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LA RESPONSABILITÀ PROFESSIONALE DEL MEDICO: ORIENTAMENTI DELLA GIURISPRUDENZA Dr. Gaetano Nicastro*

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LA RESPONSABILITÀ PROFESSIONALE DEL MEDICO:

ORIENTAMENTI DELLA GIURISPRUDENZA Dr. Gaetano Nicastro*

1. Premessa. Attività medica e limiti dell’intervento

Le difficoltà connesse alla professione medica, nelle sue varie branche, ed i relativi rischi, la cui assunzione è consentita per la tutela di beni di grado potiore, quale il bene della salute, l’evoluzione della scienza e la costante raffinazione delle tecniche, i pericoli cui espone l’uso indiscriminato di nuovi ritrovati, fanno emergere sempre più evidente la necessità di chi opera, assumendosi quei rischi.

Non rientrano nell’ambito di tale problematica, ovviamente, quei reati connessi alla violazione di obblighi specifici imposti al professionista, come, ad esempio, per il medico, l’obbligo di referto (art. 334 c.p.p., 365 e 384 c.p.), o che tendono a sanzionare l’abusivo esercizio della professione, sia da parte di chi operi senza aver superato gli esami prescritti e senza iscrizione negli appositi albi, sia da parte di chi eserciti una attività diversa da quella per la quale sia abilitato esorbitando coscientemente dai limiti della propria professione (come, ad esempio, l’odontoiatra, munito della laurea specifica istituita dalla legge 24 luglio 1985, n. 409, che intervenga al di là dei limiti previsti dall’art. 2 di tale legge).

In questi ultimi casi impropriamente si farebbe riferimento ai princìpi della responsabilità professionale, laddove gli interventi dannosi che ne derivano (la morte come le lesioni di un determinato soggetto) vanno giudicati secondo i comuni princìpi della responsabilità.

Ci si riferisce, piuttosto, a quei comportamenti colposi cui si incorra nel concreto esercizio della professione ed ai quali si ricolleghi un determinato evento dannoso.

È ugualmente opportuno premettere e lo hanno ribadito le sentenze della IIIa sez. Civile della Corte Suprema 25 novembre 1994, n. 10.014, e 5 gennaio 1997, n. 3641, chiarendo come si vedrà, i rapporti con la ritenuta necessità del consenso del paziente che l’attività medica trova fondamento e giustificazione non tanto nel consenso dell’avente diritto (art.

* Magistrato III Sez. Civ. Corte di Cassazione, Roma

1 La prima può leggersi in Nuova giur. Civ. Comm., 1995, I, 937 ss., con nota di G. Ferrando; la seconda in Foro It., 1997, I, 771 ss., con nota di A. Palmieri, ed in Guida al Diritto, 1997, 5, 63 ss., con nota di G.

Umani Ronchi.

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51 c.p.), che incontrerebbe spesso l’ostacolo di cui all’art. 5 c.p., bensì nell’essere essa stessa legittimata ai fini della tutela di un bene, costituzionalmente garantito, quale il bene della salute, cui è il medico abilitato dallo Stato.

L’auto legittimazione dell’attività medica, anche al di là dei limiti dell’art. 5 c.p., non comporta, tuttavia, che il medico possa, di norma, intervenire senza il consenso o malgrado il dissenso del paziente. La necessità del consenso immune da vizi e, ove importi atti di disposizione del proprio corpo, non contrario all’ordine pubblico ed al buon costume, si evince, in generale, dall’art. 13 della Costituzione, il quale, come è noto, afferma l’inviolabilità della libertà personale nel cui ambito si ritiene compresa la libertà di salvaguardare la propria salute e la propria integrità fisica, escludendo ogni restrizione (anche sotto il profilo del divieto di ispezioni personali), se non per atto motivato dall’autorità giudiziaria e nei soli casi previsti dalla legge. Per l’art. 32 c. 2°, soprattutto,

“nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”, la quale “non può, in ogni caso, violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Tali norme hanno trovato attuazione nella legge del 13 maggio 1978, n. 180, sulla riforma dei manicomi, per la quale “gli accertamenti ed i trattamenti sanitari non volontari”, salvo i casi espressivamente previsti (art. 1), e nella legge del 23 dicembre 1978, n. 833, che istituendo il servizio sanitario nazionale, ha ritenuto opportuno ribadire il principio, stabilendo che “gli accertamenti e i trattamenti sono di norma volontari” (art. 33). È opportuno avvertire, inoltre, che non tutti i trattamenti obbligatori per la legge possono essere attuati coattivamente, bensì solo quelli per i quali l’intervento coattivo sia espressamente previsto (come per determinate malattie mentali o veneree; in caso di epidemie, ecc.): il trattamento obbligatorio deve, inoltre, con chiaro riferimento all’art. 32 della Costituzione, rispettare la dignità della persona e i suoi diritti civili e politici,

“compreso, per quanto possibile, il diritto alla libera scelta del medico e del luogo di cura”2. Si ammettono altri due casi, talvolta tra loro coincidenti, in cui il medico è legittimato o, addirittura, tenuto, ad intervenire, prescindendo dal consenso dell’interessato:

2 Sulla necessità del consenso del paziente la Cassazione civile si era espressa già, comunque, sin dalle sentenze 6 dicembre 1968, n. 3906, in Resp. Civ. e prev., 1970, 389 s., ed in Monitore dei Trib., 1969, 230 s.; cfr. anche Cass. Civ. 29 marzo 1976, n. 1132, in Riv. dir. Lav., 1977, II, 140 s., ed in Giur. It., 1977, I, 1, 1980 ss.; Cass. civ. 26 marzo 1981, n. 1773, in Arch. civ., 1981, 1124 ss.,; quest’ultima (come quella riferita nel testo) ammette anche, espressamente, consenso tacito.

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a) allorché il paziente non sia in grado, per le sue stesse condizioni, di prestare un qualsiasi consenso o dissenso: in tale ipotesi, il dovere di intervenire deriva dagli artt.

593 c. 2° e 328 c.p.;

b) dove sussistano le condizioni di cui all’art. 54 c.p.3.

Un intervento medico non consentito dall’interessato, al di fuori delle ipotesi delineate, sarebbe arbitrario4.

Al problema del consenso si riconnette quello della informazione. Sul dover di informazione, anche al di fuori dei casi in cui è espressamente previsto (ad es. art. 14 della legge del 22 maggio 1978, n. 194, in materia di interruzione volontaria della gravidanza), la Corte Suprema (sezioni civili) si era espressa già con numerose sentenze, oltre alle citate Cass. 3906/1968, Cass. n. 1132/1976 e 1773/1981. Ci limitiamo qui, quindi, a richiamare la più recente Cass. 15 gennaio 1997, n. 364, la cui massimazione non dà conto, in generale, delle ampie problematiche affrontate. Con tale sentenza la Corte ha precisato che la

“formazione del consenso presuppone una specifica informazione su quanto ne forma oggetto (si parla, in proposito, di consenso informato), che non può che provenire dallo stesso sanitario professionale. L’obbligo di informazione da parte del sanitario assume rilievo nella fase precontrattuale, in cui si forma il consenso del paziente al trattamento od all’intervento, e trova fondamento nel dovere di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto (art. 1337 c.p.)”, (si verteva in tema di responsabilità contrattuale).

Ed ancora: “nell’ambito degli interventi chirurgici, in particolare, il dovere di informazione concerne la portata dell’intervento, le inevitabili difficoltà, gli effetti conseguibili e gli eventuali rischi, sì da porre il paziente in condizione di decidere

3 Cass. civ. 18 giugno 1975, n. 2439; Cass. civ. 29 marzo 1976, n. 1132; Cass. pen. 13 maggio 1992, n.

5639, con nota di E. Postorino, in Riv. Pen., 1993, 44-47, e, di recente la cit. Cass. civ. 15 gen. 1997, n.

364: sul punto esistono, tuttavia, notevoli contrasti, richiamandosi da taluni il più generale principio dell’esercizio dell’attività legittima, l’adempimento del dovere od il consenso presunto.

