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STRATEGIE PROCESSUALI ED ONERE DELLA PROVA NEL GIUDIZIO DI RESPONSABILITÀ DELL’AVVOCATO

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STRATEGIE PROCESSUALI ED ONERE DELLA PROVA NEL GIUDIZIO DI RESPONSABILITÀ DELL’AVVOCATO

Prof. Rocco Favale*

SOMMARIO: 1. La natura delle obbligazioni del professionista forense. – 2.

L’inadempimento professionale. – 3. La regola complementare di responsabilità dell’art. 2236 c.c. – 4. La responsabilità professionale e le regole di distribuzione dell’onere della prova.

1. Il titolo della relazione coglie il fulcro del problema della responsabilità del professionista forense, allorquando si è persuasi che il profilo della distribuzione dell’onere della prova ha contribuito, assai volte in guisa determinante, ad esonerare il professionista dal risarcire i danni cagionati al cliente in conseguenza di comportamenti negligenti1.

Il circuito della responsabilità professionale dell’avvocato è sempre stato caratterizzato da una forma esplicita di “intangibilità”. La storia dei giudizi di responsabilità hanno testimoniato come gli errori del professionista forense fossero fuori dalla cittadella della responsabilità, o meglio impermeabili al risarcimento dei danni subiti dal cliente. Per questo non si poneva come una provocazione se da alcune parti si parlava, a proposito della responsabilità dell’avvocato, di “responsabilità senza danno”.

*Professore Straordinario di Diritto Privato Comparato presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi del Molise

1 In modo efficace, con riguardo alla distinzione fra obbligazioni di mezzi e di risultato, A. DI MAJO, Mezzi e risultato nelle prestazioni mediche: una storia infinita, in Corr. giur., 2005, p. 39, declama che «la distinzione, che è quella più impiegata dai giudici, ha valore prevalentemente sul terreno dell’onere della prova».

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2 La semplice soccombenza in giudizio non può essere intesa costantemente come conseguenza di una colpa del difensore, altrimenti – come declamava la Corte partenopea quasi centocinquant’anni fa – «l’ufficio dell’avvocato si tramuterebbe in un uffizio aleatorio e pericoloso che niuno sì di leggieri sarebbe per imprendere»2.

La responsabilità del professionista richiama la distinzione fra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato. Nello classico studio di Mengoni si precisa che «in qualunque obbligazione il bene dovuto è qualche cosa oltre l’atto del debitore. Sennonché, nelle obbligazioni c.d. di mezzi (o di diligenza), l’oggetto del diritto di credito non è senz’altro una certa modificazione o la conservazione della situazione-presupposto del rapporto, e quindi l’effettivo soddisfacimento dell’interesse primario del creditore, ma soltanto la produzione di una serie più o meno ampia di mutamento intermedi ai quali è condizionata la possibilità di tale soddisfacimento. Ciò che si attende dal debitore, affinché l’obbligazione possa dirsi adempiuta, è un comportamento idoneo a dare principio ad un processo di mutamento (o di conservazione), l’esito del quale dipende peraltro da condizioni ulteriori, estranee alla sfera del vincolo»3.

La giurisprudenza in maniera costante qualifica la prestazione del professionista come obbligazioni di mezzi, «in quanto il professionista, assumendo l’incarico, si impegna a prestare la propria opera intellettuale, solo al fine di raggiungere il risultato sperato ma non a conseguirlo»4.

Mentre il debitore di obbligazione di risultato ha il dovere di garantire la realizzazione dell’interesse perseguito dal creditore, quello di obbligazione di mezzi è tenuto soltanto ad un’attività diligente orientata a soddisfare l’interesse del creditore5. Di conseguenza, l’inadempimento professionale non

2 Così App. Napoli, 27 agosto 1866, in Giur. it., 1866, II, c. 465.

3 L. MENGONI, Obbligazioni «di risultato» e obbligazioni «di mezzi», in Riv. dir. comm., 1954, I, p. 189.

4 Cass., 25 marzo 1995, n. 3566, in Rep. Foro it., 1995, voce Professioni intellettuali, n. 123.

5 Solo per citare alcune decisioni: Cass., 12 settembre 1970, n. 1386, in Mass. Giust. civ., 1970, p. 758;

Cass., 10 dicembre 1979, n. 6416, in Mass. Giust. civ., 1979, p. 2837; Cass., 4 dicembre 1990, n.

11612, in Rep. Foro it., 1990, voce Professioni intellettuali, n. 115; Cass., 18 novembre 1996, n. 10068, in Dir. econ. ass., 1998, p. 616 ss. con nota di D. DE STROEBEL, Responsabilità professionale dell’avvocato;

Cass., 14 agosto 1997, n. 7618, in Foro it., 1997, I, c. 3570; Cass., 8 agosto 2000, n. 10431, in Rep.

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3 segue automaticamente al mancato raggiungimento del risultato utile avuto di mira dal cliente, ma «deve essere valutato alla stregua della violazione dei doveri inerenti allo svolgimento dell’attività professionale e, in particolare, del dovere di diligenza, da intendersi, in applicazione del principio fissato dall’art.

1176, comma 2, c.c., in relazione alla natura dell’attività esercitata come prestazione di quella diligenza media, che un professionista di preparazione professionale e di attenzione media deve nell’espletamento dell’opera in favore del proprio cliente»6.

Con riferimento al difensore la S. Corte declama che lo stesso «assume obbligazione di eseguire la propria prestazione compiendo gli atti ed esponendo le ragioni del cliente, in vista di ottenerne l’esame e l’accoglimento e oggetto della obbligazione, cui si commisura il grado di diligenza richiesto ed in mancanza quello della colpa, appunto il compimento degli atti e l’esposizione delle ragioni nella loro articolazione di fatto e di diritto, non però la consecuzione, da parte del cliente, del risultato da questi atteso, cioè il riconoscimento del diritto vantato o il disconoscimento di quello contro di lui fatto valere»7.

La natura di obbligazione di mezzi della prestazione professionale incide sul duplice profilo dell’adempimento e della responsabilità per inadempimento8, ove una conseguente disciplina dell’onere della prova simile a quella della responsabilità aquiliana9.

Foro it., 2000, voce Professioni intellettuali, n. 185; Cass., 26 febbraio 2002, n. 2836, in D&G, 2002, N.

12, p. 42 ss. con nota di M. ROSSETTI, Sulla responsabilità dell’avvocato pesa la prova del nesso causale, e in Nuovo dir., 2002, p. 515 ss., con nota di A. SAGNA, La responsabilità dell’avvocato per tardiva proposizione dell’appello; Cass., 14 novembre 2002, n. 16023, in Danno resp., 2003, p. 256, con nota di A. FABRIZIO-SALVATORE, L’avvocato e la responsabilità da parere.

6 Cass., 18 maggio 1988, n. 3643, in Resp. civ. prev., 1989, p. 320; Cass., 14 novembre 2002, n. 16023, cit., ove si ribadisce che l’adempimento professionale «deve essere rapportato alla natura dell’attività esercitata, onde la diligenza da impiegare nello svolgimento dell’opera prestata in favore del cliente è quella sulla quale questi può fare affidamento secondo un criterio di normalità, id est la diligenza posta nell’esercizio della propria attività dal professionista di preparazione tecnica e d’attenzione medie».

