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DIPARTIMENTO DI MEDICINA E CHIRURGIA CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN PSICOBIOLOGIA E NEUROSCIENZE COGNITIVE

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DIPARTIMENTO DI MEDICINA E CHIRURGIA

CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN PSICOBIOLOGIA E NEUROSCIENZE COGNITIVE

LE INTERAZIONI CON I CAREGIVER TRA STILI E TEMPERAMENTO

Relatrice:

Chiar.ma Prof.ssa DOLORES ROLLO Controrelatore:

Chiar.mo Prof. FRANCESCO SULLA

Laureanda:

GIULIA BONVICINI

ANNO ACCADEMICO 2020 - 2021

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INDICE

INTRODUZIONE ... 3

CAPITOLO I ... 5

L’IMPORTANZA DELLE PRIME INTERAZIONI PER LO SVILUPPO DEL BAMBINO ... 5

1.1 DIBATTITI STORICI ... 5

1.1.1 Le prime interazioni ... 6

1.1.2 Teorie costruttiviste ... 6

1.2 VYGOTSKIJ ... 7

1.2.1 La Zona di Sviluppo Prossimale ... 7

1.2.2 Lo Scaffolding ... 8

1.3 LO SVILUPPO SOCIOEMOTIVO ... 9

1.3.1 Le Emozioni ... 9

1.3.2 Le emozioni nel contesto ... 10

1.3.3 La Competenza Emotiva ... 11

1.3.3.1 L’espressione delle emozioni ... 11

1.3.3.2 La regolazione delle emozioni ... 12

1.3.3.3 La comprensione delle emozioni ... 12

1.4 LE INTERAZIONI TRA BAMBINI E CAREGIVER ... 13

1.5 IL TEMPERAMENTO... 15

1.5.1 Classificazioni del temperamento ... 15

1.5.2 Ereditarietà biologica del temperamento e contesto sociale ... 16

1.5.3 La valutazione del temperamento ... 17

1.6 L’USO DELLA TECNOLOGIA ALLINTERNO DELLO SVILUPPO SOCIO-EMOTIVO E DELLINTERSOGGETTIVITÀ ... 18

CAPITOLO II ... 20

IL PARENTING GENITORIALE: STILI E TIPOLOGIE ... 20

2.1IL PARENTING GENITORIALE ... 20

2.2IL LEGAME DATTACCAMENTO ... 20

2.3MENTALIZZAZIONE ... 21

2.4PARENTING... 22

2.4.1 Stili genitoriali ... 23

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2.5 PROBLEMI ESTERNALIZZANTI ED INTERNALIZZANTI ... 27

2.5.1 Disturbo da Stress Post-Traumatico (PTSD) ... 28

2.6 PARENTING NEL BULLISMO E NEL CYBERBULLISMO ... 29

2.7GENITORI MIND-MINDED ... 30

CAPITOLO III ... 31

GLI STRUMENTI DI RICERCA: ALABAMA PARENTING QUESTIONNAIRE E QUIT. OBIETTIVI DELLA RICERCA E PARTECIPANTI ... 31

3.1 GLI STRUMENTI DI RICERCA... 31

3.2 ALABAMA PARENTING QUESTIONNAIRE PER LA FASCIA PRESCOLARE: CARATTERISTICHE GENERALI ... 31

3.2.1 Struttura e dimensioni dell’APQ ... 32

3.2.2 Somministrazione ... 33

3.2.3 Scoring ... 33

3.2.4 Interpretazione ... 34

3.3 QUIT: CARATTERISTICHE GENERALI ... 34

3.3.1 Struttura e dimensioni del QUIT ... 35

3.3.2 Analisi qualitativa... 37

3.3.3 Somministrazione e Scoring ... 37

3.4 PARTECIPANTI ... 38

3.5 OBIETTIVI DELLA RICERCA ... 38

CAPITOLO IV ... 39

ANALISI E RISULTATI DELLA RICERCA. ... 39

4.1 ANALISI SPERIMENTALE: RISULTATI ... 39

4.2DESCRIZIONE DEL CAMPIONE ... 39

4.3ALABAMA PARENTING QUESTIONNAIRE ... 41

4.4 IL QUIT ... 44

4.4.1 Analisi quantitativa ... 44

4.4.2 Analisi qualitativa... 49

4.5CORRELAZIONI ... 51

4.6DISCUSSIONE ... 54

4.7CONCLUSIONI ... 56

4.8LIMITI ... 57

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Introduzione

La genitorialità è una capacità che richiama molte abilità interpersonali ed esercita un’influenza significativa sullo sviluppo del figlio, sia a livello comportamentale, sia sociale che psicologico.

Dagli anni Settanta, molti studiosi si sono dedicati ad approfondire il legame genitore-figlio e tutti i fattori che possono intervenire e modificare le qualità della relazione. L’instaurarsi di interazioni positive stimola nel bambino lo sviluppo di capacità in campo comportamentale e psicologico, come ad esempio l’autoregolazione emotiva e il riconoscere i propri stati emotivi e cognitivi. La definizione di queste abilità è fondamentale per un buon adattamento del soggetto nel contesto socioculturale in cui è inserito.

Lo studio si basa sull’analisi delle strategie genitoriale di un campione non clinico di genitori con figli in fascia prescolare (3-6 anni). Si pone l’attenzione sulla possibilità di identificare l’influenza di fattori come il genere dei genitori, il genere e l’età dei figli e il loro temperamento nella scelta di specifici stili di parenting da parte dei caregiver.

Nel primo capitolo dell’elaborato, è condotta una panoramica sui dibattiti storici e correnti di studio principali che hanno considerato come oggetto principale di ricerca le prime interazioni, approfondendo soprattutto gli aspetti chiave delle teorie costruttiviste, come la Zona di Sviluppo Prossimale e lo Scaffolding. Si è descritto lo sviluppo socioemotivo e il ruolo delle emozioni e della loro regolazione all’interno di relazioni con genitori e pari, come elementi fondamentali nella crescita di un individuo. Successivamente, è stato approfondito il temperamento, considerando gli elementi di ereditarietà biologica che lo caratterizzano e come questi si intrecciano con il contesto di vita dell’individuo. Molti gruppi di ricerca hanno indagato il tema del temperamento e questo ha portato alla definizione di diverse tipologie di classificazioni. Infine, si è portata l’attenzione sul ruolo della genitorialità nei confronti della tecnologia, che ad oggi si sta rivelando un argomento molto dibattuto. Nel secondo capitolo, dopo la premessa a livello teorico, sono stati esposti i concetti di “parenting”, in relazione al legame d’attaccamento e alla capacità di mentalizzazione, e sono stati descritti in maniera completa gli stili genitoriali teorizzati da Diana Baumrind (1971), i quali sono quelli maggiormente considerati oggi in ambito clinico. Un approfondimento importante riguarda le conseguenze a lungo termine di stili genitoriali inappropriati ed inefficaci, che possono portare alla manifestazione nei bambini di problemi di tipo esternalizzante, piuttosto che internalizzante, così come a sintomatologia postraumatica. Nel terzo capitolo sono descritti per extenso i materiali e metodi utilizzati per condurre l’analisi esposta nel quarto capitolo. Sono

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stati impiegati l’Alabama Parenting Questionnaire per la fascia prescolare (Benedetto, Ingrassia, 2014) e il Quit (Axia, 2002).

Considerando il ruolo fondamentale svolto dalla qualità della genitorialità nel corso della crescita dell’individuo e l’efficacia di strumenti come l’APQ-Pr e il QUIT a livello clinico, l’obiettivo di questo studio è quello di poter fornire un’analisi accurata dei dati raccolti, presentata nel quarto capitolo, mettendo in evidenza la possibile esistenza di una relazione tra lo stile di parenting dichiarato dal genitore e i diversi fattori che possono influenzarlo, come il temperamento del bambino, l’età e il genere del bambino, ma anche il genere del genitore.

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Capitolo I

L’importanza delle prime interazioni per lo sviluppo del bambino

Lo studio delle prime interazioni per il bambino è un argomento di indagine che da sempre interessa e coinvolge un gran numero di studiosi, da psicologi a biologi del comportamento, e che ha portato con sé la determinazione di diversi dibattiti “storici”.