4 Per la Cass. 13 maggio 1992, n. 5639, citata alla nota precedente, il medico chirurgo che esegua un intervento diverso, non preventivato né consentito, quando non si verifichi una situazione di assoluta necessità ed urgenza, risponde del delitto di lesioni personali volontarie o del delitto di cui all’art. 584 c.p.

se alle lesioni consegue la morte del paziente. Diverso il problema del dissenso manifestato dai genitori per il figlio minore, che può rivelarsi di “grave pregiudizio” o comunque pregiudizievole, consentendo all’autorità giudiziaria (per l’art. 38 delle disp. di att. al c.c., il tribunale per i minorenni, mentre va escluso ogni potere del sindaco, le cui attribuzioni sono limitate, dall’art. 33 della citata legge del 23 dicembre 1978, n. 833, ai trattamenti obbligatori) di adottare i provvedimenti più convenienti, pronunciando, se del caso, persino la decadenza della potestà, a norma degli artt. 330, 333 e 336 c.c.

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sull’opportunità di procedervi o di ometterlo, attraverso il bilanciamento di vantaggi e rischi.

L’obbligo si estende ai rischi prevedibili e non anche agli esiti anomali, al limite del fortuito, che non assumono rilievo secondo l’ id quod plerumque accidit, non potendosi disconoscere che l’operatore sanitario deve contemperare l’esigenza di informazione con la necessità di evitare che il paziente, per una qualsiasi remotissima eventualità, eviti di sottoporsi ad un banale intervento.

Assume rilevanza, in proposito, l’importanza degli interessi e dei beni in gioco, non potendosi consentire tuttavia, in forza di un mero calcolo statistico, che il paziente non venga edotto sui rischi, anche ridotti, che incidano gravemente sulle sue condizioni fisiche o, addirittura, sul bene supremo della vita.

L’obbligo di formazione si estende, inoltre, ai rischi specifici rispetto a determinate scelte alternative, in modo che il paziente, con l’ausilio tecnico–scientifico del sanitario, possa determinarsi verso l’una o l’altra delle scelte possibili, attraverso una cosciente valutazione dei rischi relativi e dei corrispondenti vantaggi”.

Ma il novum, non sempre colto dagli esagenti, sta in quest’altra affermazione: “è noto che interventi particolarmente complessi, specie nel lavoro in équipe, ormai normale negli interventi chirurgici, presentino, nelle varie fasi, rischi specifici e distinti. Allorché tali fasi assumano una propria autonomia gestionale e diano luogo, esse stesse, a scelte operative diversificate, ognuna delle quali presenti rischi diversi, l’obbligo di formazione si estende anche alle singole fasi ed ai rispettivi rischi5.

Secondo la stessa Corte in materia di chirurgia estetica l’obbligo di informazione ha

“consistenza diversa a seconda che l’intervento miri al miglioramento estetico del paziente

5 Applicando tali princìpi al caso concreto, la Corte ha escluso che “se è vero che la richiesta di uno specifico intervento chirurgico avanzata dal paziente può farne presumere il consenso a tutte le operazioni preparatorie e successive che vi sono connesse, ed in particolare al trattamento anestesiologico, allorché più siano come nel momento presente le tecniche di esecuzione di quest’ultimo, e le stesse comportino rischi diversi, è dovere del sanitario, cui pur spettano le scelte operative, informarlo dei rischi e dei vantaggi specifici ed operare la scelta in relazione all’assunzione che il paziente ne intende compiere” (nella fattispecie esaminata, dall’esecuzione in una anestesia praticata mediante puntura lombare, in occasione di un intervento chirurgico, alla paziente era derivata una invalidità permanente totale: la Corte ha censurato la sentenza impugnata ritenendo che, “con riferimento ai suesposti princìpi, la Corte di merito non avrebbe potuto riferirsi ad un consenso meramente presunto in relazione all’intervento richiesto, ma accertare se i vari metodi anestesiologici comportassero, con i vantaggi, rischi di diversa intensità, e se, in particolare, all’anestesia epidurale fossero connessi rischi maggiori; ove l’indagine avesse approdato a risultati positivi, accertare se vi era stata, in relazione ad essi, una adeguata informazione ed un specifico consenso”).

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ovvero alla ricostruzione delle normali caratteristiche fisiche, negativamente alterate6:

“mentre nel primo caso, a parte i possibili rischi del trattamento per la vita o l’incolumità personale, il professionista deve prospettare realisticamente le possibilità di ottenimento del risultato perseguito, nel secondo caso (in cui trattasi propriamente di chirurgia plastica cosiddetta ricostruttiva), ferma la necessaria informazione sui rischi anzidetti, egli assolve ai propri obblighi ove renda edotto il paziente di quegli eventuali esiti che potrebbero rendere vana l’operazione, non comportando in sostanza un effettivo miglioramento rispetto alla situazione preesistente7.

Sotto altro profilo, il consenso abilita il medico ad intervenire secondo la funzione tipica dell’arte medica, che è quella di curare il paziente al fine di vincere la malattia, ovvero di ridurne gli effetti pregiudizievoli o, quanto meno, di lenire le sofferenze che produce, salvaguardando e tutelando la vita8.

Si entra qui in uno dei problemi più complessi e delicati, sia dal punto di vista medico che giuridico, relativo al trattamento di malati allo stadio terminale, alla cui soluzione concorrono, innegabilmente, convinzioni sociali ed etiche oltre che scientifiche.

Escluso che il medico possa, anche su richiesta o sollecitazione di un paziente, interrompere la vita o, comunque, accelerarne la morte, operando l’eutanasia “attiva” che integrerebbe il reato di cui l’art. 579 c.p. (omicidio del consenziente)9, il problema si pone sotto due particolari profili:

a) se sia consentito somministrare farmaci idonei a lenire le sofferenze ma che si sa abbrevieranno

la vita;

b) dal momento in cui è consentito interrompere il trattamento terapeutico e della cosiddetta eutanasia “passiva”.

Il primo problema non risulta essere stato specificamente affrontato dalla giurisprudenza ed ha avuto in dottrina come è noto soluzioni contrastanti, ammettendosi

6 Nella fattispecie esaminata si trattava dell’asportazione “di numerosi tatuaggi dal contenuto osceno e ripugnante, che il paziente aveva deciso di far rimuovere dato l’insopportabile disagio psicologico derivatogli dalla loro presenza, una volta abbandonato lo stile di vita del periodo cui si riferivano”.

7 Cass. 8 aprile 1997, n. 3046. In materia di chirurgia estetica si erano già pronunciate Cass. civ. 12 giugno 1982, n. 3604, in Resp. Civ. e prev., 1984, 86 s., ed in Giust. civ., 1983, I, 939 ss., e Cass. civ. 8 agosto 1985, 4394.

8 Art. 43 del codice deontologico approvato nel luglio 1989.

9 Si applicano, tuttavia, le disposizioni relative all’omicidio (doloso) se il fatto è commesso contro una persona minore degli anni diciotto, inferma di mente o che si trova in condizioni di deficienza psichica per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcoliche o stupefacenti (art. 579, c. 2°, nn. 1 e 2).

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la liceità di tali trattamenti quale “unico modo di estrinsecazione dell’ufficio professionale, ed in estremo scriminati dallo stato di necessità”, ed escludendosi il nesso causale diretto con la morte, ovvero distinguendosi secondo che il rischio superi o meno, in un bilanciamento di interessi, la soglia della tollerabilità.

Sebbene tali sforzi appaiano apprezzabili, non può non sottolinearsi come sia costante in giurisprudenza la tesi che “per il principio consacrato nell’art. 41, primo comma c.p., accelerare il momento della morte di una persona destinata a soccombere equivale a cagionarla”10, sicché deve intendersi auspicabile, come propugnato da diversi autori, uno specifico intervento del legislatore.

Non minori contrasti sussistono in ordine al momento in cui è consentito interrompere il trattamento terapeutico, problema per la cui soluzione non è possibile far riferimento alla volontà del paziente, che inciderebbe comunque su un bene che rimane pur sempre indisponibile11. È stato osservato, inoltre, che è difficile riscontrare, in malati gravi e terminali, una volontà pienamente cosciente e libera, e che non ci si può affidare ad un criterio di mera utilità della cura, col pericolo di scadere in una inaccettabile graduazione del valore della stessa vita umana. È sempre arduo, del resto, esprimere un giudizio di irreversibilità dello Stato morboso: notizie giornalistiche o televisive ci hanno fatto conoscere che un ennesimo soggetto, in coma da quindici giorni, si era “risvegliato”

sentendo l’inno dei tifosi dell’Aquila12 o la voce di un noto uomo politico nazionale!

