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1. INTRODUZIONE
Nel campo della didattica delle lingue l’opinione maggioritaria degli esperti è che la lingua da apprendere non sia l'unica protagonista del processo di insegnamento. Gli apprendenti sono infatti il punto di partenza di un programma didattico che tiene in considerazione per prima cosa i loro bisogni.
L’insegnante di una lingua straniera deve confrontarsi con una realtà eterogenea e un programma didattico unico con obiettivi fissati rigidamente a priori potrebbe risultare inefficace. È necessario quindi conoscere le caratteristiche individuali degli apprendenti per programmare azioni didattiche appropriate.
Tra queste caratteristiche personali si trova la lingua madre che costituisce il
punto di partenza per l’apprendimento di altre lingue. Alla lingua madre infatti
l’apprendente farà riferimento più o meno coscientemente nel percorso di
costruzione del nuovo sistema linguistico. Sarebbe naturale pensare allora che sia
più facile apprendere una lingua seconda simile alla lingua madre mentre una
lingua maggiormente distante dia maggiori difficoltà. Questa è stata l’ipotesi
contrastiva smentita dal successivo filone di analisi degli errori che ha dimostrato
che in alcuni casi si mantengono strutture sentite come simili e invece si
apprendono più facilmente strutture totalmente diverse da quelle a cui siamo
abituati.
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In ogni caso nel processo di apprendimento di una nuova lingua l’individuo si trova ad affrontare necessariamente la distanza linguistica tra L1 e L2. Con il termine distanza ci si riferisce a una differenza tra le due lingue la quale costituisce lo sforzo cognitivo che l'apprendente dovrà compiere nel processo di ristrutturazione delle categorie mentali che si manifestano nelle abilità linguistiche. Le analisi delle produzioni degli apprendenti arabofoni confermano che le più comuni difficoltà si trovano laddove l’italiano risulta più distante dall’arabo.
Uno studio incrociato delle distanze linguistiche tra italiano e arabo e degli errori riscontrati dagli studiosi che hanno analizzato le produzioni di arabofoni ha dato la possibilità di individuare alcuni punti critici.
Su questi elementi l’insegnante di italiano L2 ad apprendenti arabofoni può attirare l’attenzione degli studenti attraverso delle attività didattiche mirate, come quelle raccolte alla fine di questo elaborato, che li aiutino a riflettere, a ricordare e, in definitiva, ad apprendere.
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2. LA LINGUA, LE LINGUE
La lingua è un codice e in quanto tale è costituita da forma e funzione, o meglio da forme e funzioni [Bettoni 2010, p.17]. Le forme sono i suoni, la grafia, le parole, le strutture grammaticali, la sintassi. Le funzioni dell’utilizzo del codice-lingua sono la comunicazione, l’espressione di ciò che si prova, l’espressione di un pensiero, l’espressione di una cultura, le relazioni interpersonali, il raggiungimento di uno scopo e, non ultimo, la manifestazione dell’appartenenza a un gruppo [Balboni 2008, pp.59-60].
Se si parla di didattica di una lingua ad apprendenti con una diversa lingua madre è necessario fare una distinzione tra almeno due termini: lingua straniera e lingua seconda.
La lingua straniera è quella studiata fuori dalla zona in cui viene parlata e quindi essa è presente solo in contesto scolastico. La lingua seconda invece è studiata nel paese in cui viene correntemente parlata. Ne deriva una fondamentale differenza tra le due lingue: lo studente di una lingua straniera riceve gli input solamente dall’insegnante mentre un apprendente di una lingua seconda ha a disposizione una grande quantità di input extrascolastico autentico.
A differenza della lingua straniera, la situazione della lingua seconda prevede
che molto dell’input linguistico su cui si lavora provenga direttamente
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dall’esterno, dal mondo extrascolastico, e che sia spesso portato a scuola dagli stessi studenti [Balboni 2008, p.58].
Posta questa importante distinzione in questo elaborato verrà usato il termine L2 con l’accezione descritta da Vedovelli:
Una lingua non di parlanti che l’apprendono al momento della nascita, come
lingua materna, ma idioma con il quale si entra in contatto avendo già
sviluppato la propria L1. Per L2 intendiamo tutte le lingue che sono apprese
dopo la L1, quale che sia la loro successione e l’estensione della relativa
competenza [Vedovelli 2010, p.147].
