• Non ci sono risultati.

Alessandro Barbero. GLI OCCHI DI VENEZIA. Romanzo. MONDADORI. *****

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2022

Condividi "Alessandro Barbero. GLI OCCHI DI VENEZIA. Romanzo. MONDADORI. *****"

Copied!
463
0
0

Testo completo

(1)
(2)

Alessandro Barbero.

GLI OCCHI DI VENEZIA.

Romanzo.

MONDADORI.

  www.librimondadori.it.

 

*****

  Gli occhi di Venezia.

di Alessandro Barbero.

Collezione Omnibus.

ISBN 978-88-04-59543-4.

© 2011 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano.

I edizione febbraio 2011.

 

*****

  Avvertenza.

Il lettore che s’imbattesse in termini tecnici o stranieri di cui non conosce il significato potrà trovare una breve

spiegazione nel Glossario in fondo al volume.

 

***

(3)

1.

C’era stato il sole per tutto il giorno, ma adesso il vento dalla laguna si era rinfrescato e il cielo su Venezia

cominciava a intorbidire. Matteo, ritto sul ponteggio

principale del palazzo in costruzione, si asciugò il sudore con la manica fradicia della camicia, per l’ennesima volta:

d’estate le giornate di lavoro cominciavano presto e non finivano mai. Guardò il sole per valutare quanto mancava al tramonto; nessuna chiesa aveva ancora suonato il vespro, nemmeno quella dei Frari che da un po’ di tempo, per chissà quale mania del campanaro, lo suonava sempre prima delle altre. Poi abbassò lo sguardo verso i suoi uomini al lavoro, soffermandosi con calma su ognuno. Chiunque altro, stando lì dove si trovava lui, a venti metri di altezza, avrebbe

evitato di guardare di sotto, per paura del capogiro, ma Matteo faceva il muratore da una vita e stava a suo agio su un’impalcatura quanto sulla terraferma.

Sotto di lui, all’altezza del primo piano, tre manovali lavoravano svelti, attingendo mattoni da una cesta ormai quasi vuota; giù, nel campiello ormai in ombra, un ragazzo scalzo rimestava con un bastone di legno nel mastello della calcina, aspettando che gli dessero ordine di portarlo su.

Matteo, grosso, pesante, abituato a riflettere con calma ai suoi affari e a non farsi fregare, si chiese se non avrebbe dovuto prendere un altro manovale, o magari due: se davvero il committente voleva il lavoro finito per un

altr’anno, con la squadra che aveva adesso rischiava di non farcela. Però il muratore non aveva capito se il senatore Lippomano, nonostante i suoi abiti sontuosi e il fiero

stemma col leone rampante che portava ricamato sul felze della gondola, aveva abbastanza liquidità per pagarlo tutto, il lavoro: le difficoltà che aveva fatto prima di pagare

(4)

l’ultimo mese lo avevano inquietato un po’. Non c’è fretta, pensò Matteo, ad assumere altre braccia c’è sempre tempo, a fidarsi troppo dei padroni c’è solo da rimetterci.

Scendendo al piano inferiore del ponteggio, con le assi che vibravano pericolosamente sotto il suo peso, ordinò a uno dei manovali di andar giù a cercare un’altra cesta di mattoni, diede una pacca sulle spalle all’ultimo dei tre, che era suo figlio Michele, poi scese ancora qualche scalino e saltò direttamente nella corte. Il palazzo veniva su bene, nemmeno l’architetto che l’aveva disegnato per ordine del senatore avrebbe avuto niente da ridire - e sì che Matteo in vita sua cogli architetti aveva sempre litigato: se avessero preso un mattone in mano una volta, invece di star sempre seduti al tavolo con il regolo e la penna d’oca, non

avrebbero mica avuto certe pretese! Nel suo ambiente si raccontava che una volta, ma tanto tempo fa, i palazzi e le chiese li costruivano i capimastri, senza tanti disegni e

senza bisogno d’aver studiato, e guarda un po’, sono ancora tutte in piedi adesso, le fabbriche costruite a quei tempi; ma si sa, il mondo diventa sempre più matto.

Sospirando, perché dopo una giornata di lavoro perfino un colosso come lui cominciava a essere stanco, Matteo andò a bere una sorsata di vino dal fiasco messo in fresco nel secchio del pozzo, proprio al centro del campiello. Il ragazzo che rimestava la calcina aveva lasciato stare il

mastello e adesso aiutava il manovale a portar su i mattoni, impilati accuratamente nella cesta di vimini. Matteo l’aveva assunto una settimana prima, quando l’altro ragazzo che aveva in squadra si era licenziato: la paga era troppo bassa, diceva, da qualche parte troverò di meglio, alla peggio

m’imbarco.

Il capomastro si era stretto nelle spalle: lo sapeva anche lui che con le paghe del giorno d’oggi si fa fatica a vivere, ma la famiglia doveva pure mantenerla. Un ducato al mese era tutto quello che poteva offrire, e da mangiare e dormire per terra nell’ingresso di casa sua: ma almeno da mangiare,

(5)

grazie a Dio, ce n’era sempre in abbondanza, da lui nessuno saliva sui ponteggi a pancia vuota. Senza un garzone, però, non si poteva lavorare, e fortuna che era capitato lì

quest’albanese sperduto; ce n’erano tanti in città, e

lavoravano duro e bisognava pagarli quanto chiunque altro, ma questo qui era poco più d’un ragazzino, appena arrivato a Venezia, e solo, a quanto pareva: a Matteo era piaciuto subito, e pure a sua moglie. Ma sì, tienilo, gli aveva detto Zanetta. Si erano messi d’accordo: vitto e alloggio fino a fine anno, e basta, come si fa cogli apprendisti nelle botteghe; poi, se impari il mestiere, ci sarà la paga.

Sperando che il Lippomano continui a pagare ogni mese, perché se gli zecchini non li tira fuori lui, noialtri possiamo morire tutti di fame. Ora il ragazzo era lì che saliva,

reggendo a fatica il manico della cesta troppo pesante.

Zorze, si chiamava. Verrà fuori un buon muratore, pensò Matteo osservando le gambe magre, che però cominciavano a ispessirsi ai polpacci.

E poi all’improvviso il ragazzo mise un piede in fallo, la pesante cesta gli si ribaltò addosso, e lui precipitò dal ponteggio con un urlo lacerante. Insieme e sopra di lui piovvero i mattoni, e un attimo dopo era immobile e

disarticolato sul selciato. «Maria Vergine!» gridarono tutti;

Matteo corse e in un momento era inginocchiato accanto a lui, mentre Michele e l’altro muratore si precipitavano giù, facendo tremare il ponteggio. Solo l’ultimo manovale, quello che stava portando la cesta insieme a Zorze, era rimasto bloccato con le mani sulla bocca. Si vide subito che non c’era niente da fare, il ragazzo si era rotto le ossa dentro, e parecchi mattoni gli erano caduti addosso, colpendolo al torace e alla testa; sanguinava sotto i capelli biondastri, muoveva piano la testa e storceva gli occhi vitrei, come quelli di un gatto ammazzato a bastonate. «Maria Vergine»

ripeteva Matteo, e non sapeva come toccarlo con le mani troppo grosse. Si guardarono tutti.

«Lo portiamo a casa?» disse Michele, sconvolto.

(6)

«Ma non lo so» borbottò Matteo. Come sempre quando le cose gli andavano male, il dolore dentro di lui era soffocato da una sorda rabbia. Perché sempre a me? Porco lavoro - e porca vita…

«Ormai è inutile, guarda» disse l’ultimo muratore, che intanto era sceso anche lui, pallido come un cencio. E

davvero tutti videro che era inutile: gli occhi del ragazzo si erano trasformati definitivamente in vetro opaco, e il corpo non si muoveva più. Michele s’inginocchiò, lo toccò goffamente, al polso, al petto. Non si sentiva niente.

«È andato, poveraccio» mormorò; e si fece il segno di croce.

Tutti gli altri lo imitarono.

«Cosa facciamo?» chiese poi Michele. Non aveva ancora vent’anni, e per quanto il padre l’avesse già lasciato sposare era ancora abituato a ubbidirgli in tutto. Stavolta, però,

anche il capomastro sembrava smarrito.

«Poveraccio» ripeteva, con le lacrime agli occhi. In quel momento la campana dei Frari cominciò a suonare il vespro, e Matteo si riscosse. «Intanto cominciamo ad avvertire il padrone. E poi lo portiamo a casa. Oramai è tardi, a

seppellirlo penseremo domani.»

Mentre Michele correva a casa ad avvertire le donne, uno dei due manovali fu spedito a cercare il senatore

Lippomano. Matteo tornò barcollando fino al pozzo, riprese il fiasco e bevve un’altra lunga sorsata; poi vide il muratore rimasto che lo guardava, accucciato sotto il ponteggio, e gli fece cenno di venire a bere anche lui. Questa non ci voleva, pensava; e gli pareva che la testa gli girasse, più di quello che era giusto. Che diamine, non è mica colpa mia, pensò.

Io l’ho trattato bene.

Michele arrivò subito dopo, con la madre e la moglie:

casa loro era lì a due passi, in un campiello identico a quello, affacciato sul canale della Giudecca. Le due donne s’inginocchiarono accanto al morto, piangendo forte. Anche se era in casa solo da pochi giorni, Zorze piaceva a tutti,

(7)

così biondino com’era, e col suo modo buffo di parlare, il dialetto veneziano imparato a metà che suonava così strano con la sua pronuncia dura.