Ai sensi dell’art. 40 c. 2° c.p., comunque, “non impedire un intervento che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”, sicchè non può ritenersi consentito al medico di abbandonare il paziente o di interrompere le tecniche rianimatorie solo perché ritenga inevitabile l’esito finale, fin tanto che non si verifichi la morte (salvo, ovviamente, la verifica del rapporto di causalità tra l’omissione e l’evento morte). Sotto tale profilo si è già rilevato come la Corte Suprema abbia affermato che accelerare la morte equivale a causarla. Anche al di fuori della volontarietà, inoltre, è stato ritenuto colpevole (per negligenza, oltre che, in taluni casi, per imperizia) il comportamento di disinteresse e di

10 Da ultimo: Cass. pen. 6 novembre 1990, n. 14.435, in Cass. Pen. Mass., mass. n. 185.676, e Cass. pen.

23 marzo 1991, n. 3.195, ivi, mass. n. 186.727.

11 All’obiezione non si sottrae nemmeno il cosiddetto testamento di vita, consigliato nel 1994 dalla Commissione mista per l’etica della medicina della Camera dei Lords inglese, con forti contrasti nella British Medical Association (sull’argomento si è svolto in Italia un importante convegno organizzato dall’Istituto Italiano di Medicina Sociale).

12 Corriere della Sera, 17 febbraio 1994, p. 13.

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rassegnazione rispetto all’ exitus, con la conseguente omissione dei trattamenti terapeutici idonei a superare situazioni di crisi, pur in presenza di una malattia incurabile13.

2. Limiti derivanti dall’art. 2236 c.c. e loro estensibilità alla responsabilità penale. Onere della prova

Sull’estensione e sui limiti della responsabilità professionale la giurisprudenza ha posto alcuni punti fermi chiarendo:

a) l’inapplicabilità dell’art. 2050 c.c., relativo all’esercizio di attività pericolose, e del conseguente onere a carico del professionista di “aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno14 ;

b) l’inapplicabilità, ove si tratti di sanitario dipendente di una struttura pubblica, della normativa prevista dagli artt. 22 e 23 d.p.r. 10 gennaio 1957, n. 3, responsabilità degli impiegati civili dello stato, per gli atti compiuti in violazione di diritti dei cittadini15 (rimangono salvi i problemi eventuali di rivalsa dell’ente nei confronti del sanitario).

Nella specifica materia vige infatti, viceversa, il principio posto dall’art. 2236 c. c., che limita la responsabilità al dolo od alla colpa grave, allorché “la prestazione implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà”, fattispecie che si verifica “quante volte il caso affidato sia di particolare complessità, o perché non ancora sperimentato e studiato a sufficienza, o perché ancora non dibattuto con riferimento ai metodi terapeutici da seguire16, o, infine, perché il morbo si manifesti con una sintomatologia del tutto anomala.

Quella limitazione non sussiste quindi – al contrario – allorché la prestazione comporti soltanto l’applicazione di cognizioni tecniche assolutamente comuni, che costituiscono il bagaglio di ogni operatore del settore, in cui questi risponde, pertanto, anche per colpa

13 Cass. pen., 9 marzo 1989, n. 3602, in Cass. Pen. Mass., mass. n. 180.736. Di recente, Cass. pen. 18 gennaio 1995, n. 360, ha riconosciuto la responsabilità “del medico che colposamente ometta un intervento chirurgico necessario, quando anche esso non sia tale da garantire in termini di certezza la sopravvivenza del paziente, se vi sia una limitata, purché apprezzabile, probabilità di successo, indipendentemente da una determinazione matematica percentuale di questa”.

14 Cass. civ. 10 luglio 1979, n. 3978.

15 Cass. civ. 1 marzo 1988, n. 2144; Cass. civ. 27 maggio 1993, n. 5939, e Cass. civ. 11 aprile 1995, n.

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16 Cass. civ. 26 marzo 1990, n. 2428, in Giur. It., 1991, 1, 600 ss., con nota di D. Carusi. Cfr. anche Cass.

civ. 16 novembre 1993, n. 11.287; Cass. civ. 8 luglio 1994, n. 6464, Resp. Civ. e prev., 1994, 1019 ss., con nota di M. Gorgoni, in Giur. It., 1995, I, 1, 790 ss., con note di A Fascella e di M. Venturello, e in Corriere Giur., 1995, 91 ss., con nota di A. Batà; specificamente Cass. 18 ott. 1994, n. 8.470; Cass. civ. 3 marzo 1995, n. 2466 cit.; Cass. civ. 11 aprile 1995, n. 4125 in Dir. ed econ. dell’assic., 1996, 669 ss., Cass. civ. 12 agosto 1995, n. 8.845.

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lieve. Nell’ambito civilistico è stato precisato, infatti, che “il medico chirurgo è tenuto ad una diligenza che non è solo quella generica come richiesto dall’art. 1176 c. 1° c.c., ma è quella specifica del debitore qualificato, come indicato dal comma 2° dell’art. 1176, la quale comporta il rispetto di tutte le regole e degli accorgimenti che nel loro insieme costituiscono la conoscenza della professione medica17.

È pacifico, inoltre, che la limitazione di cui all’art. 2236 c.c. concerna esclusivamente la perizia, e non si estenda alla negligenza, all’imprudenza od alla violazione di leggi e regolamenti, precisandoci, comunque, che quella del professionista è l’obbligazione “di mezzi” e non di risultato.

Se su tutto questo si conviene, uno dei problemi più contrastati è quello relativo all’applicabilità della limitazione di responsabilità fissata dall’art. 2236 c.c. anche nell’ambito penale.

Sulla questione, tanto la dottrina quanto la giurisprudenza si erano espressi ripetutamente in senso positivo, rilevando che l’unitarietà dell’ordinamento giuridico non consentirebbe una valutazione diversa dalla medesima fattispecie: uno stesso fatto non potrebbe avere un trattamento diverso nell’ambito civile ed in quello penale, specie ove si tenga conto delle contraddittorie conseguenze che ne deriverebbero in ordine al risarcimento del danno extracontrattuale, secondo che vi sia stato o meno un giudizio penale. Per lungo tempo quindi, iniziando dalla sentenza 27 luglio 1968, n. 124, la Corte Suprema, pur con qualche oscillazione e, talvolta, l’adozione di criteri più generici, ha ritenuto che in “tema di esercizio della responsabilità per delitto colposo a seguito di

17 Cass. civ. 3 marzo 1995, n. 2.466, in Giur. It., 1996, I, 1, 91 ss., con nota di D. Carusi. In tal senso anche Cass. civ. 15 dicembre 1972, n.3616, in Foro It., 1973, I, 1474 s.; Cass. civ. 8 marzo 1979, n. 1441, in Giur.

It., 1979, I, 1, 1494 s.; 22 febbraio 1988, n. 1847, Arch. civ., 1988, 684 ss. Con la sentenza 3 marzo 1995, n. 2466, la Corte ha ritenuto che “il progresso della scienza e della tecnica ha notevolmente ridotto nel campo delle prestazioni specialistiche, l’area della particolare esenzione indicata dall’art. 2236 c.c.”. è stato escluso, in particolare, che possa considerarsi problema tecnico di speciale difficoltà, per uno specialista ortopedico, la corretta terapia di immobilizzazione delle articolazioni di un arto ustionato (Cass. civ. 3 marzo 1995, n. 2.466, cit.) o la “terapia di elettroshock” (Cass. civ. 15 dicembre 1972, n. 3616). Con riferimento all’iniziale orientamento della Cassazione penale circa l’applicabilità dei limiti posti dall’art. 2236 c.c. anche nell’ambito penalistico, Cass. 8 giugno 1988, n. 6834, in Mass. Cass. Pen.., 1988, mass. 178.560; Cass. 15 giugno 1981, n. 5860, in Cass. Pen., 1982, 1171; Cass. 6 febbraio 1982, n. 1126, in Mass. Cass. Pen., 1982, mass. 152.021. Per la Cass. penale v. sent. citate alla nota successiva la colpa grave “si riscontra nell’errore inescusabile, che trova origine o nella mancata applicazione delle congiunzioni generali e fondamentali attinenti alla professione o nel difetto di quel minimo di abilità e di perizia tecnica nell’uso di mezzi annuali o strumentali adoperati nell’atto operatorio e che il medico deve essere sicuro di poter adoperare correttamente”. La Corte Costituzionale, nella sentenza 28 novembre 1973, n. 166, che esamineremo in seguito in Giust. Pen., 1974, I, 35 ss., ha precisato che, in tali forme di colpa, “ogni giudizio non può che essere improntato a criteri di normale severità".