7 Cass., 8 maggio 1993, n. 5325, in Juris-Data.

8 G. OSTI, Revisione critica della teoria sulla impossibilità della prestazione, (1918), in Scritti giuridici, I, Milano, 1973, p. 123, mette in evidenza chiaramente la relazione fra l’adempimento e l’inadempimento.

9 A. DI MAJO, Obbligazioni in generale, Bologna, 1985, p. 457; C.M. BIANCA, Dell’inadempimento delle obbligazioni, in Comm. Cod. civ. Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1967, p. 25.

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4 Il profilo dell’adempimento richiama il contenuto del rapporto obbligatorio nel quale esiste una diversa tipologia di prestazioni a seconda che il risultato perseguito dal creditore entri o meno nel contenuto dell’obbligazione. Come si afferma tradizionalmente, la prestazione «in certi casi deve realizzare compiutamente il risultato cui ha interesse il creditore, cosicché, se tale risultato non si realizza, vi è inadempimento. In altri casi invece il risultato cui si dirige l’interesse del creditore resta al di fuori del contenuto dell’obbligazione, cosicché la sua mancata realizzazione non costituisce da sola inadempimento: la prestazione consiste allora in un’attività fornita di determinate caratteristiche, diretta verso quel risultato»10.

La diversa tipologia di prestazione non preclude l’applicabilità unitaria della regola contenuta nell’art. 1218 c.c. nell’ipotesi di inadempimento. Da un lato, il creditore deve dimostrare che la prestazione non è stata adempiuta, dall’altro, il debitore può non rispondere dell’inadempimento se dimostra di non essere stato in colpa, ossia che l’inadempimento è conseguenza di impossibilità della prestazione per causa a lui non imputabile11.

In un tentativo in direzione unificatrice si mette in evidenza come nelle obbligazioni professionali esista un forte collegamento fra l’aleatorietà del risultato e il profilo della causa non imputabile, ove l’esonero da responsabilità del professionista non è esclusivamente conseguenza dell’esatto adempimento12.

In questo modo, la mancata realizzazione del risultato perseguito è per forza di cose conseguenza dell’inadempimento del professionista, il quale può essere

10 G. CATTANEO, La responsabilità del professionista, Milano, 1958, p. 48.

11 L. MENGONI, Obbligazioni «di risultato» e obbligazioni «di mezzi», cit., p. 366 ss.; G. COTTINO, L’impossibilità sopravvenuta della prestazione e la responsabilità del debitore, Milano, 1955, p. 81 ss.; M.

FORTINO, La responsabilità civile del professionista. Aspetti problematici, Milano, 1984, p. 45; U. BRECCIA, Le obbligazioni, in Tratt. dir. priv. Iudica e Zatti, Milano, 1991, p. 139.

12 M. FORTINO, La responsabilità civile del professionista, cit., p. 64, precisa che «l’aleatorietà del risultato infatti, in queste ipotesi [obbligazioni professionali], è legata a fattori eterogenei che incidono come causa non imputabile nel giudizio di responsabilità, ma non ricade sulla nozione di esatto adempimento o escludendo uno dei due elementi che lo compongono, l’interesse del creditore, o, peggio, deformando quest’ultimo a tal punto da sostenere che il cliente ha interesse ad una buona cura, ma non alla guarigione o al miglioramento delle sue condizioni di salute, entro i limiti segnati dalle scoperte della ricerca scientifica».

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5 esonerato dimostrando un’intima relazione fra inadempimento e causa a lui non imputabile. «Ciò che è importante ribadire è che l’inadempimento si verifica con il mancato raggiungimento del risultato, e questo forma l’unico oggetto di prova del cliente mentre la dimostrazione della diligenza impiegata e della causa non imputabile grava sul professionista alla stregua di un comune debitore»13. Se così è, «il mutamento di prospettiva non è di poco conto.

L’obbligazione del medico (così come quella dell’avvocato) rientra nella disciplina ordinaria delle obbligazioni. È possibile forse identificare un’alterazione nel concetto di causa non imputabile, che appare diversa rispetto alla comune nozione. La determinazione di essa però è strettamente connessa al problema della responsabilità e all’incidenza che su questo hanno il criterio di diligenza e gli obblighi di conoscenza, perizia ed informazione»14.

Queste posizioni critiche assunte dalla dottrina hanno sollecitato gli sforzi, da una parte, a verificare il carattere complesso della prestazione professionale, dall’altra, a riconfigurare15 la distinzione fra obbligazioni di mezzi e di risultato. Nel primo senso16 vanno lette quelle decisioni che individuano in seno alla prestazione professionale anche obbligazioni di risultato17. Nel comparto medico soprattutto la divisione della prestazione professionale nei due tipi di facile e di difficile esecuzione, fondata sulla relazione probabilistica

13 M. FORTINO, op. cit., p. 65.

14 M. FORTINO, op. cit., p. 65. Nella medesima scia si declama che l’adempimento del professionista forense non è nella «buona condotta della causa» ma nella vittoria del giudizio che corrisponde all’interesse del cliente. Il mancato risultato seppure costituisce inadempimento non provoca immediatamente la responsabilità del professionista, la quale seguirà alla valutazione della sua condotta professionale (A. PERULLI, Il lavoro autonomo. Contratto d’opera e professioni intellettuali, in Tratt. dir civ.

comm. Cicu e Messineo, continuato da Mengoni, Milano, 1996, p. 454 s.).

15 M. FRANZONI, La responsabilità nelle obbligazioni di mezzi e nelle obbligazioni di risultato, in Resp. com.

impr., 1997, 320, discorre di «processo di ricatalogazione».

16 Secondo Cass., 6 febbraio 1998, n. 1286, in Resp. civ. prev., 1998, p. 650, la tradizionale bipartizione obbligazioni di mezzi/obbligazioni di risultato sacrifica in maniera intollerabile la posizione del cliente.

17 Alcune decisioni ammettono la possibilità di modificare il contenuto del rapporto obbligatorio condizionando il diritto all’onorario del professionista al raggiungimento di un risultato positivo per il cliente (Trib. Messina, 11 febbraio 1984, in Giur. merito, 1985, p. 581; Trib. Napoli, 17 febbraio 1955, in Dir. giur., 1955, p. 170).

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6 fra condotta diligente e assenza di danno, testimonia uno sforzo diretto verso una migliore tutela probatoria della controparte18.

2. La discriminazione fra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato incide sulla configurazione dell’inadempimento, del nesso causale fra inadempimento e danno nonché sulla distribuzione dei carichi probatori19.

La dottrina tradizionale mette in evidenza l’intima relazione che corre fra contenuto dell’obbligazione e regola della responsabilità del debitore: «se inadempimento significa mancanza dell’adempimento, prima di ogni altra cosa dovrà allo scopo anzidetto, determinarsi in cosa l’adempimento consista: dovrà determinarsi, cioè, quale sia la prestazione che di ogni singola obbligazione è oggetto»20.

Nel caso del professionista forense, la sua prestazione principale consiste nell’attività eseguita con diligenza ordinaria, ossia la diligenza di un professionista di preparazione e di attenzione medie21.