«Destino!» disse finalmente Zanetta, dopo che entrambe ebbero gridato forte per un po’, com’era usanza. E tutt’e due cominciarono a pensare a cose pratiche: in quei casi erano le donne a prendere in mano la situazione, guai se si fossero dovuti aspettare gli uomini. Michele, che s’era

stretto a sua moglie Bianca e tremava un po’, fu rispedito con un manovale a cercare una barella per trasportare il cadavere, e un po’ di lenzuolo per coprirlo. Poi Zanetta s’accostò a Matteo, guardò con un sospiro il fiasco vuoto abbandonato per terra accanto al secchio, gli rivolse

un’occhiata di rimprovero; il marito, impacciato, si pulì la bocca col dorso della mano.

«Com’è successo?» chiese la donna, per rompere il silenzio.

«Ma non lo so!» esclamò il muratore. «Saliva su coi mattoni, insieme a Teta. Non lo so, è scivolato. E…»

La donna tacque. Solo lei sapeva che da quando suo figlio aveva cominciato a salire sui ponteggi insieme al padre, ogni sera lei aspettava il loro ritorno con

un’inquietudine oscura, aspettandosi ogni volta che invece di loro due si affacciasse alla porta un ragazzo mandato a chiamarla, perché era successa una disgrazia. Finché a lavorare ci andava solo suo marito, non aveva mai avuto paura, chissà perché; ma ora che ci andava suo figlio

tremava. Era l’unico che le era rimasto: gli altri due ragazzi li aveva portati via la peste del 1576, quella che tutti si ricordavano con spavento, perché si era mangiata mezza Venezia. Era rimasto solo lui, il più piccolo; e poi non ne aveva più avuti.

Intanto erano passati… quanti anni? Dodici, sì, dodici: il bambino era diventato un adulto, e andava nel cantiere col padre. Eh, la vita, pensò Zanetta.

(8)

Un passo frettoloso la fece trasalire. Nel campiello era sbucato dalla calle un uomo vestito di velluto nero, con una luccicante catena d’oro al collo: il magnifico ser Girolamo Lippomano. Già Bianca, che era più vicina, gli faceva una riverenza impacciata, e Zanetta si affrettò a imitarla, mentre Matteo gli si faceva incontro e s’inchinava goffamente. Il senatore ignorò le due donne, fece un cenno secco al

muratore e si piantò davanti al cadavere del ragazzo ancora steso sul selciato. Fece una smorfia, poi alzò lo sguardo ai ponteggi del palazzo in costruzione. Girolamo Lippomano dimostrava una cinquantina d’anni, aveva una gran fronte calva e solcata da rughe, pochi capelli grigi tagliati

cortissimi e una barbetta curata, che cominciava a imbiancare. Membro del Senato per molti anni, eletto parecchie volte Savio Grande, e da poco nominato procuratore di San Marco, era uno dei diplomatici più apprezzati della Repubblica; ambasciatore a Torino e a Napoli, aveva poi coperto incarichi sempre più prestigiosi, presso il re di Polonia, e addirittura presso il re di Francia. Da quelle corti spediva rapporti con informazioni segretissime, che solo lui sapeva come riusciva a procurarsi.

I suoi colleghi, che governavano Venezia col pugno di ferro e non si stupivano di niente, lo tenevano in enorme considerazione. Dopo aver ispezionato a lungo l’edificio incompiuto, ser Girolamo tornò a guardare il cadavere, facendo un passo indietro e un’altra smorfia. Non gli era nemmeno venuto in mente di levarsi il berretto; tuttavia fece un segno di croce, rapido, poi ordinò a Matteo di avvicinarsi.

«Chi era?» chiese in tono brusco. Matteo scrollò le spalle.

«Un apprendista. L’avevo appena trovato.»

«E da dove veniva?»

«Dall’Albania, diceva.»

Lippomano fece ancora un’altra smorfia.

«Bisognerà trovargli un prete dei loro» disse Matteo. Il senatore lo guardò freddamente.

(9)

«A che cosa serve? Ormai è morto, non deve più confessarsi. Portalo sotto il portico del Palazzo Ducale e lascialo lì, lo seppelliranno i becchini del comune.»

Matteo esitò. Non era abituato a contraddire i padroni, però stavolta non riuscì a star zitto.

«Illustrissimo, non sta bene, ci vuole un prete dei loro che lo benedica. Se no ‘st’anima non riposa tranquilla.»

Lippomano lo fissò con attenzione improvvisa, poi alzò le spalle.

«Fai come vuoi. Basta che tu non venga a chiedere dei soldi a me.»

In quel momento arrivarono Michele e il manovale con la barella. Vedendo il senatore s’inchinarono tutt’e due, poi deposero la barella accanto al morto e, prendendolo per le ascelle e per le ginocchia, lo caricarono. Non pesava molto.

Il manovale aveva un fagotto annodato a tracolla che svolto si rivelò un lenzuolo vecchio di casa. Con quello coprirono il ragazzo, facendogli un segno di croce sulla fronte.

«Dove lo portate?» chiese il senatore.

«Pensavo di portarlo a casa mia» disse Matteo.

«Bravo» rispose ser Girolamo, con indifferenza.

Matteo si rivolse agli altri.

«Su, portatelo a casa. Io arrivo subito.»

I due lavoranti sollevarono la barella e se la misero a spalle. Michele, Bianca e Zanetta s’inchinarono ancora, poi si avviarono dietro al morto. Lippomano aspettò d’essere rimasto solo con Matteo, poi tirò fuori un fazzoletto ricamato dal polsino e si asciugò il sudore dalla fronte pelata. Il cielo s’era mezzo coperto, ma il vento era caduto, e l’afa era pesante.

Matteo, in camicia e scarpe di tela, senza calze e col

berretto in mano, pensò che il senatore doveva avere caldo.

Peggio per lui, visto che le leggi della Repubblica sono così severe e tengono così tanto al decoro dei nobili: che non possono uscire vestiti come vogliono loro, ma sempre in

(10)

nero, e in porpora se sono magistrati nell’esercizio delle loro funzioni, perché tutti quanti, fino all’ultimo, rappresentano la Serenissima. Noialtri invece, pensò Matteo, possiamo pure andare scalzi e cogli stracci addosso, non importa niente a nessuno, neanche se crepiamo a un angolo di strada.

«Sta’ a sentire, Matteo, che ho da dirti una cosa» disse il Lippomano.

«Comandi.»

«Dimmi un po’, a che punto sei coi lavori?»

Dal tono con cui il senatore gli aveva fatto questa domanda, Matteo si mise in guardia.

«Come le avevo detto, eccellenza» cominciò

prudentemente. «Un anno e mezzo ci vorrà tutto, ma per le feste dell’anno prossimo le consegno il lavoro finito. Se poi vuole che si finisca prima…»

Matteo s’interruppe, qualcosa gli diceva che non era proprio quello il momento di chiedere più soldi al padrone.

Ser Girolamo, infatti, lo stava fissando con

un’espressione sgradevole. Giocherellava con la catena d’oro che portava sul petto. Aveva dita sottili, con le unghie curate.

«No» disse poi bruscamente. «Sospendiamo i lavori, invece. Io vado via, non so ancora quando, forse già

quest’inverno. Starò via almeno due anni. E non voglio che il lavoro vada avanti mentre non ci sono io.»

Matteo, a cui già prima girava un po’ la testa, a quel colpo inaspettato vacillò.

«Ma illustrissimo…» riuscì a mormorare.

«Niente ma!» tagliò corto il Lippomano, col tono di chi è abituato a comandare e a non essere contraddetto. «Già così, non so com’è che questa fabbrica mi viene a costare tanto, figuriamoci quando non potrò più tenerla d’occhio.

Vi conosco, voialtri.»

Matteo, avvilito, non rispose.

(11)

«Allora siamo intesi» concluse il senatore. «Verrai domani a casa e facciamo i conti. Addio Matteo.»

«Schiavo suo, eccellenza» balbettò il muratore. Mentre l’altro se ne andava, Matteo restò lì col berretto in mano, così confuso che non sapeva se fosse mattina o sera. Poi si ricordò del fiasco e guardò verso il pozzo, ma Zanetta, che non lasciava mai niente in disordine, doveva averlo riportato a casa.

Matteo sputò e dopo essersi guardato bene intorno bestemmiò; ma a bassa voce. Anche i muri avevano orecchie, e il Sant’Uffizio non ci pensava due volte a mandare a chiamare un poveraccio e dargli due tratti di corda, se riceveva una denuncia anonima sul suo conto.

Matteo si ricordava benissimo che una volta non era così, quando lui era giovane la gente non aveva tanta paura, e nessuno trovava che ci fosse qualcosa di grave in una bestemmia scappata di bocca senza pensarci; ma i tempi erano cambiati, e non tanto in meglio. Nemmeno la

soddisfazione di bestemmiare abbiamo più. Che mondo porco, pensò con rancore, mentre s’incamminava verso casa.

Arrivato, scoprì che aspettavano solo lui per cenare. Si lavò le mani al secchio, sedette a tavola sull’unica sedia buona, coi braccioli; Michele sedette sull’altra sedia, alla sua destra.

I manovali presero posto su due sgabelli: per contratto cenavano con loro, e Matteo gli tratteneva il pasto dalla paga.