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esercizio della professione medica, l’errore penalmente rilevante non può configurarsi se non nel quadro della colpa grave, richiamata dall’art. 2236 c.c.”18.

Era sorto quindi il problema della legittimità costituzionale degli artt. 589 e 42 c.p., nella parte in cui consentivano, nella valutazione della colpa professionale, il ricorso al criterio restrittivo dell’art. 2236 c.c., questione sollevata con ordinanza del Tribunale di Varese del 12 luglio 1971, in riferimento all’art. 3 della Costituzione. Come è noto, con la sentenza del 28 novembre 1973, n. 166, la Corte costituzionale ha ritenuto non fondata la questione rilevando che “lo speciale trattamento giuridico riservato al professionista... non è collegato puramente e semplicemente a condizioni personali e sociali, ma ha in sé una sua adeguata ragione di essere”, ed “è il riflesso di una normativa dettata di fronte a due opposte esigenze: quella di non modificare l’iniziativa del professionista col timore di ingiuste rappresaglie da parte del cliente in caso di insuccesso e quella inversa di non indulgere verso non ponderate decisioni o riprovevoli inerzie del professionista stesso”.

Eliminate le preoccupazioni di costituzionalità, si è obiettato che nell’ambito della responsabilità penale la colpa non soggiace a graduazioni se non all’esclusivo fine della determinazione della pena, secondo la previsione dell’art. 133, c. 1°, n. 3 c.p., sicché la sussistenza dell’elemento psicologico del reato dev’essere liberamente valutata dal giudice;

non sarebbe consentito, del resto, aggiungere una ulteriore scriminante a quelle legislativamente previste. L’applicabilità dell’art. 2236 c.c. è stata anche contestata rilevandosi che si tratta di una limitazione operante esclusivamente nell’ambito della responsabilità contrattuale, nonché sotto il profilo dell’ammissibilità dell’interpretazione analogica, cui si opporrebbe il suo carattere essenziale, e dell’interpretazione estensiva, cui osterebbe la completezza ed omogeneità della disciplina del dolo e della colpa19.

Di recente si è giustamente contestato che la limitazione contenuta nell’art. 2236 c.c.

concerna esclusivamente la responsabilità contrattuale, osservandosi inoltre che

18 In Cass. Pen. Mass., mass. 108.853; Cass. Pen. 21 ottobre 1970, ric. P.M., in Riv. It. Dir. e proc. Pen., 1973, 225 ss., con nota di A. Crespi; anche, fra le tante, Cass. Pen. 12 maggio 1975, in Giur. It., 1978, II, 294; Cass. Pen. 6 giugno 1981, in Cass. Pen., 1982, mass. 157.496; Cass. Pen. 20 dicembre 1985, in Cass.

Pen., 1985, mass. 171.396. Per Cass. Pen. 16 luglio 1984, n. 6650 – in Cass. n. 165.329 – “La valutazione dovrà essere particolarmente larga, ove sia stata contestata l’imperizia, da considerare penalmente rilevante solo se rientrante nel quadro della colpa grave, così come richiamata dall’art. 2236 c.c.”.

19 Cass. Pen. 29 settembre 1983, n. 7670, in Mass. Cass. Pen., mass. n. 160.314; Cass. Pen. 21 ottobre 1983, n. 8784, in Mass. Cass. Pen., mass 160.826; Cass. Pen. 22 marzo 1984, n. 2734, in Mass Cass. Pen., mass . 163.320; Cass. Pen., mass. n. 176.416.

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l’antigiuridicità ha carattere unitario, sicché non potrebbe essere considerata antigiuridica in sede penale una condotta che un altro ramo dell’ordinamento considera lecita20.

La questione sembra tuttora aperta, dacché, ancor di recente, l’applicabilità nell’ambito della colpa penale per imperizia, dell’art. 2236 c.c. è stata alternativamente affermata21 e negata22.

Alcune decisioni tuttavia, al tempo stesso in cui escludono l’applicabilità di quei limiti, affermano che “la colpa professionale del sanitario deve essere valutata con larghezza e comprensione per la peculiarità dell’esercizio dell’arte medica e per la difficoltà dei casi particolari”, sia “pur sempre nell’ambito dei criteri dettati per l’individuazione della colpa medesima dell’art. 43 c.p.”23. In tal modo si sostituisce ad un criterio di (pur relativa) certezza, quale quello della colpa grave (la cui valutazione in concreto rimane comunque demandata al giudice di merito), una valutazione soggettiva e metagiuridica.

La lettura di talune delle decisioni che espungono dall’ambito penale l’art. 2236 c.c.

rende agevole rilevare, inoltre, che il giudice penale ha spesso ritenuto sanzionabile penalmente, in concreto, sussistendone i presupposti, solo la colpa grave24.

Alcune recenti pronunce giurisprudenziali rese in sede civilistica hanno individuato i limiti dell’onere probatorio che incombe, nelle singole fattispecie, sulle parti, stabilendo i seguenti principi:

a) “quando l’intervento operatorio non sia di difficile esecuzione ed il risultato sia peggiorativo delle condizioni iniziali del paziente, questo adempie l’onere a suo carico provando solo che l’operazione (o la terapia post-operatoria) era di difficile esecuzione e che ne è derivato un risultato peggiorativo, mentre spetta al professionista fornire la prova contraria, e cioè che la prestazione era stata eseguita idoneamente e l’esito peggiorativo era stato causato dal sopravvenire di un evento imprevisto ed

20 Sull’estensibilità dell’art. 2236 c.c. alla responsabilità extracontrattuale, si erano pronunciate le SS. UU., Cass. pen. 17 luglio 1987, n. 8360, in Mass. Cass. Civ., mass. 604.

21 Cass. pen. 6 novembre 1990, n. 14.446, in Cass. Pen. Mass., mass n. 185.685

22 Cass. pen. 13 luglio 1990, n. 10.289, in Cass. Pen. Mass., mass. n. 184.881; Cass. Pen. 12 aprile 1991, n.

4028, ivi, mass 187.774; Cass. Pen. 14 settembre 1991, n. 9553, ivi, mass. n. 188.199, nell’ambito della responsabilità per il delitto colposo di crollo di costruzione.

23 Da Cass. 18 aprile 1972, n. 2508, a Cass. 12 aprile 1991, n. 4028, citate.

24 Per Cass. pen. 11 aprile 1987, n. 4.515, e per Cass. pen. 6 novembre 1990, n. 14.456 - in Cass. pen.

Mass., mass. nn. 175.642 e 185.686 dei rispettivi anni - “dovendo la colpa del medico essere valutata dal giudice con larghezza di vedute e comprensione, l’esclusione della colpa professionale trova un limite nella condotta del professionista incompatibile con il minimo di cultura e di esperienza che deve legittimamente pretendersi in colui che sia abilitato all’esercizio della professione medica”.

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imprevedibile, oppure dalla preesistenza di una particolare condizione fisica del malato, non accertabile con il criterio dell’ordinaria diligenza professionale”,25;

b) negli interventi per i quali sussista la limitazione di responsabilità di cui al citato art.

2236, viceversa, incombe sul paziente parte lesa l’onere di provare la colpa o il dolo.26

3. La colpa. Negligenza, imprudenza, violazione di norme.

Il codice civile italiano non offre, a differenza di altri, una definizione della colpa, né nell’art. 2043, che pur vi fa specifico riferimento, né nell’art. 2236. La nozione viene ritenuta comune, peraltro, al diritto penale, dal quale viene mutata in particolare dall’art.