1.1 Dibattiti storici

Uno tra questi è un dibattito che vuole approfondire il ruolo delle esperienze successive come fattori chiave nello sviluppo infantile. È un dibattito che ha una lunga tradizione e ancora oggi porta ad accese discussioni tra gli psicologi e ricercatori dello sviluppo (Kagan, 2010). Ad esempio, lo studioso Thompson nei suoi lavori dà valore al ruolo delle prime esperienze, sostenendo che il bambino non si svilupperà mai in maniera ottimale a meno che non riceva cure, calore e attenzioni durante i primi anni di vita. Infatti, in questi anni, i bambini fanno importanti progressi, in particolar modo nello sviluppo emotivo e sociale, i quali definiscono le basi per competenze successive e per le strategie da applicare in caso di esposizione ad elevati livelli di stress, per questo motivo sono importanti delle buone strategie di cura da parte dei genitori (Thompson, 2018). Di contro, coloro che sostengono la maggiore importanza delle esperienze successive ritengono che le cure che il bambino riceve durante il primo anno di vita siano sicuramente importanti e significative, ma non lo sono meno di quelle ricevute anche nel periodo successivo, perché il bambino, secondo gli studiosi, ha la capacità di cambiare il proprio comportamento anche successivamente (Kagan, 2013). In generale si è notato come le culture di appartenenza condizionano gli studiosi in merito a quale posizione sostenere. Gli studiosi appartenenti a culture occidentali, per l’influenza ricevuta da parte delle teorie freudiane, tendono ad avvalorare maggiormente l’importanza delle prime esperienze (Fonagy et al., 2016), mentre gli studiosi appartenenti a culture orientali sono maggiormente a favore del sostegno dell’importanza delle esperienze successive, per la convinzione in queste culture che la capacità di ragionamento del bambino sia un’abilità che tende a svilupparsi nel periodo tra l’infanzia e l’adolescenza.

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1.1 .1 Le prime interazioni

L’interesse verso l’importanza delle prime interazioni e delle relazioni instaurate dal bambino durante i primi anni di vita è un tema che interessa gli studiosi già da tempo. Lo stesso Freud, durante i colloqui con i suoi pazienti comprese che i loro problemi derivavano dalle esperienze vissute durante i primi anni di vita. La teoria psicanalitica, infatti, sostiene il carattere prettamente inconsapevole dello sviluppo, come prevalentemente inconscio ed influenzato dalla sfera emotiva (Freud, 1917). Per gli psicanalisti i comportamenti sono considerabili come caratteristiche di superficie e per comprenderli è necessario analizzare i loro significati simbolici e i meccanismi della mente. Di conseguenza le prime esperienze con i genitori influenzano in maniera significativa lo sviluppo del bambino.

1.1.2 Teorie costruttiviste

Contrariamente alle teorie psicanalitiche, che trattano dell’attività inconscia della mente, le teorie cognitive come la teoria di Piaget e la teoria socioculturale di Vygotskij sostengono l’importanza dei pensieri consci. All’interno della sua teoria, lo studioso Piaget afferma che i bambini, superando correttamente quattro fasi di sviluppo, costruiscono attivamente il loro mondo cognitivo, il proprio pensiero, a cui danno un senso attraverso processi di organizzazione delle esperienze e di adattamento del pensiero in relazione all’acquisizione di nuove idee. In questo modo, le informazioni provenienti dall’esterno non vanno semplicemente a “riempire”

le loro menti, ma vengono incluse ed integrate tra loro (Piaget, 1954). Anche lo studioso Vygotskij sostiene che i bambini possono costruire attivamente la loro conoscenza e si concentra sugli aspetti cognitivi dello sviluppo. Entrambe le teorie, piagetiana e vygotskijana, sono pertanto costruttiviste (Santrock, 2021).

La differenza tra i due studiosi però, com’è noto, sta nel fatto che: mentre Piaget concepisce lo sviluppo come relativamente autonomo ed indipendente dalla sfera sociale, Vygotskij afferma invece la primarietà delle interazioni sociali ed il ruolo del contesto sociale nell’apprendimento e nella costruzione della conoscenza (Vygotskij, 2006).

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1.2 Vygotskij

La teoria vygotskijana guarda allo sviluppo dell’individuo come un complesso scambio reciproco tra crescita biologica, aspettative sociali e dalla partecipazione attiva del bambino in attività culturali ed interazioni sociali (Bodrova, Leong, 2017). Lo sviluppo del bambino è inseparabile dal contesto sociale e dalle attività sociali e culturali (Veraska, Sheridan, 2018).

Per Vygotskij, le funzioni mentali hanno connessioni sociali, lo sviluppo cognitivo dipende dagli strumenti della società ed il pensiero è influenzato dal contesto culturale in cui ogni soggetto è inserito sin dalla nascita (Legare, Sobel e Callanan, 2017). L’evoluzione della mente è determinata dalla definizione di strutture psichiche la cui complessità aumenta progressivamente con lo sviluppo. In questo, il linguaggio gioca un ruolo fondamentale perché, secondo lo studioso, è proprio attraverso l’acquisizione della funzione linguistica che le funzioni psichiche vengono interiorizzate ed acquisiscono complessità. Il linguaggio serve per la comunicazione e per l’interazione sociale ed è fondamentale anche per guidare la costruzione del pensiero, chiamato anche “linguaggio interno” o “interiore”. Esso, infatti, è utile per trasferire la conoscenza ad un livello più sociale e per sviluppare la funzione di autoregolazione.

Attraverso il dialogo con un altro, che sia il genitore, l’insegnate o i pari, i bambini sviluppano concetti sempre più sistematici, logici e razionali ed il linguaggio interiorizzato diventa quindi pensiero (Santrock, 2021). Per questo motivo la teoria di Vygotskij sostiene il ruolo fondamentale della vicinanza e interazione con altre persone e del linguaggio nello sviluppo cognitivo di un bambino.

1.2.1 La Zona di Sviluppo Prossimale

Un altro aspetto importante introdotto all’interno di questa teoria è il concetto di zona di sviluppo prossimale. Secondo l’autore, infatti, il bambino è inserito in un contesto dove sono presenti altri individui, che sono in grado di trasmettere al bambino gli strumenti culturali necessari per l’attività intellettuale; per questo motivo lo sviluppo del bambino può seguire traiettorie differenti in relazione al contesto sociale (Bodrova, Leong, 2017). Per Vygotskij lo sviluppo cognitivo è concepibile come una cooperazione esistente tra adulto e bambino, quindi un’interazione tra essi, grazie alla quale quest’ultimo è come un allievo che segue la guida dell’adulto. La zona di sviluppo prossimale è definibile anche come area di sviluppo potenziale o prossimo, la quale fa riferimento alla differenza tra il livello di sviluppo effettivo di un

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individuo quando fa un compito da solo, rispetto a quando esegue lo stesso compito ma seguendo le indicazioni di un soggetto più esperto (Rowe, 2018). La presenza e l’interazione con un partner più esperto sono ciò che promuovono lo sviluppo delle potenzialità del bambino, grazie all’impiego di strumenti culturali, come ad esempio la scrittura, il linguaggio, la lettura.

All’interno di questo concetto viene pertanto sottolineato il ruolo educativo che l’adulto ricopre nella promozione delle capacità del bambino grazie al legame instauratosi attraverso gesti e sguardi.