Zanetta e Bianca servirono la zuppa, poi Zanetta sedette sul bordo del camino con la scodella sulle ginocchia, mentre Bianca continuava a trafficare, attizzando il fuoco, portando un secchio d’acqua fresca dal pozzo; finalmente prese una scodella anche lei, si fermò in piedi accanto alla suocera e cominciò a mangiare. Matteo, finito il primo piatto di

minestra, se ne fece versare un’altra mestolata, prese la grossa pagnotta rafferma e ne tagliò una fetta col coltello

(12)

che portava alla cintura, cominciò a intingerla nel piatto e a masticare. Nessuno parlava. Il morto era stato appoggiato in terra in una delle due camere da letto, quella dove

dormivano i due giovani.

«Ma stanotte lo riportiamo di qua, vero?» sussurrò Bianca, accennando col capo alla stanza accanto. Quel

morto in casa le faceva impressione. Michele voleva dir di sì, ma per abitudine aspettò che parlasse suo padre.

«Certo» disse alla fine Matteo, masticando. Poi, sentendo la rabbia che gli premeva nella pancia, raccontò la novità che gli aveva portato il Lippomano.

Le disgrazie non vengono mai sole, pensò Zanetta; ma non lo disse.

«Bella notizia!» disse invece.

Tutti avevano smesso di mangiare, e negli occhi dei due manovali si leggeva chiaramente il timore che quella zuppa fosse l’ultima. Lavoro, in quel momento, non ce n’era mica tanto a Venezia.

«E così, dice che va via?» indagò Michele, incuriosito.

Suo padre alzò le spalle, ma la madre intervenne di nuovo.

«Andrà di nuovo ambasciatore. Tu non ti ricordi, ma una volta era sempre via.»

«Ora, però, è da un pezzo che non partiva più»

intervenne Matteo, cupo.

«Sì, e anzi, diceva proprio che ormai ne aveva

abbastanza di viaggiare» riprese Zanetta, ricordando le chiacchiere con una serva di casa Lippomano, sua amica d’infanzia, che incontrava qualche volta al mercato del pesce.

«Dammi da bere una volta» disse Matteo; e subito Bianca, che s’era seduta anche lei sullo scalino vicino al fuoco, si alzò, cercò il fiasco e gli riempì il bicchiere. Matteo bevve, poi appoggiò i gomiti sul tavolo. «È tutto chiaro, altroché»

(13)

sbottò, con rancore. «Ha bisogno di soldi, quello lì. L’ho capito già l’altra volta, che ho dovuto faticare così tanto per farglieli tirare fuori. Magari non va neanche via, è tutta una scusa per chiudere il cantiere.»

«E intanto lascia senza lavoro te» protestò Zanetta.

«Dài, che gente in gamba come noi di lavoro ne trova sempre» esclamò allegramente Michele. Bianca cercò il suo sguardo e lo trovò. Lui le sorrise, e lei sentì sciogliersi il

groppo che la stringeva alla bocca dello stomaco.

Vedrai che in un modo o nell’altro, con un uomo come me, di fame non muori, le aveva detto lui una volta, quando non erano ancora sposati. Ora ogni tanto se lo ricordavano a vicenda, scherzando: soprattutto a letto, mentre i vecchi russavano. Michele era solo un ragazzo e non sapeva niente della vita, ma siccome anche lei era una ragazzina, si fidava ciecamente. Matteo e Zanetta si cercarono con gli occhi, ma loro ne avevano già viste tante: di fiducia, in quegli sguardi, ce n’era poca.

Si faceva buio, e Bianca trafficò attorno alla bugia. La fiammella della candela, tremolando sul tavolo, diede a tutti l’impressione che il resto della casa fosse ancora più buio.

«Su, laviamo i piatti e poi si va a dormire» sospirò

Zanetta, alzandosi dal suo angolo. «Voialtri portate di qua quel poverino.»

Mentre le donne rigovernavano, gli uomini tolsero la tavola dai cavalletti, la addossarono al muro con le sedie e gli sgabelli, e trasportarono in cucina la barella col morto, depositandola sul pagliericcio dove fino alla sera prima dormiva il ragazzo. Di lì a poco gli uomini, che avevano addosso le loro dodici ore di lavoro, dormivano come macigni.

Zanetta e Bianca rimasero a vegliare il ragazzo, perché non sta bene lasciare solo un morto la prima notte; la

candela illuminava fiocamente la stanza, e le due donne tacquero, l’una accanto all’altra, finché Bianca non fu vinta

(14)

dal sonno e si assopì, e Zanetta rimase da sola a vegliare nella notte.

 

***

(15)

2.

Quel mattino, quando si svegliarono, una grigia caligine pesava su Venezia. I due uomini emersero dal letto fradici di sudore, benché avessero dormito nudi, o quasi, sotto le

lenzuola di lino, ultimo avanzo del corredo di Zanetta.

Quando Michele uscì dalla camera, gettò subito uno

sguardo al morto che giaceva nell’angolo, coperto anche lui dal suo lenzuolo rattoppato, e senza volerlo annusò l’aria:

forse che si sentiva già l’odore? No, grazie a Dio, ma non mancava molto, con quel caldo. In cucina le due donne, affaccendate e arrossate, cogli occhi gonfi per la veglia, stavano già preparando la prima zuppa della giornata, uno straccio pulito annodato intorno ai capelli per trattenere il sudore quando s’avvicinavano al fuoco. Michele uscì scalzo nel campiello; suo padre, a torso nudo, si stava lavando al pozzo.

«Vai tu a vedere per farlo seppellire» gli disse quando lo vide arrivare, scostandosi per lasciargli il secchio. «Io non ho tempo.»

Michele tuffò le mani nell’acqua e si lavò la faccia, sentendo con piacere le gocce che gli scorrevano lungo il collo.

«Va bene» disse. «Ma dov’è che devo andare?»

«Alla Scuola degli Albanesi, direi: se non lo sanno lì come fare, io non lo so davvero. Devi cercare della chiesa di San Maurizio. Mi pare che stia dietro San Marco, ma chiedi a tua madre, lei lo sa meglio di me.»

Quella chiesa Michele non la conosceva, ma cosa fosse una Scuola lo sapeva bene. Quasi tutti erano iscritti a una Scuola a Venezia, anche lui e i suoi genitori: la loro era la più vicina a casa, sotto la protezione della gloriosa vergine

santa Agnese, anche se le cerimonie si tenevano nella

(16)

chiesa di San Barnaba, due ponti più in là. Quando aveva compiuto sedici anni, suo padre lo aveva portato in chiesa, lo aveva fatto inginocchiare davanti all’altare della santa, aveva pagato i suoi quaranta soldi di buonentrata e fatto scrivere il suo nome nella mariègola, come si chiamava il libro dov’erano immatricolati tutti i soci della confraternita.

Perché la Scuola, si capisce, non era mica un posto dove imparare a leggere e scrivere, come aveva creduto lui: ci mancherebbe, aveva riso Matteo, che tutti quanti dovessero perder tempo con queste cose, la gente che lavora ha ben altro a cui pensare. Alla Scuola ci s’iscriveva e si pagava la quota annuale perché se ti ammalavi i confratelli ti

assistevano, se restavi disoccupato ti facevano l’elemosina, e quando morivi pensavano loro al funerale. Era importante sapere che non saresti finito sottoterra solo come un cane, ma che ti avrebbero accompagnato con le candele accese, e il gonfalone della Scuola in testa alla processione.

Così gli aveva spiegato Matteo: lui, Michele, non era ancora tanto incline a preoccuparsi di quel giorno lontano, ma aveva obbedito come faceva sempre, pur pensando fra sé che i genitori hanno preoccupazioni ben strane.

Rientrò in casa, dove le due donne avevano rimesso la tavola sui cavalletti e scodellato la minestra. Bianca lo guardò soddisfatta mentre cominciava a mangiare: lo faceva da poco, questo mestiere di moglie, ma stava

imparando in fretta e le piaceva far star bene il suo uomo.

Subito dopo entrò Matteo, si sedette rumorosamente, guardò il piatto e storse la bocca.

«Che c’è?» disse subito Zanetta.

«Con ‘sto caldo… Dammi un bicchier di vino, va’.»

Zanetta fece una faccia strana, ma non disse niente.

Conoscendo la debolezza di suo marito, quando s’era alzata aveva già messo il vino a rinfrescarsi in un secchio d’acqua; andò a prenderlo e versò un bicchiere. Matteo lo bevve d’un fiato, poi con un sospiro di soddisfazione tagliò una fetta di pane.

(17)

«Ancora, va’; che questa zuppa qui e la migliore.»

Zanetta riempì di nuovo il bicchiere, e il muratore tuffò il pane nel vino e cominciò a masticarlo con piacere.

«Allora cosa avete deciso?» chiese la donna dopo un po’;

e quando il marito la guardò stupito accennò al morto.

«Eh! Michele va dagli Albanesi, lì sapranno cosa fare.»

«Dov’è la chiesa di San Maurizio?» chiese il ragazzo alla madre, pulendo il piatto col pane.

«È facile, da Rialto vai a destra per la Riva del Ferro e giù per calle dei Fabbri, ma non andare fino a piazza San Marco, tieniti a destra, e lì se non trovi chiedi.»

«Va bene, allora vado» concluse Michele alzandosi.

Incrociò lo sguardo della moglie e le fece cenno con un mezzo sorriso: dài, vieni fuori a salutarmi come si deve. Lei rispose al sorriso, lasciò le fave che stava pulendo, si

asciugò le mani nel grembiule e lo seguì. Fra la porta e il campiello, in un angolo dove non li vedeva nessuno, si baciarono in fretta in bocca.

«Ti voglio tanto bene» le sussurrò lui all’orecchio. Lei rise contenta, poi rientrò in fretta, che i due vecchi non

pensassero chissà cosa.