43, c. 1°, c.p., che ancora il delitto colposo da un canto alla mancanza di internazionalità e dall’altro, alla presenza di una condotta negligente, imprudente od imperita ovvero connessa a violazione di leggi, regolamenti, ordini o discipline, cui sia ricollegabile, con rapporto di causalità, l’evento.

Le regole di diligenza e di prudenza non traggono origine da una fonte giuridica, bensì dalla esperienza, che elabora norme atte ad evitare eventi pregiudizievoli, imponendo comportamenti positivi (diligenti) e vietandone altri (imprudenti). Tali regole di esperienza non sono mai avulse dalla concreta attività svolta, ma sono ad essa collegate, attraverso i parametri adottati da un agente-modello ejusdem condicionis et professionis, nelle specifiche condizioni che si presentino al momento dell’operare, avvertendosi che i modelli di comportamento non possono inoltre prescindere dalla pericolosità dell’attività svolta e dalle condizioni in cui la stessa si svolge, in relazione alle quali sia eventualmente esigibile un livello di attenzione e di prudenza (oltre che di cognizioni) più alto di quello medico27, o l’obbligo (sotto l’aspetto della diligenza) di attingere informazioni per la migliore conoscenza di determinati fenomeni ed eventualmente di astenersi (sotto il profilo della prudenza), ove non si sia necessitati, da azioni che si sa di non poter dominare in pieno28. Il riferimento alla diligenza ed alla prudenza propri dell’Homo ejusdem condicionis et

25 Cass. civ. 16 novembre 1993, n. 11.287; Cass. civ. 18 ottobre 1994, n. 8.470, chiarisse che in tal caso, il peggioramento giustifica una presunzione di colpa. Cass. 11 aprile 1995, n. 4152, ha comunque aggiunto che incombe sulla parte lesa anche l’onere di provare il presupposto, e cioè che l’intervento medico era di facile esecuzione; Cass. 15 gennaio 1997, n. 364, cit.

26 Cass. civ. 18 ottobre 1994, n. 8.470, cit.

27 Cass. pen 3 novembre 1994, n. 11.007. cfr. pure quanto si è detto al s 2.

28 Corte d’Appello dell’Aquila, 3 ottobre 1970, in F.I., 1971, II, 198 ss., ed in Rass. Giur. ENEL, 1971, pp.

101 ss. (anche se su una ipotesi di colpa di diverso ambito professionale, nel noto caso del Vajont).

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professionis evita una considerazione del tutto astratta dei doveri di diligenza e di prudenza (minima, media, o massima) ed altresì di adagiare il comportamento esigibile alle specifiche caratteristiche psicologiche del soggetto agente.

L’imprudenza e la negligenza, sebbene valutabili alla stregua della specifica attività esercitata, non assumono particolari connotazioni nell’ambito della colpa professionale, per la quale valgono, una volta individuata la norma di comportamento violata, i principi generali, i criteri di comune applicazione, secondo cui si risponde tanto civilisticamente che penalmente anche per colpa lieve: di questo non si è in alcun modo dubitato, anche nell’ambito delle discussioni cui ha dato luogo il problema relativo all’applicabilità, nell’ambito penale, del principio posto dall’art. 2236 c.c., problema che, come si è avuto modo di rilevare, attiene esclusivamente alla perizia.

Non sempre, nelle singole fattispecie, i vari aspetti della colpa risultano nettamente distinti, potendosi verificare ipotesi in cui siano presenti diversi profili di essa, od in cui, ad esempio, un errore (diagnostico od operativo), normalmente ascrivibile ad imperizia, derivi, viceversa, da un difetto di attenzione, e si sarebbe evitato con una maggiore diligenza29.

Nell’ampia casistica che ci offre la giurisprudenza (soprattutto penale), ipotesi di negligenza sono state riscontrate nell’abbandono di corpi estranei quali tamponi di garza, ferri chirurgici, frammenti di un ago per sutura e persino un cucchiaio da cucina nel corpo del paziente, chiaramente addebitabili a colpevole, quanto evitabile disattenzione30; nel ritardo dell’indispensabile ricovero ospedaliero, eventualmente al fine di occultare un proprio errore, o nel ritardo da parte di un ginecologo della terapia trasfusionale da lui stesso ritenuta necessaria, per la presenza di uno shock emorragico; nel comportamento del medico che, dopo aver praticato una anestesia locale, iniettando una dose di anestetico che abbia provocato reazioni tossiche, non abbia provveduto al necessario intervento rianimativo atto a ripristinare la ventilazione polmonare e l’adeguato livello della funzione arteriosa, ed abbia richiesto tardivamente l’intervento dello specialista; nella mancata verificazione, da parte del primario anestesista, del corretto funzionamento dell’impianto di erogazione di gas medicinali e di anestesia afferenti ad una scala operatoria, sui quali erano stati eseguiti nei giorni precedenti, dei lavori31; nell’omissione di

29 Cass. pen. 6 febbraio 1979, n. 1301, in Cass. pen. Mass., 1981, mass. 548.

30 Cass. pen 15 luglio 1982, n. 7006; Riv. Pen., 1983, 439; App. Roma, 25 luglio 1975, ivi, 1966, II, 982;

Cass. civ. 19 novembre 1976, n. 4339.

31 Nella fase di risveglio postoperatorio al paziente era stato somministrato potassio di azoto anziché ossigeno, in conseguenza dell’inversione dei tubi di derivazione: il medesimo obbligo di controllo è stato

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approfondite indagini sulla eziologia morbosa, in relazione ad una sintomatologia equivoca32; nell’avere omesso di evidenziare al medico subentrante sul turno di lavoro la necessità di un’attenta osservazione e di controllo costante dell’evoluzione della malattia di un determinato paziente soggetto a rischio di complicanze33.

Come si è rilevato, colpevole (per ogni negligenza, oltre che, in alcuni casi, per imperizia) è stato ritenuto, più generale, anche in presenza di una malattia incurabile, il comportamento di disinteresse e di rassegnazione rispetto all’exitus, con la conseguente omissione dei trattamenti terapeutici idonei a superare situazioni di crisi34.

Al dovere di diligenza va collegato anche l’obbligo di informare il paziente circa l’uso di medicine pericolose, o sulla gravità della malattia, ove ne dipenda la concreta possibilità di provvedere alla cura: la giustificazione della cosiddetta pietosa bugia non può estendersi fino a legittimare il silenzio sulla gravità della diagnosi, la cui ignoranza impedisca la possibilità di curarsi adeguatamente.

L’imprudenza è “avventatezza, insufficiente ponderazione”.

Può connettersi anche uno stato sopravvenuto del soggetto agente, sia esso permanente o transitorio: la continuazione della propria attività professionale malgrado la diminuzione delle personali capacità per malattia, sentenza, alterazione da ingestione di alcool o per assunzione di droghe.

Negligenza commista ad imprudenza si ha nell’assunzione di ruoli non di propria competenza, come nel medico generico o nel medico di guardia i quali, di fronte ad un caso che presenti particolari difficoltà tecniche, od esuli dalla propria competenza, trascurino di ricorrere ad uno specialista, o di avvertire il reparto competente, salvo che il loro intervento sia imposto da una urgenza che non consenta alcuna remora. In tali casi la responsabilità del sanitario ed il rapporto di causalità vanno valutati con riferimento agli

ritenuto sussistere anche a carico del responsabile tecnico amministrativo e dei soggetti ai quali era stata demandata la materiale esecuzione dei lavori (Cass. 24 aprile 1995, n. 4385)

32 Cass. pen. 23 gennaio 1989, n. 790, in Mass. Cass. Pen., 1989, mass. 180.244; Trib. Roma, 28 aprile 1975, in Zacchia, 1976, 80; in quest’ultimo caso si è ritenuto anche il concorso con i reati di cui agli artt.

328 e 593 c.p.: Cass. pen. 17 gennaio 1959, II, 496; Cass. pen 25 marzo 1988, n. 3904, in Mass. Cass.

Pen., 1989, mass. 177.967; Cass. pen. 29 novembre 1988, n. 11.651, in Mass. Cass. pen., 1989, mass.

179.816; Cass. 21 settembre 1993, n.8.599.

33 Cass. pen. 9 maggio 1997, n. 4211.

34 Cass. pen. 9 marzo 1989, n. 3602, in Cass. Pen. Mass., mass. 180.736. Sotto il profilo della causalità si è ritenuto che accelerare la morte equivale a causarla (cfr. 1).