1.2.2 Lo Scaffolding

All’interno della teoria di Vygotskij diventa fondamentale fare riferimento alla sensibilità dell’adulto in merito alle capacità del bambino. Si introduce in questo modo il concetto di Scaffolding, il quale fa riferimento al livello di supporto che viene gradualmente dato all’altro, modulato in base alle abilità del bambino (Wright, 2018). Le interazioni tra due soggetti sono caratterizzate da un’azione reciproca; quindi, nel caso dell’interazione adulto-bambino, l’adulto mette a disposizione la propria competenza per favorire l’apprendimento del bambino. Nel dare il proprio supporto, l’adulto definisce il tipo e il grado di guida, di scaffolding, in relazione al compito e al bambino. L’aiuto che viene dato è quindi flessibile, modulato sulle capacità del bambino e definito entro delle relazioni di collaborazione tra questo e l’adulto. La conoscenza si costruisce pertanto attraverso l’interazione con altre persone e con oggetti che appartengono alla cultura di riferimento e questo può avvenire sia in contesti educativi sia in situazioni come il dialogo o il gioco. Muhonen e collaboratori sostengono il ruolo del dialogo come essenziale strumento di scaffolding all’interno della zona di sviluppo prossimale. La qualità del “dialogo educativo”, come definito dagli autori, è un elemento fondamentale per l’apprendimento e per la comprensione durante l’interazione con l’altro. Quando il bambino apprende sotto la guida di un adulto, quindi di un soggetto più competente, il risultato è che il suo pensiero e la capacità di ragionamento diventano progressivamente sempre più logici, razionali e sistematici (Muhonen et al., 2017). Con i concetti di Zona di Sviluppo Prossimale e di Scaffolding, all’interno della sua teorizzazione Vygotskij sostiene quindi l’importanza delle influenze sociali e culturali sullo sviluppo cognitivo del bambino e di come la conoscenza può essere migliorata tramite interazioni di cooperazione con altri.

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1.3 Lo Sviluppo Socioemotivo

Quando parliamo di sviluppo socioemotivo facciamo riferimento al fatto che l’evoluzione biologica ha permesso agli esseri umani di essere emotivi e, allo stesso tempo, al fatto che la cultura e le relazioni interpersonali possono definire le differenze interindividuali nelle esperienze emozionali.

1.3.1 Le Emozioni

Un’emozione è definibile come un sentimento, uno stato affettivo che si manifesta durante un evento, un’interazione importante per il soggetto. Le emozioni sono coinvolte nella comunicazione tra gli esseri umani e questo è tale sin dall’infanzia, quando molti aspetti della comunicazione dipendono dalle emozioni. Gli studiosi delle emozioni hanno fornito definizioni differenti riguardo le emozioni, ma sono d’accordo nel considerarlo un fenomeno complesso, determinato dall’interazione tra fattori soggettivi e fattori oggettivi, a partire dalle risposte fisiologiche e dalla comunicazione non verbale, sino ai vissuti soggettivi della persona. Le emozioni differiscono dagli stati d’animo, perché questi ultimi corrispondono ad un umore diffuso di cui si ha una consapevolezza più imprecisa e sfocata. Le emozioni, invece, assumono forme più specifiche in base al momento vissuto e possono variare di intensità in relazione alla particolarità della situazione, possiamo parlare quindi di gioia, paura, rabbia, tristezza e felicità, ecc. Oggi sappiamo che le emozioni dipendono e sono definite sia da una base biologica, che dall’esperienza di vita del singolo individuo (Hanford et al., 2018). In particolar modo, sappiamo che le emozioni sono caratterizzate da una significativa componente biologica, che coinvolge lo sviluppo del sistema nervoso dell’uomo. Infatti, attraverso diversi studi è stato possibile dimostrare come le emozioni, la loro espressione e manifestazione, siano direttamente coinvolte nello sviluppo delle regioni del Sistema Nervoso caratterizzate da sviluppo precoce come, ad esempio, il Sistema Limbico (Ng, 2018). L’espressione emotiva dei bambini durante i primi anni di vita, infatti, riflette lo sviluppo precoce di questi sistemi cerebrali, più primitivi come sviluppo rispetto alle regioni prefrontali. Nel corso dello sviluppo, la progressiva maturazione della corteccia cerebrale determina una riduzione dei cambiamenti d’umore repentini, con un incremento di autoregolazione delle emozioni (Xie, Mallin, Richards, 2019;

Lee, Hollarek, Krabbendam, 2018). Parallelamente allo sviluppo neurobiologico, le relazioni

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interpersonali e sociali, in cui un individuo è inserito sin dalla nascita, forniscono a loro volta le condizioni per lo sviluppo delle emozioni (Zachary, 2019).

1.3.2 Le emozioni nel contesto

Le differenti culture di appartenenza definiscono il ruolo dell’esperienza riguardante le emozioni, influenzando l’espressione delle emozioni attraverso le “Display Rules”, ovvero regole di espressione e di esibizione delle emozioni. Il contesto entro cui un soggetto nasce e cresce è delineato da un insieme di figure significative, in primo luogo i genitori, che influenzeranno le diverse sfere dell’apprendimento del soggetto. La relazione che si instaura tra bambino e caregiver nel corso dello sviluppo costituisce il contesto ecologico, primario e fondamentale, in cui essi possono sviluppare abilità di regolazione e designazione delle emozioni (Zachary, 2019). Zachary e collaboratori sostengono il ruolo significativo dell’abilità nella regolazione delle emozioni da parte dei genitori come parametro predittivo di eventuali problemi di autoregolazione nel figlio. I genitori che manifestano un alto livello di disregolazione emotiva sono anche coloro che riportano problemi comportamentali nei figli (Zachary, 2019). Per questo motivo, il caregiver ricopre un ruolo fondamentale nella regolazione delle emozioni del bambino. Per esempio, quando un bambino piange e viene consolato da questi, i caregiver lo stanno aiutando nella regolazione delle emozioni e nella riduzione del livello di stress (Gunnar, Hostinar, 2015). Essi, inoltre, trasmettono valori culturali ai figli durante le interazioni, in questo modo nella definizione delle emozioni dei bambini è presente anche un’integrazione di fattori biologici e culturali (Santrock, 2021). Tra i teorici dello sviluppo, l’enfasi sul ruolo delle relazioni nella definizione delle emozioni è sostenuta in particolar modo dall’approccio funzionalista, che non considera le emozioni come fenomeni interni ed intrapsichici. Secondo questo approccio, le emozioni sono fenomeni relazionali (Batki, 2018) e pertanto svolgono un’importante funzione nelle relazioni genitori- bambini; ad esempio, alla fine del primo anno, l’espressione facciale della madre influenza il bambino durante l’esplorazione di un ambiente non familiare. È stato studiato che l’atteggiamento della madre riguardo le emozioni e i suoi comportamenti emotivi positivi siano predittori significativi della capacità di regolazione emotiva in bambini di tre anni (Özen Uyar, 2018). Lo sviluppo delle emozioni segue lo sviluppo biologico del bambino e quindi la vita emotiva di quest’ultimo è strettamente correlata con la sua crescita. Con l’età il bambino sviluppa sempre maggiori abilità all’interno del concetto di competenza emotiva e bambini con

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alte capacità di regolazione delle emozioni presentano capacità molto buone di competenza sociale, con la possibilità di creare relazioni costruttive e positive con i pari.

1.3.3 La Competenza Emotiva

Il concetto di competenza emotiva si riferisce all’abilità dell’individuo di affrontare in maniera funzionale e adattiva le proprie emozioni e quelle degli altri, regolando gli scambi con l’ambiente in maniera adeguata e socialmente appropriata. La competenza emotiva è in primo luogo determinata dalla cultura, perché in base al contesto culturale di appartenenza il soggetto è in grado di apprendere che una determinata manifestazione emotiva può essere più o meno adeguata rispetto ad altre (Santrock, 2021). Oltre al contesto culturale, anche le relazioni interpersonali influenzano le nostre emozioni, le quali a loro volta influenzano gli scambi interpersonali, reciprocamente. La competenza emotiva è caratterizzata dallo sviluppo di capacità in determinati contesti sociali (Saarni et al., 2006) che definiscono le componenti di questa, la quale si integra con concetti di simpatia, autocontrollo, onestà e senso di reciprocità.

Quando i bambini apprendono tali abilità nei vari contesti di vita quotidiana possono gestire efficacemente le loro emozioni, rispondere adeguatamente a situazioni stressanti e costruire relazioni positive. Le capacità appartenenti alla competenza emotiva riguardano l’espressione emotiva, la comprensione delle emozioni e la regolazione delle stesse (Denham, 1998). Queste capacità sono essenziali durante scambi di tipo socio-relazionale per comunicare efficacemente le proprie emozioni, saper interpretare correttamente quelle degli altri ed essere in grado di rispondervi in maniera adeguata, con consapevolezza, tolleranza, accettazione e gestione dei propri stati d’animo.