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3. L’APPRENDIMENTO LINGUISTICO
Apprendere una lingua è un processo che porta ad accrescere le competenze sulle forme e sulle funzioni, aumenta le conoscenze e le abilità, influisce sul sapere e sul saper fare in una determinata lingua [Vedovelli 2010, p.47].
Un punto di riferimento importante per la descrizione del processo di apprendimento linguistico è il Quadro comune europeo di riferimento per le lingue che, in quanto strumento tassonomico, ne delinea delle tappe: i livelli linguistici. Si tratta di uno strumento fondamentale sia per l’ insegnante che per l’apprendente.
Il Framework è stato pensato avendo presenti due compiti: innanzitutto, incoraggiare le varie figure di operatori che agiscono nel campo delle lingue, inclusi gli apprendenti, a riflettere su alcune questioni che, nell’ordine, sono le seguenti. In primo luogo, «che cosa facciamo quando parliamo o scriviamo; che cosa ci consente di agire, di svolgere queste attività; quanto dobbiamo apprendere quando proviamo a usare una nuova lingua e come dobbiamo collocare i nostri obiettivi e individuare il nostro progresso lungo la via che va dalla totale ignoranza all’effettiva padronanza. E infine, come avviene l’apprendimento linguistico e come possiamo aiutare noi stessi e gli altri ad apprendere meglio un’altra lingua» [Vedovelli 2010, p.31].
Parlando di apprendimento è importante distinguerne due tipi: spontaneo e
guidato. Quello spontaneo avviene tramite situazioni comunicative autentiche. È
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l’apprendimento tipico della lingua madre e anche della lingua seconda. L’input non è facilitato o rallentato e ha una funzione comunicativa o pragmatica. Secondo la linguistica acquisizionale questo tipo di sistema conoscitivo inconscio è il solo che può portare a un’effettiva acquisizione della lingua da parte dell’apprendente il quale analizza in modo autonomo il codice, lo rielabora e lo utilizza [Krashen 1982, pag.10]. In un contesto di apprendimento guidato invece l’input è modulato e finalizzato allo sviluppo linguistico del discente.
Nei prossimi capitoli si farà riferimento ai criteri di scelta dell’input in un
contesto di apprendimento guidato secondo la linguistica acquisizionale e alla
teoria dell’insegnabilità.
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4. L’APPRENDIMENTO DI UNA SECONDA LINGUA
Apprendere una lingua seconda significa mettere in atto dei processi diversi da quelli usati per lo sviluppo della L1. Innanzitutto l’apprendimento della L1 avviene in maniera “naturale” durante un determinato periodo in cui l’individuo è spontaneamente portato all’apprendimento. I bambini rielaborano gli input a cui sono esposti, dei caretaker e dei pari, e generano un numero illimitato di soluzioni creative.
I processi che portano allo sviluppo della L1 sono stati ampiamente studiati.
Riassumendo le teorie di riferimento possiamo individuare due poli opposti:
un’ipotesi di tipo comportamentista [Skinner 1957, citato in: De Marco 2011, p.24]
che vede l’apprendimento della L1 come un processo di imitazione e formazione di abitudini, opposta a un’ipotesi di tipo innatista [Chomsky 1967] che invece ritiene che gli esseri umani siano biologicamente programmati per il linguaggio il quale si sviluppa naturalmente come altre funzioni del corpo. Tra questi due poli si trovano teorie intermedie che coniugano la predisposizione innata per il linguaggio dell’essere umano con la funzione dell’input linguistico ricorrente in momenti significativi della vita (ipotesi costruttivista) [De Marco 2011, pp.22-23].
Anche parlando di apprendimento della L2 dobbiamo far riferimento ai processi
cognitivi e all’input tenendo conto però di alcune importanti differenze rispetto
all’apprendimento della L1: gli apprendenti possono aver superato la pubertà e
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essere quindi fuori dal periodo di plasticità neuronale (ovvero la capacità del cervello di modificare la propria struttura e le proprie funzioni in base alle esperienze vissute dall’individuo nel suo ambiente), l’esposizione all’input potrebbe non essere totale e infine gli apprendenti hanno già un bagaglio linguistico e culturale pregresso.
