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1. INTRODUZIONE

Nel campo della didattica delle lingue l’opinione maggioritaria degli esperti è che la lingua da apprendere non sia l'unica protagonista del processo di insegnamento. Gli apprendenti sono infatti il punto di partenza di un programma didattico che tiene in considerazione per prima cosa i loro bisogni.

L’insegnante di una lingua straniera deve confrontarsi con una realtà eterogenea e un programma didattico unico con obiettivi fissati rigidamente a priori potrebbe risultare inefficace. È necessario quindi conoscere le caratteristiche individuali degli apprendenti per programmare azioni didattiche appropriate.

Tra queste caratteristiche personali si trova la lingua madre che costituisce il

punto di partenza per l’apprendimento di altre lingue. Alla lingua madre infatti

l’apprendente farà riferimento più o meno coscientemente nel percorso di

costruzione del nuovo sistema linguistico. Sarebbe naturale pensare allora che sia

più facile apprendere una lingua seconda simile alla lingua madre mentre una

lingua maggiormente distante dia maggiori difficoltà. Questa è stata l’ipotesi

contrastiva smentita dal successivo filone di analisi degli errori che ha dimostrato

che in alcuni casi si mantengono strutture sentite come simili e invece si

apprendono più facilmente strutture totalmente diverse da quelle a cui siamo

abituati.

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In ogni caso nel processo di apprendimento di una nuova lingua l’individuo si trova ad affrontare necessariamente la distanza linguistica tra L1 e L2. Con il termine distanza ci si riferisce a una differenza tra le due lingue la quale costituisce lo sforzo cognitivo che l'apprendente dovrà compiere nel processo di ristrutturazione delle categorie mentali che si manifestano nelle abilità linguistiche. Le analisi delle produzioni degli apprendenti arabofoni confermano che le più comuni difficoltà si trovano laddove l’italiano risulta più distante dall’arabo.

Uno studio incrociato delle distanze linguistiche tra italiano e arabo e degli errori riscontrati dagli studiosi che hanno analizzato le produzioni di arabofoni ha dato la possibilità di individuare alcuni punti critici.

Su questi elementi l’insegnante di italiano L2 ad apprendenti arabofoni può attirare l’attenzione degli studenti attraverso delle attività didattiche mirate, come quelle raccolte alla fine di questo elaborato, che li aiutino a riflettere, a ricordare e, in definitiva, ad apprendere.

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2. LA LINGUA, LE LINGUE

La lingua è un codice e in quanto tale è costituita da forma e funzione, o meglio da forme e funzioni [Bettoni 2010, p.17]. Le forme sono i suoni, la grafia, le parole, le strutture grammaticali, la sintassi. Le funzioni dell’utilizzo del codice-lingua sono la comunicazione, l’espressione di ciò che si prova, l’espressione di un pensiero, l’espressione di una cultura, le relazioni interpersonali, il raggiungimento di uno scopo e, non ultimo, la manifestazione dell’appartenenza a un gruppo [Balboni 2008, pp.59-60].

Se si parla di didattica di una lingua ad apprendenti con una diversa lingua madre è necessario fare una distinzione tra almeno due termini: lingua straniera e lingua seconda.

La lingua straniera è quella studiata fuori dalla zona in cui viene parlata e quindi essa è presente solo in contesto scolastico. La lingua seconda invece è studiata nel paese in cui viene correntemente parlata. Ne deriva una fondamentale differenza tra le due lingue: lo studente di una lingua straniera riceve gli input solamente dall’insegnante mentre un apprendente di una lingua seconda ha a disposizione una grande quantità di input extrascolastico autentico.

A differenza della lingua straniera, la situazione della lingua seconda prevede

che molto dell’input linguistico su cui si lavora provenga direttamente

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dall’esterno, dal mondo extrascolastico, e che sia spesso portato a scuola dagli stessi studenti [Balboni 2008, p.58].

Posta questa importante distinzione in questo elaborato verrà usato il termine L2 con l’accezione descritta da Vedovelli:

Una lingua non di parlanti che l’apprendono al momento della nascita, come

lingua materna, ma idioma con il quale si entra in contatto avendo già

sviluppato la propria L1. Per L2 intendiamo tutte le lingue che sono apprese

dopo la L1, quale che sia la loro successione e l’estensione della relativa

competenza [Vedovelli 2010, p.147].

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3. L’APPRENDIMENTO LINGUISTICO

Apprendere una lingua è un processo che porta ad accrescere le competenze sulle forme e sulle funzioni, aumenta le conoscenze e le abilità, influisce sul sapere e sul saper fare in una determinata lingua [Vedovelli 2010, p.47].

Un punto di riferimento importante per la descrizione del processo di apprendimento linguistico è il Quadro comune europeo di riferimento per le lingue che, in quanto strumento tassonomico, ne delinea delle tappe: i livelli linguistici. Si tratta di uno strumento fondamentale sia per l’ insegnante che per l’apprendente.

Il Framework è stato pensato avendo presenti due compiti: innanzitutto, incoraggiare le varie figure di operatori che agiscono nel campo delle lingue, inclusi gli apprendenti, a riflettere su alcune questioni che, nell’ordine, sono le seguenti. In primo luogo, «che cosa facciamo quando parliamo o scriviamo; che cosa ci consente di agire, di svolgere queste attività; quanto dobbiamo apprendere quando proviamo a usare una nuova lingua e come dobbiamo collocare i nostri obiettivi e individuare il nostro progresso lungo la via che va dalla totale ignoranza all’effettiva padronanza. E infine, come avviene l’apprendimento linguistico e come possiamo aiutare noi stessi e gli altri ad apprendere meglio un’altra lingua» [Vedovelli 2010, p.31].

