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La definizione di imprenditore agricolo – 1.1.1

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CAPITOLO 1

L’IMPRESA AGRICOLA: INQUADRAMENTO GENERALE

1.1. La definizione di imprenditore agricolo – 1.1.1. Il criterio agro- biologico e il collegamento con il fondo – 1.1.2. La coltivazione del fondo – 1.1.3. La silvicoltura – 1.1.4. L’allevamento di animali – 1.1.5. Le attività connesse – 1.2. Il coltivatore diretto – 1.3. Gli interventi normativi – 1.3.1. Cooperative e consorzi – 1.3.2. La vendita dei prodotti agricoli – 1.3.3. L’imprenditore agricolo professionale (IAP) – 1.3.4. La denominazione o ragione sociale – 1.3.5. L’iscrizione nel registro delle imprese.

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1.1. LA DEFINIZIONE DI IMPRENDITORE AGRICOLO

Per oltre mezzo secolo, l’imprenditore agricolo è stato identificato come colui che esercitava un’attività diretta alla coltivazione del fondo, alla silvicoltura, all’allevamento del bestiame, nonché le attività dirette alla trasformazione o alla alienazione dei prodotti agricoli, se rientranti nell’esercizio normale dell’agricoltura.

Questa era la definizione di imprenditore agricolo che il Codice Civile rendeva nella prima formulazione dell’art. 2135 e che è stata oggetto di una profonda revisione, iniziata nel 2001 per il tramite della Legge 5 marzo 2001, n. 57 e dei successivi Decreti Legislativi.

Il campo dell’impresa agricola di cui al nuovo art. 2135 c.c. appare fortemente dilatato rispetto a quello della norma previgente, in quanto capace di includere non solo attività assai lontane dalla tradizionale “azienda agricola” incentrata sul fondo, ma, soprattutto, perché sostanzialmente insensibile al profilo della complessità organizzativa, del rilievo di diversi fattori produttivi e delle dimensioni dell’impresa.

La tecnica legislativa utilizzata per sostituire la previgente formulazione dell’art.

2135 si è articolata, in primis, nel dare una definizione “generale” dell’imprenditore agricolo che, senza molto discostarsi dal precedente sistema, trova il suo principale riferimento nell’esercizio delle specifiche attività di coltivazione (del fondo o del bosco), di allevamento o di attività connesse e, successivamente, nell’attribuire un preciso contenuto a ciascuna delle attività individuate come “agricole” ovvero come

“connesse all’attività agricola”.

Recita, infatti, il primo comma dell’art. 1 del D.Lgs. n. 228/2001 (che va a sostituire l’art. 2135):

“È imprenditore agricolo chi esercita una delle seguenti attività: coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di animali e attività connesse.

Per coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di animali si intendono le attività dirette alla cura ed allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso, di carattere vegetale o animale, che utilizzano o possono utilizzare il fondo, il bosco o le acque dolci, salmastre o marine.

Si intendono comunque connesse le attività, esercitate dal medesimo imprenditore agricolo, dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione che abbiano ad oggetto prodotti ottenuti

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prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dell’allevamento di animali, nonché le attività dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l’utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell’azienda normalmente impiegate nell’attività agricola esercitata, ivi comprese le attività di valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale e forestale, ovvero di ricezione ed ospitalità come definite dalla legge.”

1.1.1. Il criterio agro-biologico e il collegamento con il fondo

Il criterio che definisce l’attività agricola principale è quello del c.d. ciclo agro- biologico, ma con il correttivo del legame almeno potenziale con il fondo: l’impresa agricola deve cioè svolgere un’attività che utilizza o può utilizzare il fondo.

Occorre dunque una base produttiva fondiaria, che finisce con il delimitare la stessa tipologia di prodotti ottenibili dall’attività in esame, mentre risulterà del tutto irrilevante la tipologia delle tecniche produttive utilizzate, le quali possono anche prescindere dall’utilizzo effettivo del terreno.

L’imprenditore può, in altri termini, decidere di fare a meno del fondo e sostituirlo con metodologie produttive alternative, senza con questo privarsi della sua qualifica di imprenditore agricolo, mentre perderà tale qualifica, divenendo a tutti gli effetti imprenditore commerciale, qualora svolga la stessa attività di cura e sviluppo di specie vegetali o animali in ambienti artificiali e in condizioni non presenti né riproducibili in natura.

Lo stesso concetto di fondo, non più identificabile semplicemente nel fondo rustico, si è a sua volta dilatato fino ad intendersi come base produttiva nella quale può ricomprendersi sia il fondo rustico che il fondo acqueo (base produttiva delle attività di acquacoltura e ittiche) e il fondo boscato.

Si dubita, in dottrina, circa il significato del legame potenziale con il fondo, se cioè detto legame debba essere inteso “in astratto” ovvero “in concreto”.

E’ stato ritenuto, in particolare, che una verifica di natura meramente virtuale ben difficilmente potrebbe svolgere un effettivo ruolo limitativo della nozione di impresa agricola in quanto, in linea teorica, qualsiasi specie animale o vegetale potrebbe essere allevata o curata sul fondo, mentre a tal fine occorrerebbe riferire l’utilizzabilità del fondo all’impresa concretamente esercitata, verificando che essa possa, in

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alternativa ad altre modalità produttive che ne prescindano, utilizzare il fondo

“mantenendo la sua struttura economica, senza trasformarsi in un organismo produttivo completamente diverso, come avverrebbe se la messa in produzione del fondo rustico fosse possibile solo sovvertendo i flussi finanziari”. Così come formulata, la tesi appena riferita finirebbe con l’imporre all’impresa che utilizza tecniche non tradizionali di disporre concretamente - pur non inserito nel ciclo produttivo - di un fondo idoneo ad ospitare le medesime colture o allevamenti, vanificando così il vantaggio, in termini di minori immobilizzazioni, conseguente all’essersi avvalsa di tecniche più moderne che consentono un “risparmio” di terra.