La dottrina dominante individua nella norma contenuta nel secondo comma dell’art. 1176 c.c. una specificazione del principio generale statuito nel primo comma del medesimo articolo che impone al debitore di usare nell’adempimento la diligentia ordinaria22. Nella medesima direzione la

18 Secondo parte della dottrina «le obbligazioni del professionista non possono più essere concepite in unico blocco, come prima avveniva, quali obbligazioni di mera diligenza: nei casi in cui, attraverso dati statistici o di esperienza, è possibile ragionevolmente attendersi dal professionista un dato risultato, allora il rischio del mancato raggiungimento di tale risultato grava sul professionista con ogni conseguenza relativa» (M. COMPORTI, in La giurisprudenza per massime e il valore del precedente con particolare riguardo alla responsabilità civile, Padova, 1988, p. 352).

19 A. PERULLI, Il lavoro autonomo, cit., p. 568 ss.; F. GALGANO, Contratto e responsabilità contrattuale nell’attività sanitaria, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1984, p. 714.

20 G. OSTI, Revisione critica della teoria sulla impossibilità della prestazione, cit., p.123.

21 Cass., 29 novembre 1973, n. 3298, in Foro it., 1974, I, c. 678, declama che « la diligenza che il libero professionista deve porre nello svolgimento dell’attività professionale in favore del cliente è quella media:

la diligenza, cioè, del professionista di preparazione media e di attenzione media nell’esercizio della propria attività; in definitiva, la diligenza che, a norma dell’art. 1176, 2° comma, c.c., deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata».

22 M. GIORGIANNI, Buon padre di famiglia, in Noviss. dig. it., II, Torino, 1958, p. 598; C.A. CANNATA, Le obbligazioni in generale, in Tratt. dir. priv. Rescigno, 9, Torino, 1984, p. 58, ove la formula generale contenuta nel primo comma dell’art. 1176 c.c. costituisce modello esclusivo anche nel caso di imperitia, per cui il bonus parterfamilias, fondato su valori medi, «verrà conservato in ogni altra applicazione: quella del 2° comma, e quant’altre se ne possano avere nel concreto lavoro di determinazione dei doveri sussidiari che danno, di volta in volta, capo alla nozione di colpa»; D. CARPONI SCHITTAR, Il buon padre di famiglia: un parametro in via di superamento (appunti a margine dell’articolo 1176 del codice civile), in Temi, 1976, p. 449 ss.; G. VISINTINI, Inadempimento e mora del debitore, cit., p. 181 s.; C.M. BIANCA,

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7 giurisprudenza conferma che il prestatore d’opera intellettuale deve osservare

«nell’adempimento delle obbligazioni inerenti alla sua attività professionale, la diligenza del buon padre di famiglia»23.

Ma la natura tecnica della prestazione incide sulla configurazione della diligenza di cui al 2° comma dell’art. 1176 c.c., richiamando il concetto di imperizia professionale, avente contenuto variabile, «da accertare in relazione ad ogni singola fattispecie rapportando la condotta effettivamente tenuta dal prestatore alla natura e specie dell’incarico professionale ed alle circostanze concrete in cui la prestazione si è svolta»24.

Il richiamo delle regole della professione comporta la creazione di un fenomeno associativo dell’idea di diligenza con quella di perizia25. Eppure le due nozioni, anche se funzionalmente orientate al momento dell’adempimento dell’obbligazione, possiedono ambiti distinti, comprovato dalla prassi che presenta casi di professionisti di grande competenza ma negligenti nell’esercizio dell’attività e di professionisti non di elevata perizia ma molto diligenti nell’attività26.

Diritto civile, IV, cit., p. 95; A. PERULLI, Il lavoro autonomo, cit., p. 581. In senso critico, U. NATOLI, L’attuazione del rapporto obbligatorio, II, Il comportamento del debitore, in Tratt. dir. civ. comm. Cicu e Messineo, Milano, 1984, p. 89 ss. Da ultimo cfr. G. D’AMICO, Negligenza, in Disc. dig. priv., Sez. civ., XII, Torino, 1995, p. 43 ss.

23 Cass., 11 agosto 1990, n. 8218, in Rep. Foro it., 1990, voce Professioni intellettuali, n. 114; Cass., 7 maggio 1988, n. 3389, in Dir. prat. ass., 1989, p. 497; Cass., 3 dicembre 1974, n. 3957, in Rep. Foro it., 1974, voce Professioni intellettuali, n. 23. Per la giurisprudenza di merito, cfr. Pret. Bologna, 12 maggio 1970, in Giur. it., 1972, I, 2, c. 54, con nota di C. LEGA, Obblighi contrattuali e doveri deontologici dell’avvocato, ove si sostiene che «in ordine alla responsabilità del prestatore d’opera intellettuale è indubbiamente invocabile l’art. 1176, 2° co., c.c., che disciplina un’applicazione particolare del principio generale contenuto nel 1° co. della stessa norma e cioè è rilevante l’inosservanza della normale diligenza, valutata con riguardo alla natura dell’attività esercitata»; App. Milano, 27 marzo 1981, in Resp. civ.

prev., 1981, p. 432, secondo cui «l’inadempimento consiste cioè nella inosservanza della diligenza prescritta dall’art. 1176 comma 2° c.c. che è la normale diligenza con riguardo alla natura dell’attività esercitata, inosservanza che si risolve nella colpa anche lieve, eccetto che si tratti di prestazioni di speciale difficoltà, nel qual caso la diligenza deve essere valutata con minor rigore per modo che il professionista risponde solo della colpa grave oltre che del dolo, ai sensi dell’art. 2236 c.c.» (p. 433);

Trib. Benevento, 18 gennaio 1982, in Giur. merito, 1983, p. 620

24 Cass., 15 novembre 1982, n. 6101, in Rep. Foro it., 1982, voce Professioni intellettuali, n. 43; Cass., 9 novembre 1982, n. 5885, in Arch. civ., 1983, p. 496; Cass., 23 maggio 1975, n. 2052, in Giust. civ., 1975, I, p. 1485; Cass., 12 maggio 1970, n. 1386, ivi, 1971, I, p. 627.

25 G. CATTANEO, La responsabilità del professionista, cit., p. 57.

26 In questo senso C. LEGA, Le libere professioni intellettuali nelle leggi e nella giurisprudenza, cit., p. 955 s., giusta il quale precisa che «la perizia è il possesso di nozioni tecniche acquisite con lo studio e l’esperienza, nonché la capacità di metterle in atto al momento opportuno, mentre la diligenza è l’insieme di qualità soggettive (zelo, cura, premura, attenzione, accortezza, scrupolosità, interesse ed altre

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8 Non v’è dubbio che la nozione di diligenza, nell’ambito professionale, debba trovare numerosi punti di contatto con l’altra di perizia, tuttavia una bipartizione fra diligenza-prudenza e perizia deve essere imposta sul piano pratico ai fini applicativi della norma di cui all’art. 2236 c.c. limitata alla sola perizia.

I giudici della responsabilità si orientano a qualificare maggiormente la diligenza professionale allorquando volgono l’attenzione al bagaglio delle cognizioni tecniche; in questo caso discorrono di diligenza «scrupolosa e superiore alla media»27. Siffatto modello rigoroso rimane all’unisono con la formula generale del buon padre di famiglia, il cui contenuto non richiama l’idea della «media» ma piuttosto quella più elevata di «notevole», meglio orientata a salvaguardare gli interessi del creditore28.