1.3.3.1 L’espressione delle emozioni

L’espressione delle emozioni è la capacità di comunicare stati emotivi attraverso la comunicazione verbale e non verbale, per trasmettere in maniera più o meno consapevole le nostre emozioni agli altri. L’utilizzo dei gesti permette di esprimere uno stato interno emotivo, dimostrare coinvolgimento empatico e manifestare emozioni di natura sociale. Tra gli indicatori emotivi, la mimica facciale è la modalità più impiegata dall’uomo, soprattutto per quanto riguarda lo sguardo, che ha una funzione essenziale durante l’interazione visiva e sociale, ad esempio durante lo scambio tra madre e bambino, così come durante un dialogo. L’espressione

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delle emozioni è definita dalle regole di espressione, o “Display Rules”, le quali definiscono come e quando le emozioni possono essere manifestate ed espresse coerentemente al contesto socioculturale di appartenenza (Novin et al., 2009).

1.3.3.2 La regolazione delle emozioni

La regolazione delle emozioni è la componente della competenza emotiva caratterizzata da autoregolazione e funzionamento esecutivo (Santrock, 2021). Essa riguarda abilità di monitoraggio, di valutazione e di modifica delle proprie espressioni emotive, della loro intensità e del proprio stato di attivazione ed eccitamento psico-fisico. L’eccitamento psico-fisiologico è anche definito “arousal” e riguarda uno stato di allerta e attivazione dell’organismo. I processi di regolazione emotiva possono essere definiti da fattori interni, tramite capacità di autoregolazione, oppure esterni, grazie all’intervento e supporto da parte di altri. Tali processi includono quindi stimoli interni ed esterni, strategie cognitive (come, ad esempio, l’evitamento o la focalizzazione dell’attenzione), l’eccitamento emotivo o “arousal”, gestire relazioni e situazioni stressanti con adeguate strategie di coping. L’abilità di regolazione emotiva risulta quindi un aspetto chiave dello sviluppo, è estremamente connessa all’espressione e alla comprensione delle emozioni e, per questo motivo, permette ai bambini di gestire le richieste e i conflitti durante lo sviluppo e le interazioni con gli altri (Camras, Halberstadt, 2017; Di Giunta et al., 2017).

1.3.3.3 La comprensione delle emozioni

Infine, la comprensione delle emozioni riguarda la capacità di capire e dare un significato alle emozioni, proprie ed altrui, che si stanno provando. La comprensione emozionale è importante perché permette di avere scambi interpersonali adeguati (Denham, 1998) grazie alla conoscenza della natura delle emozioni, di che cose le provoca e delle strategie da impiegare per controllarle e regolarle. Gli scambi sociali e le interazioni costituiscono quindi lo strumento che favorisce la conoscenza e la definizione di sé e degli altri. Gli elementi principali di questa capacità riguardano la comprensione delle espressioni facciali, di un vocabolario emotivo da poter utilizzare, la comprensione di emozioni come ansia, vergogna, orgoglio e la possibilità di provare più emozioni contemporaneamente.

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1.4 Le interazioni tra bambini e caregiver

Sin dall’infanzia, le interazioni tra figli e caregiver sono mutualmente regolate (Kokkinaki et al., 2017), reciproche e sincronizzate (Santrock, 2021). I genitori modulano la propria espressione emotiva del volto in relazione all’emozione espressa dal figlio, il quale però a sua volta modifica le proprie espressioni in risposta a quelle del caregiver. I genitori sensibili e responsivi nei confronti dei bisogni dei figli, che parlano con essi di emozioni e di stati interni usando un lessico emotivo adeguato, sono coloro che riescono in questo modo a guidare i figli nello sviluppo della competenza emotiva (Gottman, 1996; Thompson, Newton, 2009). I genitori, infatti, possono incentivare nei bambini l’imparare a regolare le proprie emozioni (Grusec, Davidor, 2010). Lo psicologo e ricercatore John Gottman, nel 1996, introduce il concetto di “Allenamento emotivo”, con il quale fa riferimento alla capacità dei genitori di monitorare le emozioni dei figli, sia quelle positive che quelle negative, considerandole come un’opportunità per poterli aiutare ed insegnare loro a dare un nome alle emozioni, guidandoli verso possibili soluzioni e strategie per affrontarle al meglio. I figli di genitori allenatori emotivi si sono rivelati manifestare meno problemi di natura comportamentale, sono infatti in grado di controllare le proprie reazioni, di farsi nuovi amici, imparare a calmarsi, a concentrarsi e focalizzare la propria attenzione, così come ad essere ricettivo nei confronti di segnali sociali ed emotivi altrui (Gottman, 1997). Questo perché i bambini nascono privi di risorse e imparano dalle reazioni comportamentali dei genitori al disagio, integrando nel loro stesso comportamento le risorse di chi si occupa di loro. Quindi i genitori, gli altri significativi e gli insegnanti sono figure di supporto essenziali per i bambini, perché parlando con loro delle proprie emozioni possono aiutarli e guidarli nel far fronte alle emozioni negative, come tristezza, rabbia e paura (Gottman, 2013). Le emozioni stabiliscono il tono delle nostre esperienze di vita. I bambini sono motivati sin dai primi anni di vita ad orientarsi verso il proprio mondo sociale e verso gli altri. Fin da subito, infatti, i bambini sono attratti dal loro mondo sociale; si è riscontrato infatti che fin da piccoli i bambini fissano intensamente i volti e sono richiamati dalla voce umana, specialmente quella dei caregiver (Lowe et al., 2016). Con il successivo sviluppo, poi, i bambini iniziano a dare un significato alle espressioni facciali che osservano. Sin dal primo momento dopo la nascita, i neonati mettono in atto i cosiddetti “riflessi neonatali”, ovvero una serie di comportamenti con funzione adattiva oltre che sociale; alcuni di questi sono, ad esempio, stringersi al corpo del caregiver per alimentarsi e stabilire un legame affettivo. Questi comportamenti fanno parte di abilità sociali precoci, che si presentano già entro

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il primo anno di vita, dando al neonato la possibilità di condividere e partecipare ad intenzionalità e scambi sociali con gli altri. Queste abilità socio-cognitive dei bambini costituiscono i prerequisiti per la definizione del legame di attaccamento con il caregiver e sono inoltre ritenute precursori della teoria della mente (Santrock, 2021). Gli scambi sociali tra caregiver e bambino sono in grado di creare uno stato emotivo positivo, come è possibile indagare ad esempio grazie al gioco “Face to Face”. Questo gioco è parte integrante della motivazione materna a creare uno stato positivo con il proprio bambino (Thompson, 2013) e può essere visto anche in riferimento al paradigma dello “Still Face”, ideato da Tronick e collaboratori nel 1979 (Tronick, 1979), nel quale il caregiver presenta in maniera alternata al bambino momenti di faccia a faccia a momenti con volto immobile e neutro (Qu, Leerkes, 2018), con l’obiettivo di verificare se durante queste prove il bambino ricerca l’attenzione del caregiver. Questo paradigma comporta anche comportamenti positivi dal punto di vista emotivo, mentre il bambino dimostra di avere disponibilità precoci alla regolazione emotiva e all’interazione sociale. Egli, infatti, mette in atto strategie di coping per fronteggiare la situazione stressante provocata dalla presentazione del volto inespressivo del caregiver e per autoregolare il proprio stato emotivo. Un fattore rilevante da considerare è che, durante il paradigma dello “Still Face”, le reazioni dei bambini differiscono tra loro, perché il loro modo di rispondere alla condizione con il volto immobile è correlato al tipo di relazione che hanno con il caregiver. Il bambino interiorizza ed elabora le modalità di risposta e di reazione del caregiver durante l’interazione e ne fa la base delle proprie reazioni e risposte comportamentali durante le successive interazioni future. Oltre al gioco face to face, i bambini possono acquisire abilità sociali anche per mezzo di altri contesti (Stern, 2010), come, ad esempio, durante le interazioni con i pari, dove in particolar modo si può osservare lo sviluppo dell’abilità di cooperazione. Infine, un’altra importante capacità socio-cognitiva, che si sviluppa durante l’infanzia, riguarda l’abilità di comprendere le emozioni delle altre persone (DeQuinzio et. al., 2016), definita con il termine di “Social Referencing”, ovvero “riferimento sociale”. Con questo concetto si fa riferimento alla capacità di comprendere i segnali emotivi provenienti dagli altri, così da poter decidere come comportarsi in situazioni ambigue. I bambini tendono a guardare l’espressione emotiva della loro madre prima di muoversi ed allontanarsi per esplorare un ambiente sconosciuto: se questa è felice o arrabbiata li influenzerà, dandogli informazioni sulle situazioni non familiari e incerte (Belacchi, Gobbo, 2004). Lo sviluppo socioemotivo è strettamente legato al concetto di Social Referencing perché il bambino che è in grado di