Più convincente appare la tesi di quanti ritengono che il collegamento potenziale con il fondo debba essere riscontrato sotto il profilo merceologico del prodotto vivente, ottenibile, almeno in astratto, utilizzando il fondo: è agricola, si dice, l’attività che prescinda in concreto dall’utilizzo del fondo, ma che potrebbe utilmente realizzarsi mediante lo sfruttamento di tale fattore con i medesimi risultati produttivi, spostandosi così l’attenzione sul profilo merceologico del prodotto ottenuto dai diversi processi produttivi astrattamente praticabili.

L’utilizzo di tecniche moderne, la complessità dell’attività anche sotto il profilo organizzativo e le stesse dimensioni assunte dall’impresa agricola appaiono, in ogni caso, circostanze irrilevanti.

E’ interessante notare come la Suprema Corte abbia recepito il nuovo indirizzo impresso dal legislatore cassando con rinvio, nell’ambito di un fallimento, la decisione impugnata, la quale aveva qualificato come commerciale, un’impresa casearia in relazione alla sua rilevante dimensione e alla sua complessa organizzazione, ritenendo tali elementi, sostanzialmente quantitativi, non più decisivi ai fini dell’applicazione dell’art. 2135 c.c. novellato e riconoscendo l’avvenuto superamento della nozione

“fondiaria” dell’agricoltura e della centralità dell’elemento territoriale.

Essenziale è, in ogni caso, l’azione dell’imprenditore, il cui intervento deve incidere sul ciclo biologico favorendolo, ciò che non si ravvisa nell’attività di cattura di animali e di raccolta di frutti (si veda l’attività di pesca, equiparata ex lege all’attività agricola, ma altrimenti non riconducibile alla nozione di cui al nuovo art. 2135 c.c.) così come nella mera lavorazione e trasformazione di ortaggi, non accompagnata dalla coltivazione.

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L’attività dell’imprenditore agricolo deve, dunque, avere ad oggetto il ciclo biologico di vita del vivente, ma non necessariamente nella sua interezza, in quanto, precisa il legislatore, essa può limitarsi alla cura di singole “fasi necessarie” dello stesso ciclo. Il concetto di “fase necessaria” non deve essere inteso in senso biologico, in quanto tutte le fasi dello sviluppo di un essere vivente appaiono “necessarie”, ma in senso economico, avendo riguardo alla possibilità di isolare segmenti del ciclo biologico del vivente ciascuno suscettibile di costituire l’oggetto di una distinta e autonoma attività d’impresa agricola, in una prospettiva che intende favorire la divisione e specializzazione del lavoro agricolo al fine di razionalizzarlo e modernizzarlo.

1.1.2. La coltivazione del fondo

L’attività di coltivazione del fondo comprende una serie di attività che vanno dalla preparazione del terreno, alla semina e alla piantagione, alla difesa delle piante dalle avversità, alla raccolta e confezionamento dei prodotti. Devono ritenersi attività preparatorie quelle di dissodamento, di bonifica, di irrigazione e di trasformazione fondiaria in genere, realizzate dal medesimo imprenditore agricolo (si discute se tali attività integrino in realtà attività connesse c.d. “atipiche”, qualificate come agrarie ai sensi del terzo comma dell’art. 2135 c.c., piuttosto che mere operazioni e lavorazioni nelle quali si articola la cura del fondo. Dovrebbe configurarsi invece una distinta e diversa impresa, di natura commerciale, nel caso in cui le stesse attività fossero svolte da un soggetto diverso che presti tali servizi in favore dell’imprenditore agricolo).

La “nuova frontiera” dell’attività di coltivazione è quella delle c.d. “colture senza terra”, realizzate cioè al di fuori del fondo rustico in senso stretto e in ricoveri protetti dagli agenti esterni ed atmosferici, come avviene nelle colture idroponiche e aeroponiche.

Tradizionalmente, di fronte a tali tipologie di colture, nella vigenza del vecchio articolo, si registrava l’assenza dell’elemento essenziale del collegamento dell’attività con il fondo, affermandosi che l’attività economica avrebbe dovuto svolgersi “con la terra o sulla terra” e che l’organizzazione aziendale avrebbe dovuto ruotare attorno al

“fattore terra”, derivandone in difetto l’esclusione della qualifica agraria dell’impresa.

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Il superamento della necessità del collegamento con il fattore terra è stato preparato da alcuni interventi della legislazione speciale quale, ad esempio, quello in materia di funghicoltura. La l. 5 aprile 1985, n. 126 ha espressamente qualificato la coltivazione di funghi, a tutti gli effetti, come attività imprenditoriale agricola di cui all’art. 2135 c.c..

La coltivazione di funghi avviene in ambienti artificiali, ove gli organismi vengono riprodotti in impasti di terra, concime naturale e artificiale oppure in grotte, certamente contesti non riconducibili alla tradizionale nozione di fondo rustico.

Viceversa, la giurisprudenza di merito si è mostrata talora sensibile ad accogliere il portato della teoria del ciclo agrobiologico, riconoscendo ad esempio la natura agricola dell’attività ortoflorovivaistica indipendentemente dal suo collegamento effettivo con il fondo.

L’attività florovivaistica, consistente nella produzione, vendita e messa a dimora delle piante prodotte su terreni coltivati e caratterizzata dall’impiego di tecniche e accorgimenti anche sofisticati, presenta diversi profili problematici legati alla frequente assenza del fondo, sostituito dalle serre, e alla frequente prestazione, da parte dell’imprenditore, di servizi accessori alla vendita dei vegetali, quali la messa a dimora delle piante e, talora, la predisposizione del sedime se non la realizzazione di parchi e giardini.

La giurisprudenza tributaria interpretava l’art. 2135 c.c., testo previgente (cui la normativa tributaria faceva rinvio), includendo l’attività florovivaistica fra le attività agricole solo ove non fossero superati in misura rilevante i limiti della potenzialità del terreno e dell’esercizio normale dell’agricoltura.

La nuova formulazione dell’art. 2135 c.c. non può ora lasciare dubbi sul carattere agricolo di coltivazioni in serra o capannoni o delle coltivazioni di funghi o della florovivaistica e della floricoltura.