Alcuni studiosi sottolineano come l’attività professionale modifichi in modo rilevante lo standard di diligenza del comune debitore in quanto esige un criterio valutativo più rigido29, meglio compatibile con gli interessi

analoghe) che permettono l’applicazione delle nozioni tecniche (perizia) nel modo più adeguato alla fattispecie[...]. Invero nella prassi professionale si può incontrare un professionista dotato di grande competenza tecnica, ma che si comporta a volte senza dimostrare zelo, cura, interesse, scrupolo o attenzione, cioè negligentemente. Egli, dunque, è perito, ma non diligente. Al contrario vi può essere un professionista che non è dotato di grande perizia, eppure si comporta con molta diligenza, nel senso suaccennato».

27 In questi termini, Cass., 15 dicembre 1972, n. 3616, in Foro it., 1973, I, c. 1474, con riferimento alla professione sanitaria, esige che il medico «presti la sua attività con diligenza scrupolosa e superiore alla media, dovendo egli assumere in base al 2° comma dell’art. 1176 c.c., la figura del regolato ed accorto professionista».

28 M. GIORGIANNI, Buon padre di famiglia, in Noviss. dig. it., II, Torino, 1968, rist., p. 597, giusta il quale l’aggettivo bonus o diligens non richiama la media o la normalità, ma indica «un valore assoluto [...] che molto probabilmente l’uomo normale non riesce a raggiungere». V., da ultimo, per una esauriente ricognizione G. SANTORO, L’inadempimento, in La responsabilità civile. Responsabilità contrattuale. Il diritto privato nella giurisprudenza a cura di P. Cendon, Torino, 1998, p. 91 s.

29 F.D. BUSNELLI, Illecito civile, in Enc. giur. Treccani, XV, Roma, 1991, p. 9, sottolinea che «il riferimento all’uomo di media diligenza si risolve in una pura astrazione; e il criterio di valutazione della colpa che se ne vorrebbe trarre rischia di togliere alla colpa stessa ogni connotato di concretezza e di elasticità. Il pericolo è, allora, che non si pretenda da certi soggetti (per esempio, dotati di particolari competenze professionali) o in relazione a certe attività (per esempio, altamente specializzate) tutto lo sforzo di diligenza che sarebbe concretamente (anche se non astrattamente) esigibile; e che, viceversa, si pretenda da certi soggetti, o in relazione a certe altre attività, uno sforzo di diligenza concretamente non esigibile».

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9 perseguiti dal creditore nonché con il suo affidamento nell’attività discrezionale del professionista30.

Stabilito a cosa sia tenuto il professionista, si può passare al problema opposto della violazione dell’adempimento professionale. Il trend tradizionale non accosta mancato raggiungimento del risultato (per es.: vittoria in giudizio ovvero guarigione del paziente) e inadempimento dell’obbligazione professionale, per cui la perdita della causa non postula culpa in re ipsa e il parametro della diligenza di cui all’art. 1176 c.c. si pone come metro principale per la colpa professionale.

I giudici della responsabilità hanno sempre ripetuto in materia che

«l’inadempimento è costituito dalla violazione dei doveri inerenti allo svolgimento dell’attività professionale e non dal mancato raggiungimento del risultato»31.

La colpa del professionista è racchiusa in un corretto confronto fra il comportamento concretamente posto in essere da questi e il modello astratto del «buon professionista» che identifica la condotta normalmente idonea a raggiungere il risultato sperato dal cliente32. Siffatta nozione sintetizza lo scarto fra comportamento del professionista e regulae artis, le quali si elevano a parametro per valutare «a posteriori, se l’attività professionale concretamente posta in essere sia tale da poter configurare un corretto adempimento oppure un colposo inadempimento»33.

In questo quadro, ove al professionista si richieda un impegno di misura

30 Parte della dottrina sottolinea che la formulazione del 2° comma dell’art. 1176 c.c. è «assai infelice», perché si tratta «di un’affermazione, che, prescindendo dalle indicazioni offerte dalla Relazione sembra, piuttosto, accentuare il carattere di astrattezza del criterio generale malamente richiamato dal comma 1 e il fondamento (sia pure dal punto di vista di una oggettiva generalizzazione) essenzialmente soggettivo di esso, quasi ammonendo a prescindere, per lo meno in via generale, da ogni considerazione della particolare natura dell’attività, che costituisce il contenuto della prestazione, e dalle modalità, nelle quali essa in concreto deve essere esplicata» (U. NATOLI, L’attuazione del rapporto obbligatorio, II, cit., p. 93 s.).

31 Fra le tante, Cass., 12 settembre 1970, n. 1386, in Giust. civ., 1971, I, p. 627.

32 Cfr. M. CANTILLO, Le obbligazioni, II, in Giur. sist. civ. comm. Bigiavi, Torino, 1992, p. 558.

33 Trib. Napoli, 11 febbraio 1985, in Dir. giur., 1986, p. 1021; per la dottrina v., fra i tanti, G. GIACOBBE, Professioni intellettuali, cit., p. 1084; M. ZANA, Responsabilità del professionista, cit., p. 3; U. BRECCIA, La colpa professionale, cit., p. 2371 s.

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10 media, questi risponde per dolo nonché per colpa lieve34, mentre a fronte di problemi di speciale difficoltà, la norma contenuta nell’art. 2236 c.c. statuisce la responsabilità per culpa lata o dolo35.

La giurisprudenza della S. Corte già nell’ottocento respinge qualsiasi costruzione interpretativa diretta a costituire uno “statuto speciale” di favore nell’area della responsabilità del professionista intellettuale: quest’ultimo è responsabile per colpa ed esonerato solamente quando manchi quest’ultima o il rapporto di causalità tra fatto lesivo e danno subito36. Nell’area dell’attività professionale difensiva la giurisprudenza pone un discrimine fra l’attività esercitata in giudizio e la scelta della linea difensiva per sostenere le ragioni del cliente, al fine di sanzionare per colpa lieve solamente la prima37.

Una remota decisione della Corte di appello di Roma significativamente sintetizza i principi accolti da corti e tribunali autorevoli in materia di

34 Già Cass., 21 dicembre 1978, n. 6141, in Foro it., 1979, I, c. 4; Cass., 17 febbraio 1981, n. 969, in Resp. civ. prev., 1981, p. 747; Cass., 26 marzo 1990, n. 2428, in Giur. it., 1991, I, 1, c. 600; Cass., 11 agosto 1990, n. 8218, ivi, 1990, voce cit., n. 114.

35 Come si vedrà infra, la responsabilità per colpa grave è stata limitata da parte della dottrina e dalla giurisprudenza alla sola imperizia.

36 Con determinazione e chiarezza i giudici superiori declamano che «la teoria […] della irresponsabilità degli esercenti professioni liberali, tranne soltanto il caso di dolo o della colpa lata, è inaccettabile come non consentita dalla legge, sia che questa si osservi nel disposto degli artt. 1151 e seg., sia nell’art. 1746 cod. civ. In forza di queste disposizioni, qualunque fatto dell’uomo che arreca danno ad altri, obbliga colui, per colpa del quale è avvenuto, a risarcirlo anche se si tratti di semplice negligenza; e, qualunque sia la colpa in cui sia incorso il mandatario nella esecuzione del mandato, lo rende responsabile del danno che ne sia derivato, più o meno rigorosamente, secondo che il mandato sia retribuito o gratuito. A differenza dell’antico diritto, la legge non distingue; non sono permesse distinzioni di sorta; per la qual cosa non è dato creare alcuna dottrina speciale a benefizio dei professionisti. Ond’è che l’unica ragione legale per cui il magistrato può disapplicare in fatto le indicate disposizioni di legge consiste nell’assoluta esclusione della colpa, o del rapporto di causalità fra il danno lamentato ed il fatto che si designa come produttore del medesimo» (Cass. Firenze 12 luglio 1888, in Foro it., 1888, I, c. 980).