Troviamo così alcune caratteristiche dell’apprendente, chiamate variabili in glottodidattica, che sono determinanti per l’apprendimento di una L2. Mi riferisco a: gli aspetti neurolinguistici legati all’età del soggetto (bambino, adolescente, adulto, anziano), l’esposizione all’input linguistico (immersione in situazioni di apprendimento spontaneo oppure input controllato durante l’insegnamento guidato), la lingua e la cultura di origine. A queste è opportuno aggiungere alcuni fattori interni come l’attitudine personale, la motivazione che spinge allo studio della lingua (culturale, strumentale, intrinseca), lo stile cognitivo, i fattori affettivi [Villarini 2011a, pp.71-78], la personalità, le caratteristiche socio-culturali, le preconoscenze [Diadori 2011, pp.17-30].
Tutte queste variabili, che possono causare maggiore o minore sforzo per l’apprendimento della L2, vanno a costituire il profilo dell’apprendente che l’insegnante di L2 deve tenere in considerazione se vuole risultare efficace.
Riguardo l’influsso che la L1 può avere nell’apprendimento della L2, argomento
centrale di questa tesi, i linguisti hanno avuto posizioni diverse. In ambito
comportamentista la lingua era considerata come un insieme di abitudini
automatizzate e si riteneva che per apprendere la L2 si dovessero superare le
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abitudini legate alla L1. Da qui è derivato il filone dell’analisi contrastiva con la ricerca dei potenziali errori dell’apprendente causati dalla sua lingua madre [Weinreich 1853 Lado 1957, citati in Chini 2011, p.46].
Lo studio delle effettive produzioni degli apprendenti ha dimostrato però che non sempre i campi considerati “critici” erano quelli in cui si verificano gli errori e, viceversa, in settori considerati meno difficoltosi si potevano verificare errori inattesi. L’analisi dell’errore, alla luce dell’ipotesi innatista sulla natura creativa dell’apprendimento linguistico, ha portato allo sviluppo della teoria dell’interlingua [Selinker 1972], un sistema linguistico in formazione diverso da L1 e LO (lingua obiettivo). Secondo questa teoria, l’interlingua ha una propria grammatica le cui regole sono costruite attraverso alcuni processi specifici. Uno di questi è il transfer linguistico, cioè l’influsso della lingua materna sul sistema linguistico in formazione [Chini 2011, p.47]. Questo influsso viene però visto come positivo, come strumento euristico [Corder 1967] e strategia di acquisizione [Schmid 1994].
Gli errori che si presentano sono quindi dei segnalatori del livello del sistema linguistico in formazione, un sistema dinamico e transitorio. Questo processo segue delle regole universali uguali per tutti gli apprendenti che sono l’oggetto di studio di una branca della linguistica chiamata appunto linguistica acquisizionale.
La linguistica acquisizionale intende i livelli/gli stadi/le varietà
interlinguistiche di apprendimento come il punto cui può arrivare il naturale
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processo di elaborazione di un input linguistico in L2 da parte di un apprendente [Vedovelli 2010, p.61].
Le prime teorie acquisizionali ritenevano che questo ordine naturale universale non potesse in alcun modo essere influenzato dalla lingua madre dell’apprendente [Krashen 1982] però in tempi recenti si è dimostrato che la L1 può costituire una variabile importante e determinante [Villarini 2011b].
Riporto un esempio fatto da Rastelli:
Un insegnante di inglese può trovare normale che gli apprendenti spagnoli omettano il soggetto pronome soggetto (espletivo) “it” in frasi come “it snows”
(“nevica”) poiché nella loro lingua non c’è. […] Qualcuno ritiene che sia sufficiente l’evidenza positiva implicita […]. Altri invece ritengono che per spostare il valore del parametro, questo apprendente deve anche ricevere - oltre all’input – un’evidenza negativa (esplicita o implicita), cioè una spiegazione della regola e una correzione (feedback negativo), poiché altrimenti questo apprendente continuerà a basarsi sui parametri della sua L1 [Rastelli 2009, p.65].