“leggere” l’espressione emotiva di un altro è anche in grado di discriminare le diverse espressioni facciali sul volto dell’altro e darvi un significato, così da poter decidere come

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comportarsi. Queste competenze sono quindi di natura cognitiva e comunicativa, oltre che affettiva. Nel concetto di Goodness of fit (Molina, 2007), si delinea la relazione tra temperamento e contesto di vita di un individuo. Il termine, infatti, fa riferimento alla bontà d’adattamento, o compatibilità, che si definisce tra il temperamento di un bambino e le richieste ambientali e sociali a cui viene esposto, come possono essere, ad esempio, le aspettative dei genitori. Quando ambiente e temperamento sono in armonia, le conseguenze sono costruttive e lo sviluppo segue un percorso positivo. Qualora invece tale compatibilità non sia favorita, questo può portare a problemi di adattamento (Newland, Crnic, 2017). Il temperamento del bambino è un fattore importante da considerare quando si guarda alla relazione genitore-figlio, perché alcune caratteristiche di questo possono definire differenze significative nell’interazione genitore-figlio (Bates, McQuillan, Hoyniak, 2019), comportando l’impiego di particolari strategie genitoriali.

1.5 Il Temperamento

Ogni individuo ha il proprio stile comportamentale, ovvero la propria modalità di reagire in una determinata situazione, di affrontare e rispondere ad un problema. Questo fa capo al temperamento, ovvero un concetto strettamente legato alla dimensione della personalità, definito dall’insieme delle caratteristiche personali e genetiche di un individuo. Il temperamento è, infatti, considerabile come la base biologica ed emotiva della personalità (Santrock, 2021). Ogni individuo ha il proprio stile di temperamento, il quale determina nel soggetto una maggiore o minore intensità e tendenza nella manifestazione di certe emozioni piuttosto che di altre. Durante la crescita il temperamento è ciò che determina le differenze individuali tra un soggetto e l’altro. Il temperamento è, per questo motivo, strettamente connesso al contesto di vita, perché molti aspetti dell’ambiente in cui un bambino vive possono favorire, o sfavorire, l’espressione di un determinato tratto temperamentale. Come descritto sopra, le differenze temperamentali tra i bambini sono ciò che definiscono il legame tra genitore e figlio (Bates, McQuillan e Hoyniak, 2019).

1.5.1 Classificazioni del temperamento

Molti ricercatori hanno approfondito il tema del temperamento e questo ha portato a diverse tipologie di classificazioni proposte da essi. Chess S. e Thomas A. (Chess, Thomas, 1977;

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Thomas, Chess, 1991) hanno proposto un modello con tre dimensioni del temperamento: il bambino facile, con umore tendenzialmente positivo e buona adattabilità a situazioni nuove, il bambino difficile, il quale piange spesso, fatica ad accettare cambiamenti e ha routine quotidiane irregolari e il bambino “lento a scaldarsi”, egli ha un umore generalmente piatto e un basso livello di attivazione. Dalle ricerche è emerso che queste tre classificazioni restano stabili durante le diverse fasi dello sviluppo. I ricercatori Johnson, Finch e Philipps (Johnson, Finch, Philipps, 2019) hanno rilevato, tramite un’indagine, che i bambini con temperamento difficile, quando sperimentano modalità di cura inadeguate, tendono a dare più problemi, che invece non danno quando la modalità di cura è corretta. Essi sono quindi più sensibili di altri rispetto al livello di cura impiegato dal genitore. Successivamente, nel 2006, gli studiosi Rothbart M. e Bates J. (Rothbart M., Bates J., 2006) hanno proposto tre categorie temperamentali: “estroversione/disinibizione”, che guarda al livello di attività del bambino,

“affettività negativa”, in cui rientrano tutti i soggetti che mostrano facilmente la frustrazione e sono più irritabili, e la “capacità di controllo”, che guarda all’abilità dei soggetti di usare strategie per calmarsi, come la focalizzazione dell’attenzione e lo spostamento. Infine, lo psicologo Kagan Jerome (Kagan, 2002, 2010, 2013) porta l’attenzione alla dimensione dell’“inibizione verso l’estraneo”. Secondo lo studioso, infatti, è possibile definire due ampie tipologie temperamentali in relazione al livello di timidezza verso gli estranei, osservando le strategie messe in atto dal bambino di fronte ad un soggetto non conosciuto. Coloro che rispondono con iniziale evitamento, modi molto pacati e ansia sono considerati bambini inibiti.

Pfeifer e collaboratori (Pfeifer et al., 2002), facendo riferimento agli studi di Kagan J., hanno individuato tre gruppi temperamentali per i bambini: molto inibiti, intermedi e molto disinibiti, che si mostrano persistenti nel tempo.

1.5.2 Ereditarietà biologica del temperamento e contesto sociale

Attraverso diversi studi è stato possibile rivelare che i bambini ereditano degli aspetti da un punto di vista fisiologico che influenzeranno il loro temperamento (Kagan, 2002, 2010). Infatti, attraverso studi condotti su bambini adottivi e gemelli, è stato possibile dimostrare un moderato ma significativo tasso di ereditarietà di caratteristiche temperamentali dei genitori da parte dei figli (Knopik et al., 2016). Ad esempio, si è riscontrato che il temperamento inibito coinvolge un modello fisiologico caratterizzato da alti livelli di ritmo cardiaco, di cortisolo e di attività dell’area frontale (Kagan, 2003, 2008, 2010, 2013) e da bassi livelli di serotonina (Brumariu et

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al., 2016). È dimostrata però un’indiscutibile connessione tra biologia e contesto ambientale e sociale. Durante la crescita, man mano che l’individualità si sviluppa e prende forma la personalità, il bambino fa esperienze che gli permettono di imparare a gestire il proprio temperamento. Molti aspetti dell’ambiente di vita di un bambino possono influenzare il temperamento, a partire dal comportamento dei genitori e dalla cultura di appartenenza. Si richiama il concetto di “Goodness of Fit” trattato precedentemente, perché nel corso dello sviluppo gli aspetti del temperamento possono essere influenzati dagli stimoli provenienti dall’ambiente sociale. Diversi contesti possono intervenire nell’esperienza individuale (Santrock, 2021) ed influire in maniera positiva o negativa sulla stabilità di determinate caratteristiche del temperamento (Bates, McQuillan, Hoyniak, 2019). Riguardo a questo, alcuni studi hanno evidenziato l’esistenza di una continuità tra il temperamento manifestato in infanzia e l’adattamento in giovane età adulta, come ad esempio l’indagine longitudinale condotta da Franz nel 1996 (Franz, 1996) ha mostrato come bambini di 4 anni molto attivi si rivelavano adulti espansivi. In un altro studio, condotto da Kagan e collaboratori nel 2007 (Kagan et al., 2007), si è osservato che bambini altamente reattivi a stimoli estranei, si rivelavano poi adolescenti diffidenti, sottomessi e che mettevano in atto strategie di evitamento. Ci sono quindi elementi che supportano l’esistenza di una continuità delle caratteristiche temperamentali nel passaggio dall’infanzia all’età adulta, ma il numero di studi condotti finora non è ancora sufficiente per dimostrare una relazione significativa (Shiner, 2019).

1.5.3 La valutazione del temperamento

Lo strumento più utilizzato per la valutazione del temperamento è il “Quit test” o “Questionari Italiani per il temperamento” (Axia, 2002), che è stato difatti impiegato in questo studio e descritto in maniera più estesa nel Capitolo III. Il “Quit” comprende in tutto quattro questionari, definiti con lo stesso costrutto teorico ma adattati a quattro rispettive fasce d’età. 1-12 mesi, 13- 36 mesi, 3-6 anni, 7-11 anni. Ogni questionario si suddivide in sei dimensioni: emozionalità positiva, emozionalità negativa, orientamento sociale, attenzione, attività motoria e inibizione alla novità. Insieme, queste dimensioni permettono di definire un quadro complessivo della capacità di adattamento del bambino al suo contesto sociale ed all’ambiente di vita in generale.

