riguardo al loro grado di offensività rispetto al bene protetto della dignità della persona, intesa come singolo o come appartenente di una determinata comunità7. Solo in tal modo appare concretamente percorribile un’interpretazione della disposizione che non dia luogo a disarmonie applicative. E solo in una tale prospettiva il carattere aperto della disposizione può illuminarne il contenuto, consentendo la migliore osmosi tra profilo normativo e profilo sportivo. Del resto, la lettura proposta appare del tutto conforme all’art. 14 del Codice Disciplinare UEFA, il quale denota uno spettro normativo hinc et inde più ampio del primo comma dell’art. 11 del CGS. Il ricordato art. 14,                                                                                                                          

7 Del resto, la giurisprudenza qualifica i reati di discriminazione razziale od etnica come di pura condotta (Cass., Sez. pen., III, 7 maggio 2008, n. 37581) e ha precisato altresì che l’espressione “sporco negro”, integra gli estremi dell’aggravante della finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso (art. 3 d.l. 26 aprile 1993, n. 122, convertito in l. m/g/1993, n. 205) “in quanto idonea a coinvolgere un giudizio di disvalore sulla razza della persona offesa”.

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infatti, da un lato pone al centro della tutela gli insulti alla “dignità umana di una persona o di un gruppo di persone” e, dall’altro, individua questa lesione come possibile “con qualsiasi mezzo”, esponendone esemplificativamente come possibili “motivi” anche quelli legati al colore della pelle, alla razza, alla religione o all’origine etnica8. La normativa UEFA sembra pertanto saldarsi meglio con i richiamati principi in materia di discriminazione, in quanto entrambi pongono al centro della propria riflessione la dignità della persona umana come fine di tutela, affermando il principio etico prima che normativo secondo cui “gli esseri razionali stanno tutti sotto la legge secondo cui ognuno di essi deve trattare se stesso e ogni altro mai semplicemente come mezzo, bensì sempre insieme come fine in sé9”.

E’ solo attraverso il prisma della proposta chiave ermeneutica che può leggersi dunque la disposizione in esame, il cui dato letterale finirebbe altrimenti non ragionevolmente per escludere la sanzionabilità di comportamenti che, pur profondamente lesivi della dignità della persona umana, non siano riconducibili tout-court alle ipotesi di discriminazione per gli indicati motivi di razza, colore, religione, lingua, sesso, nazionalità e origine etnica.

Può ancora osservarsi che il legislatore sportivo nazionale ha di recente modificato il regime sanzionatorio dell’art. 11 CGS nel dichiarato intento di uniformarne la disciplina al sopracitato art. 14 del Codice Disciplinare UEFA. Orbene, se è vero che l’intervento normativo ha riguardato soltanto i commi 2° e 3° dell’art. 11, sotto un profilo sistematico-ordinamentale non è peregrino ritenere che in tanto il tenore letterale del primo comma non ha subito modificazioni in quanto ritenuto dal Consiglio Federale in perfetta sintonia e coerenza con le disposizioni UEFA e con gli altri principi sopra ricordate e, quindi, con l’obiettivo primario della tutela della dignità personale.

III) Conclusioni

Appare a questo punto corretto evidenziare che la disposizione debba essere applicata dal giudice sportivo secondo criteri di ragionevolezza ispirati al canone discretivo della tutela della dignità della persona, riconducendo nell’ambito di operatività della norma in esame solo quei comportamenti discriminatori che siano in concreto lesivi di tale bene primario10 e, in chiave adeguatrice, anche quei comportamenti che discriminino “con qualsiasi mezzo”, anche cioè per motivi diversi da quelli specificamente individuati al primo comma. Così, ad esempio, un comportamento che rechi offesa per motivi di orientamento sessuale, di handicap o di origine territoriale potrà costituire comportamento discriminatorio se ed in quanto sia seriamente lesivo della dignità della persona umana o della comunità di appartenenza.

                                                                                                                         

8 Analogamente, l’art. 3 della Carta Olimpica stabilisce che è incompatibile con l’appartenenza al Movimento Olimpico “ogni forma di discriminazione”, sia essa di natura razziale, religiosa, politica, di sesso o altro.

9 I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi (1785), Laterza, Bari, 2010, p. 101.

10 Coerente con la prospettata ricostruzione la giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di Giustizia Federale (CGF) che, in una recente pronuncia pubblicata con CU n. 179 del 20 gennaio 2014, chiarisce: “rispetto al concetto di discriminazione è necessario distinguere, in seno ai diversi comportamenti, ciò che costituisce un effettivo atteggiamento discriminatorio limitativo della dignità e della libertà personale ed atto ad offrire al destinatario ridotti diritti e a porre in essere, nei suoi confronti, atteggiamenti ghettizzanti dal mero insulto becero ed ineducato, che deve essere ugualmente sanzionato, anche in maniera ferma, ma che non comporta per il destinatario dell’insulto (o i destinatari) alcuna specifica limitazione (discrimine) della sua libertà e/o dignità”.

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Con specifico riguardo alla discriminazione per l’origine territoriale, va opportunamente rilevato che quest’ultima è espressamente sanzionata come “prevenzione di fatti violenti” dal successivo art. 12, 3°

comma CGS, nel presupposto che la fattispecie non costituisca ex se un comportamento discriminatorio. Orbene, e per i richiamati motivi, in ipotesi di “espressioni oscene, oltraggiose, minacciose o incitanti alla violenza” che siano fondate sull’origine territoriale – oggetto di un autonomo regime sanzionatorio rispetto a quello delineato dall’art. 11 – non può comunque negarsi che il giudice sportivo possa apprezzare l’esistenza di una “discriminazione” ove in concreto sia configurabile una lesione della dignità della persona umana intesa come singolo o come appartenente ad una comunità. L’ipotesi non appare peregrina se si pensa che l’art. 58 del Codice Disciplinare della FIFA definisce la discriminazione come “l’offesa alla dignità di una persona o di un gruppo di persone attraverso parole o azioni di disprezzo, discriminatorie o denigratorie nei confronti della razza, del colore, della lingua, della religione e delle origini”. La mancata specificazione della tipologia di origine, infatti, consente di pervenire alla conclusione che, in tale contesto, si possano ricomprendere anche quelle territoriali. Analogamente, la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea che, nel vietare all’art. 21 “qualsiasi forma di discriminazione”, ne individua tra i possibili motivi l’orientamento sessuale, la disabilità e l’appartenenza ad una minoranza nazionale.

La disposizione configura altresì come illecito sportivo la c.d. propaganda ideologica, opportunamente ancorando alla legge la ricorrenza della fattispecie astratta mediante un rinvio mobile (o non recettizio)11. Nella suggerita prospettiva ermeneutica costituirà, ad esempio, comportamento discriminatorio la apologia del fascismo12 o del genocidio13 e rientrerà altresì nello spettro normativo della disposizione, a titolo evidentemente prevenzionale e deterrente, anche il semplice inneggiare a comportamenti discriminatori.

   

                                                                                                                         

11 R. Guastini, Le fonti del diritto. Fondamenti teorici, in Trattato dir. civ. comm., in A-Cicu-F.Messineo-L.Mengoni-P.Schlesinger, Giuffrè, Milano, 2010, p. 454 ss.; A. Vignudelli, Diritto costituzionale, Giuffrè, Milano, 2010, p. 207 ss.

12 Art. 4 l. 20 giugno 1952, n. 645.

13 Art. 8 l. 9 ottobre 1967, n. 962.

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