Secondo questo secondo punto di vista, la conoscenza delle caratteristiche della
L1 dei propri apprendenti può aiutare gli insegnanti a fare previsioni
sull’interlingua e intervenire efficacemente.
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5. LA DIDATTICA DELLE LINGUE
Abbiamo detto alla fine del Capitolo 3 che per la linguistica acquisizionale la didattica non può intervenire nella sequenza di acquisizione quindi lo studio formale di certe regole sembrerebbe non portare alla loro interiorizzazione se questo non avviene nel giusto momento del processo di acquisizione (ipotesi dell’insegnabilità) [Pienemann 1984]. Si stabilisce quindi un campo di intervento per l’insegnamento con la didattica acquisizionale [Vedovelli 2003] secondo la quale la didattica, benché non alteri le sequenze di acquisizione, può armonizzarsi a esse cercando di favorire il processo attraverso un insegnamento efficace che fornisca le giuste strategie per passare più rapidamente a uno stadio acquisizionale più avanzato [Rastelli 2009].
Tra queste strategie sono state individuate cinque variabili fattorizzabili, ossia
misurabili e replicabili; nello specifico si tratta di far riferimento diretto o meno
alle regole della grammatica (insegnamento esplicito o implicito) e di dirigere
l’attenzione degli studenti su aspetti diversi: sul significato (focus on meaning), sulle
forme linguistiche (focus on forms) o sulla forma (focus on form). Le sperimentazioni
hanno dimostrato che queste variabili possono combinarsi e dare vita a
insegnamenti più o meno efficaci [Norris, Ortega 2000, citati in: Rastelli 2009,
pp.53-54].
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Pur facendo riferimento all’ordine naturale di acquisizione gli studiosi sono concordi oggi nel ritenere che sia possibile facilitare il processo attraverso una didattica efficace. Si compie quindi un passaggio naturale dalla teoria dell’apprendimento alla pratica dell’insegnamento. La glottodidattica si occupa di questa connessione in quanto scienza pratica che, tenendo conto delle conoscenze teoriche relative all’apprendimento linguistico, sviluppa approcci e metodi sulla base dei quali elaborare una metodologia didattica specifica.
Con approccio si intende la filosofia di fondo di ogni proposta glottodidattica [Diadori 2011, p.37]. L’approccio è un’idea di lingua, di cultura, di finalità dell’insegnamento, di apprendente e di insegnante [Balboni 2008, p.24]. Con metodo invece si fa riferimento all’insieme di modelli operativi coerenti con un determinato approccio, al modo in cui i principi generali contenuti nell’approccio vengono applicati all’insegnamento [Diadori 2011, p.37]. Sulla base del metodo si individuano delle azioni didattiche mirate a raggiungere l’obiettivo dell’apprendimento [Balboni 2008, p.25].
La glottodidattica ha quindi come oggetto la lingua e come attori l’apprendente e l’insegnante [Balboni 2008, p.27].
L’insegnante è un facilitatore, tutore o regista (a seconda degli approcci) che
deve avere tra le sue capacità quella di saper capire l’apprendente, di saper
individuare i suoi bisogni di apprendimento e le sue caratteristiche personali e
non solo, al fine di progettare degli interventi efficaci che portino al compimento
della sua missione, l’insegnamento appunto.
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L’apprendente, con tutte le variabili di cui abbiamo parlato nel precedente capitolo, non è quindi una tabula rasa, un contenitore in cui l’insegnante deve sversare delle conoscenze ma è parte attiva e , in quanto tale, influenza la scelta delle azioni didattiche.
Parlando delle caratteristiche dell’apprendente si torna al tema centrale di questo
elaborato: la lingua madre.
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6. L1 E L2
Nei capitoli precedenti abbiamo visto alcune teorie che dimostrano come la lingua madre sia una variabile da tenere presente per programmare un intervento didattico. Detto questo è necessario approfondire l’atteggiamento da tenere nei confronti della L1.