Dall’analisi delle sei scale è possibile definire il temperamento del bambino tra due poli principali: da una parte il polo dell’adattamento positivo, dall’altra quello dell’adattamento problematico, come osservabile nella Tabella (1.1).

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ADATTAMENTO POSITIVO ADATTAMENTO PROBLEMATICO

Attività motoria bassa, bassa inibizione alla novità, bassa emozionalità negativa, alta attenzione, alto orientamento sociale, alta emozionalità positiva.

Alta attività motoria, alta inibizione alla novità, alta emozionalità negativa, bassa attenzione, basso orientamento sociale e bassa emozionalità positiva.

Tabella 1.1 Caratteristiche dei due poli di bontà d’adattamento del temperamento

Un aspetto però molto importante da tenere in considerazione quando si cerca di classificare il temperamento di un bambino è il fatto di non ridurlo ad una sola dimensione. Il temperamento, infatti, si compone di multiple dimensioni che si intrecciano, potenziano o svalutano, nel corso dello sviluppo, in relazione alle esperienze vissute dal soggetto. La dinamicità esistente tra le dimensioni del temperamento è ciò che sta alla base dell’emergere di differenze individuali temperamentali (Bates, McQuillan, Hoyniak, 2019), che vanno oltre le tendenze normative descritte da Rothbart e Gartstein riguardo le modificazioni nelle caratteristiche del temperamento in seguito alla crescita e allo sviluppo (Rothbart, Gartstein, 2008).

1.6 L’uso della tecnologia all’interno dello sviluppo socio-emotivo e dell’intersoggettività

Infine, oggi l’uso che viene fatto della tecnologia è sempre più consistente, con un utilizzo quasi costante di almeno un device elettronico a persona, e questo ha portato dei cambiamenti significativi nelle nostre modalità d’interazione, da remoto e face-to-face. Soprattutto nei bambini l’uso dei Dispositivi Digitali è sempre più frequente, pervasivo e precoce. Il ruolo dell’adulto risulta quindi importante nella regolazione degli atteggiamenti dei figli verso i device tecnologici. In relazione a questo, gli studiosi hanno iniziato ad indagare sempre più a fondo l’impatto che un tale uso della tecnologia più avere a livello del singolo soggetto, così come di realtà più ampie. In particolar modo, Myruski e collaboratori hanno indagato come l’uso di device da parte dei genitori, durante l’interazione con i figli, può influenzare lo sviluppo della capacità di regolazione emotiva nei bambini e anche la qualità degli scambi relazionali

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genitore-figlio attraverso una versione modificata del paradigma dello Still Face (Myruski et al., 2018). Lo Still Face (Tronick, 1979), infatti, si è rivelato un buon paradigma per la comprensione dell’impatto dell’uso di mezzi tecnologici da parte dei genitori sulla competenza socio-emotiva dei bambini e le interazioni genitore-figlio. Durante il paradigma è emerso che un maggiore utilizzo di tecnologia da parte della madre riduce la quantità e la qualità dell’interazione madre-bambino; anche un utilizzo durante l’allattamento incide sull’interazione madre-figlio, con una riduzione della sensibilità della madre durante questo momento. Questo perché il genitore fisicamente è presente ma è distratto e non adeguatamente responsivo e l’interruzione dell’interazione provoca disagio nel bambino, con effetti sulla qualità dell’interazione. Al riguardo la Società Italiana di Pediatria ha redatto una serie di raccomandazioni sull’uso della tecnologia nella prima infanzia, per cui in bambini con meno di due anni sarebbe da evitare l’uso di media digitali, così come è da evitare durante i pasti, un’ora prima di andare a dormire e come strategia per calmare il bambino.

Per concludere, attraverso questa panoramica sulle teorie e gli studi che fino ad oggi è possibile trovare nella letteratura, è quindi possibile avere una chiara comprensione dell’importanza del ruolo svolto dalle prime interazioni del bambino con l’ambiente sociale circostante. L’ambiente in cui un bambino si trova sin dalla nascita è caratterizzato dalla presenza di altre figure in relazione tra loro, in primo luogo dai genitori. Per questo motivo il neonato cresce e si sviluppa in un mondo ricco di stimolazioni, da cui riceve influenza già nel primo periodo dopo la nascita.

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Capitolo II

Il parenting genitoriale: stili e tipologie 2.1 Il Parenting genitoriale

Nel capitolo precedente abbiamo parlato del concetto di “Goodness of Fit”, ovvero di come il temperamento del bambino sia strettamente connesso al contesto di vita (Molina, 2007). Lo stile temperamentale di ogni bambino è un fattore fondamentale in gioco nell’interazione genitore-figlio (Bates, McQuillan, Hoyniak, 2019) e, sempre all’interno di tale interazione, un ruolo essenziale è ricoperto dalle strategie genitoriali impiegate dai caregiver stessi in relazione al temperamento del bambino.

2.2 Il legame d’attaccamento

La qualità dell’interazione tra caregiver e figlio è definita dal legame d’attaccamento instauratosi tra i due soggetti. L’attaccamento è infatti uno stretto legame emotivo tra bambino e caregiver, che li unisce stabilmente. È un legame che si costruisce a partire dalla nascita, duraturo e costante, che lega in maniera affettiva due soggetti, così che entrambi possano assicurarsi vicinanza, protezione e sicurezza grazie alla presenza dell’altro. La qualità del legame di attaccamento è connessa con lo stile di cura, ovvero di parenting, utilizzato dal caregiver. Un caregiver, infatti, definibile come sensibile, è una figura di accudimento in grado di comportarsi in maniera sincrona con il comportamento del figlio, ovvero di intervenire con adeguatezza, tempestività e coerenza ai bisogni di quest’ultimo (Rollo, 2005). La sensibilità del caregiver è correlata con l’attaccamento sicuro sviluppato dal bambino (Carbonell et al., 2002);

infatti, la sensibilità del genitore è fondamentale affinché egli possa rispondere ai segnali emessi dal figlio. Fonagy P. e Allison E. (Fonagy, Allison, 2014), conducendo numerosi studi sui legami d’attaccamento che possono caratterizzare la relazione genitore-figlio, affermano che il legame d’attaccamento sicuro non è una condizione necessaria per sviluppare la capacità di fidarsi delle conoscenze dell’ambiente, concetto anche definito dallo stesso ricercatore con il termine di “Fiducia epistemica”. L’attaccamento, per gli autori, è però sufficiente ed è l’indicatore più significativo per lo sviluppo di affidabilità e attendibilità. Dall’altro lato, infatti,

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un attaccamento evitante può condurre a non riporre fiducia negli affetti e nei legami con gli altri, mentre un attaccamento ansioso porta a guardare all’ambiente circostante con incertezza a causa della dipendenza dal caregiver e quello disorganizzato può portare a non riporre fiducia nella figura d’attaccamento così come nell’ambiente circostante. È da tenere in considerazione però che in contesti difficili e di incertezza, un particolare legame d’attaccamento può essere considerato, in questo caso, non come il risultato della incapacità dei genitori di creare un legame sicuro e sereno, ma come il metodo più idoneo per la sopravvivenza per bambino in tale contesto sociale ed interpersonale. Per esempio, il modello d’attaccamento evitante può rivelarsi più protettivo in determinati contesti, rispetto ad altri modelli. Così come lo stile ansioso può facilitare il bambino nel capire come sfruttare delle risorse in un contesto d’incertezza. Quindi, stili d’attaccamento differenti da quello sicuro possono rivelarsi adattivi per gli individui che vivono in contesti difficili e di insicurezza sociale e relazionale (Fonagy, 2018).