Michele partì di buon passo: il giro era lungo fino a Rialto, dove c’era l’unico ponte sul Canal Grande. Se avesse preso una barca per farsi portare dall’altra parte sarebbe arrivato in un momento, ma non gli venne neppure in mente di

buttar via un soldo in quel modo: di quei tempi solo i ricchi prendevano il traghetto, e i barcaioli si lamentavano che non c’era lavoro. Anni cattivi, così cattivi non se li ricordava nessuno, se non forse al tempo del doge Loredan, quando lui era appena nato: sua mamma gli aveva raccontato che lo chiamavano il doge della fame, e quando poi era morto la gente era andata al suo funerale a tirare sulla bara le

pagnotte di miglio di cui era costretta a nutrirsi, un pane buono solo per i porci, non per i cristiani.

Michele risalì fino ai Frari, poi per campo San Polo, dove si accorse che stava sudando e rallentò il passo, perché

(18)

mezz’ora in più o in meno non cambiava niente; era in maniche di camicia e senza calze, ma l’afa era soffocante, tanto che si tolse perfino il berrettino e lo infilò nella cintura.

Intorno a lui la gente si affaccendava; a ogni momento sorpassava una carriola o un facchino carico di sacchi,

davanti a un forno una coda di donne aspettava paziente il suo turno per cuocere il pane: era sabato e la domenica tutti volevano mangiare il pane fresco. A Michele non capitava spesso di allontanarsi dal suo quartiere. Anche gli appalti che prendeva suo padre erano quasi sempre in zona, di muratori ce n’erano fin troppi a Venezia per sperare di trovare lavoro dove non era conosciuto. Ora il ragazzo si divertiva un mondo a scoprire strade e piazze nuove, ma a un certo punto si ricordò il motivo di quella passeggiata, e si fece svelto un segno di croce.

A Rialto il mercato era grosso e impediva quasi di passare: Michele non osava scostare a forza di gomiti le donne che contrattavano, madri di famiglia appesantite dalle gravidanze, cuoche di signori floride e ben nutrite, e ogni tanto anche una sposa giovane o una serva con la camicia slacciata sul petto e le maniche rimboccate per il caldo.

A quelle lì Michele, per abitudine, dava un’occhiata

compiaciuta: quando non era ancora sposato e nei momenti liberi andava a spasso per le calli con i suoi compagni altro che un’occhiata davano!, i commenti ad alta voce non

mancavano, sempre sperando di trovarne una che ci stava, e sempre delusi. Una volta qualcuno, dopo che avevano bevuto, una domenica sera, aveva proposto di andare in una certa strada a fare la posta a una ragazza che veniva lì a vendersi tutte le notti, e convincerla a farli divertire un po’, con le buone o con le cattive. Michele aveva esitato, poi aveva detto no, io non ci vengo; s’era vergognato per tutta la notte di aver fatto quella figura da vigliacco, ma poi il giorno dopo gli avevano detto che era stato più furbo degli altri, la ragazza non s’era vista, in compenso era passata la

(19)

pattuglia e avevano rischiato tutti di farsi arrestare. Michele sorrise al ricordo: se ne vergognava ancora un po’, anche se non sapeva più bene di cosa; ad ogni modo adesso era un uomo sposato e ragazzate del genere non ne avrebbe fatte mai più.

Il ponte di Rialto era quasi bloccato dai lavori: da qualche mese avevano cominciato a demolire l’antica struttura di legno e si diceva che l’avrebbero ricostruito tutto di marmo, ma intanto per attraversare il Canal Grande restava solo una passerella su cui transitava una persona per volta. La calca era inverosimile e la gente protestava: chissà che bisogno c’era di rifare il vecchio ponte che andava

benissimo, e per di più spendendo tutti quei soldi, e creando così tanta scomodità a chi lavora! Dall’altra parte del ponte aprirsi la strada era altrettanto difficile, c’erano banchi di ortolani e pescivendoli e calca di compratori, ma finalmente Michele piegò giù per la calle dove stavano una dopo l’altra le botteghe dei fabbri, e lì c’era meno traffico, potè

ricominciare a camminare di buon passo. Dovette informarsi un paio di volte, perché quella parte della città davvero non la conosceva e ci si perdeva, ma alla fine si trovò dietro un gran campanile sbilenco e sbucò nella spianata deserta di campo San Maurizio. In un angolo, accanto alla chiesa, c’era un edificio basso con una porticina, che aveva tutta l’aria di poter essere la casa della Scuola. Michele si accostò,

impugnò il battente e bussò.

Ad aprirgli venne direttamente il cappellano, un pretone di quelli greci con una barba minacciosa e una gran croce appesa al collo. Michele spiegò in poche parole la faccenda del ragazzo morto. L’altro si grattò la testa, scontento.

«Ma era iscritto alla Scuola, ‘sto poveretto?» chiese alla fine. Michele si strinse nelle spalle.

«Cosa volete che fosse iscritto, era appena arrivato a Venezia.»

«E come hai detto che si chiamava?» insistè il pope.

«Zorze. Altro non so» disse Michele, in tono di scusa.

(20)

Il barbuto cacciò un gran sospiro.

«Aspetta che vediamo. Non siamo mica obbligati, sai.»

Sparì all’interno, poi uscì di nuovo, andò sotto una casa e chiamò. Si aprì una finestra, si affacciò una donna, il pope le parlò brevemente nella sua lingua. La donna disparve e un momento dopo si affacciò un uomo, già anziano, con pochi capelli grigi. I due uomini, uno nella piazza e l’altro al primo piano, parlarono per un po’; poi l’anziano si ritirò dalla

finestra e dopo un certo tempo, che a Michele parve piuttosto lungo, ricomparve alla porta.

Insieme i due lo raggiunsero. «Raccontagli un po’ il fatto»

disse il pope. Michele ripetè la sua storia. L’anziano si grattò la testa, proprio come aveva fatto l’altro. Non era contento neanche lui. Ma d’altra parte, pensò Michele, cosa c’era da essere contenti?

«Ma sei sicuro che era albanese?» disse poi il vecchio.

Aveva un accento un po’ più duro di quello del pope, come se non si fosse mai davvero abituato a parlare il veneziano.

«Sicurissimo» garantì Michele. I due si guardarono e confabularono un po’ nella loro lingua, del tutto indifferenti al ragazzo che era rimasto lì e non capiva niente. Poi il pope gli disse che allora andava bene, del funerale se ne

sarebbero occupati loro.

«Ma solo per carità, eh? Non siamo obbligati, ma per i nostri, quando si può, lo facciamo volentieri. Mandiamo il becchino a prenderlo stasera.»

Michele spiegò come potevano trovare casa sua, una volta arrivati dalle parti di Sant’Agnese, e partì contento:

almeno quella faccenda era sistemata. Dopo tutto è sabato, ragionò, domani non si lavora, e stanotte Bianca senza il morto in casa non sarà più così malinconica come ieri sera.

Fu tanto entusiasta di quest’idea, che non si rese conto di aver preso dalla parte sbagliata. Quando se ne accorse era in un campo sconosciuto; non c’era nessuno a cui chiedere, perciò si orientò a occhio e imboccò un sottoportico che

(21)

secondo lui doveva portarlo verso Rialto. Invece, con sua grande sorpresa, si trovò poco dopo a sbucare in vista di San Marco. La curiosità lo tirò alla riva, dove diversi alberi imbandierati annunciavano la presenza di qualche vascello, e si aprì la strada a fatica fra la solita folla che si accalcava fra il Palazzo Ducale e San Zaccaria. Giunto alla riva, vide che erano ormeggiate poco lontano due galere, in uno sventolio di orifiammi e gagliardetti colorati; entrambe stavano caricando casse e barili con le scialuppe.

Michele restò a guardarle per un po’, ad occhi spalancati:

erano enormi e bellissime, tutte dipinte a nuovo di rosso, coi remi vermigli levati e appoggiati agli scalmi, come le zampe di qualche bestia favolosa. Due galeotti, in braghe di tela, camicia rattoppata e berrettuccio rosso d’ordinanza,

stavano lì accanto a lui con un barile, in attesa che fosse il loro turno di caricare. Michele, incuriosito, attaccò bottone.

«Per dove partite?»

Uno dei due lo guardò sbattendo le palpebre, come se non capisse; biondastro com’era, doveva essere uno

schiavone.

«E chi lo sa?» rispose l’altro. «A noi mica ce lo dicono.

Ma corre voce che andiamo a Candia» aggiunse, usando il nome che i veneziani davano all’isola di Creta. Poi lo

guardò fisso e chiese a bruciapelo:

«Ma che per caso hai voglia d’imbarcarti?»

Michele sobbalzò.

«Io? No di certo!» disse. «Non dev’essere una bella vita»

aggiunse. L’altro sputò.

«Per far la fame a terra, tanto vale. La paga la prendi, e a chi s’imbarca adesso il sopracomito dà cinque zecchini di premio. Scommetto che non li hai mai visti in vita tua, cinque zecchini.»

«Vi serve gente?» s’informò Michele, curioso.

«Eh! Serve sempre» disse l’altro. Ma non aggiunse niente e continuò a studiarlo. Doveva essersi messo in testa che se

(22)

l’avesse accompagnato lui dal comandante, uno zecchino di premio ci sarebbe scappato anche per lui.

«Be’?» insistè poi, giacché Michele si era rimesso a guardare la galera più vicina, sul cui ponte gli uomini rotolavano barili, facendoli sparire nella stiva.

«Be’ cosa?» replicò Michele.