Non riconducibile a detta peculiare attività deve ritenersi, invece, il servizio di giardinaggio o di manutenzione di parchi e giardini, non ricollegandosi appunto ad un’attività di cura ma potendo tuttavia riconfluire nell’area dell’agrarietà quale attività connessa.

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13 1.1.3. La silvicoltura

La silvicoltura deve definirsi come la coltivazione “avente ad oggetto l’impianto, la conservazione e l’estrazione dei prodotti del bosco, inteso quale terreno in cui predomina la vegetazione di specie legnose selvatiche riunite in associazioni spontanee o d’origine artificiale”.

Anche con riguardo a tale attività è risultata essenziale, nel vigore della previgente norma, la funzione del fondo, ed anzi non si è presentato, per tale specifico settore, il dilemma della natura agricola o meno di attività di coltura eseguite in assenza di tale supporto fondiario, non ipotizzabili.

In tal senso, la funzione ineliminabile del fondo nella silvicoltura emerge chiaramente dall’esclusione dall’area dell’agrarietà delle attività di mero taglio, lavorazione e trasporto del legname esercitate da soggetto diverso dal silvicoltore ovvero dall’attività di mera estrazione del legname fino alla distruzione del bosco.

Distinta dalla selvicoltura è l’arboricoltura da legno, attività consistente nella realizzazione e cura di piantagioni arboree industriali al fine della produzione di legname, fattispecie oggi definita espressamente dall’art. 2, comma 5, D.Lgs. 18 maggio 2001, n. 227, come coltivazione di alberi su terreni non boscati. Siffatta attività è stata tradizionalmente esclusa dal novero delle attività agricole (e considerata come commerciale), perché in essa difetta la coltura del peculiare “fondo” rappresentato dal bosco, restando priva di collegamento sia con il bosco che con il fondo rustico della tradizione. Oggi essa dovrebbe, invece, essere qualificata come attività essenzialmente agricola di coltivazione suscettibile di essere realizzata sul fondo.

1.1.4. L’allevamento di animali

L’attività di allevamento viene ora inclusa con ampiezza nell’area dell’impresa agricola, grazie al superamento delle restrizioni indotte dall’utilizzo, nella vecchia norma, del sostantivo “bestiame”, sostituito con il sostantivo “animali”. Il termine bestiame ha significato limitazione dell’allevamento “agricolo” alle sole specie animali legate al fondo rustico in quanto ausiliarie del lavoro agricolo ovvero alimentate con i prodotti su di esso coltivati.

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La giurisprudenza, soprattutto di legittimità, ha ritenuto tradizionalmente che l’allevamento di cui all’art. 2135 c.c. fosse esclusivamente quello degli animali da carne, da latte, da lana, da lavoro in quanto solo per questi vi sarebbe il requisito essenziale dell’afferenza allo sfruttamento del fondo ovvero alla sua coltivazione. In concreto, occorreva che gli animali fossero nutriti con i prodotti del fondo ovvero che fossero utilizzati quale forza motrice nei lavori agricoli di aratura, ovvero ancora per la produzione di concime naturale da impiegare per la fertilizzazione del terreno.

Conseguente a tale affermazione di principio era l’esclusione dall’area dell’agrarietà di un numero cospicuo di attività di allevamento c.d. “senza terra”.

Tale impostazione risaliva ancora una volta a quella visione dell’attività agricola che subordinava l’agrarietà dell’impresa allo stretto collegamento di questa al fondo rustico, individuando nel fondo, cioè nel fattore naturale terra, l’elemento centrale e unitario (dunque imprescindibile, qualunque sia la tipologia di impresa agricola) dell’agrarietà.

L’attuale previsione consente di estendere l’area dell’agrarietà ad altre specie animali, ma tenendo presente la necessità del collegamento almeno potenziale con la base produttiva, rappresentata non più solo dal fondo rustico, ma anche dalle acque dolci, salmastre o marine (si pensi all’acquacoltura) o dal bosco.

In altri termini, l’allevamento è agricolo se la specie animale che ne è oggetto, pur suscettibile di essere curata nel suo sviluppo biologico con tecniche diverse da quelle tradizionali e che prescindono dal “fondo” (largamente inteso nei termini appena detti), sia tra quelle che possono essere curate altresì nel fondo stesso e che, dunque, possono essere inserite nel ciclo produttivo che ha nel fondo la sua base.

Se, dunque, non appare più attuale la tradizionale affermazione secondo la quale la qualifica agricola dell’attività di allevamento del bestiame presuppone il necessario collegamento attuale con il fondo nel senso che dal suo sfruttamento debba trarre occasione e forza, resta pur sempre necessario verificare il ricordato collegamento potenziale con il fondo.

Deve essere così confermata l’esclusione dell’allevamento di specie animali carnivore o da pelliccia e di quelle destinate all’esibizione in giardini zoologici o in spettacoli e, del pari, l’inclusione di specie erbivore non “tradizionali” quali ad esempio gli struzzi. Quanto all’apicoltura, la collocazione di tale forma di “allevamento”

nell’area dell’agrarietà si deve all’intervento normativo di cui alla l. 24 dicembre 2004,

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n. 313, il cui art. 2 qualifica espressamente l’attività di apicoltura, a tutti gli effetti, come agricola ai sensi dell’art. 2135 c.c. anche se non necessariamente correlata alla gestione del terreno.

Come per tutte le attività agricole, anche di coltivazione, l’attività zootecnica deve consistere nella cura e sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria dello stesso, intesa questa come tappa, di apprezzabile durata temporale, del ciclo di vita dell’essere vivente, venendo in rilievo i diversi momenti della gestazione, della nascita, della crescita, del c.d. “ingrassamento”, della riproduzione. Non si ravvisa perciò attività agricola nella semplice custodia degli animali (anche per lunghi periodi) per la rivendita o la macellazione, attività da ricomprendersi agevolmente nel campo della commercialità in quanto le operazioni di ricovero, alimentazione e cura dei capi hanno carattere accessorio e strumentale alla rivendita e non sono finalizzate invece alla cura e sviluppo dell’organismo vivente nell’arco del suo ciclo biologico o quantomeno di una fase necessaria dello stesso.