2.3 Mentalizzazione

La mentalizzazione è una capacità che dipende dalla relazione di attaccamento sicuro instaurata con la madre, grazie alla sensibilità materna di questa (Meinz et al., 1998). Si fa riferimento, quindi, al concetto di “Maternal mind-mindedness”, introdotto per la prima volta dalla studiosa Elizabeth Meins (Meins et al., 2002). Con tale concetto E. Meins descrive la capacità della madre di considerare il figlio come un soggetto separato da sé, dotato di una mente e capace di rappresentarsi sé stesso e gli altri. Se durante l’interazione la madre utilizza termini che fanno riferimento agli stati mentali ed emotivi propri e del figlio e li commenta assieme a lui, favorisce nel bambino la comprensione dei propri stati mentali e di quelli altrui, costruendo la propria competenza emotiva e riuscendo ad utilizzare a sua volta un linguaggio riferito a stati mentali ed emotivi. La qualità della relazione genitore-figlio dipende quindi dalla tipologia di legame d’attaccamento e dallo stile di parenting.

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2.4 Parenting

Con il termine “Parenting” gli studiosi definiscono la modalità di cura usata dai caregiver durante le interazioni con il figlio, concepita come “processo multi-determinato ed evolutivamente aperto” (Zaccagnini, Zavattini, 2007). Il concetto di parenting fa riferimento ad un processo biologico e sociale che coinvolge i figli e coloro che se ne prendono cura, basato sul favorire la crescita e l’educazione di un soggetto, dalla nascita sino all’età adulta. La funzione genitoriale, di fatto, è molto complessa e comporta lo svolgimento di attività di cura non solo fisiche e biologiche ma anche psicologiche, influenzate da diversi fattori interagenti tra loro, che vanno a comporre lo stile genitoriale. Ogni genitore costruisce il proprio stile genitoriale relativamente alle pratiche di genitorialità osservate dei propri genitori, di cui alcune le accetta, altre le rifiuta; per cui, ciò che ogni genitore trasmette e insegna ai propri figli è determinato da come si comportano, da ciò che fanno e da ciò che essi sono. La qualità dello stile parentale è importante (Grusec et al., 2013) e gioca un ruolo fondamentale nello sviluppo del bambino. Per questo motivo l’impatto della genitorialità sul bambino è stato indagato in oltre 75 anni di ricerca. I ricercatori hanno approfondito i diversi aspetti di questo, come ad esempio le pratiche genitoriali, le dimensioni parentali e gli stili di parenting. Le pratiche genitoriali possono essere definite come tutti i comportamenti di cura direttamente osservabili che i genitori impiegano verso i figli, come andare agli incontri con le insegnanti o seguire lo svolgimento dei compiti e dare rinforzi positivi. Le dimensioni parentali riguardano principalmente il supporto da parte dei genitori, caratterizzato da coinvolgimento, calore, sensibilità e accettazione ed il controllo, con la gestione e regolazione dei comportamenti del figlio (Kuppens, Ceulemans, 2018). Inoltre, il parenting e lo stile di cura impiegato dai caregiver sono fortemente influenzati dal contesto socioculturale in cui una famiglia è inserita. Questi definiscono infatti come la famiglia si costituisce, come si organizza e si rappresenta e come i bambini vengono cresciuti ed educati. I caregiver sono implicitamente influenzati dalla cultura di appartenenza, da norme sociali, valori, dalla lingua parlata e da comportamenti socialmente condivisi, che a loro volta condizionano le strategie di autoregolazione, il coinvolgimento nelle relazioni, le funzioni esecutive e l’adattamento del genitore al contento. Questi sono tutti aspetti che vengono poi appresi dai figli durante le interazioni con i genitori e lo stabilirsi del legame d’attaccamento (Sanvictores, Mendez, 2021).

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2.4.1 Stili genitoriali

Numerosi studiosi hanno indagato il parenting e i differenti stili applicati dai genitori. Ogni stile è definito da modalità specifiche con cui i genitori crescono i loro figli, ma ogni genitore, anche se utilizza una specifica tipologia di stile di cura, è possibile che talvolta manifesti aspetti di un altro stile di genitorialità (Sanvictores, Mendez, 2021). Ad oggi, come riferimento di classificazione per i diversi stili genitoriali, viene principalmente preso in considerazione il lavoro della psicologa clinica Diana Baumrind (Baumrind, 1971, 2013).

La ricercatrice ha individuato nella genitorialità una combinazione di due principali fattori: il controllo esercitato tramite regole e la sfera affettiva. In base a come troviamo questi due elementi proporzionalmente combinati tra loro, Baumrind ha definito quattro diverse tipologie di stili parentali.

Stile autorevole:

Il genitore che impiega uno stile autorevole è colui che riesce ad instaurare un legame stretto con i figli, a cui offre la propria cura e guida (Benedetto, Ingrassia, 2010). Egli incoraggia i bambini ad essere indipendenti, ingaggiando ricchi scambi verbali con essi (Kuczynski, Lollis, 2002) e mostrandosi sempre caloroso e attento nei confronti dei loro bisogni e necessità. Il genitore autorevole è anche colui che, allo stesso tempo, con pazienza, impone delle regole ed esercita un controllo nei confronti dei comportamenti dei figli, ma come forma di supporto e non di punizione. Egli insegna loro a regolare sentimenti e a risolvere problemi, mostrando supporto nei confronti delle azioni costruttive dei bambini e apprezzamento per le loro manifestazioni emotive, nel momento in cui essi riescono a trovarvi uno sfogo non distruttivo. Si è osservato che i figli di genitori autorevoli sono responsabili, sono in grado di autocontrollarsi efficacemente sia a livello comportamentale che emotivo, sono più sereni e sicuri di sé stessi, sono in grado di costruire relazioni positive con i pari, di cooperare con gli altri e risolvere i propri problemi (Gottman, 1996; Gottman, 1997). Infine, i figli di genitori autorevoli sono anche coloro che raggiungono ottime performance a

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livello scolastico e riescono ad ottenere così buoni risultati da un punto di vista accademico.

Stile autoritario:

Il genitore autoritario è colui che impone regole e limiti, che il bambino deve rigorosamente seguire, e spesso si fa rispettare anche con minacce.

Si tratta di uno stile restrittivo e punitivo, che da poca importanza allo scambio verbale con il figlio, a cui vengono date regole senza spiegazioni e nessuno spazio per la negoziazione. Questo tipo di genitori, anche detti censori, sono notevolmente critici nei confronti dei figli, li rimproverano spesso e ne disapprovano le manifestazioni emotive, con brusche reazioni e punizioni. Si tratta quindi di genitori poco educativi, che hanno alte aspettative verso i figli e poca flessibilità. I figli di genitori autoritari spesso mostrano scarse abilità comunicative, soprattutto con i pari; essi, infatti, sono socialmente poco competenti, con povertà d’iniziativa propria, si mostrano timidi, ansiosi ed apprensivi durante l’interazione.

Un’altra caratteristica è la scarsa autostima, con poca fiducia nei confronti del proprio giudizio. Hanno una ridotta capacità di autoregolazione emotiva, che li porta ad essere in difficoltà di fronte a problemi e conflitti, a cui possono reagire con alti livelli di aggressività, per incapacità di gestirsi emotivamente e di controllare la propria rabbia (Gottman, 1996; Gottman 1997).

Stile negligente:

Il genitore negligente, o noncurante, è colui che è poco coinvolto nella vita del figlio, ne rimane distante. I figli di questi sono coloro che hanno la percezione che per il genitore gli aspetti della propria vita siano più importanti di loro. In genere, il genitore con questo stile parentale tende a non stabilire regole, né limiti, così come tende ad ingaggiare uno scarso numero di interazioni con il figlio. Egli è scarsamente interessato all’educazione del figlio, verso cui non ripone particolari aspettative.

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Questa tipologia di genitore non riesce a dare il giusto rilievo alle emozioni del figlio, non riesce ad affrontarle correttamente, tendendo piuttosto a sminuirle e svalutarle, agendo come se queste non fossero importanti, senza ascoltare il bisogno del figlio di essere confortato e guidato. Questa tendenza si manifesta soprattutto verso le emozioni negative, dando più importanza a sorrisi e risate. Gli effetti di questo stile sul bambino sono che egli inizierà a considerare i propri sentimenti come di poco valore e in alcuni casi inadeguati, con conseguente difficoltà nella regolazione delle emozioni. I figli di genitori negligenti hanno ridotte abilità da un punto di vista sociale, con scarsa autogestione e autocontrollo, e bassi livelli di autostima e maturità. Essi si mostrano più autosufficienti di altri bambini ma hanno difficoltà a livello accademico, così come nella gestione delle relazioni sociali (Gottman, 1996; Gottman, 1997).