«Sicuro che non t’interessa? Il sopracomito ha messo il banco ieri per arruolare e lo tiene almeno per una

settimana, ci mancano più di cinquanta uomini.»

«A me no che non m’interessa» fece Michele seccamente.

S’era quasi offeso che lo credessero uomo da vendersi in galera e far la vita dello schiavo per una paga da fame, lui che era figlio di un mastro muratore, iscritto a una

corporazione.

«Come vuoi» disse l’altro, deluso; poi il compagno gli diede una gomitata e partirono, perché la scialuppa li

attendeva. Michele rimase ancora un po’ a guardare, poi gli venne in mente che forse suo padre lo aspettava al

cantiere, e ripartì. L’ultima volta che l’aveva mandato per una commissione e non era tornato fino a sera, Matteo gli aveva dato abbastanza cinghiate da ricordarsene ancora, anche se erano già passati due o tre anni.

Il muratore era partito da casa per andare a fare i conti col padrone. Da quando la vecchia Ca’ Lippomano in campo Santa Sofia era bruciata in un incendio, tanti e tanti anni prima, i cugini Lippomano vivevano ciascuno per conto suo, e del resto la maggior parte erano gente di chiesa, vescovi a Padova o a Verona: di un palazzo in città non avevano

bisogno. Ser Girolamo era il primo che aveva deciso di

costruirne uno, ma chissà che non avesse fatto il passo più lungo della gamba, pensava il muratore, masticando amaro.

Fare i conti coi committenti non era mai stata la parte più piacevole del suo lavoro. Stare in piedi sulle impalcature, nel sole e nella pioggia, lavorare d’ascia e sega o di cazzuola, dare ordini ai manovali, e veder crescere giorno dopo giorno

(23)

sotto le sue mani una casa che prima non c’era, quello sì, gli piaceva; ma dover discutere di cifre e soldi coi padroni era tutta un’altra faccenda. Per darsi coraggio prima

dell’incontro, si fermò a prendere un bicchiere di vino da un taverniere, poi già che era lì ne prese un altro, e finalmente risalì dall’ombra umida e gradevole della taverna nell’afa della strada.

Al ritorno dalla sua ultima ambasciata, in un paese lontano di cui Matteo non aveva mai potuto ricordare il nome, il senatore Lippomano aveva comprato una casa ai Carmini. Quando il muratore arrivò lo stava aspettando nello studio, seduto a un tavolo coperto da un gran tappeto turco e ingombro di carte, con un paio di occhiali che gli

stringevano il naso.

«Oh, Matteo, vieni avanti» disse con indifferenza. Matteo s’era vestito in abiti puliti, ma si muoveva comunque con impaccio, timoroso di sporcare. Si tolse il berretto e si piantò in piedi in mezzo alla stanza. Il senatore lo fissò

freddamente, attraverso i vetri luccicanti.

«Allora, vediamo cos’hai portato.»

Matteo squadernò sul tavolo i suoi fogli. Leggere e scrivere non sapeva, ma a tenere i conti aveva imparato, anche se poi ricordava tutto a memoria: le file di aste e crocette scarabocchiate con fatica gli servivano soltanto d’aiuto. Si piegò in avanti e cominciò a spiegare, mostrando col dito.

Ser Girolamo s’era tirato indietro appena aveva sentito il suo fiato, ma ascoltava attentamente, intervenendo ogni tanto con una domanda. Quando Matteo ebbe finito,

cominciò a riprendere in esame l’intero conto, verificando una voce dopo l’altra, e contestandole tutte. Il muratore ne aveva già avuti altri di clienti rognosi, e non si lasciò

smontare; il vino gli dava coraggio. Ci vuol altro!, pensò, non sei tu quello che mi fregherà. Discussero a lungo il prezzo della calcina e quello dei mattoni, i salari del garzone e

(24)

quelli dei manovali. Il senatore trovava che erano pagati tutti troppo.

«Vi siete abituati bene!» disse velenoso, togliendosi gli occhiali. Matteo, cupo, gli ricordò il prezzo del pane. «Vuoi che non lo sappia?» ribatté Lippomano. «Il grano di Levante non arriva più, quel cane del Turco se lo tiene tutto.

Sacrifici dobbiamo farne tutti quanti, ma voialtri non lo volete capire!»

Matteo si strinse nelle spalle, a lui pareva di farne già abbastanza, di sacrifici: ormai anche mangiar carne la domenica era diventata più un’eccezione che la regola. Il senatore si rimise gli occhiali, tornò a esaminare le cifre che aveva trascritto in un suo quaderno, man mano che Matteo le spiegava.

«Insomma secondo te io ti dovrei ancora cinquanta zecchini?» disse alla fine, con un sorriso agro.

«Cinquantadue, eccellenza.»

Lippomano strinse le labbra e tacque un istante.

«Non se ne parla neanche» disse poi; il tono voleva essere duro, ma la voce gli s’incrinò sul più bello. Matteo rimase così sorpreso che non trovò le parole per replicare.

«Ma i conti…» farfugliò.

«Che conti?» ribatté il Lippomano, prendendo sicurezza.

«Mi fanno ridere i tuoi conti!» Battendo col dito sui fogli, tornò a contestare ogni cifra. Tutto era stato pagato troppo, e anche le quantità non tornavano. Troppo legname, per esempio, chi aveva mai sentito che ci volessero così tante travi di rovere? E non era troppa la calce messa in conto, rispetto ai mattoni? Il muratore, che già da un po’ si sentiva salire il sangue alla testa, non si trattenne.

«Chi la costruisce questa casa, lei o io?»

Lippomano impallidì.

«Come ti permetti, mascalzone!» esclamò. Matteo, fuori di sé, digrignò i denti, si protese in avanti e gli mostrò il pugno.

«Badi a come parla, che qui finisce male!» ringhiò.

(25)

In cinquantanni di vita, al senatore non era mai capitata una cosa simile, e non credeva che potesse capitargli. Una volgare canaglia, un operaio pagato un tanto a giornata, invece di baciargli la mano per il lavoro che gli dava, si

permetteva di parlargli con quel tono e di minacciarlo, sì, di minacciarlo, e in casa sua! Per un attimo lo stupore, la

rabbia e anche la paura gli strozzarono la voce in gola.

«Fuori!»

strillò poi, saltando in piedi. «Va’ via! E torna quando non sarai più ubriaco, e avrai rimesso a posto i tuoi conti, ladro!»

«Ladro? Ladro è lei, se non mi paga! Ladro, becco e

fottuto!» esclamò il muratore, accecato dalla rabbia. «Siete tutti così voialtri nobili, capaci solo di succhiare il sangue dei poveri! Oh, ma verrà il momento che ve la faremo pagare!

Verrà Dio, o il diavolo, o il Turco, e allora vedrete, cani che non siete altro!» Sputò per terra con disprezzo, raccolse con una manata le sue carte, e uscì di furia dallo studio.

Lippomano, pallidissimo, rimase per un istante in piedi, coi pugni serrati sul tappeto scarlatto; poi, mentre

riprendeva colore, scosse lentamente la testa, fissando con odio il vano vuoto della porta.

«Questa me la pagherai» mormorò.

Quella sera Matteo tornò a casa con la faccia stravolta, gli occhi sbarrati e l’alito che sapeva più che mai di vino.

Per tutto il giorno aveva vagato in cerca di lavoro, ma nessuno dei suoi conoscenti aveva saputo indirizzarlo;

anche spingendosi lontano dal quartiere, addirittura fino a Cannaregio, non aveva trovato nessun cantiere dove ci fosse bisogno d’una nuova squadra. Già altre volte era capitato a Matteo di restare senza lavoro tra un appalto e l’altro, era una cosa normale nel suo mestiere e anzi in tutti i mestieri: nessun artigiano era così fortunato da lavorare tutti i giorni, tranne i carpentieri e i calafati che per legge avevano diritto a tirare la paga all’Arsenale ogni santo giorno, se non avevano lavoro in bottega. Ma lui non si era mai spaventato, il lavoro, prima o poi, Dio lo avrebbe

(26)

portato, e un po’ di soldi per tirare avanti nell’attesa non erano mai mancati.

Stavolta, però, se il Lippomano non lo pagava i soldi sarebbero finiti presto. Solo all’idea di tornare dal senatore col berretto in mano, a supplicarlo almeno d’un anticipo, Matteo si sentiva rivoltare lo stomaco; con clienti di quel rango, dover insistere per essere pagati era la regola, e

anche pregare e umiliarsi per ottenere quello che ti spettava di diritto, ma Matteo scendendo precipitosamente le scale aveva giurato a se stesso che con quello lì non si sarebbe mai spinto così in basso. Il muratore, però, non era uno

stupido: sapeva bene che giuramenti del genere è più facile farli che mantenerli, e che se non trovava un altro impiego, di lì a pochi giorni il vino gli avrebbe dato la forza di tornare sui suoi passi, rimangiandosi l’orgoglio. Sempre che intanto il senatore non l’avesse addirittura denunciato alla giustizia:

Matteo non si ricordava bene che cosa gli aveva detto in quell’istante di accecamento, ma sapeva che ce n’era abbastanza per una multa da levare il fiato e magari per qualche strappata di corda, giusto per insegnargli a

mordersi la lingua, un’altra volta, quando parlava a un

patrizio. Perciò il muratore era così stravolto quando tornò a casa a mani vuote. Tacque per tutta la cena, e quando

Michele, ingenuamente, gli chiese se lunedì sarebbero tornati al cantiere gli rispose così duramente che a Bianca vennero le lacrime agli occhi, e tutti finirono di cenare in silenzio.