Per i comportamentisti apprendere una L2 significava superare le abitudini legate alla L1. Gli errori, attribuibili alla distanza linguistica tra L1 e L2 erano quindi considerati come la dimostrazione che il passaggio alla L2 non era ancora avvenuto e quindi ritenuti segnali negativi (transfer negativo). Su questo filone si colloca l’Analisi Contrastiva, a cui abbiamo già fatto riferimento nel capitolo 4, secondo cui sono più difficili da imparare le strutture più divergenti della L2 dalla L1 (ipotesi forte). Abbiamo detto che questo assunto è stato confutato con l’osservazione delle produzioni degli apprendenti che hanno dimostrato che gli errori non sempre possono essere previsti. Inoltre creare sillabi basati sull’analisi comparativa di tutte le lingue sarebbe impossibile. Nel campo dell’analisi contrastiva si è sviluppata anche un’ipotesi debole che parte invece dall’analisi a posteriori degli errori, ne individua le cause e imposta così delle strategie didattiche appropriate [Benucci 2011].
Nella teoria dell’interlingua, di cui abbiamo parlato nelle pagine precedenti,
questi segnali vengono considerati positivamente. In questo approccio il rapporto
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tra L2 e L1 degli apprendenti non è conflittuale ma parte da un piano più
“vantaggioso” considerando il patrimonio linguistico già in possesso come un terreno fertile, una buona base di partenza verso l'apprendimento di un nuovo codice linguistico.
Con la lingua madre ognuno di noi impara a esprimere concetti, a comunicare con parole e gesti, a costruire relazioni, entra in contatto con universali linguistici.
Anziché estirpare questo bagaglio di conoscenze e capacità, l’insegnante di L2 deve imparare a capirne l’utilità e a sfruttarne l'aiuto.
From this perspective, the aim of language education is profoundly modified. It is no longer seen as simply to achieve ‘mastery’ of one or two, or even three languages, each taken in isolation, with the ‘ideal native speaker’ as the ultimate model. Instead, the aim is to develop a linguistic repertory, in which all linguistic abilities have a place. [CoE 2001, Capitolo 1.3]
Nel cammino verso l’acquisizione di una nuova lingua normalmente si trovano
dei segnali del trasferimento delle caratteristiche morfologiche e fonologiche della
L1 alla L2. Questi transfer non sono da considerarsi interferenze negative, non
sono più segnalati come errori, ma vengono considerati un influsso
interlinguistico [Kellerman, Sharwood Smith 1986, citati in Chini 2011, p. 63], un
passo avanti nel processo di acquisizione della L2, verso il miglioramento delle
proprie abilità. Non sono più punti sottratti a una L2 perfetta e ideale ma gradi di
affinamento dell’interlingua guadagnati attraverso la formulazione di ipotesi sulla
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struttura della L2 alla luce del proprio sistema linguistico di partenza. L’influsso
della L1 risulta avere quindi un effetto facilitante [Chini 2011, pp.63-64].
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7. GLI ERRORI
Pur parlando di interlingua e di transfer positivo della L1 sulla L2 ci troviamo di fronte al problema del trattamento degli eventuali errori.
È naturale che un insegnante debba in qualche modo trattare questo materiale che si trova regolarmente di fronte. Si tratta di un argomento su cui ogni insegnante si è interrogato almeno una volta. La possibilità di segnalare l’errore è in effetti uno strumento utilizzabile in contesti di insegnamento guidato che potrebbe contribuire all’influsso favorevole dell’insegnamento sui processi di acquisizione (vedi Capitolo 5).
Innanzitutto non tutti gli errori, ovviamente, sono dovuti all’influsso della L1.
Corder a questo proposito fa una distinzione tra mistake, errore legato alla performance, ed error, errore legato alla competence che evidenzia il sistema di acquisizione [Corder 1967, p.167].
È molto chiara anche la distinzione che fa Benucci tra errori occasionali (che si
presentano prima di conoscere le regole), cristallizzati (prodotti dall’ipotesi sulla
L2), superflui (dovuti a distrazione), linguistici, discorsivi, referenziali,
socioculturali, comunicativi [Benucci 2011, p.295]. La correzione dell’errore
dipende dal tipo di errore, ad esempio l’errore occasionale non deve essere
corretto quello superfluo sì, e anche da altri fattori come gli obiettivi del corso e
l’età degli studenti.