Al campo dell’allevamento non può ricondursi, come detto, l’attività di caccia e non lo sarebbe nemmeno quella di pesca (in quanto in entrambi i casi difetterebbe l’attività di cura dell’animale) se non fosse per l’espressa equiparazione dell’itticoltura (attività di pesca professionale diretta alla cattura o alla raccolta di organismi acquatici in ambienti marini, salmastri o dolci) all’attività agricola di cui all’art. 2 D.Lgs. 18 maggio 2001, n. 226, come novellato dall’art. 6 D.Lgs. 26 maggio 2004, n. 154.

1.1.5. Le attività connesse

Il D.Lgs. 18 maggio 2001 n. 228, accogliendo una visione dinamica dell’impresa agricola proiettata necessariamente verso il mercato, ha sancito il principio secondo cui debbono, in ogni caso, ritenersi connesse le attività dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione dei prodotti ottenuti dalla coltivazione del fondo o dall’allevamento del bestiame.

Non si pone il problema, come in passato1, di verificare se quella specifica attività – in relazione al tempo in cui viene esercitata, alle dimensioni della impresa, alla

1 La precedente stesura dell’art. 2135 recitava: “Si reputano connesse le attività dirette alla trasformazione o alla alienazione dei prodotti agricoli, quando rientrano nell'esercizio normale dell'agricoltura”.

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località in cui opera e ai mezzi di cui si avvale – rientri fra quelle normalmente svolte dall’imprenditore agricolo.

Per le attività di manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione la connessione si verifica con il concorso dei requisiti:

- di natura soggettiva, nel senso che le attività connesse c.d. tipiche devono essere svolte dallo stesso imprenditore agricolo, essendo richiesta l’identità soggettiva fra chi esercita una delle menzionate attività essenziali e l’attività connessa;

- di natura oggettiva, nel senso che tale attività di manipolazione, trasformazione, commercializzazione deve avere ad oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall’allevamento di animali.

Se si supera tale limite, l’attività di trasformazione, commercializzazione, ecc.., non può ritenersi connessa all’impresa agricola e perde, quindi, i caratteri dell’attività agricola per acquistare natura industriale o commerciale.

La norma novellata, tuttavia, nel ricondurre nell’ambito dell’attività agricola le attività connesse, oltre a richiedere la presenza di un collegamento oggettivo e soggettivo, espressamente fa riferimento al concetto della prevalenza, laddove sancisce che i prodotti manipolati, conservati, ecc.., devono provenire prevalentemente dall’attività agricola principale. Il concetto è poi ripreso con l’inclusione nelle attività connesse anche di quelle attività dirette “alla fornitura di beni e servizi mediante l’utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell’azienda normalmente impiegate nell’attività agricola esercitata…”

Il requisito della prevalenza, necessario per qualificare come agricola una o più attività connesse alla principale, rappresenta, quindi, l’elemento determinante ai fini dell’inquadramento aziendale.

***

Sulle attività connesse torneremo nel capitolo IV, cercando di approfondire il significato delle disposizioni introdotte dal D.Lgs. 228/2001 e confrontando la nuova stesura dell’art. 2135 c.c. con quella precedente. Poi ci concentreremo sulle attività

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“dirette alla fornitura di servizi” che rappresentano, tra le attività connesse, una delle principali novità. In particolare cercheremo di analizzare i tratti principali dell’attività agrituristica, molto diffusa nel centro Italia e oggi in forte espansione e apprezzata soprattutto all’estero. La legge n. 96 del 2006 ha riformato le norme che disciplinano tale settore, delineando un quadro d’insieme – quasi un testo unico – dopo una serie di interventi normativi settoriali e frammentati.

1.2. IL COLTIVATORE DIRETTO

Sulla nozione di coltivatore diretto esistono, seppur simili fra loro, più definizioni, ad ognuna delle quali corrisponde l'applicazione di discipline diverse.

Diverso è infatti il significato di coltivatore diretto se operiamo nell’ambito delle norme previdenziali piuttosto che in ambito fiscale o degli aiuti agli investimenti aziendali in agricoltura.

Concettualmente però la nozione di coltivatore diretto fa riferimento al rapporto tra il lavoro impiegato da una persona e dai suoi familiari per la coltivazione di un fondo, e le reali necessità di manodopera di quel fondo.

La definizione più sintetica, ai sensi delle leggi che disciplinano la figura del coltivatore diretto, è quella che considera tale il soggetto che svolga abitualmente2 e manualmente3 la propria attività in agricoltura, sempre ché con la forza lavoro propria e del nucleo famigliare sia in grado di fornire almeno un terzo della forza lavoro complessiva richiesta dalla normale conduzione dell’azienda agricola.

La figura del coltivatore diretto è quindi riferita a requisiti di carattere sia soggettivo che aziendale (diversamente dal concetto di imprenditore agricolo e di imprenditore agricolo professionale che è riferito a requisiti di carattere esclusivamente soggettivo). Se l’estensione dei terreni è particolarmente grande non si può parlare di coltivatore diretto.

2 Secondo l’INPS, il fabbisogno lavorativo del coltivatore diretto necessario per la gestione dell'azienda non deve essere inferiore a 104 giornate annue.

3 Possiamo subito osservare una prima differenza tra l’imprenditore agricolo in senso stretto e il coltivatore diretto: l’attività imprenditoriale è un’attività di direzione che non richiede necessariamente l’esecuzione manuale dei lavori agricoli.

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Il coltivatore diretto rientra nella definizione di piccolo imprenditore ex art. 2083 c.c. e dunque come colui che esercita un’attività organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia.

Si precisa che il coltivatore diretto è considerato “imprenditore agricolo”, anche qualora non abbia la titolarità formale della azienda agricola, come nell’ipotesi del coltivatore diretto coadiuvante collaboratore nell’impresa familiare agricola della quale sia titolare un altro familiare (a differenza di quanto avviene nell’impresa familiare artigianale o commerciale, la dottrina agraria configura l’impresa familiare in agricoltura come ipotesi di “co-impresa”) o come nel caso in cui sia socio di una società agricola, alla quale compete la titolarità dell’azienda agricola, assumendo la veste di imprenditore agricolo“indiretto”.