Stile indulgente:

I genitori che applicano questo stile in genere sono coloro che ritengono che scarse restrizioni e tanto affetto siano le condizioni migliori affinché i figli sviluppino sicurezza e creatività. Per questo motivo tendono ad essere molto coinvolti nella relazione con il figlio e sono anche particolarmente apprensivi, senza riporre aspettative verso di essi. In generale, danno poche regole e lasciano che i bambini facciano quello che vogliono, così facendo non riescono a porsi nei confronti dei figli come una guida e lasciano che essi sfoghino le loro emozioni, senza aiutarli a capire come affrontare i problemi. Come risultato, questi bambini tendono a ritenere di poter ottenere facilmente tutto quello che vogliono e difficilmente riescono a rispettare gli altri, non seguono regole e autorità. La mancanza di regole può far sì che questi bambini sviluppino abitudini negative, come ad esempio per quanto riguarda l’utilizzo fatto dei Dispositivi Digitali, così come sul piano alimentare, per cui mangiano quello che vogliono. Per il fatto che i genitori non pongono particolari limitazioni, i figli decidono da soli quando andare a letto la sera, quando

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e se fare i compiti e quanto guardare ad esempio il televisore. Le manifestazioni emotive possono essere quindi poco controllate e per questo i bambini risultano poi aggressivi e prepotenti, senza riuscire a calmarsi. Essi, infatti, hanno una scarsa capacità di autoregolazione sia emotiva che comportamentale, con difficoltà nei legami sociali, per la mancanza da parte dei genitori di offrirsi come guida nell’affrontare problemi ed emozioni (Gottman, 1996; Gottman, 1997). Sono quindi bambini con una ridotta capacità di autoregolazione, generalmente impulsivi, richiestivi ed egoisti.

Figura 2.1 Rappresentazione del Modello degli Stili Parentali di D.Baumrind.

Nella Figura 2.1 vediamo che le dimensioni di accettazione-sensibilità e controllo-esigenza si combinano (Larzelere, Morris, Harrist, 2013) lungo gli assi cartesiani, per dare origine ai quattro stili di genitorialità, precedentemente descritti. Da numerosi studi è emerso che lo stile autorevole è il più efficace, perché i genitori riescono a porsi come modello per i figli, dando loro limiti e una guida, con un buon equilibrio tra controllo e indipendenza. I genitori autorevoli si ingaggiano più spesso in scambi verbali e discussioni familiari con i figli e questo è un

ALTA RESPONSIVITÀ

BASSA RICHIESTIVITÀ ALTA

RICHIESTIVITÀ

BASSA RESPONSIVITÀ

AUTOREVOLE INDULGENTE

NEGLIGENTE

AUTORITARIO

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importante fattore per i bambini, per lo sviluppo della competenza sociale e di una maggiore recettività dell’influenza parentale. In generale, lo stile autorevole è quello che più spesso dalla ricerca viene associato a risultati positivi per lo sviluppo dell’individuo, con competenza psicosociale e buoni risultati accademici.

2.5 Problemi esternalizzanti ed internalizzanti

Per quanto riguarda le altre tipologie di stile, queste possono portare alla manifestazione, da parte del bambino, di problemi sia di carattere esternalizzante, che di tipo internalizzante.

Buonanno C. e collaboratori, in uno studio del 2010 (Buonanno et al., 2010), hanno evidenziato che, in relazione a particolari modalità di cura genitoriale, un bambino può reagire con specifiche risposte di coping. Tra le diverse forme di genitorialità problematica, i ricercatori portano l’attenzione su quelle definite da un eccessivo controllo ed intrusività nei confronti dei figli, oppure dal portare nei figli sensi di colpa, o ancora da trascuratezza verso gli stessi. I bambini che provengono da un contesto familiare controllante ed intrusivo tendono a fare previsioni “esagerate” (Buonanno et al., 2010) di quello che può essere l’esito di uno scambio con un altro individuo, con il timore di essere in qualche modo controllati da questi e perdere così la propria autonomia decisionale (Walling et al., 2007). Il soggetto impiega la strategia di coping evitante, per prevenire una possibile situazione di vincolo e imposizione da parte dell’interlocutore. Egli, quindi, mette in atto comportamenti ostili e sospettosi verso gli altri, con diffidenza e a volte reazioni violente (Barber et al., 1994). Questa situazione può essere inoltre aggravata dal temperamento del bambino. Se infatti egli è iper-timido, ipersensibile, o ha un’emotività disregolata o iperattività, l’interazione genitore-figlio ne può risentire e può indurre i genitori ad acquisire una modalità di gestione basata su controllo e critica frequente ed eccessiva (Barber, 2002; Mills et al., 2007; Walling et al., 2007). Se invece il bambino ha fatto una pervasiva esperienza di colpevolizzazione, ingiusta e mortificante, la tendenza è quella di cercare di rilevare chiare regolarità in eventi e situazioni per evitare il più possibile rimproveri. Egli, infatti, ripone molta attenzione a qualunque possibile segnale di errore, con conseguente difficoltà nel prendere decisioni per timore dell’errore e del rimprovero. Egli, quindi, è propenso ad assumere atteggiamenti di sfida, opposizione e provocazione verso le autorità (Mancini et al., 2009). Per quanto riguarda il bambino che ha subito trascuratezza da parte delle figure che dovevano prendersi cura di lui, con abbandoni e assenza di guida, egli sarà un adulto che tenderà a svincolarsi dalle regole, con sfiducia nei confronti delle autorità e

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cercherà la soddisfazione dei propri desideri. È un soggetto che mostra intolleranza nei confronti della frustrazione, con impulsività ed atti dettati dall’egoismo. Allo stesso tempo però si tratta di un soggetto con un forte desiderio di inserirsi in un legame sicuro e stabile con qualcuno (Barber et al., 1994); questo può portare però a tentativi di controllo manipolatorio e ipervigilità nei confronti di qualsiasi segnale di disattenzione da parte dell’altro, per il timore di perdere questo legame. Infine, vi sono i genitori che tendono a deresponsabilizzarsi, cioè dedicano tempo e protezione al figlio ma non vi affiancano il controllo e la funzione di guida per esso (Barber et al., 1994). Essi non sopportano doveri, impegni e richieste legate a regole comuni, rispondendo con l’evitamento. In conclusione, è possibile rilevare come uno stile di parenting disfunzionale può portare allo sviluppo nel bambino di problemi di tipo esternalizzante, accentuati anche dalla sensibilità personale. Per il bambino, il fatto di aver vissuto determinate esperienze di cura genitoriale, porta all’impiego di comportamenti per compensare eventuali mancanze, come ad esempio comportamenti controllanti per cercare finalmente di assicurarsi una relazione dove è amato e curato, o di precoce rinuncia ad ogni speranza di accudimento (Buonanno et al., 2010). Vediamo che lo stile di genitorialità autorevole è quello che, secondo studiosi, psicologi e educatori, permette maggiormente all’adulto di porsi come guida e riferimento per i figli.

2.5.1 Disturbo da Stress Post-Traumatico (PTSD)

Lo stile d’attaccamento non sicuro è stato indagato essere un predittore significativo per lo sviluppo di sintomatologia postraumatica in bambini che hanno vissuto in un contesto di maltrattamento, o un evento particolarmente traumatico (Huang, 2020). Un contesto trascurante, in cui un soggetto vive la propria infanzia, influenza in maniera significativa lo sviluppo del legame d’attaccamento con i caregiver, favorendo nel genitore l’impiego di stili che non danno un senso di sicurezza e protezione al bambino. Un trauma nell’infanzia può riguardare forme di abuso fisico, abuso psicologico, sessuale o trascuratezza (Butchart et al., 2006). Esso è il fattore che negli individui, soprattutto nei più fragili, può determinare una forte difficoltà nella fase di riadattamento dopo l’evento traumatico, per scarsa fiducia nei confronti delle figure d’attaccamento, nella possibilità di instaurare con esse un legame sicuro e nello sviluppo di efficaci strategie di coping verso il trauma (Ogle C.M. et al., 2015). Haung e collaboratori (Huang et al., 2020) hanno condotto uno studio per esaminare l’eventuale associazione esistente tra stile d’attaccamento insicuro dell’adulto, abilità di mentalizzazione

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