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Ci sono diversi modi per fornire un feedback negativo e non c’è accordo su quale dia risultati migliori. In ambito comunicativo una correzione esplicita può interrompere il flusso e quindi è preferibile una riformulazione che mantiene l’attenzione sul contenuto [Long 2007, citato in Rastelli 2009, p.57]. Un’altra opinione invece ritiene che solamente un riferimento esplicito alla regola possa ottenere dei risultati positivi, soprattutto nei livelli basici [Lyster 1997].
Quello che in ogni caso si ritiene efficace al fine dell’acquisizione è il noticing [Schmidt 2001] perché quando l’apprendente nota e attribuisce importanza a un aspetto della lingua, con il tempo lo incamera e questo aspetto ha la possibilità di diventare produttivo e dare origine ad acquisizione [Rastelli 2009, p.59].
Per riassumere, un insegnante ha il compito di far sentire gli apprendenti liberi
di formulare ipotesi sulla L2 e di sbagliare, di far notare gli aspetti della L2
apprendibili al livello in cui ci si trova, di far riflettere sulle differenze tra L1 e L2,
così che gli studenti progressivamente avvicinino la loro interlingua alla lingua
obiettivo, la L2.
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8. L1 E IL FATTORE AFFETTIVO
Questo approccio all’insegnamento porta a migliori risultati sull’acquisizione anche per un altro aspetto che finora non è stato trattato: il filtro affettivo. Il termine filtro [Krashen 1981] indica bene la funzione di permettere o meno il passaggio di informazioni. Tra i fattori che influiscono sul filtro ci sono fattori interni come ansia, autostima e personalità, e fattori esterni come l’ambiente in classe [Villarini 2011a, pp.77-81].
Per quanto riguarda l’ambiente in classe, bisogna considerare che l’apprendimento viene promosso da un clima-classe disteso ed accogliente dove sono ben chiari gli obiettivi dell’insegnamento e dove i bisogni del discente vengono tenuti nella giusta considerazione. Per questo motivo è fondamentale per un insegnante lavorare sul fattore ambientale, motivare gli allievi al perseguimento degli obiettivi che egli si è proposto, rispettarne i bisogni formativi, lavorare tenendo conto delle caratteristiche di ogni singolo allievo [Villarini 2011a, p.79].
Un atteggiamento positivo nei confronti della lingua madre va proprio in questa
direzione: sentirsi legittimati a usare la propria lingua e vederla valorizzata
permette l'abbassamento del filtro affettivo e un atteggiamento maggiormente
accogliente nei confronti della nuova lingua da apprendere che alla luce di un
confronto sereno con la propria lingua madre appare meno terribilmente ostica. Al
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contrario, una lingua madre che diventa silenziosa, clandestina, marginale sarebbe vissuta come una frattura, una situazione di perdita e regressione [Favaro 2018, p.57].
Tullio De Mauro scrive nell’introduzione alla collana I Mappamondi (ed.Sinnos):
La lingua madre in cui siamo nati e abbiamo imparato a orientarci nel mondo, non è un guanto, uno strumento usa e getta. Essa innerva la nostra vita psicologica, i nostri ricordi, associazioni, schemi mentali. Essa apre le vie al con-sentire con gli altri e le altre che la parlano ed è dunque la trama della nostra vita sociale e di relazione, la trama, invisibile e forte, dell’identità di gruppo (De Mauro T., Seimila lingue nel mondo).
Per concludere non possiamo evitare di fare riferimento alle “Sette tesi per la
promozione di politiche linguistiche democratiche” della Società Linguistica
Italiana (SLI) in cui si afferma che il plurilinguismo degli individui e della società è
un valore da promuovere attraverso il rispetto e la tutela di tutte le L1 e che l'uso
parlato e scritto della propria lingua è un diritto umano inalienabile. Le sette tesi
del 2013 riprendono i concetti affrontati dal GISCEL (Gruppo di Intervento e
Studio nel Campo dell'Educazione Linguistica) nelle Dieci tesi del 1975 che
intendevano definire i presupposti teorici basilari e le linee d’intervento
dell’educazione linguistica in una scuola democratica. Le dieci tesi ponevano come
obiettivo dell'educazione linguistica la diffusione dell'italiano come lingua d’uso
mantenendo la pluralità delle L1 e valorizzandole [Vedovelli 2016, pp.38-41].