Normalmente il coltivatore diretto è comunque anche in possesso dei requisiti previsti per la figura di Imprenditore Agricolo Professionale, ed è in tale veste che accede ai benefici previsti: ciò accade ad esempio in campo urbanistico e per la concessione di finanziamenti, aiuti e contributi previsti nel settore agricolo.

Questi chiarimenti sono importanti perché nelle varie norme che disciplinano l’attività agricola troviamo più volte il riferimento a tali diverse figure, ai fini ad esempio dell’iscrizione nel registro delle imprese o in relazione alla contribuzione agricola all’INPS, dunque è necessario sin da subito cercare di capire quali caratteristiche siano essenziali ai fini del riconoscimento di una certa figura piuttosto che di un’altra.

1.3. GLI INTERVENTI NORMATIVI

La Legge 5 marzo 2001 n. 57 recante “Disposizioni in materia di apertura e regolazione dei mercati” - collegata alla manovra di finanza pubblica per il 2000 - prevede al Capo II, una delega al Governo finalizzata alla modernizzazione del settore dell’agricoltura, delle foreste, della pesca e dell’acquacoltura.

I principi e criteri direttivi dettati dall’art. 8 della legge delega definiscono un quadro di riferimento basato su:

a) la diffusione dell’innovazione tecnologica;

b) la conservazione dell’unità aziendale;

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c) l’integrazione dell’attività agricola con altre attività (c.d. agricoltura multifunzionale);

d) una sempre maggiore integrazione delle attività agro-alimentari;

e) le azioni di tutela e valorizzazione dei prodotti tipici, anche con il sostegno dei distretti agro-alimentari;

f) l’internazionalizzazione delle imprese agricole ed agro-alimentari e delle loro strategie commerciali;

g) l’incentivazione dell’imprenditoria agricola giovanile;

h) il coordinamento dei mezzi finanziari disponibili per l’attività di produzione e semplificazione delle norme e delle procedure dell’attività amministrativa in agricoltura.

Per quanto concerne, specificamente, il settore che qui ci interessa, il D.Lgs. n.

228/2001, pubblicato nel Suppl. Ord. n. 149 alla G.U. n. 137 del 15 giugno 2001, ha dato avvio all’opera di modernizzazione dell’agricoltura, intervenendo:

- sulla figura dell’imprenditore agricolo e sulle attività connesse a quella agricola;

- sull’esercizio dell’attività agrituristica;

- sulla disciplina relativa all’esercizio della vendita diretta dei prodotti agricoli;

- sull’imprenditoria agricola giovanile;

- sull’attività agro-meccanica;

Al suddetto decreto legislativo ha fatto seguito il D.Lgs. n. 99/2004, successivamente modificato dal D.Lgs. n. 101/2005, il quale ha portato le seguenti novità:

- ha introdotto nel nostro ordinamento la figura dell’imprenditore agricolo professionale (IAP), che ha sostituito la previgente figura dell’imprenditore agricolo a titolo principale, al fine dell’applicazione della normativa relativa al settore agricolo;

- ha esteso tale qualifica anche alle società, e ha affidato alle Regioni l’accertamento e la certificazione del possesso dei requisiti per accedere alle provvidenze previste dalla normativa statale in materia di agevolazioni fiscali e previdenziali;

- ha dettato nuove disposizioni per le società agricole che hanno quale oggetto sociale l’esercizio esclusivo delle attività di cui all’art. 2135 c.c.;

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- ha dettato nuove disposizioni in materia di vendita dei prodotti agricoli.

- ha provveduto a semplificare gli adempimenti amministrativi nei confronti del SIAN e del Registro delle Imprese.

Con la pubblicazione di questi due decreti, si conclude l’iter del primo provvedimento di completamento dei principi cardine della riforma agricola in coerenza con la politica dell’Unione Europea.

La nuova definizione di imprenditore agricolo introdotta dal D.Lgs. 228/2001 è stata ampiamente discussa nel primo paragrafo del seguente capitolo, perciò adesso andiamo ad analizzare alcune delle ulteriori novità che i decreti legislativi sopra menzionati hanno introdotto.

1.3.1. Cooperative e consorzi

Le società cooperative sono società che hanno lo scopo di fornire, a condizioni più vantaggiose di quelle praticate sul mercato, beni e servizi ai membri dell’organizzazione (scopo mutualistico).

In pratica, i consumatori o gli utenti di un certo bene o servizio, interessati a risparmiare, posso costituire tra loro una società – definita società cooperativa – che produce essa stessa (o acquista direttamente dal produttore) quel bene o quel servizio, e che lo fornisce ai soci a un prezzo inferiore al suo prezzo corrente di mercato, perché in tale prezzo non è compresa la quota di profitto dell’intermediario (la finalità della cooperativa non è quella di ripartire tra i soci un utile di gestione bensì quella di realizzare un risparmio di spesa)4.

Il consorzio è invece un contratto con il quale più imprenditori decidono di coordinare le rispettive attività di produzione e di scambio, ovvero decidono di affidare specifiche fasi delle loro attività ad un’organizzazione comune autonoma.

Ogni ciclo predittivo è composto da varie fasi: la fase preliminare di ricerca di mercato, quella di produzione vera e propria, quella di trasporto dei prodotti dal luogo di produzione a quello di vendita all’ingrosso, e così via. Più imprenditori dello stesso settore potrebbero trovare conveniente affidare, ad esempio, l’attività di trasporto dei prodotti dalla fabbrica alla città, ad una organizzazione esterna alle loro imprese, la quale svolgerebbe questa attività a vantaggio di tutte le imprese consorziate.

4 Per approfondimenti in merito alla disciplina delle società cooperative si veda: A. PACIELLO, Le Società Cooperative, in Diritto delle Società – Manuale breve, quarta edizione, 2008, pag. 463.