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interventi che lo specialista avrebbe potuto attuare: si parla per assunzione di ruoli (che non competono)35.

Tra la negligenza e l’imprudenza si colloca anche la fattispecie, giudicata da Cass. pen.

9 maggio 1978, n. 532436, della somministrazione, per via endovenosa, di una fiala di Talofen senza previa diluizione con soluzione fisiologica, prescritta dalle istruzioni della casa farmaceutica.

Ha precisato la Corte Suprema che la discrezionalità riconosciuta, entro certi limiti, al medico circa il dosaggio di determinati medicinali, non può estendersi alle modalità della somministrazione indicate dalla casa produttrice sulla base delle conoscenze chimico- farmaceutiche di cui egli è sfornito. Il problema della discrezionalità del medico nell’adottare una determinata terapia e, in particolare, nella prescrizione di farmaci, assume maggiore rilevanza, ovviamente, nella valutazione della perizia. E’ stata considerata imprudente, tuttavia, la fornitura ad un soggetto depresso di medicine idonee ad essere utilizzate per il suicidio; la prescrizione di dosi eccessive, che determinano allergie di medicamenti o malattie iatrogene; la somministrazione di medicinali potenzialmente tossici senza gli accertamenti del caso o non accompagnata dalle cure collaterali prescritte; l’omessa somministrazione ad un paziente ferito di siero antitetanico, consigliato dalle caratteristiche e dal luogo in cui la ferita si era prodotta; il mancato ricorso alle necessarie analisi di laboratorio per ridurre al minimo i rischi della terapia (nella specie con metadone)37. Negligenza ed imprudenza sono stati riscontrati, più di recente, nell’anestesia che, dopo l’intervento, aveva omesso di sorvegliare adeguatamente la paziente in fase di risveglio, affidando il compito ad un’infermiera professionale non specializzata in anestesia, e, conseguentemente, non in grado di intervenire con efficacia ai primi sintomi di una turba anossica, poi divenuta irreversibile, seguita dalla morte per arresto cardiaco per anossia acuta da oblio respiratorio38.

35 Cass. pen. 29 settembre 1983, n. 7670, in Mass. Cass. Pen., 1983, mass. n. 160.312; è anche il caso, ad esempio, dell’ostetrica che ometta di richiedere l’intervento del medico allorché, nel corso del parto o successivamente, si manifestino fatti anormali: Cass. pen. 19 novembre 1986, n. 12973 , in Mass. Cass.

Pen., 1983, mass. n. 174.340.

36 Riv. Pen. 1978, 767.

37 Cass. pen. 21 marzo 1988, in Giust. Pen. 1989, II, 153; Cass. pen. 6 marzo 1967, in Giust. Pen. 1967, II, 1158; Cass. pen. 8 giugno 1988, n. 6834, in Cass. Pen. Mass., mass. n. 178.560.

38 Cass. pen. 5 febbraio 1993, n. 1213.

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Gli stessi fini accademici o di ricerca, tendenti a conseguire tecniche diverse e migliori di intervento ovvero a dimostrare l’inefficacia e l’inutilità di tecniche nuove, incontrano un limite nella misura del rischio ad essi connesso39.

L’inosservanza di leggi, regolamenti, ordini e discipline appare di inutile definizione.

Basterà osservare che fra gli ordini e le discipline sono comprese non solo le prescrizioni che derivino da autorità pubbliche, ma anche quelle provenienti da autorità private, quali regolamenti interni, etc.

Si è esattamente rilevato, inoltre, che, in tali fattispecie, non esplica funzione alcuna il criterio della prevedibilità, cui è normalmente collegata la responsabilità per colpa:

l’emanazione delle norme disciplinanti una determinata attività comporta già un giudizio prognostico circa la situazione di pericolo derivante da un comportamento diverso. Va osservato, comunque, che dalla ratio sottesa al principio deriva che la responsabilità rimane circoscritta a quegli eventi alla cui prevenzione tendeva la norma violata.

Anche qui, nell’ampia casistica, possono richiamarsi il caso del medico che abbia consentito all’infermiere di effettuare una endovenosa, contro il divieto di cui all’art. 14 lett. c) del r.d. 31 maggio 1928, n. 133440; la mancata denuncia all’ufficio di igiene di una malattia infettiva (in relazione al contagio derivato ad altre persone); l’inosservanza delle prescrizioni imposte per gli esami radiologici, che abbia cagionato una necrosi; l’omissione, da parte del medico di fabbrica, della visita trimestrale dei lavori esposti in ambiente cancerogeno, con conseguente sviluppo di tumori, tardivamente diagnosticati41.

4. L’imperizia nel campo professionale

L’imperizia, infine, è deficienza di preparazione scientifica e di adeguate cognizioni nella specifica materia, nell’uso dei mezzi di indagine, manuali, strumentali o terapeutici e delle tecniche specifiche al settore. E’ qui, soprattutto, che il parametro dell’agente modello, alla stregua del quale operare la valutazione assume una specifica rilevanza, e che va sottolineato come, nell’ambito di una medesima professione, non esiste un unico metro, stante la pluralità di agenti-modello, in relazione alla particolare qualificazione. La perizia esigibile, cioè, va sostanzialmente valutata con riferimento al grado di qualificazione del

39 Cass. pen. 30 luglio 1982, n. 7495.

40 Cass. pen. 2 marzo 1971, cit., in Zacchia 1972, 272.

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soggetto: in misura diversa, quindi, per il medico generico, per lo specialista o per il cattedratico42.

Ci soffermeremo ora, anche qui, nell’esame della casistica sottoposta al vaglio dei giudici, avvertendosi che spetta al giudice di merito accertare nei singoli casi, quale sia il criterio di valutazione adottato ed avvalendosi, se necessario (come di norma), dell’ausilio di un consulente o di un perito, l’esistenza dell’imperizia, attraverso un giudizio ex ante, che tenga conto delle concrete condizioni dell’operatore.

Se va riconosciuta al professionista la facoltà di scelta fra più terapie o tecniche e, in generale, fra più soluzioni, appaiono di facile inquadramento delle ipotesi in cui si accerti la mancanza di un livello minimo di cognizioni tecniche, di esperienza e capacità professionale. E’ stato inoltre ritenuto che, pur dovendosi riconoscersi al medico, come al chirurgo, la facoltà di seguire gli insegnamenti di una o di altra scuola, le sue scelte non possono scadere nell’arbitrio, adottando soluzioni sue proprie e comunemente rigettate o diverse da quelle usualmente praticate: gli insegnamenti dottrinari, legittimi sul piano del dibattito accademico, debbono essere assunti con cautela quando sia in gioco la vita umana43.

L’errore diagnostico non può ritenersi giustificato allorché la malattia si manifesti con carattere di assoluta normalità ed evidenza, rendendo palese la mancanza di quel minimo di preparazione ed esperienza cui ogni professionista è tenuto (“anche il medico di guardia deve essere in grado di eseguire le più comuni prestazioni di urgenza”)44.

Nel campo degli specialisti (in cui come si è visto non è possibile prescindere dalle conoscenze specifiche al settore) è stato ritenuto penalmente responsabile il ginecologo che, in presenza di una metrorragia, l’aveva attribuita ad atonia uterina, anziché ad una rottura, omettendo (l’imperizia è quindi congiunta a negligenza) l’esplorazione del canale di parto e della cavità uterina, o che, dopo aver provocato, nel trattamento post parto, la rottura dell’utero della paziente, non era stato in grado di diagnosticare l’insorgenza di una

41 Cass. pen. 21 aprile 1977, n. 1476, in Dir. E prat. Assic., 1978, 145; Cass. pen. 21 giugno 1979, in Giust.

Pen., 1980, III,74.

42 In tal senso, per lo specialista, è stato ritenuto “non sufficiente il riferimento alle cognizioni fondamentali di un medico generico”: Cass. 6 novembre 1990, n. 14.446; v., inoltre, quanto si è detto trattando dell’imperizia, per la cosiddetta colpa per assunzione.

43 Cass. 12 maggio 1977, in Giur. It., 1978, II, 294; Cass. 11 settembre 1981, n. 8109, in Cass. Pen., 1983, 86. 44 Cass. 30 ottobre 1979, n. 5935, in Giust. Pen. 1980, II, 706; Cass. 17 novembre 1984, n. 10210, in Cass.