37 «In dritto è da ritenere che la questione, quale ora verte fra le parti, in sostanza è rivolta ad investigare il grado di dottrina legale e di attitudine forense dell’avvocato patrocinante intorno agli affari affidatigli dal cliente, il quale vorrebbe costituirsi giudice dell’opportunità e convenienza del sistema da quegli adottato nella direzione della causa, allo scopo di trarne una ragione di risarcimento di danni quando il successo non corrisponda all’aspettazione.

Che tale concetto basta enunciarlo perché ne sia fatta palese l’assurdità e la sconvenienza, imperocché se il patrocinante, al pari del mandatario, è tenuto pel dolo e per la colpa nella direzione della lite, non deve rispondere, sotto pena di lesa dignità personale, per quanto si attiene alla scelta dei mezzi per sostenere le ragioni del suo cliente, ed all’attitudine sua nel propugnarle, qualunque ne sia il successo; la fiducia che in lui ripone il cliente è la migliore giustificazione morale del suo operato, a questi debbe a sé stesso imputare se, potendo ripromettersi da altra scelta migliore assistenza, l’esito non abbia corrisposto ai suoi desideri. Che, ammesso un contrario sistema, infinite sarebbero nei giudizi le indagini retrospettive, ed interminabili le discussioni su giudizi compiuti, con grave perturbazione dei pubblici e privati interessi»

(App. Torino 26 marzo 1878, in Foro it., 1878, I, c. 1152). In questa scia si pone App. Catania, 1°

ottobre 1883, in Foro it., 1883, I, c. 1177 s.; App. Messina, 25 giugno 1893, in Foro it., 1893, I, c. 1077 s.

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11 negligenza forense. Ma prima di esplicitarli, i giudici romani sentono il bisogno di precisare i caratteri peculiari dell’attività professionale del procuratore legale, il quale non è «un agente d’affari qualunque», ma un soggetto professionista libero e indipendente che, sotto il profilo giuridico della trattazione della causa, è un vero e proprio «padrone», che risponde del suo operato «se non del dolo e della colpa lata, che a quello si equipara»38.

I principi enunciati si consolidano quando poco più tardi la giurisprudenza declama che «il mandato ad lites non espone il procuratore a responsabilità per modo di condurre la lite e per le sue opinioni intorno a punti di diritto, ma che questi è responsabile per imperizia o negligenza trascurando di fare quanto la legge prescriva in forma perentoria ed esponendo il mandante alla perdita del diritto. Né può ammettersi irresponsabilità per siffatte omissioni, nelle quali grave è la colpa, sia per supina ignoranza, sia per negligenza inescusabile»39.

La decisione appena menzionata spiega come l’omissione, negli anni successivi, secondo i giudici della responsabilità, diventa il paradigma privilegiato per supportare la responsabilità del professionista forense: «il procuratore può nuocere in omittendo non in committendo»40.

I giudici della Cassazione affinano la formula della colpa professionale discorrendo di errore come frutto colposo di «evidente incuria o di palese insipienza»41. In altre decisioni, la giurisprudenza adopera locuzioni simili,

38 «L’opera del procuratore legale, come quella dell’avvocato, è principalmente intellettuale. Nella interpretazione e applicazione della legge egli è libero e indipendente. Nessuno può chiamarlo a rendere conto della sua opinione giuridica. Quegli che lo scelse di sua spontanea volontà, e si servì del patrocinio di lui, accettò necessariamente fin da principio cotesta condizione inerente al mandato ad lites. Per la qual cosa è ovvio come il cliente non ha alcun diritto di obbligare l’avvocato e il procuratore a seguire un sistema di difesa piuttosto che un altro. Quest’ultimo per la parte giuridica diviene il padrone della causa finché non gli sia revocato il mandato» (App. Roma 28 febbraio 1888, in Foro it., 1888, I, c. 600).

39 Cass. Roma 11 giugno 1894, in Foro it., 1894, I, c. 816.

40 Cass. Regno, 5 luglio 1927, n. 2520, in Rep. Foro it., 1927, voce Avvocato e procuratore, n. 22; anche Cass. Regno, 8 febbraio 1927, in Rep. Foro it., 1929, voce Avvocato e procuratore, n. 126.

41 In questo senso due massime significative della S. Corte: «Non ogni errore in cui possa incorrere l’avvocato od il procuratore nell’esercizio del suo mandato, come in genere non ogni errore professionale, può determinare responsabilità, ma quello soltanto che si manifesti colposo frutto di evidente incuria o di palese insipienza» (Cass. Regno, 10 gennaio 1938, n. 60, in Rep. Foro it., 1938, voce Avvocato e procuratore, n. 35); «Non ogni errore in cui possa incorrere l’avvocato od il procuratore nell’esercizio del suo mandato, come in genere non ogni errore professionale, può determinare responsabilità, bensì quello soltanto che si manifesti colposo frutto di evidente incuria o di palese insipienza» (Cass., 13 aprile 1939, n. 1201, in Giur. it., 1940, I, 1, c. 152; anche App. Milano, 9 dicembre 1939, in Rep. Foro it., 1940, voce

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12 come «insopportabile negligenza» o «grossolano e inescusabile errore di apprezzamento»42, «supina ignoranza» o «innegabile incuria»43, «supina ignoranza» o «manifesta incuria»44, «grave negligenza»45, «errori o negligenze inescusabili»46.

Al contrario, non è responsabile l’avvocato quando l’errore sia dovuto ad un dubbio orientamento giurisprudenziale47. In questo senso, la Corte di Appello dell’Aquila ha escluso la responsabilità dell’avvocato per aver seguito un’interpretazione di una nuova legge, in conseguenza della quale il cliente è rimasto soccombente nel giudizio. Questa decisione si pone in armonia con la dicotomia che la vecchia giurisprudenza statuiva fra direzione della lite e scelta della strategia difensiva48. La questione in controversia era se, a fronte di un decreto ingiuntivo ottenuto in base a titolo di credito, il deposito poteva eseguirsi anche dopo la notificazione dell’atto di opposizione. Il difensore sceglie questa via che porta alla soccombenza in giudizio del cliente.

Il commentatore della decisione, in maniera persuasiva, mette in evidenza come pur partendo dalla tesi dominante in giurisprudenza, secondo la

Avvocato e procuratore, n. 29; Cass., 23 luglio 1942, n. 2146, in Rep. Foro it., 1942, voce Avvocato e procuratore, n. 23). La dottrina mette in evidenza che espressioni così forti non possono riferirsi che alla colpa grave: «la corte ha fissato, con assoluta precisione, che essa può essere determinata soltanto da incuria evidente e da insipienza palese: i sostantivi e gli aggettivi usati hanno un valore niente affatto formale, giacché la incuria evidente è una voluta trascuranza dei propri doveri professionali che ha tanta luce da non potersi non vedere, sicché non è concepibile essa sia sfuggita a chi se ne è reso colpevole; la insipienza è mancanza delle nozioni più elementari indispensabili all’esercizio della professione, che brilla nella sua luce negativa» (R. PIZZICARIA, Responsabilità dell’avvocato e procuratore per errore professionale, in Giur. it., 1940, I, 1, c. 152).