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Anche i consorzi hanno una finalità mutualistica piuttosto che lucrativa e si differenziano dalle cooperative soprattutto perché il consorzio è un contratto che può essere stipulato solamente da imprenditori5.

Il secondo comma dell’art. 1 del D.Lgs. 228/01, ha esteso la figura dell’imprenditore agricolo, nella sua nuova ridefinizione, alla cooperative di imprenditori agricoli e loro consorzi “quando utilizzano per lo svolgimento dell’attività”

prevalentemente prodotti dei soci ovvero forniscono prevalentemente ai soci beni e servizi diretti alla cura ed allo sviluppo del ciclo biologico.

Viene così abbandonato il principio della unisoggettività dell’impresa, prima essenziale per il riconoscimento della connessione e ammessa espressamente la possibilità di esercizio di attività connesse da parte di un soggetto diverso da quello cui viene imputata l’attività agricola principale.

Questa codifica recepisce le consolidate indicazioni giurisprudenziali secondo cui si debbono considerare assoggettate allo statuto dell’impresa agricola, ad esempio, le cantine sociali, le latterie sociali ed in genere le cooperative che trasformano prodotti dei soci.

1.3.2. La vendita dei prodotti agricoli

Anche la vendita diretta dei prodotti agricoli è stata oggetto di alcuni importanti interventi da parte del D.Lgs. n. 228 del 2001 e D.Lgs. n. 99 del 2004 che ne hanno modificato la connotazione.

In particolare, l’art. 4 del D.Lgs. 228/2001 ha liberalizzato l’esercizio dell’attività di vendita dei prodotti degli imprenditori agricoli e, in particolare, ne ha facilitato l’alienazione, al fine di favorire il completo sfruttamento del ciclo produttivo dell’impresa, quale necessario e connaturale sbocco dell’attività imprenditoriale.

Dal primo luglio 2001 inoltre (data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 228/2001), gli agricoltori possono commercializzare direttamente, manipolare e trasformare prodotti agricoli e zootecnici non propri, ma derivati da produzioni altrui, senza necessità di acquisire le ordinarie autorizzazioni per l’esercizio dell’attività commerciale o artigianale.

5 Per approfondimenti in merito ai consorzi si veda: G. IUDICA, P. ZATTI, Linguaggio e regole del diritto Privato, nuovo manuale per i corsi universitari, ottava edizione, CEDAM, 2007.

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L’impresa agricola può vendere anche prodotti di produzione di terzi, a condizione che l’ammontare dei ricavi derivanti dalla vendita di prodotti non propri nell’anno precedente:

- per l’imprenditore individuale, non superi euro 160.000;

- per le società, non superi 4 milioni di euro.

In pratica, la vendita si estrinseca attraverso le seguenti attività:

- vendita diretta in forma itinerante: comunicazione al comune nel cui territorio si trova la sede dell’azienda di produzione (quindi non necessariamente la sede legale). L’attività può iniziare decorsi 30 giorni dal ricevimento della comunicazione. La forma itinerante comprende, ovviamente, il commercio su aree pubbliche senza posteggio fisso, nonché presso domicilio del consumatore e dove questi si trovi per motivi di lavoro, studio, cura, intrattenimento e svago;

- commercio elettronico: comunicazione preventiva al comune dove ha sede l’azienda agricola. L’attività di vendita può essere iniziata solo dopo 30 giorni e può essere svolta sull’intero territorio nazionale. Ciò posto, si evidenzia che, per quanto attiene all’attività di vendita mediante commercio elettronico, debbono essere osservate le informazioni fornite dal Ministero Industria e Commercio mediante la circolare 3487/c del 1° giugno 2000;

- vendita al dettaglio su aree pubbliche mediante l’utilizzo di un posteggio fisso:

in questa ipotesi, la comunicazione deve contenere la richiesta di assegnazione del posteggio medesimo ai sensi dell’art. 28 del D.Lgs. 114 del 31/03/1998. Il richiamo a tale decreto (che disciplina l’esercizio del commercio) vale solo per la richiesta dell’assegnazione del posteggio, poiché il comma 7 dell’art. 4 del D.Lgs. 228 enuncia che “alla vendita diretta….continuano a non applicarsi le disposizioni di cui al D.Lgs. 114/1998”. Occorre, quindi, attendere la risposta del comune perché è possibile che non vi siano posteggi disponibili;

- vendita al dettaglio non in forma itinerante su aree pubbliche o aperte al pubblico: per la vendita al dettaglio esercitata su superfici all’aperto nell’ambito dell’azienda agricola o di altre aree private di cui gli imprenditori agricoli abbiano la disponibilità non è richiesta la comunicazione di inizio attività.

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I soggetti ammessi alla vendita al consumatore6, nelle modalità sopra esposte, purché iscritti nel Registro delle Imprese, sono:

• i coltivatori diretti;

• le imprese individuali;

• le società di persone;

• le società cooperative;

• gli enti e le associazioni senza scopo di lucro che intendano vendere prodotti agricoli.

L’attività di vendita al dettaglio può essere svolta su tutto il territorio nazionale osservando le disposizioni vigenti in materia di igiene e sanità.

La terminologia “i prodotti provenienti in misura prevalente dalle rispettive aziende” comporta, sul piano sostanziale, che un produttore di una derrata (es. patate) possa vendere anche altra derrata (es. mele) da lui non direttamente prodotta, purché in via secondaria.

Non possono esercitare l’attività di vendita diretta gli imprenditori agricoli, singoli o soci di società di persone e le persone giuridiche i cui amministratori abbiano riportato, nell’espletamento delle funzioni connesse alla carica ricoperta nella società, condanne, con sentenza passata in giudicato, per delitti in materia di igiene e sanità o di frode nella preparazione degli alimenti nel quinquennio precedente all’inizio dell’esercizio dell’attività.

Il divieto ha efficacia per un periodo di cinque anni dal passaggio in giudicato della sentenza di condanna.