Ma Michele non si lasciò smontare. Aveva fatto il callo ai silenzi grevi di suo padre e alle sue ruvidezze improvvise, non si accorgeva di quanto sua madre soffrisse dei loro

battibecchi, e pensava a sé e alla sua donna assai più che ai due vecchi, com’è normale a vent’anni. Per lui i momenti importanti della giornata erano stati la sua spedizione a campo San Maurizio, e più tardi la venuta del nònsolo, il becchino della Scuola, che con due aiutanti s’era portato via il ragazzo morto; Matteo non c’era e lui, Michele, aveva

(27)

fatto l’uomo di casa, aveva discusso con gli albanesi e sistemato ogni cosa, e ancora adesso era orgoglioso ed eccitato.

Mentre la serata estiva si prolungava, Matteo

sonnecchiava a tavola e le due donne cucivano all’ultima luce del giorno, sedute sul gradino della porta di casa, Michele attendeva con impazienza che scendesse il buio e fosse ora di andare a letto. Finalmente Zanetta,

accorgendosi che non ci vedeva più abbastanza per infilare il filo nell’ago, decise che era tardi, andò a scuotere il

marito, lo prese sottobraccio e lo portò in camera, chiudendosi la porta alle spalle I ragazzi la sentirono

borbottare Ave Maria, Pater e Gloria, poi il rumore dei due grossi corpi che si sistemavano sul materasso, e dopo un po’ il russare ben riconoscibile di entrambi, sibilante quello di Matteo, sonoro e sguaiato quello di Zanetta.

Michele s’era seduto sulla soglia al fianco della moglie.

«È ora di rientrare» sussurrò, passandole il braccio intorno alle spalle.

Bianca non se lo fece dire due volte. Sprangata la porta si spogliarono in silenzio, sorridendosi nella penombra, appesero gli abiti al gancio inchiodato nel muro, e

scivolarono sul letto già toccandosi con le dita. Erano tutt’e due inesperti, le prime volte si erano fatti male, e ancora adesso Michele le faceva quasi sempre male, senza volerlo.

Zanetta, che qualche volta si svegliava e ascoltava dietro la parete, sorrideva di tenerezza riconoscendo la paura, la vergogna e la goffaggine che erano state sue tanti anni prima. Ogni notte, però, Bianca s’accorgeva che le mani di Michele diventavano più familiari, e che il suo corpo faticava sempre meno a rilassarsi sotto il loro tocco, anche se

all’inizio continuava a richiudersi come se fossero quelle d’un estraneo.

«Fa’ piano» mormorò, quando lui le strinse troppo forte un seno; ma poi riprese la mano di Michele, che s’era

allontanata, e la riportò lì. Lui strinse ancora, ma più

(28)

gentilmente, e la baciò sul collo; lei si voltò sul fianco con un guizzo, e cercò la sua bocca.

«Vieni» sussurrò dopo un po’, rigirandosi sulla schiena e attirandolo sopra di sé.

Mentre i due vecchi russavano dietro la parete, Bianca aprì le gambe e sentì Michele che scivolava dentro di lei quasi senza ferirla, e strinse il lenzuolo fra i denti per non gridare. Per un istante chiuse gli occhi; ma poi li riaprì, e vide quelli di Michele fissi gioiosamente nei suoi, e la sua bocca spalancata per respirare nello sforzo, e gli sorrise estatica.

Anche lui sorrise, fermandosi per un attimo, poi affondò il viso nei suoi capelli e riprese a muoversi.

«E se viene un bambino?» le mormorò all’orecchio. Fino a quel momento avevano fatto il possibile per non averne, dato che i tempi erano così grami: quando si era sposata, sua madre le aveva insegnato come fare, e le aveva

raccomandato di non dirlo a nessuno, nemmeno al confessore.

Stavolta, però, si accorse che non le importava più.

«Lascialo venire» sussurrò, con gli occhi che splendevano.

In quello stesso momento ser Girolamo Lippomano era seduto allo scrittoio, e scriveva una lettera alla luce d’una candela. “Eccellentissimi Signori” cominciò, “conoscendo io per propria esperienza che non v’è così piccolo attentato all’onore di questo Serenissimo Dominio, che non meriti d’esser rilevato e punito nell’interesse della cosa pubblica, porto a conoscenza delle Vostre Eccellenze che oggi, in casa mia…” Seguiva il racconto dettagliato di come il muratore Matteo, venuto a portargli i suoi conti che lui, Lippomano, aveva trovato truffaldini, si fosse permesso di ingiuriarlo e minacciarlo, prendendosela non soltanto con lui, ma con l’intero ordine dei nobili che così saviamente e

paternamente reggevano la Repubblica. “E non è chi non veda” concluse il Lippomano dopo aver mordicchiato un po’

(29)

la penna “quanto poco sia da sopportare una tale ingiuria non per me, che da cristiano son pronto a perdonare

amorevolmente, ma per la qualità mia di senatore e procuratore di San Marco, tale che ogni vergogna e

minaccia fatta a me si può dir fatta a questa Serenissima Repubblica.”

Riletto il foglio, Lippomano lo piegò, lo sigillò con la

ceralacca e vergò sul dorso l’indirizzo più temuto di Venezia:

“Ai Signori Capi dell’Eccellentissimo Consiglio dei Dieci”.

 

***

(30)

3.

«Porca Venezia!»

L’esclamazione fece sobbalzare l’oste, che sonnecchiava dietro il banco, scacciando ogni tanto le mosche che gli

ronzavano intorno. Aguzzò lo sguardo nella semioscurità della cantina, dove era calato il silenzio. A un tavolo dove bevevano quattro o cinque uomini in maniche di camicia, il più grosso di tutti sbatté il pugno sul tavolo, così forte da far tremare la brocca e i bicchieri di vetro torbido.

«Porca Venezia, sì!» ripetè Matteo. «E non so chi mi può dir di no! Non è mica vita questa qui che ci fanno fare!»

«Ve lo posso dire io di no, galantuomo» disse l’oste, avvicinandosi pesantemente alla tavolata. «Qui da me di questi discorsi non se ne fanno.»

Gli occupanti della tavola, tutti muratori come Matteo e disoccupati come lui, lo guardarono fisso. Bevevano già da un po’ e qualcuno cominciava a vederci doppio: se Matteo avesse reagito non ci avrebbero messo niente a fare i duri.

Ma l’oste sapeva come cavarsela, di situazioni così gliene capitavano tutti i giorni. Prima che Matteo potesse

rispondere, era arrivato in mezzo a loro, si appoggiava al tavolo con le grosse mani.

«Su, non mi fate avere dei fastidi, che qua dentro ci può entrare chiunque» disse, in tono confidenziale. Poi prese la brocca vuota.

«Buono, eh?» disse, schioccando la lingua. «Ne comandate ancora?»

La tensione si allentò visibilmente. In cuor suo, del resto, più d’uno dei muratori era contento che l’oste fosse venuto a interrompere Matteo: con quei discorsi si rischiava di

mettersi nei guai per davvero.

(31)

«Dài, che col vino passano tutte le malinconie» esclamò uno. Gli altri sorrisero, solo Matteo rimase cupo.

«Meno male che comandate vino e non acqua»

scherzò l’oste. «Quella lì, anche volendo non potevo darvela, il pozzo è secco.»

Tutti si misero a parlare della siccità. L’acqua dolce a Venezia era sempre poca, ma quell’estate era la peggiore da molti anni. Gli acquaioli, che la portavano in barili dalla Terraferma e la vendevano coi secchi in mezzo alla strada, avevano aumentato i prezzi.

«Fra un po’ l’acqua costerà come il vino» rise uno.

L’oste era appena tornato con la brocca piena di bianco che un tale si affacciò alla porta della cantina e lo chiamò.

Riconoscendolo, l’oste si pulì le mani nel grembiule e salì in fretta i cinque o sei gradini che portavano al livello della strada.

«Capita proprio al momento giusto» disse, voltandosi verso il tavolo. «Portano l’acqua per il pozzo.»

Sulla strada era fermo un carretto tirato da due facchini, con sopra quattro botti. L’uomo che aveva chiamato l’oste aveva un foglio in mano.

«Dov’è il pozzo?» chiese.

«Di qua, nel cortile» rispose l’oste; con una delle chiavi che teneva alla cintura aprì un cancelletto e fece strada. Nel cortile c’era spazio appena per una tettoia dov’erano

ammucchiati degli attrezzi, un albero di fico e il pozzo.

L’uomo si guardò intorno, scrutò il foglio con attenzione, poi disse piano:

«Allora, sarebbero due barili. Ma se vogliamo fare come l’altra volta…»

L’oste esitò.

«Come l’altra volta è troppo.»

«Quest’anno l’acqua costa più cara. Ti faccio già un favore al prezzo dell’anno scorso.»

L’oste si strinse nelle spalle.

(32)

«Va bene» disse poi. Slegò la borsa dalla cintura, frugò all’interno, tirò fuori delle monete, le contò sul palmo della mano.

«Ecco qua.»

L’uomo le contò a sua volta, poi le fece sparire.

«Ohé! Portate dentro! Tutti e quattro i barili.»

I facchini abbassarono le stanghe del carro e montarono uno scivolo per far rotolare giù i barili. L’oste rimase ad assistere all’operazione: voleva essere ben sicuro che l’acqua fosse svuotata tutta nel pozzo. Quando i barili

furono vuoti, l’uomo si appoggiò al bordo del carro, tirò fuori penna e calamaio, scrisse qualcosa sul foglio e lo allungò all’oste.

«Firma per ricevuta.»