42 Cass. Regno, 7 maggio 1930, n. 1586, in Rep. Foro it., 1930, voce Avvocato e procuratore, n. 78.

43 Trib. Modena, 24 giugno 1931, in Temi em., 1931, p. 325.

44 App. Genova, 26 giugno 1934, in Temi gen., 1934, p. 831.

45 Trib. Lecce, 28 dicembre 1935, in Rep. Foro it., 1936, voce Avvocato e procuratore, n. 34.

46 App. Milano, 6 aprile 1937, in Rep. Foro it., 1937, voce Avvocato e procuratore, n. 31. In alcuni casi la giurisprudenza discorre esplicitamente di colpa grave (Cass., 21 maggio 1945, n. 363, in Rep. Foro it., 1943-45, voce Avvocato e procuratore, n. 17).

47 Cass. Regno, 29 luglio 1932, in Foro it., 1932, I, c. 1585; Cass. Regno, 8 febbraio 1927, in Rep. Foro it., 1929, voce Avvocato e procuratore, n. 125.

48 «Il vero è, dunque, che l’interpretazione della legge è attività sempre delicata e ardua, particolarmente quando si è agli inizi della applicazione [di una] legge, e quando soprattutto si faccia luogo ad una specifica innovazione in un sistema già in vigore, e non si può quindi facilmente ritenere colposo il comportamento dell’avvocato, che abbia seguito una tesi anziché un’altra, quando le incertezze dei primi tempi potevano rendere accettabile quella, che è di poi naufragata dopo più maturo esame, mentre posi non va dimenticato il caso di interpretazioni abbandonate e condannate, ma tuttavia riportate col tempo in onore dalla dottrina e dalla giurisprudenza» (App. L’Aquila, 17 gennaio 1941, in Riv. dir. proc., 1941, II, p. 165).

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13 quale non ogni errore professionale comporta il risarcimento dei danni cagionati, ma soltanto quando sia effetto di evidente incuria o di palese insipienza, «ci possono essere degli errori che non possono qualificarsi né

“evidente incuria”, né “palese insipienza”, eppure potevano e dovevano essere evitati»49. La lotta per far prevalere una propria posizione interpretativa non può essere accesa a scapito del cliente.

L’orientamento giurisprudenziale che non imputa qualsiasi errore professionale all’avvocato, disconoscendo qualsiasi equiparazione fra errore e colpa, continua sotto il codice vigente, allorquando stabilisce che la colpa deve essere «l’effetto di un’evidente incuria o di una palese insipienza»50.

La fedele fotografia scattata nell’ambito della professione forense da una voce dottrinale attenta ai reali orientamenti della giurisprudenza, secondo la quale «gli unici casi di responsabilità ritenuti dai giudici sono quelli di omissione di impugnazioni (appello, ricorso per cassazione) o di notifiche entro i termini utili» considerati obbligazioni di risultato e che, per contro, «sul terreno della diligenza nella valutazione degli interessi del cliente, della scelta dei mezzi di difesa e della interpretazione della legge, la responsabilità non è mai affermata»51, pare oggi «ingiallita» alla luce delle più recenti decisioni52.

49 E. HEINITZ, Ancora in tema di responsabilità del legale per errore professionale e per negligenza, in Riv.

dir. proc., 1941, II, 162 ss., ove prosegue che «altro è […] sostenere scientificamente una data interpretazione; altro, invece, assumersi consapevolmente il rischio che tale interpretazione non sia accolta dal magistrato. Anche – e appunto – nell’incertezza di interpretazione di una nuova legge, l’avvocato non può, delle due strade che gli stanno a disposizione, scegliere proprio quella che porta con sé un rischio evidente che facilmente poteva essere evitato. Quale legale coscienzioso, nel dubbio – per ragionevole che sia – se un termine scada il 30 o il 31, aspetterà quest’ultimo giorno, se è in grado di osservare senza inconvenienti il primo termine? Il semplice dubbio deve indurre l’avvocato a scegliere la via più sicura, e nel caso dell’art. 21 del succitato r.d. il testo chiaro e preciso “l’opposizione deve essere preceduta dal deposito”, se non esclude ogni dubbio, tuttavia non permette al legale diligente di essere sicuro che il deposito possa farsi anche dopo l’atto di opposizione, e nell’incertezza egli deve prendere la via più sicura».

50 Cass., 3 agosto 1968, n. 2791, in Giur. it., 1969, I, 1, c. 1938; Pret. Cividale, 30 giugno 1961, in Corti Brescia Venezia Trieste, 1962, p. 664; App. Roma, 27 ottobre 1956, in Temi rom., 1957, p. 389; App.

Trieste, 4 giugno 1956, in Rep. Foro it., 1957, voce Avvocato e procuratore, n. 59.

51 G. VISINTINI, Inadempimento e mora del debitore, in Il codice civile. Commentario diretto da P.

Schlesinger, Milano, 1987, p. 199 s.

52 In questo senso A. PERULLI, Il lavoro autonomo, cit., p. 580, secondo cui «la nozione di obbligazione di diligenza è evocata soprattutto in occasione dell’affermazione di responsabilità, unicamente per avvertire che ad integrare gli estremi dell’inadempimento non è stato assunto il sol fatto della sconfitta giudiziale del cliente, quanto l’inosservanza di quelle scelte che si ritengono necessarie perché l’opera possa dirsi diligentemente compiuta: come accade, ad esempio, laddove viene sancita la responsabilità dell’avvocato

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14 La S. Corte, nel recente caso Mola c. Ronza, ritiene di primaria importanza il problema della qualificazione dell’obbligazione professionale dell’avvocato, precisando che il suo orientamento interpretativo «nell’intento di meglio tutelare la posizione del cliente che risultava oltremodo sacrificata dal

“genus” dell’attività del professionista e dalle particolari connotazioni della stessa ha cercato di superare, o quanto meno di attenuare, la tradizionale bipartizione obbligazione di mezzi - obbligazione di risultato»53. Sulla base dell’osservazione di quanto accaduto per le professioni edile e medica, i giudici supremi affermano «anche per tali categorie di professionisti [avvocati e notai], pur tenendosi conto della peculiarità dell’attività da essi svolta, un particolare dovere di diligenza nell’espletamento del mandato loro conferito ed ancor più specificamente per gli avvocati l’obbligo di perseguire il buon esito della lite»54.

In questa guisa vengono confermati gli sforzi della giurisprudenza, non senza sottovalutare le continue sollecitazioni della dottrina55, diretti a mutare la sostanza delle obbligazioni professionali sottoposti alle regole del governo del risultato; nel nostro caso «il buon esito della lite» si avvicina sensibilmente all’essenza della prestazione del professionista e rappresenta la bussola con la quale si deve orientare nell’esecuzione dell’attività a favore del cliente56.