1.3.3. L’imprenditore agricolo professionale (IAP)

La figura dell’imprenditore agricolo a titolo principale, per quasi trenta anni è stata la qualifica di riferimento adottata in sede comunitaria al fine di stabilire requisiti uniformi tra gli Stati membri per selezionare gli agricoltori alle cui imprese concedere i sostegni previsti.

6 In passato i soggetti abilitati erano “i produttori agricoli” ossia i “proprietari dei terreni da essi direttamente condotti o coltivati, i coloni, i mezzadri, gli enfiteuti, i fittavoli e le loro cooperative e consorzi”.

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Il nostro Paese aveva recepito quelle Direttive con la legge n. 153 del 1975, il cui art. 12, conteneva appunto la nozione di “Imprenditore agricolo a titolo principale”

(IATP).

Con il Decreto legislativo 29 marzo 2004 n. 99, entrato in vigore il 7 maggio 2004 tale figura è stata sostituita da quella di imprenditore agricolo professionale.

All’articolo 1, comma 1 viene definito imprenditore agricolo professionale (IAP)

“colui il quale, in possesso di conoscenze e competenze professionali ai sensi dell'articolo 5 del regolamento (CE) n. 1257/1999 del Consiglio, del 17 maggio 1999, dedichi alle attività agricole di cui all'articolo 2135 del codice civile, direttamente o in qualità di socio di società, almeno il cinquanta per cento del proprio tempo di lavoro complessivo e che ricavi dalle attività medesime almeno il cinquanta per cento del proprio reddito globale da lavoro”.

Dunque due sono i requisiti essenziali:

a) che venga dedicata all’attività agricola almeno il 50% del proprio tempo di lavoro complessivo;

b) che si ricavi dalle attività svolte almeno il 50% del proprio reddito globale da lavoro.

Per l’imprenditore operante nelle zone svantaggiate previste dall’art. 17 del Regolamento UE n. 1257/1999 i requisiti elencati sono ridotti del 25%.

L’accertamento del possesso della qualifica di IAP è demandato, ad ogni effetto di legge, alle Regioni.

L’accertamento regionale è necessario ai fini dell’iscrizione nella relativa gestione previdenziale e assistenziale (Circolare INPS 24 maggio 2004 n. 85), a sua volta presupposto del trattamento tributario.

Precisiamo subito che la figura dell’imprenditore agricolo professionale non và a sostituire la nozione codicistica di imprenditore agricolo ma crea una particolare figura di imprenditore agricolo che, munito dei requisiti di cui all’art. 2135 c.c. nonché degli ulteriori richiesti dalla legge speciale, è ammesso a godere di particolari benefici.

Lo stesso si può dire riguardo all’attribuzione della qualifica di imprenditore agricolo professionale alle società: tale qualifica spetta alle società agricole, e dunque società che hanno per oggetto sociale l’esercizio esclusivo delle attività agricole di cui all’art. 2135 del c.c., in possesso di ulteriori requisiti.

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1.3.3.1. L’attribuzione alle società della qualifica di imprenditore agricolo professionale

Secondo quanto stabilito dall’art. 10 del D.Lgs. n. 228/2001, le società sono considerate imprenditori agricoli a titolo principale qualora, oltre alla previsione nell’oggetto sociale dello statuto dell’esercizio esclusivo dell'attività agricola ex art.

2135 c.c., ricorrano le seguenti condizioni:

a) nel caso di società di persone qualora almeno la metà dei soci sia in possesso della qualifica di imprenditore agricolo a titolo principale (per le società in accomandita la percentuale si riferisce ai soci accomandatari);

b) nel caso di società cooperative qualora utilizzino prevalentemente prodotti conferiti dai soci ed almeno la metà dei soci sia in possesso della qualifica di imprenditore agricolo a titolo principale;

c) nel caso di società di capitali qualora oltre il 50 per cento del capitale sociale sia sottoscritto da imprenditori agricoli a titolo principale.

Successivamente, l’articolo 1, comma 3 del D.Lgs. n. 99/2004 ha previsto le seguenti, ulteriori, condizioni:

a) nel caso di società di persone, qualora almeno un socio sia in possesso della qualifica di imprenditore agricolo professionale (per le società in accomandita la qualifica si riferisce ai soci accomandatari);

b) nel caso di società cooperative, ivi comprese quelle di conduzione di aziende agricole, qualora almeno un quinto dei soci sia in possesso della qualifica di imprenditore agricolo professionale;

c) nel caso di società di capitali, quando almeno un amministratore sia in possesso della qualifica di imprenditore agricolo professionale.

Dopo l'emanazione del D.Lgs. n. 99/2004 è stato approvato un nuovo provvedimento in materia, che ha completato e corretto alcuni aspetti della disciplina relativa all'imprenditore agricolo professionale e società agricola; si tratta del D.Lgs. 27 maggio 2005, n. 101 rubricato "ulteriori disposizioni per la modernizzazione dell'agricoltura".

Il decreto semplifica, specialmente per le società di capitali, le modalità per ottenere la qualifica di imprenditore agricolo professionale necessaria per poter usufruire delle agevolazioni tributarie.

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Il nuovo provvedimento introduce in sintesi le seguenti novità.

1) l'attività svolta dagli amministratori di società di capitali che operano nel settore agricolo è idonea a far acquisire ai medesimi la qualifica di imprenditore agricolo professionale; quindi se l'amministratore unico o un componente del consiglio di amministrazione dedica almeno la metà del proprio tempo lavorativo a tale carica e ricavi almeno la metà del proprio reddito di lavoro, raggiunge i requisiti previsti dall'articolo 1 del D.Lgs. n. 99/2004. A seguito della acquisizione della qualifica di imprenditore agricolo professionale da parte dell'amministratore scattano le condizioni affinché tale qualifica sia acquisita anche dalla società.

2) Scatta la limitazione secondo la quale una persona può far acquisire la qualifica di imprenditore agricolo professionale ad una sola società. Nulla vieta che il socio o l'amministratore abbia una posizione propria come impresa individuale.

3) L'imprenditore agricolo professionale persona fisica socio di società di persone, o amministratore di società di capitali, ha l'obbligo dell’iscrizione nella gestione previdenziale ed assistenziale per l'agricoltura; quindi gli amministratori di società di capitali dovranno abbandonare la gestione separata.

