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Da Corte a Ufficio Smaltimento: ascesa e declino della “Suprema” - Judicium

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Academic year: 2022

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1 BRUNO SASSANI

Da Corte a Ufficio Smaltimento: ascesa e declino della “Suprema”.

Si dice che, una volta, a scrivere norme delicate e complesse come quelle che sostanziano i codici di procedura e le relative modifiche fossero misteriosi studiosi, consapevoli (naturalmente) di istanze socio-politiche ma comunque in grado di tradurre in soluzioni tecniche quelle istanze. Si dice ancora che una volta esistesse un certo coordinamento tra foro, accademia, magistratura per ottenere alla fine un prodotto ponderato ed equo. Forse però è leggenda perché l’osservatore attuale sperimenta da un po’ di tempo modifiche processuali ideate da qualche corporazione di settore e puntualmente eseguite, senza dibattito, dal legislatore di turno. E così, mentre le banche vanno scrivendo la loro disciplina dell’esecuzione forzata, i vertici della Corte Suprema “si sono scritti” la loro disciplina del giudizio di cassazione. Sempre brandendo lo stesso, consolidato slogan: efficienza e accelerazione di qualcosa che “se non va, è colpa della legge”

(nonché della “litigiosità”, boutade che ignora il fatto che la suddetta litigiosità affonda in fattori profondi e abbastanza seri da relegare l’ombra dei cattivi a capo espiatorio).

Per inciso: l’osservatore di quest’ultimo parto legislativo gode dell’ulteriore privilegio di sperimentare la novità della normativa “carsica”, cioè di una normativa che non si vede nel decreto legge, ma che scorre nascosta per sfociare a valle nella legge di conversione.

Il giudizio di cassazione viene rimodellato di continuo. Il decreto legislativo n.

40/2006 vorrebbe porre un punto fermo ma sortisce l’esito opposto: abrogazione precipitosa dei “quesiti”, voluti proprio dalla Corte ma gestiti in modo letteralmente sconsiderato; goffi tentativi di aggirare l’art. 111 cost. con filtri che, nel migliore dei casi, non filtrano niente; in cauda distruzione dello storico presidio di ragionevolezza della funzione che era il vecchio testo del n. 5. Ma

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2 siccome al peggio non v’è limite, al risveglio di una di queste mattinate autunnali,

la Cassazione si è scoperta bruscamente degradata da Corte ad Ufficio di smaltimento. Smaltimento di rifiuti evidentemente, perché questa è la qualifica plausibile della generalità dei ricorsi da trattarsi senza avvocati e da decidersi con gli standard motivazionali dell’ordinanza. La procedura cuce sul giudice di legittimità una nuova divisa investendolo principaliter della funzione di gestire il deflusso dei ricorsi per cassazione. Dove “ricorso” sta per “abuso presunto” del diritto di impugnazione.

Intendiamoci. L’adunanza in Camera di consiglio sperimentata negli ultimi anni ha dato prova di essere un buon congegno, miglior tutela del principio del contraddittorio che la procedura della pubblica udienza. Lo sanno gli avvocati che, ricevendo venti giorni prima la c.d. Relazione, sono in grado di focalizzare le loro repliche, laddove la solenne e polverosa udienza pubblica dà normalmente luogo ad un dibattito alla cieca, nell’ignoranza degli eventuali punti decisivi della controversa come individuati dal giudice. A dispetto dell’identità di nome, la Camera di consiglio che emerge dalla nuova legge è però oggi un’altra cosa.

Niente più “adunanza” (se piace chiamare così una udienza semplificata) ma solo camera di decisione: nessuna preliminare attività di confronto ma diretta fase decisionale (salvi i casi di partecipazione del difensore, octroyée per generosa concessione presidenziale). E, visto il clima di modernizzazione telematica, se ne può immaginare (suvvia, basta una norma regolamentare) la sua trasformazione in teleconferenza, con gran guadagno della produttività visto che, senza la futile presenza dell’avvocato, si potrebbe partecipare alla camera in vestaglia, appunto, ... da camera, direttamente e comodamente dalla propria scrivania a Napoli, Firenze, Catania o Pieve di Cadore. Il che, a pensarci bene, darebbe un contentino anche ai nostalgici delle Cassazioni regionali.

Problemi più seri? Confusamente ne intuisco vari; distintamente (per ora) ne vedo due.

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3 Il primo ha un valore di principio ed è l’esasperazione del contrasto con l’art. 6

CEDU. Nell’insieme non siamo molto sensibili al “feticcio” della pubblicità dell’udienza (che la legge 353/90 aveva già di fatto espulso dalle fasi di merito), ma il suo sostanziale azzeramento nel giudizio di legittimità passa decisamente il segno.

Il secondo è la ulteriore perdita di effettività dell’art. 384 c. 3 del codice, cioè di quella normiciattola che ricorda al giudice che l’obbligo di rispettare il principio del contraddittorio non è affare solo delle parti ma si impone anche a lui, che non può decidere su questione non posta ad oggetto di discussione.

Probabilmente nella foga di fare della camera di consiglio un grande inceneritore di ricorsi, non si è immaginato neppure lo spazio per la decisione nel merito;

poiché però è inevitabile che qualche accoglimento senza rimessione a pubblica udienza si abbia lo stesso, è inevitabile che ne segua anche qualche decisione nel merito. Con il che ci si avvia a decisioni sorde alle esigenze di un buon giudizio di merito, posto che le memorie ex art. 178 sono decisamente poco adatte alla bisogna e il luogo proprio per l’eventuale indicazione della questione dovrebbe essere proprio il momento del contatto parti-giudice. E così una norma già poco applicata (perché ancora poco sentita nella cultura tipica del giudice medio) rischia di scomparire con la scomparsa della parte dalla camera di consiglio.

Per istintiva diffidenza verso l’uso retorico dell’incostituzionalità non sono incline ad invocarla a piè sospinto. Stavolta però, come avvocato, provo un brivido a pensare che il giudice può discrezionalmente consentirmi o non consentirmi di spiegare a voce quel che potrei aver bisogno di dire. Vedo in ciò un disinvolto abuso della legge ordinaria che contrasta con le garanzie minime di giusto processo, qualunque sia la latitudine che si voglia dare a questo concetto.

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