- il cui cliente è rimasto soccombente in un procedimento per convalida di sequestro conservativo - per aver mancato di far rilevare l’insufficienza della prova fornita dalla controparte; o per avere il difensore, rimuovendo il limite probatorio posto a carico della controparte, richiesto «inopinatamente e maldestramente» la prova per testi circa la compravendita d’azienda che il suo cliente contestava, compromettendo così una posizione processuale altrimenti inattaccabile; od ancora, per la mancata determinazione della causa petendi in un ricorso di lavoro giudicato nullo per indeterminatezza della domanda; ovvero per omessa allegazione della sentenza nell'atto di appello; e si potrebbe continuare».

53 Cass., 6 febbraio 1998, n. 1286, in Danno resp., 1999, p. 441 s.

54 Cass., 6 febbraio 1998, n. 1286, cit., p. 442.

55 Anche A. PERULLI, Il lavoro autonomo, cit., p. 579, sottolinea il processo di «risultatizzazione» delle obbligazioni di mezzi: «il concetto di diligenza professionale, contrariamente a quanto generalmente si afferma, svolge sempre meno un ruolo riduttivo della responsabilità: da un lato perché spesso il professionista si rende inadempiente di obblighi che la dottrina qualifica «di risultato», dall’altro perché, pure laddove la prestazione venga considerata «di mezzi», i giudici procedono con meno remore di un tempo nell’identificare la colpa professionale».

56 In forma chiara autorevole dottrina avverte che «il “risultato” seppur non oggetto di “promessa”, è pur sempre sulla cinta esterna dell’obligatio e in ordine ad esso va commisurato l’impegno e lo sforzo» (A. DI

MAJO, Mezzi e risultato nelle prestazioni mediche: una storia infinita, cit., p. 38).

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15 3. Sulla genesi della norma dell’art. 2236 c.c. parte della dottrina declama: «a ben vedere, è un chiaro esempio dei guasti che possono produrre, soprattutto ove siano sommate, le opinioni che si vanno consolidando a forza di equivoci e le difese di carattere corporativo»57.

Nelle ipotesi di lievi omissioni o di errori volontari nella parte intellettuale della causa con riferimento sia alla scelta dei mezzi di difesa sia al momento dell’interpretazione delle leggi58, la giurisprudenza remota condizionava la responsabilità dell’avvocato verso il cliente al dolo o alla colpa grave59: l’avvocato «per la parte giuridica diviene il padrone della causa finché non gli sia revocato il mandato»60.

I principi di diritto seguiti dalle Corti fin dalla seconda metà del secolo scorso erano i seguenti: «che il procuratore legale non può essere tenuto alla

57 U. BRECCIA, La colpa professionale, cit., p. 2365.

58 Nel caso De Dominicis c. Flagnani, App. L’Aquila, 17 gennaio 1941, in Riv. dir. proc., 1941, II, p. 156, esclude la colpa del difensore per aver preferito una certa interpretazione di una disposizione di legge, da poco tempo emanata (meno di un anno). La Corte abruzzese precisa che «l’interpretazione della legge è attività sempre delicata e ardua, particolarmente quando si è agli inizi dell’applicazione della legge medesima, e quando soprattutto si faccia luogo ad una specifica innovazione in un sistema già in vigore, e non si può quindi facilmente ritenere colposo il comportamento dell’avvocato, che abbia seguito una tesi anziché un’altra, quando le incertezze dei primi tempi potevano rendere accettabile quella, che è di poi naufragata dopo più maturo esame, mentre poi non va dimenticato il caso di interpretazioni abbandonate e condannate, ma tuttavia riportate col tempo in onore dalla dottrina e dalla giurisprudenza» (spec. p. 165). Di contro, in maniera significativa, E. HEINITZ, Ancora in tema di responsabilità del legale per errore professionale e per negligenza, cit., p. 163 s., precisa che anche

«nell’incertezza di interpretazione di una legge nuova, l’avvocato non può, delle due strade che gli stanno a disposizione, scegliere proprio quella che porta con sé un rischio evidente che facilmente poteva essere evitato. [...] Il semplice dubbio deve indurre l’avvocato a scegliere la via più sicura».

59 Cfr. App. Messina, 25 giugno 1893, in Foro it., 1893, I, c. 1076. In precedenza App. Torino, 26 marzo 1878, ivi, 1878, I, c. 1151, aveva reso angusta l’area di responsabilità dell’avvocato proponendo la distinzione fra scelta dei mezzi di difesa, riservata alla discrezionalità del professionista, ed errori professionali. Senza questa bipartizione, la Corte avverte che «infinite sarebbero nei giudizi le indagini retrospettive, ed interminabili le discussioni su giudizi compiuti, con grave perturbazione dei pubblici e privati interessi; è da ritenere che la questione che ora verte tra le parti, in sostanza è rivolta a investigare il grado di dottrina legale e di attitudine forense dell’avvocato patrocinatore intorno agli affari affidatigli dal cliente, il quale vorrebbe costituirsi giudice dell’opportunità e convenienza del sistema da quello adottato nella direzione della causa, allo scopo di trarne una ragione di risarcimento di danni quando il successo non corrisponda all’aspettazione». Nello stesso senso Cass. Roma, 11 giugno 1894, ivi, 1894, I, c. 816, che esonera da responsabilità il difensore per il modo di condurre la lite e per le sue opinioni sull’interpretazione della legge, mentre afferma la responsabilità per le omissioni «nelle quali grave è la colpa sia per supina ignoranza, sia per negligenza inescusabile».

60 Franceschini c. Mastrofrancesco, App. Roma, 28 febbraio 1888, in Foro it., 1888, I, c. 600, ove declamava che «nell’interpretazione e applicazione della legge egli [l’avvocato] è libero e indipendente.

Nessuno può chiamarlo a rendere conto della sua opinione giuridica. Quegli che lo scelse di sua spontanea volontà, e si servì del patrocinio di lui, accettò necessariamente fin da principio cotesta condizione inerente al mandato ad lites. Per la qual cosa è ovvio come il cliente non ha alcun diritto di obbligare l’avvocato e il procuratore a seguire un sistema di difesa piuttosto che un altro».

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16 rifazione dei danni, se non viene provata la sua colpa o mala fede; che i procuratori legali non debbono rispondere che di quella grave negligenza o crassa imperizia che dicesi colpa lata, che si equipara al dolo; che di colpa lata equiparabile al dolo, può allora soltanto addebitarsi il procuratore legale quando la difesa da esso spiegata è strana e irragionevole e non presenta, neppure all’intelligenza de’ men versati giuristi, speranza alcuna di favorevole successo; che finalmente una mera omissione non può attribuirsi a colpa lata, quando si riscontri influita da una giusta credulità e buona fede. […]

Concludendo, […] il procuratore legale non è responsabile, se non del dolo e della colpa lata, che a quello si equipara»61.

Questo è il background culturale dal quale risulta chiaramente la tendenza seguita dai giudici di salvaguardare una posizione privilegiata dei professionisti forensi alla stessa stregua degli altri professionisti. In questo quadro interpretativo s’inserisce la norma contenuta nell’art. 2236 c.c., diretta a dimezzare l’area di franchigia di responsabilità goduta da sempre dai professionisti ai «problemi tecnici di speciale difficoltà».

La Relazione del Guardasigilli sottolinea che, nelle ipotesi in cui la prestazione professionale implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, la suddetta norma richiama «due opposte esigenze, quella di non mortificare l’iniziativa del professionista col timore di ingiuste rappresaglie da parte del cliente in caso di insuccesso e quella inversa di non indulgere verso non ponderate decisioni o riprovevoli inerzie del professionista»62.