4) Le agevolazioni fiscali previste possono essere richieste anche da soggetti privi della qualifica a condizione che abbiano presentato domanda di riconoscimento presso gli uffici regionali dell'agricoltura e siano iscritti nell’apposita gestione INPS; la qualifica definitiva dovrà essere documentata entro 24 mesi. Questa agevolazione è veramente apprezzabile in quanto consente a chiunque di avviare una attività agricola ed ottenere immediatamente le agevolazioni fiscali previste per gli imprenditori agricoli professionali.

In sintesi:

a) i nuovi parametri per avvalorare la figura dello IAP devono impegnare l’imprenditore professionalmente, per le attività agricole di cui all’articolo 2135 C.C., per un tempo-lavoro di almeno il 50%, nonché determinare il conseguimento di un ricavo reddituale complessivo, dall’esercizio delle citate attività, di almeno il 50% del proprio reddito globale di lavoro;

b) questi parametri sono ridotti al 25% per gli imprenditori che operano nelle zone svantaggiate;

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c) l’accertamento del possesso dei requisiti spetta alle Regioni; è fatta salva la facoltà dell’INPS di svolgere, ai fini previdenziali, ulteriori verifiche.

1.3.4. La denominazione o ragione sociale

L’articolo 2 del D.Lgs. n. 99/2004 detta norme sulle società agricole, stabilendo, in primo luogo, che l’indicazione di “società agricola” - ossia di società che abbia come oggetto sociale l’esclusivo esercizio di attività agricole di cui all’art. 2135 C.C. - deve risultare dalla ragione o dalla denominazione sociale.

Al primo comma si stabilisce, infatti, che la ragione sociale o la denominazione sociale delle società che hanno quale oggetto sociale l'esercizio esclusivo delle attività di cui all'articolo 2135 del codice civile deve contenere l'indicazione di “Società agricola”.

Va subito precisato che non si tratta ovviamente di un nuovo tipo di società: le società costituibili sono sempre quelle indicate nel Codice Civile, le quali, nel caso di esercizio esclusivo delle attività agricole, dovranno recare nella denominazione o ragione sociale l’indicazione di “Società agricola”.

Bisogna subito precisare che si tratta di un obbligo. Il tenore dell’art. 2 del D.Lgs. n. 99/2004 non lascia dubbi: “la ragione sociale […] deve contenere […] ”; “le società …. Devono inserire nella ragione sociale …” L’aggiornamento della ragione o della denominazione sociale è obbligatorio anche per le società già costituite alla data di entrata in vigore del provvedimento (7 maggio 2004), anche se la norma non impone un termine per tale aggiornamento.

L’obbligo dell’indicazione della locuzione “Società agricola” ricade infine anche sulle società che già contengono il riferimento all’attività agricola (quali, ad esempio,

“Agricola Caio S.r.l.” o simili).

1.3.5. L’iscrizione nel Registro delle imprese

L’assetto del Registro delle Imprese, fino al 6 dicembre 2000, prevedeva una sezione ordinaria e quattro speciali. A seguito dell’entrata in vigore del D.P.R. 558/99 le quattro sezioni speciali sono state accorpate in un’unica sezione: gli imprenditori agricoli, i piccoli imprenditori e coltivatori diretti e le società semplici sono iscritte in

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un’unica sezione speciale del Registro. Nella medesima sezione vengono anche

“annotati” gli imprenditori artigiani iscritti nei rispettivi albi provinciali e le società tra avvocati.

Pertanto, a decorrere dal 6 dicembre 2000, il registro delle imprese è costituito da due sole sezioni: una “ordinaria” dove continuano ad iscriversi i medi e grandi imprenditori commerciali, sia individuali che società, e una “speciale”, dove vanno iscritti i piccoli imprenditori e coltivatori diretti, gli imprenditori agricoli e le società semplici.

L’art. 2 del D.Lgs. 228/2001 stabilisce che “l’iscrizione degli imprenditori agricoli, dei coltivatori diretti e delle società semplici esercenti attività agricola nella sezione speciale del Registro delle Imprese di cui all’art. 2188 e seguenti del c.c., oltre alle funzioni di certificazione anagrafica ed a quelle previste dalle leggi speciali, ha l’efficacia di cui all’art. 2193 del codice civile”7.

Nella sezione speciale degli Imprenditori Agricoli, possono essere iscritti oltre agli imprenditori individuali ed alle società semplici, anche le società di persone o di capitali, a condizione che:

- lo statuto contempli espresse prescrizioni (art. 1, c. 1, D.Lgs. 228/01);

- i soci delle cooperative siano imprenditori agricoli;

- l’attività agricola sia svolta in modo prevalente;

- l’esercizio delle attività connesse sia svolto con uso prevalente dei prodotti della propria azienda agricola;

- l’esercizio delle attività connesse sia svolto con uso prevalente di attrezzature e risorse della propria azienda agricola principale.

Si ricorda che gli imprenditori agricoli, singoli o associati, iscritti al Registro Imprese, possono vendere al dettaglio in tutto il territorio nazionale, prodotti provenienti in misura prevalente dalle rispettive aziende. La vendita diretta sul fondo di prodotti provenienti esclusivamente da propria produzione, non è soggetta a comunicazione al proprio comune. Sono soggette a comunicazione al Comune di competenza le vendite di prodotti provenienti in modo prevalente da propria produzione, in locali aperti al

7 L’art. 2193 recita: “I fatti dei quali la legge prescrive l’iscrizione, se non sono stati iscritti, non possono essere opposti ai terzi da chi è obbligato a richiederne l’iscrizione, a meno che questi provi che i terzi ne abbiano avuto conoscenza.

L’ignoranza dei fatti dei quali la legge prescrive l’iscrizione non può essere opposta dai terzi dal momento in cui l’iscrizione è avvenuta.”

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pubblico, su aree pubbliche, in forma itinerante o in forma elettronica, specificando i prodotti che s’intendono vendere.

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