Pen. Mass., mass. n. 166750.

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peritonite che imponeva un intervento urgente, cagionandone la morte45; un terzo ginecologo, pur di rilevante esperienza professionale di utero conseguente al parto, anziché procedere a laparotomia accertativa dell’entità e localizzazione della lesione, aveva effettuato direttamente uno stipato tamponamento utero-vaginale che aveva reso irreversibile l’emorragia, potenziandola46.

Nell’uso degli strumenti tecnici è stata affermata la responsabilità del chirurgo che abbia dimostrato la mancanza di un minimo di abilità, o dell’odontoiatra che, non manovrando con tecnica corretta un tiranervi, ne aveva provocato l’ingestione, da parte della paziente, cui aveva anche omesso di praticare l’anestesia locale.

Nell’utilizzazione dei farmaci, in cui si esplica maggiormente la discrezionalità del medico, è stata ritenuta sussistere colpa grave nella somministrazione in unica soluzione di siero antitetanico, laddove, ai fini della tollerabilità, è comunemente noto che debba essere frazionato in varie dosi, o nell’erronea esecuzione di una normale iniezione endovenosa che aveva causato la paralisi del nervo sciatico47.

In altri casi pur in presenza di un errore, di una rilevazione e/o valutazione della realtà diversa da quella obiettiva o dell’uso di mezzi tecnicamente errati od inadeguati l’imperizia è stata ritenuta, viceversa, non grave, a causa delle difficoltà diagnostiche o di trattamento: la malattia si può manifestare in forme del tutto anomale, o con sintomi equivoci, sì da giustificare l’errore diagnostico, la scienza medica può suggerire più metodi di cura, anche se una scelta diversa avrebbe potuto avere esiti migliori; la perizia non può essere valutata, inoltre, in relazione al successivo evolversi della scienza medica o chirurgica48.

Anche l’obbligo di rivolgersi ad uno specialista per i casi più difficili o che esulino dalle proprie conoscenze, ed eventualmente di disporre il ricovero in ospedali più attrezzati, può rimanere superato qualora l’urgenza del caso, ed eventualmente la mancanza di mezzi rapidi di trasferimento, imponga di intervenire con immediatezza, a costo di affrontare dei rischi: in tal caso la perizia va valutata alla stregua non già di colui che avrebbe potuto

45 Cass. 9 marzo 1983, n. 1914, in Cass. Pen. Mass. 1983, mass. N. 157.767; Cass. 6 giugno 1981, n. 5555, in Cass. Pen. 1982, 1547, e cass. 6 febbraio 1981, ivi, mass. n. 548.

46 Cass. Pen. 3 novembre 1994, n. 1.007.

47 Cass. 22 gennaio 1968, in Cass. Pen. Mass., 1969, mass. n. 1080.

48 Cass. 15 febbraio 1978, in Giust. Pen, 1978, II, 591; Cass. 13 ottobre 1972, n. 3044, in Foro It., 1973, I, 1170 s., in Resp. Civ. e prev., 1973, 97 s. ed Zacchia 1974, 160.

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intervenire, ma di un agente modello adeguato al soggetto che, nelle scientifiche circostanze, è stato costretto ad operare49.

5. Il rapporto di causalità

L’accertamento della colpa non è, ovviamente, da sola sufficiente a far affermare la responsabilità, essendo necessario accertare ancora il nesso di causalità tra la condotta, commissiva od omissiva, e l’evento. Il codice civile non dà alcuna definizione della nozione di causa, stabilisce peraltro l’obbligo del risarcimento a carico dell’autore di “qualunque fatto colposo o doloso che cagiona ad altri un danno ingiusto” (art. 2043 c.c., con una accentuazione del rapporto intercorrente tra fatto e danno); diversamente dall’art. 40 del codice penale, col quale, attraverso il riferimento all’evento– conseguenza, il nostro legislatore ha inteso adottare come comunemente si ritiene la teoria condizionalistica.

Anche sotto tale profilo, le regole penalistiche ivi comprese quelle desumibili dall’art. 41 c.p. sono state ritenute comuni anche all’altro ramo del diritto50.

Non si tratta come è noto di un giudizio basato sull’esistenza di una semplice successione temporale, per cui post hoc ergo propter hoc, essendo necessario che l’evento appaia come la concretizzazione del rischio assunto con quella condotta. E’ ovvio che tale accertamento sarà compiuto, normalmente, da un consulente tecnico o da un perito, cui dovrà esser posto lo specifico quesito.

Il giudizio circa il rapporto di causalità non si fonda necessariamente su leggi scientifiche universali essendo sufficiente il ricorso alle leggi statistiche, in forza delle quali sia possibile affermare che, al verificarsi di un dato evento consegue, in una certa alta percentuale di casi, un altro determinato evento51.

49 Cass. 23 gennaio 1990, n. 790, in Cass. Pen. Mass., mass, n. 180.244.

50 Fondamentalmente in proposito, anche per la distinzione fra causalità di fatto e causalità giuridica, la sentenza delle SS. 00. Civ. 26 gennaio, 1971, n. 174, in Giur. It., 1971, I, 1, 680.

51 Una lucida applicazione in tali principi si legge nella sentenza sul disastro di Stava: “secondo il modello dell’assunzione sotto leggi scientifiche, un antecedente configurato come condizione necessaria a patto che esso rientri nel novero di quegli antecedenti che, sulla base di una successione regolare conforme ad una legge dotata di validità scientifica, la cosiddetta legge generale di copertura, portano ad eventi del tipo di quello verificatosi in concreto”.

“Le leggi generali di copertura accessibili al giudice sia le leggi universali, che sono in grado di affermare che la verificazione di un evento è invariabilmente accompagnata dalla verificazione di un altro evento, sia le leggi statistiche che si limitano, invece, ad affermare che il verificarsi di un evento è accompagnato dal verificarsi di un altro evento, in una certa percentuale di casi, con la conseguenza che queste ultime sono tanto più dotate di validità scientifica quanto più possono trovare applicazione in un numero sufficiente alto di casi e sono suscettive di ricevere conferma mediante il ricorso a metodi di prova razionali e controllabili”.

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Il problema assume particolari risvolti in relazione ad un comportamento omissivo (che si traduce, nell’ambito penale, in un reato omissivo), per il quale è stato affermato che il rapporto di causalità può ritenersi sussistente ogni qualvolta sia accertato che una diversa condotta avrebbe avuto se non la certezza, una “sufficiente probabilità di successo”, “serie ed apprezzabili possibilità di successo per salvare la vita al paziente”52. Si è fatto quindi riferimento alle percentuali elaborate della statistica sanitaria, l’esistenza di quel nesso in presenza di “un buon ottanta – settanta per cento” di esito positivo della terapia omessa, e, più di recente, in un caso in cui le probabilità di successo “erano all’ordine del cinquanta per cento”53.

Una sentenza che ha fatto discutere ha ritenuto che “sussiste sempre il rapporto di causalità ….. anche qualora l’esatta e tempestiva opera del sanitario avrebbe potuto evitare l’evento non già con certezza o elevate probabilità ma non solo con probabilità apprezzabili nella misura del trenta per cento”54.

Tale tendenza rigoristica aveva avuto precedenti nella tesi secondo la quale “quando è in gioco la vita umana, anche solo poche probabilità di successo di un immediato o

“Il ricorso alle leggi statistiche da parte del giudice è più che legittimo, perché il modello della sussunzione sotto leggi utilizzabile in campo penale sottintende, il più delle volte, necessariamente il distacco da una spiegazione causale deduttiva, che implicherebbe una possibile conoscenza di tutti i fatti e di tutte le leggi pertinenti; poiché il giudice non può conoscere tutte le fasi intermedie attraverso le quali la causa produce il suo effetto, né procedere quindi alla spiegazione fondata su una serie continua di eventi, nella spiegazione causale si dovrà ricorrere ad una serie di assunzioni normologiche tacite e dare per presenti condizioni non conosciute e soltanto azzardate, per cui il nesso di condizionamento tra azione ed evento potrà essere riconosciuto soltanto con una qualità di precisazioni e purché sia ragionevolmente non certamente da escludere l’intervento di un diverso processo causale”.