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Nelle dieci tesi si faceva riferimento alla pluralità di dialetti dell’italiano ma una riflessione di questo genere è estendibile anche alle L1 degli stranieri.
La scoperta della diversità dei retroterra linguistici individuali tra gli allievi dello stesso gruppo è il punto di partenza di ripetute e sempre più approfondite esperienze ed esplorazioni della varietà spaziale e temporale, geografica, sociale, storica, che caratterizza il patrimonio linguistico dei componenti di una stessa società: imparare a capire e apprezzare tale varietà è il primo passo per imparare a viverci in mezzo senza esserne succubi e senza calpestarla.
(GISCEL, Tesi VIII.4) [De Mauro 2018, pp.277-278]
In effetti se partiamo dal presupposto, ormai condiviso universalmente, che lo scopo dell’educazione linguistica sia favorire la comunicazione e ridurre il rischio di marginalizzazione e squilibri sociali capiamo che è necessario incoraggiare l’individuo a mettere in gioco tutta la strumentazione linguistica in suo possesso.
In ogni caso e modo occorre sviluppare il senso della funzionalità di ogni possibile tipo di forme linguistiche note e ignote.[…] (GISCEL, Tesi VIII.10) [De Mauro 2018, pp.278]
In questa prospettiva i diversi codici che via via entrano nell’esperienza
linguistica di un individuo non restano separati ma contribuiscono a formare una
competenza comunicativa unica in cui le lingue apprese non si aggiungono alla
lingua madre come in un’addizione ma si crea una relazione sistemica tra loro.
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9. SPECIFICITÀ DELL'APPRENDENTE ARABOFONO
Individuate le ragioni per cui è utile che l’insegnante di lingua seconda conosca i tratti principali della lingua madre degli apprendenti passiamo quindi a delineare un profilo dell’apprendente arabofono e della sua lingua ad uso di un insegnante di italiano L2.
Innanzitutto analizziamo il significato del termine arabo.
Arabo è colui che parla la lingua araba. Il nostro termine «nazione» è reso in arabo con ummah (lo stesso termine che designa anche la comunità islamica) ; gli abitanti dei diversi paesi arabi si considerano membri d'una sola «nazione»
(ummah) e si richiamano a una sola «patria» (wațan) [Anghelescu 1993, p.8].
La lingua araba identifica l'essere arabo che non si riferisce all’origine geografica dell’individuo ma alla sua appartenenza culturale. Si tratta di una lingua semitica nata nella regione centrale della penisola araba, la cui perfezione era tale da essere stata scelta per la rivelazione del Corano. Dal settimo secolo d.C. con l'espansione arabo-islamica si è diffusa dall'Asia all'Atlantico e i non-arabi convertiti all'Islam hanno adottato la lingua araba come simbolo di adesione e integrazione alla nuova cultura dominante proclamando la sua necessaria superiorità.
La lingua nella quale è stato trasmesso il Corano deve possedere qualità
intrinseche tali, da una parte, da giustificare la scelta di essa, e da valorizzare,
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d'altra parte, un passato culturale che gli arabi oppongono adesso ad antiche tradizioni di civiltà rappresentate dai Persiani e dai Bizantini [Anghelescu 1993, p.96].
La sua adozione da parte di popolazioni parlanti correntemente lingue diverse ha reso necessaria la sua codifica e la creazione di grammatiche che hanno contribuito a fissarla in una forma che ancora oggi risulta invariata.
Attualmente è l’idioma ufficiale dei paesi della Lega Araba e co-ufficiale in alcuni paesi tra cui Israele e Somalia, è una delle lingue ufficiali dell'ONU e lingua veicolare in alcune zone dell'Africa. Si calcola che gli arabofoni nel mondo siano più di 220milioni e che sia la quinta lingua più parlata al mondo [Cuciello 2014, p.35].