Questo compito era più faticoso per l’oste che se avesse dovuto dare una mano a scaricare i barili, ma ci si applicò seriamente e in qualche minuto ne venne a capo,

sgorbiando una specie di firma in calce al foglio. L’uomo lo infilò nel berretto e il carro si rimise in movimento cigolando.

L’oste rimase a guardarlo allontanarsi nella calle, poi sospirò e ritornò in cantina.

«Allora, l’acqua è arrivata, potete di nuovo allungare il vino» scherzò uno dei muratori, vedendolo ricomparire.

«Non c’è pericolo, con quel che mi costa» ribatté l’oste, con un sorrisetto agro.

Matteo, che aveva continuato a bere senza alzare gli occhi dal tavolo per tutto il tempo, si riscosse.

«Ma non è l’acqua che manda il Senato? Non si paga mica!»

L’oste lo guardò con compatimento.

«Bravo! Non la pagate voi, che ve ne basta poca, ma chi fa il mio mestiere di acqua ne fa andare! Se mi

accontentassi di quella che mi tocca, potrei chiudere bottega.

Allora bisogna arrangiarsi.»

(33)

«Ecco, vedi? È tutto lo stesso schifo» commentò Matteo, con voce malferma. «Siamo governati dai ladri.»

«Oh, non ricominciamo» fece l’oste, e per tagliar corto se ne tornò dietro al banco.

«No» s’intestardì Matteo. «Non potete dirmi niente. Sono tutti ladri, e quei becchi fottuti dei nobili sono più ladri degli altri. Ne so qualcosa io.»

«È vero» confermò un altro, che aveva ben bevuto anche lui.

«Sì, è vero, ma è così dappertutto» interruppe un terzo, più sobrio.

«E no!» gli diede sulla voce Matteo; e pestò di nuovo il pugno sul tavolo. «No! A Venezia è peggio! Qui i poveri sono assassinati, possiamo crepare e ai signori non gliene

importa niente!»

«Bisognerebbe farla finita» osservò un altro. «Noi siamo tanti, e loro sono pochi.»

Tutta la tavolata, stavolta, approvò.

«Oh, basta! Adesso fuori tutti» esclamò l’oste, allarmato.

«Su, andate, andate fuori a fare questi discorsi, razza di cani»; ma le ultime parole le borbottò a voce bassa.

Gli uomini si riscossero pesantemente.

«Andiamo a vedere cosa sono .riuscite a mettere nella zuppa stasera, le nostre vecchie» disse uno.

«Rape! Cosa vuoi che ci abbiano messo» ribatté un altro.

«È proprio vero che bisognerebbe farla finita.»

Fuori il gruppo si sciolse e ognuno tornò a casa sua.

Nell’osteria un uomo che fino a quel momento era rimasto tranquillo in un angolo lontano dalla finestra, vuotando coscienziosamente il suo boccale, si alzò subito dopo di loro, pagò e risalì svelto la scala.

Nella calura abbacinante del pomeriggio, due gentiluomini discesero da una gondola davanti a San

Zaccaria e si diressero a un ingresso secondario di Palazzo Ducale. Il più anziano, che zoppicava un po’ e si appoggiava al braccio del più giovane, vestiva la porpora dei magistrati

(34)

e aveva una folta barba bianca; l’altro era vestito di velluto nero e portava un gran colletto inamidato, un po’ allentato per il caldo. Il gondoliere, in livrea rossa e argento,

attendeva appoggiato alla pertica, come se uno dei due dovesse tornare subito indietro. Quando arrivarono alla porticina del Palazzo, l’alabardiere di guardia riconobbe ser Alvise Bernardo, membro del Consiglio dei Dieci, e si fece da parte.

Il vecchio si districò con un po’ di fatica dal braccio del figlio e gli sorrise.

«Vedi che ce l’abbiamo fatta ad arrivare. La gamba va meglio. Va’, ora »

«Non volete che vi aspetti?» chiese il giovane, in tono deferente.

Ser Alvise scosse la testa.

«Faremo tardi. Va’ da tua moglie, è lei che ha bisogno di te, ora.»

Lorenzo Bernardo accennò un inchino, poi tornò verso la gondola. Un volo di gabbiani gli scese fin quasi sul capo, gridando forte, perché da un barcone all’ancora poco discosto dalla riva un marinaio aveva buttato fuori bordo degli avanzi di cucina; gli uccelli si abbassarono a volo radente sul pelo luccicante dell’acqua, poi quelli che

avevano catturato un boccone risalirono facendo forza sulle ali e puntarono verso l’isola di San Giorgio con urla di

trionfo, mentre gli altri si disperdevano delusi. Ser Lorenzo si riparò gli occhi col palmo della mano dalla luce accecante che si rifletteva dalla laguna, e saltò in gondola senza prendere la mano che il gondoliere gli porgeva

rispettosamente.

«A casa!»

Ser Alvise stava già salendo per una delle mille scalette buie del palazzo, sostenuto da un usciere. L’attacco di gotta che l’aveva tenuto a letto per quindici giorni era passato davvero, ma non osava sforzare la gamba, per paura del dolore lancinante che poteva tornare all’improvviso.

(35)

Finalmente arrivarono alla sala dove si riuniva il

Consiglio, e l’usciere gli tenne aperta la porta. C’erano già quasi tutti, il doge, i Serenissimi Signori e i Dieci: una

quindicina di patrizi risplendenti di porpora. Ser Alvise individuò un posto libero nell’ultimo banco e lo raggiunse, costringendo due colleghi ad alzarsi in piedi per lasciarlo passare; stanco, si lasciò andare sulla panca, asciugandosi il sudore.

Quello dei Signori Capi cui toccava quel giorno la

presidenza si alzò dalla cattedra sul fondo della sala; teneva in mano parecchi fogli. Seduto a un piccolo scrittoio in un angolo, il segretario controllava con uno stecco di legno la consistenza dell’inchiostro; era l’unico, lì dentro, ad essere vestito di nero. Il presidente annunciò con voce monotona l’ordine del giorno; era così lungo che qualcuno, sui banchi, si agitò.

«Non finiremo in tempo per cena!» disse una voce, piena di rammarico. Qualcuno rise. La discussione cominciò,

punteggiata da improvvisi scoppi di voce, soprattutto quando qualcuno veniva contraddetto e si accalorava a

ribattere. Nella maggior parte dei casi chi si alzava a parlare non aveva un interesse personale da difendere, e tanto

meno si preoccupava di quelli dello Stato, ma voleva sentire il suono della propria voce, costringere gli altri ad ascoltarlo, e ad ammettere che il suo parere era importante. Per ser Alvise, che aveva già seduto più volte fra i Dieci in passato, non c’era nulla di nuovo; anzi, si annoiava.

Come capitava sempre, la discussione dopo un po’

perse di vista l’ordine del giorno, avvitandosi intorno ad altre preoccupazioni, ad antiche rivalità, ad animosità

politiche. I casi da discutere riguardavano tutti, in un modo o nell’altro, misure di sicurezza che il Consiglio era chiamato ad adottare per risolvere qualche situazione spiacevole, in seguito al rapporto d’uno sbirro di quartiere, d’un

sopracomito di galera, di un magistrato di Terraferma o del Dominio da Mar; eppure quel giorno i discorsi deviavano

(36)

continuamente, si allontanavano chissà perché da Castello e da Dorsoduro, da Verona e Vicenza, da Zante o Corfù,

piegavano verso nord e verso occidente, verso il lontano Atlantico, dove gli sconosciuti eretici inglesi erano stretti in una lotta mortale con i temuti e odiati spagnoli. In quel tardo pomeriggio del luglio 1588, i patrizi accalcati nella saletta troppo piccola sapevano che i galeoni spagnoli erano salpati dai loro porti per forzare la Manica, sapevano che l’eretica Elisabetta aveva messo in mare tutto quel che poteva navigare nella sua piccola isola sperduta, per

resistere all’invincibile armata, e non riuscivano a parlare d’altro.

Ser Lunardo Michiel, che tutti conoscevano come confidente del nunzio apostolico e fedelissimo del papa,

arrivò a dire più d’una volta, del tutto a sproposito, che in un momento in cui la maestà del re Filippo era impegnata in una tale lotta a difesa della Cristianità, Venezia non poteva abbassare la vigilanza né permettersi d’essere indulgente con i suoi nemici. La maggior parte dei presenti trovava assurdi questi discorsi e pericolosa la dimestichezza che uomini come il Michiel avevano con Roma, ma questo non significava certo che volessero abbassare la guardia, né in quel momento né mai. I Dieci non avevano mai esitato a condannare e se necessario anche a far assassinare in

segreto chiunque rappresentasse la più piccola minaccia per la sicurezza della Repubblica, ed erano decisi a continuare a farlo senza preoccuparsi minimamente né del papa, né del bigotto re Filippo, né dell’eretica Elisabetta.

Era già tardi e diverse decisioni erano state votate, quasi tutte all’unanimità, quando il presidente comunicò la

denuncia di ser Girolamo Lippomano. Dopo aver letto la missiva, sfogliò il suo scartafaccio e trovò due rapporti di spie, che riferivano sulla vita, le abitudini e i discorsi di Matteo muratore, del sestiere di Dorsoduro, parrocchia di Sant’Agnese. Su quella vita e quelle abitudini non c’era niente da dire, ma i discorsi, così come emergevano

(37)

soprattutto dal secondo rapporto, suscitarono un brusio

infastidito. Fatti all’osteria in un giorno di festa, quei discorsi avrebbero anche potuto passare per un frutto del vino

cattivo; ma l’uomo li aveva ripetuti più volte nei giorni seguenti, e fra gente che ascoltava e approvava. Le parole che gli avevano sentito pronunciare cadevano come

macigni: i patrizi tutti ladri, i poveri assassinati, e «bisogna farla finita». Fra i gentiluomini in porpora seduti sui banchi, quasi tutti seguivano con attenzione il rapporto, qualcuno scuotendo la testa come a dire: cosa aspettarsi da questa gente?