“Il giudice, avvalendosi del modello della sussunzione sotto leggi statiche ove non disponga di leggi universali dirà che è probabile che la condotta dell’agente costituisca, coeteris paribus, una condizione necessaria dell’evento; probabilità che altro non significa se non probabilità logica o credibilità razionale, la quale deve essere di alto grado, nel senso che il giudice dovrà accertare che, senza il comportamento dell’agente, l’evento non si sarebbe verificato, appunto, con alto grado di probabilità”. Cass. pen. 6 dicembre 1990, ric. Bonetti ed altri, in Foro It., 1992, II, 36 ss.

52 Per Cass. Pen. 7 luglio 1993, n. 6.683, “sussiste rapporto di causalità anche quando l’opera del sanitario, ove correttamente e tempestivamente intervenuta, avrebbe solo avuto seria ed apprezzabile probabilità di successo, ponendosi al critico della certezza degli effetti della condotta sostituire quello della probabilità, anche limitata, e dell’idoneità della stessa a produrli”. Cfr. anche Cass. 10 luglio 1987, n. 8290, in Mass.

Cass. Pen., mass. n. 176.402; Cass. Pen 5 giugno 1990, n. 8.148, ivi, mass. n. 184.561; Cass. Pen. 16 agosto 1990, n. 11484, ivi mass. N. 185.106; Cass. Pen. 23 novembre 1990, n. 15.656, ivi mass, n.

185.858, e, più di recente, Cass. Pen. 16 novembre 1993, n. 10.437.

53 Nel primo senso: Cass. Pen. 2 aprile 1987, ric. Ziliotto, in Cass. Pen., 1989, 72; Cass. 26 aprile 1983, in Riv. Pen. 1984, 482; nel secondo: Cass. Pen. 7 marzo 1989, ric Princivalli, in Riv. Pen. 1990, 119.

54 Cass. Pen. 12 luglio 1991, ric. Silvestri, in Foro It., 1992, II, 363-367, con nota di I. Giacona.

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sollecito intervento….. sono sufficienti, talché sussiste il nesso di causalità quando un siffatto intervento non sia stato possibile a causa dell’incuria colpevole del sanitario”55.

Si è affermato che la citata sentenza del 1991 abbia voluto “compensare….. il difetto di rilevanza causale con l’elevato grado di colpa”, ritenendone insostenibile l’assunto.

Se non si può convenire con una tale insinuazione, può accogliersi, viceversa, l’istanza dell’autore della critica (I. Giacona, nella nota cit.), per la quale “la stima probabilistica dovrebbe essere il risultato di un attento apprezzamento logico di tutte le circostanze del fatto preso in esame. E le rilevazioni statistiche potranno essere utilizzate ai fini della formazione della decisione: purché, però, venga effettuato con estrema cautela, tenendo presenti le particolarità del caso concreto e analizzando nei limiti del possibile tutte le circostanze differenziali rispetto alla situazione astratta cui si riferisce il dato statistico”.

Al problema sinora trattato si connette quello del concorso di cause, la cui presenza come è noto non interrompe il nesso di causalità se non siano da sole idonee a causare l’evento (art. 41, c. 2°, c.p.). La questione concerne sia il concorso di cause della stessa natura (o di più errori professionali), sia l’incidenza dell’errore professionale dell’interruzione del nesso causale rispetto ad altri fattori, o viceversa.

Il concorso causale fra più trattamenti medici è stato quindi riconosciuto, ad esempio:

per l’ostetrico che, nell’eseguire l’asportazione di un prodotto abortivo, abbia sfondato l’utero, e per il chirurgo che, intervenuto successivamente per procedere all’isterectomia, non abbia eseguito una revisione completa, determinando una peritonite a causa della permanente presenza di frammenti di embrione nel peritoneo. In altri casi, è stato, viceversa escluso, chiarendosi che “la causa sopravvenuta, da sola sufficiente a determinare l’evento, non è soltanto quella apparente ad una serie causale completamente autonoma rispetto a quella posta in essere della condotta…..; tale è anche quella che, pur dell’imputato, agisce per esclusiva forza propria….. di tal che la condotta dell’imputato, pur costituendo un antecedente necessario per l’efficacia delle cause sopravvenute, assume rispetto all’evento non un ruolo di fattore causale ma di semplice occasione”56.

55 Cass. Pen. 7 gennaio 1983, in Foro I. 1986, II, 351, con nota di Renda. Nella sent. 12 maggio 1989, n.

7118 (Cass. Pen. Mass., mass. n. 181334) si legge che “quando è in giuoco la vita umana, anche limitate probabilità di successo di un immediato intervento chirurgico sono sufficienti a configurare la necessità di operare”.

56 Cass. Pen. 9 giugno 1976, in Riv. Pen., 1977, 113. Caso tipico la morte di un paziente che abbia subito un trattamento errato, determinata dall’incendio dell’ospedale, o, per riferirci a quello deciso, di un paziente che, ricoverato a seguito di lesioni gravi ma non mortali subite in un incidente stradale, muoia in conseguenza di un errore del chirurgo che abbia eseguito un’operazione e del medico che abbia proceduto

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6. Lavoro in strutture organizzate ed in équipe

I problemi evidenziati non si pongono diversamente sia che il medico od in genere, il professionista operi autonomamente, sia che operi nell’ambito di strutture organizzate, con le quali sussista, eventualmente, un rapporto subordinato, com’è per il medico dipendente di una U.S.L., di una clinica o di un ospedale.

Tale rapporto non fa venir meno, di norma, l’autonomia decisionale del professionista, ed in particolare del medico, salvi, eventualmente, gli aspetti della responsabilità civile contrattuale ed extracontrattuale del datore di lavoro. In proposito si è già evidenziata l’inapplicabilità al medico che operi alle dipendenze di una struttura pubblica ed alla stessa struttura degli artt. 22 e 23 del d.p.r. 10 gennaio 1957, n. 3, che regolano la responsabilità degli impiegati civili dello Stato per gli atti compiuti in violazione dei diritti dei cittadini57. La medesima Cass. Civ. 11 aprile 1995, n. 4152, ha premesso che “la responsabilità dell’ente ospedaliero, gestore del servizio pubblico sanitario, e del medico suo dipendente per danni subiti da un privato ha natura contrattuale di tipo professionale, dal che consegue che la responsabilità diretta dell’ente e quella del medico, inserito organicamente nell’organizzazione del servizio, sono disciplinate in via analogica dalle norme che regolano la responsabilità in tema di prestazione professionale” (ciò non esclude la responsabilità extracontrattuale del medico e della U.S.L. quale datrice di lavoro).

La responsabilità personale può assumere una configurazione particolare in relazione all’intensità del rapporto gerarchico nell’ambito della struttura, com’è negli ospedali e nelle cliniche, nonché nel cosiddetto Lavoro di équipe, abbastanza normale negli interventi chirurgici, in cui più soggetti collaborano, sia pure con mansioni diverse e distinte, ad uno stesso risultato.

Nell’ambito ospedaliero, il r.d. 30 settembre 1938, n. 1631, regolarmente già, espressamente, sia pure con la necessaria elasticità ed in forma non del tutto esaustiva, le funzioni del primario, degli aiuti e degli assistenti.

ad una trasfusione, resasi necessaria in conseguenza del fatto del precedente sanitario (è stata esclusa, in tal caso, la responsabilità dell’investitore per il reato di omicidio colposo). Viceversa, in un caso in cui la gravità delle lesioni riportate in un incidente aveva reso la craniotomia, è stato deciso che “l’errore commesso dai sanitari nel praticar(la)….. non è idoneo ad escludere il nesso eziologico tra la condotta lesiva dell’agente che ha provocato il sinistro e l’evento morte del soggetto, non potendo considerarsi un siffatto errore come causa sopravvenuta da sola sufficiente a produrre l’esito letale e cioè come avvenimento atipico ed eccezionale rispetto al comportamento dell’agente che, provocando il fatto lesivo, ha dato luogo al necessario intervento operatorio” (Cass. Pen. 5 aprile 1986, n. 2589, in Cass. Pen. Mass., mass. 172. 309.

57 cfr. S 2. E nota 15.

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