La nascita della disposizione dell’art. 2236 c.c. è dovuta ad uno scarto significativo di fedeltà fra massima e motivazione con riferimento alla giurisprudenza degli anni trenta e quaranta. La dottrina63 porta l’esempio del caso Zoffoli c. Dionigi64, nel quale in massima si richiama per la responsabilità medica l’errore grossolano, mentre in motivazione risulta evidente che siffatta

61 App. Roma, 28 febbraio 1888, cit., c. 601.

62 Relazione del Guardasigilli al codice civile, n. 917.

63 Così U. BRECCIA, La colpa professionale, cit., p. 2365 s.

64 Cass., 27 marzo 1941, in Riv. dir. comm., 1941, II, p. 304, con nota di G.B. FUNAIOLI, Irresponsabilità e colpa professionale dei medici.

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17 nozione è menzionata obiter e che la colpa lieve costituisce il parametro determinante di responsabilità. Risultato di questa svista è la delineazione della disposizione dell’art. 2236 c.c. che costituisce così un unicum fra i codici europei65.

Negli anni cinquanta e sessanta i giudici della responsabilità edificano una vera e propria area di immunità per i professionisti allorquando si tratta di risolvere problemi di speciale difficoltà che abbassano l’errore professionale alla culpa lata.

Tale ricostruzione interpretativa irragionevole ha sollecitato una significativa attenzione da parte della dottrina, la quale ha sottolineato che nella soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà «l’attenzione la cautela l’applicazione del debitore, nonché allentate, devono essere spinte al massimo», per cui la regola dell’art. 2236 c.c. viene limitata alla sola imperizia66. Conseguenza immediata di questa diversa lettura della norma, secondo che riguardi la diligenza e la prudenza ovvero la perizia, ha rappresentato un decisivo miglioramento della posizione del cliente.

In tale prospettiva è stato riconosciuto responsabile l’avvocato che, anche di fronte alla speciale difficoltà della questione sulla decorrenza di un termine di prescrizione dell’azione di risarcimento spettante al cliente, ha lasciato che la prescrizione dell’azione si compisse senza attivarsi per l’interruzione67.

65 In questo senso G. ALPA, Responsabilità civile e danno, cit., p. 239: «nacque così una norma che costituisce un unicum nei codici continentali»; U. BRECCIA, La colpa professionale, cit., p. 2365; A. PERULLI, Il lavoro autonomo, cit., p. 612.

66 L. MENGONI, Obbligazioni «di risultato» e obbligazioni «di mezzi», cit., p. 206; conforme Corte cost., 28 novembre 1973, n. 166, in Giust. civ., 1973, p. 1795, ove precisa che l’art. 2236 c.c. «non conduce a dover ammettere che, accanto al minimo di perizia richiesta, basti pure un minimo di prudenza o diligenza. Anzi, c’è da riconoscere che, mentre nella prima l’indulgenza del giudizio del magistrato è direttamente proporzionata alle difficoltà del compito, per le altre due forme di colpa ogni giudizio non può che essere improntato a criteri di normale severità».

67 Cass., 22 febbraio 1980, n. 1288, in Dir. prat. ass., 1981, p. 699: «Allorché un incidente stradale abbia determinato il ferimento di un soggetto e la morte di un altro e, in sede penale, siano intervenute distinte sentenze, la prima delle quali dichiarativa dell'estinzione per amnistia del reato di lesioni colpose, la speciale difficoltà della questione concernente la decorrenza del termine di prescrizione dell'azione di risarcimento spettante al ferito non può essere invocata per escludere la responsabilità del legale che abbia lasciato maturare la prescrizione di tale azione (affermata, nel giudizio civile, per l'avvenuto decorso del termine prescrizionale rispetto alla pronuncia dichiarativa della amnistia), qualora in

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18 La risposta interpretativa diretta ad applicare la norma dell’art. 2236 c.c.

alla perizia non ha convinto una parte autorevole della dottrina, in quanto sembrerebbe richiedere in maniera assurda al professionista una perizia minore di quella ordinaria per la soluzione di questioni difficili che richiedono, per contro, una perizia superiore68.

La norma oggetto di studio, in realtà, disseppellisce il concetto che si credeva abbandonato della diligentia quam in suis rebus69, perché impone al giudice una valutazione della condotta del professionista alla luce della eccezionalità e della straordinarietà della fattispecie concreta70. Sorge una forte interferenza fra livello della natura dell’attività professionale e livello della colpa: più l’attività richiesta è impegnativa più si eleva la colpa da lieve a grave. In questo senso la «colpa grave dell’art. 2236 c.c. non è che la colpa lieve valutata tenendo conto della speciale difficoltà della prestazione»71.

Con riferimento all’area delle specializzazioni, l’alleggerimento di responsabilità prevista dalla norma dell’art. 2236 c.c. trova multiforme applicazione perché la speciale difficoltà del problema tecnico si atteggia in guisa relativa. I giudici della responsabilità declamano che la «diversità delle specializzazioni impone il diverso atteggiarsi della colpa, di volta in volta

concreto, il conferimento dell'incarico al professionista sia avvenuto in tempo utile ad impedire la prescrizione dell'azione di risarcimento anche rispetto all'ipotesi della decorrenza piu' remota».

68 G. CATTANEO, La responsabilità del professionista, cit., p. 77 s., ove rileva la conseguenza discutibile che mentre «il medico quando fa un’iniezione risponde se non adempie con la perizia del buon medico;

quando invece compie una diagnosi o una cura molto difficile, sarebbe tenuto ad agire con una perizia inferiore»; conf. A. PERULLI, Il lavoro autonomo, cit., p. 617 s.

69 Sull’art. 1843 c.c. 1865 e sul dibattito sorto in materia cfr. A. SERTORIO, La «culpa in concreto» nel diritto romano e nel diritto odierno, Torino, 1914, p. 213 ss. La Relazione al Re al codice vigente precisa che «è stato abbandonato il criterio della diligenza quam in suis [...] perché esso non dava alla responsabilità del debitore una base certa, come la dà la diligenza in astratto, e poteva anche spingere verso una responsabilità più rigorosa».

70 In questo senso G. VISINTINI, I fatti illeciti, II, L’imputabilità e la colpa in rapporto agli altri criteri di imputazione della responsabilità, 2ª ed., Padova, 1998, p. 220, sostiene che «in sostanza la Cassazione, seguita dalla giurisprudenza di merito, ha stabilito molto chiaramente che solo quando il caso concreto sia straordinario ed eccezionale, sì da non essere adeguatamente studiato dalla scienza, e la perizia richiesta trascenda la preparazione e l’abilità di un professionista medio, questi risponde solo di colpa grave. Ma di regola il professionista risponde in base ai principi generali».

71 G. CATTANEO, o.u.c., p. 78 s.: «se la prestazione è tecnicamente facile, si esige dal buon professionista il compimento di tutti gli atti idonei obiettivamente a perseguire il risultato, mentre se la prestazione è difficile si esigono da lui solo quegli atti - tra quelli astrattamente possibili in vista di quel risultato - che rientrano nelle capacità del buon professionista della sua categoria». In questo senso, C. LEGA, Le libere professioni intellettuali nelle leggi e nella giurisprudenza, cit., p. 850 s.; M. FRANZONI, Colpa presunta e responsabilità del debitore, cit., p. 368 ss.

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