Quello che va chiarito però è di quale arabo stiamo parlando.
La lingua araba letteraria, […], è in buona parte una lingua ricostruita dai grammatici secondo modelli parziali, che sono, a loro volta, ricostruzioni tarde:
tanto la poesia arcaica quanto il Corano furono messi per iscritto molto tempo
dopo la loro apparizione. In questa forma, con alcune modificazioni attinenti
soprattutto al lessico e non alla struttura grammaticale, la lingua araba
letteraria si conserva fino ad oggi, estendendo le proprie funzioni da quelle
legate alla letteratura, alla scienza, all’amministrazione, ecc., a tutti i tipi
comunicazione di massa, a discussioni ufficiali, discorsi, ecc., ma tenendo una
sua forza e una sua vitalità indubitabile. Parallelamente a questa lingua di
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cultura sono esistite, come sole «lingue» di conversazione, le antiche parlate dei Beduini e dei sedentari e, più tardi, i nuovi «dialetti» formati nelle complesse condizioni dell’estensione dell'ambito della lingua araba [Anghelescu 1993, p.11].
L'arabo classico, la lingua del Corano e della poesia preislamica, è stato
codificato tra l'VIII e il X sec. d.C. e da allora è invariato, incontestabile ed esempio
di perfezione. Viene considerata lingua sacra ed è diventata una lingua liturgica
perché usata da tutti i musulmani, di qualsiasi provenienza, per la preghiera
[Cuciello 2014, p.33]. Al suo fianco si trova l’arabo standard, che ne è l'evoluzione,
è usato in letteratura moderna, giornalismo, burocrazia, media, discorsi ufficiali,
comunicazioni internazionali. Entrambi contraddistinguono l’identità culturale
araba ma nessuno dei due è la lingua madre di qualcuno, nessuno li parla
correntemente e vengono appresi a scuola come lingua seconda [Cuzzolin 2004,
pp.93-94]. Gli arabi, infatti, parlano varietà nazionali, regionali e locali di arabo
ognuna delle quali ha una versione popolare e una versione corrente. Esiste anche
un arabo mediano (al-'arabiyya al-wusțā) usato nelle comunicazioni tra parlanti di
aree diverse caratterizzato comunque da una variazione diatopica con fonetica e
morfologia locali ma lessico e morfosintassi vicini all’arabo standard [Cuciello
2014, p.37]. Un arabofono alfabetizzato e istruito quindi comprende e utilizza
normalmente almeno quattro codici diversi: arabo classico, studiato a scuola e
fruito attraverso il Corano se è musulmano, arabo standard, nei media e per la vita
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pubblica, l’arabo mediano per la comunicazione su larga scala e la variante locale per il contesto familiare che può variare in base al livello di alfabetizzazione del parlante [Cuciello 2014, pp.36-39].
Un apprendente con una padronanza linguistica di questo tipo avrà quindi
un’ottima capacità di code switching utile per l'apprendimento di una L2 ma non
tutti gli apprendenti arabofoni hanno avuto un’istruzione tale da permettere
questa varietà. Facilmente si potrà incontrare apprendenti analfabeti che sono in
grado di utilizzare solamente la varietà locale.
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10. DIFFERENZE E ANALOGIE TRA L'ARABO E L'ITALIANO
Per permettere all’insegnante di italiano L2 ad arabofoni di focalizzare l’attenzione degli studenti sulle differenze tra i codici e di interpretare nel modo giusto i tratti della nuova lingua in formazione, in questo capitolo si descrivono le principali differenze tra italiano e arabo. A supporto di questa analisi si affiancano i risultati degli studi di vari autori su corpora di produzioni in italiano di arabofoni.
Nelle prossime pagine analizzando i tratti linguistici si portano alcuni esempi concreti che hanno richiesto l’uso della grafia araba e della relativa traslitterazione.
Nella tabella seguente si riportano le lettere arabe e la traslitterazione usata in questo testo.
Grafia araba IPA Traslitterazione
1ا aː ā2
ب b b
ت t t
ث θ th
ج d͡ʒ j
ح ħ ḥ
خ x kh
1
In questa colonna si presenta la traslitterazione adottata in questo testo.
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