Ser Lunardo Michiel si guardava ostentatamente le unghie, quando il presidente tirò fuori un ultimo foglio di carta.

Era una denuncia del prete della parrocchia di

Sant’Agnese, il quale la mattina precedente aveva trovato scarabocchiate con il carboncino sul muro della canonica le seguenti parole: VENIEXIA MATA LA RAXON TU HA DESFATA.

Mentre il prete trovava il coraggio di decidere il da farsi e compilava laboriosamente la sua denuncia, sforzo che gli aveva richiesto l’intera giornata e la notte successiva, un’altra mano aveva completato la scritta: quel mattino, riferiva il parroco in un poscritto desolato, erano apparse altre tre parole: PER I PUOVERI. Il presidente rilesse

scandendo bene, poi tacque.

«Venezia matta la ragione tu hai disfatta» ripetè uno dei Dieci, con aria pensierosa.

«Già, ma solo per i poveri» completò un altro.

Diverse mani si alzarono. Il presidente fece segno a ser Lunardo Michiel che poteva parlare.

«In un momento come questo, quando tutte le forze della Cristianità sono tese fino allo spasimo per il trionfo del

Bene…» cominciò ser Lunardo. Ser Alvise Bernardo alzò gli occhi al cielo, poi incontrò lo sguardo del suo vicino e come lui sospirò e si strinse nelle spalle. Non c’era niente da fare, bisognava rassegnarsi. Nel regolamento del Consiglio dei

(38)

Dieci, da qualche parte, si parlava d’una clessidra per misurare gli interventi, ma era una delle tante regole che non si applicavano più, ammesso che lo si fosse mai fatto.

Ser Lunardo parlò a lungo, benché tutti avessero indovinato fin dalle prime parole dove sarebbe andato a parare: e cioè alla richiesta d’una misura esemplare. Che la scritta fosse apparsa proprio nella parrocchia dove il

muratore andava facendo quei tali discorsi, e che ben due persone diverse, tutt’e due capaci di scrivere!, si

scandalizzò il Michiel, avessero raccolto quei discorsi e partorito quella scritta sovversiva, era un segno fin troppo chiaro di quel che c’era da aspettarsi se si lasciava che in un quartiere qualunque prosperassero la leggerezza e

l’impunità. Ser Lunardo precisò che si rimetteva ai colleghi quanto alle misure da prendere, purché fossero rapide e decisive; e si sedette, soddisfatto di sé.

Chi parlò dopo di lui evitò di menzionare il re Filippo e l’ora suprema, ma concordò che il caso andava risolto, e nel modo più drastico. Ser Alvise Bernardo ascoltava scontento, senza sapere neppure lui perché, e intanto cercava di capire se una fitta improvvisa alla gamba fosse dovuta soltanto alla scomodità della posizione, o preannunciasse il temuto ritorno dell’attacco di gotta. Se fosse stato per lui, avrebbe convocato il muratore e gli avrebbe fatto molta, ma molta paura; e poi lo avrebbe rimandato a casa sua.

Un uomo avvisato è mezzo salvato, e può giovare di più alla tranquillità pubblica che non un uomo messo a tacere con la forza. Ma ascoltando gli interventi che si

succedevano, ser Alvise si accorse che la cosa sarebbe

andata ben più in là. Quando tutti coloro che avevano alzato la mano ebbero espresso il loro parere, il presidente dopo aver parlato fitto a voce bassa col segretario formulò la risoluzione da mettere ai voti, e la lesse all’assemblea.

Evocate rapidamente le denunce giunte sul conto del muratore, continuò: «… perciò si propone che il detto

(39)

Matteo sia arrestato e condannato al taglio della lingua, per avvertimento del pubblico e ammaestramento dei malvagi».

Un mormorio di consenso attraversò l’aula. Il presidente, prima di mettere ai voti, chiese se qualcuno voleva ancora intervenire. Ser Alvise si agitò sulla panca. Non era sua abitudine parlare in Consiglio, tanto meno quando una

decisione era già così sicura. Per di più, la gamba gli faceva davvero male. Tuttavia, quasi senza accorgersene alzò la mano. Il presidente dissimulò la sorpresa e gli fece

cortesemente cenno che poteva intervenire.

«Cari signori miei» cominciò ser Alvise. «A me pare che stiamo esagerando, e che questo poveraccio non se lo

meriti. Non è un po’ troppo tagliargli subito la lingua? Io dico che basterebbe farlo chiamare e interrogarlo. Fargli vedere gli strumenti» aggiunse. Sapeva che tutti avrebbero capito cosa intendeva dire: in un interrogatorio penale, la giustizia aveva il diritto di torturare l’imputato, e anzi il dovere di farlo, perché altrimenti tutti i delinquenti se la caverebbero negando; ma spesso bastava la sola vista della stanza della tortura e del boia pronto con i suoi attrezzi perché le lingue si sciogliessero e gli imputati diventassero ragionevoli. Ser Alvise avrebbe voluto aggiungere qualcos’altro, ma si

accorse che i colleghi lo ascoltavano con impazienza.

L’uomo era già perduto. «Pensateci bene» concluse, severo, e si sedette.

Il segretario aveva pronta l’urna, con i due scomparti in cui infilare, al riparo dagli sguardi, la pallina del voto, fatta di stoffa e non più di piombo come una volta, perché il rumore che faceva cadendo non rivelasse da che parte era stata deposta. Uno dopo l’altro i Dieci passarono davanti alla cattedra del presidente e depositarono il loro voto nell’urna. Poi si aprì il coperchio e si contarono le palline:

dodici nello scomparto bianco dei voti a favore, nessuna in quello verde dei voti contrari. Mancava un voto:

un’astensione, che sarebbe stata verbalizzata come voto

“non sincero”.

(40)

Mentre il presidente dichiarava il risultato, ser Lunardo Michiel guardò ser Alvise Bernardo con un sorrisetto di disprezzo.

Matteo e Michele erano a Rialto, a vendere un carico di mattoni. Dopo aver chiuso il cantiere di palazzo Lippomano e licenziato i manovali, il muratore non aveva altra scelta che rivendere i materiali avanzati; sperava di ricavarne abbastanza da tirare avanti fino a quando non avesse trovato un’altra committenza e incassato, con un po’ di fortuna, un anticipo.

L’acquirente era un collega che Matteo conosceva da un pezzo, e aveva delle protezioni per cui stava ancora

lavorando, anche in quell’anno di fame. Guardò appena i mattoni che Michele, fradicio di sudore, aveva portato fin lì in una carriola, come campione del lotto; poi propose il prezzo, senza guardare in faccia Matteo. Era poco, e il

muratore si riscaldò; prima di arrivare lì si erano già fermati a bere in un’osteria, e il vino bianco, con quel caldo, andava giù bene. Michele guardò il padre con pena e s’accorse

all’improvviso che era un vecchio, con le guance e il naso arrossati dal vino, e la barba di cinque giorni che gli formava come un velo sporco sulle guance: da quando lui aveva

memoria, Matteo si era sempre rasato la domenica, ma ora che la barba gli si era imbiancata il suo aspetto dei giorni feriali si era fatto più squallido.

«Lasciate stare, padre» disse all’improvviso, facendo un passo verso i due uomini. Tutt’e due si voltarono a guardarlo stupiti.

«Il prezzo va bene» aggiunse. Si sentiva irritato con suo padre, che faceva sempre tante difficoltà per niente.

Matteo continuava a guardarlo aggrottando la fronte; poi l’altro scoppiò a ridere.

«Bravo ragazzo!» esclamò. «Tu hai più buon senso di tuo padre!» Mentre Michele arrossiva, l’altro batté sulle spalle di Matteo. «Dài Matteo» disse, «più di così non posso, un’altra volta toccherà a me e te ne ricorderai.» Il muratore scosse

Riferimenti

Documenti correlati

Nella zona nord- orientale viene costruito un nuovo edificio corrispondente alla nuova Casa della Salute “Campo di Marte”, che funzionerà come una succursale dell’Ospedale

158 del 2012, si era ritenuto,in giurisprudenza, che la lìmitazione della responsabilità in caso di colpa lieve, prevista da quest'ultima norma, pur trovando il

Gli appellanti nel costituirsi in giudizio assumevano la correttezza della sentenza di primo grado ed eccepivano la tardività delle circostanze allegate dalla parte appellante

L’at- tenzione al tema della de lazione si lega a quello della stabilità i- nanziaria, soprattutto in conside- razione del fatto che nella mag- gior parte delle

Marcovaldo contemplava l'uomo di neve e, assorto nelle sue meditazioni, non s'accorse che dal tetto due uomini gridavano: “Ehi, signore, si tolga un po' di lì!”.. Erano quelli

Con questa freccia possiamo fare delle cose al computer direttamente dallo schermo.. Per ascoltare la musica e i suoni sul computer abbiamo bisogno delle

«le regalie e le vostre consuetudini sia nella città, sia nel territorio extra-urba- no”, ricordando espressamente sia i beni (boschi e pascoli, ponti, acque e mulini), sia i

Quando chi ha compiuto il fatto dannoso vi è stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, e il pericolo non è.. stato