Parlando di apprendimento è importante distinguerne due tipi: spontaneo e

guidato. Quello spontaneo avviene tramite situazioni comunicative autentiche. È

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l’apprendimento tipico della lingua madre e anche della lingua seconda. L’input non è facilitato o rallentato e ha una funzione comunicativa o pragmatica. Secondo la linguistica acquisizionale questo tipo di sistema conoscitivo inconscio è il solo che può portare a un’effettiva acquisizione della lingua da parte dell’apprendente il quale analizza in modo autonomo il codice, lo rielabora e lo utilizza [Krashen 1982, pag.10]. In un contesto di apprendimento guidato invece l’input è modulato e finalizzato allo sviluppo linguistico del discente.

Nei prossimi capitoli si farà riferimento ai criteri di scelta dell’input in un

contesto di apprendimento guidato secondo la linguistica acquisizionale e alla

teoria dell’insegnabilità.

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4. L’APPRENDIMENTO DI UNA SECONDA LINGUA

Apprendere una lingua seconda significa mettere in atto dei processi diversi da quelli usati per lo sviluppo della L1. Innanzitutto l’apprendimento della L1 avviene in maniera “naturale” durante un determinato periodo in cui l’individuo è spontaneamente portato all’apprendimento. I bambini rielaborano gli input a cui sono esposti, dei caretaker e dei pari, e generano un numero illimitato di soluzioni creative.

I processi che portano allo sviluppo della L1 sono stati ampiamente studiati.

Riassumendo le teorie di riferimento possiamo individuare due poli opposti:

un’ipotesi di tipo comportamentista [Skinner 1957, citato in: De Marco 2011, p.24]

che vede l’apprendimento della L1 come un processo di imitazione e formazione di abitudini, opposta a un’ipotesi di tipo innatista [Chomsky 1967] che invece ritiene che gli esseri umani siano biologicamente programmati per il linguaggio il quale si sviluppa naturalmente come altre funzioni del corpo. Tra questi due poli si trovano teorie intermedie che coniugano la predisposizione innata per il linguaggio dell’essere umano con la funzione dell’input linguistico ricorrente in momenti significativi della vita (ipotesi costruttivista) [De Marco 2011, pp.22-23].

Anche parlando di apprendimento della L2 dobbiamo far riferimento ai processi

cognitivi e all’input tenendo conto però di alcune importanti differenze rispetto

all’apprendimento della L1: gli apprendenti possono aver superato la pubertà e

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essere quindi fuori dal periodo di plasticità neuronale (ovvero la capacità del cervello di modificare la propria struttura e le proprie funzioni in base alle esperienze vissute dall’individuo nel suo ambiente), l’esposizione all’input potrebbe non essere totale e infine gli apprendenti hanno già un bagaglio linguistico e culturale pregresso.

Troviamo così alcune caratteristiche dell’apprendente, chiamate variabili in glottodidattica, che sono determinanti per l’apprendimento di una L2. Mi riferisco a: gli aspetti neurolinguistici legati all’età del soggetto (bambino, adolescente, adulto, anziano), l’esposizione all’input linguistico (immersione in situazioni di apprendimento spontaneo oppure input controllato durante l’insegnamento guidato), la lingua e la cultura di origine. A queste è opportuno aggiungere alcuni fattori interni come l’attitudine personale, la motivazione che spinge allo studio della lingua (culturale, strumentale, intrinseca), lo stile cognitivo, i fattori affettivi [Villarini 2011a, pp.71-78], la personalità, le caratteristiche socio-culturali, le preconoscenze [Diadori 2011, pp.17-30].

Tutte queste variabili, che possono causare maggiore o minore sforzo per l’apprendimento della L2, vanno a costituire il profilo dell’apprendente che l’insegnante di L2 deve tenere in considerazione se vuole risultare efficace.

Riguardo l’influsso che la L1 può avere nell’apprendimento della L2, argomento

centrale di questa tesi, i linguisti hanno avuto posizioni diverse. In ambito

comportamentista la lingua era considerata come un insieme di abitudini

automatizzate e si riteneva che per apprendere la L2 si dovessero superare le

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abitudini legate alla L1. Da qui è derivato il filone dell’analisi contrastiva con la ricerca dei potenziali errori dell’apprendente causati dalla sua lingua madre [Weinreich 1853 Lado 1957, citati in Chini 2011, p.46].

Lo studio delle effettive produzioni degli apprendenti ha dimostrato però che non sempre i campi considerati “critici” erano quelli in cui si verificano gli errori e, viceversa, in settori considerati meno difficoltosi si potevano verificare errori inattesi. L’analisi dell’errore, alla luce dell’ipotesi innatista sulla natura creativa dell’apprendimento linguistico, ha portato allo sviluppo della teoria dell’interlingua [Selinker 1972], un sistema linguistico in formazione diverso da L1 e LO (lingua obiettivo). Secondo questa teoria, l’interlingua ha una propria grammatica le cui regole sono costruite attraverso alcuni processi specifici. Uno di questi è il transfer linguistico, cioè l’influsso della lingua materna sul sistema linguistico in formazione [Chini 2011, p.47]. Questo influsso viene però visto come positivo, come strumento euristico [Corder 1967] e strategia di acquisizione [Schmid 1994].

Gli errori che si presentano sono quindi dei segnalatori del livello del sistema linguistico in formazione, un sistema dinamico e transitorio. Questo processo segue delle regole universali uguali per tutti gli apprendenti che sono l’oggetto di studio di una branca della linguistica chiamata appunto linguistica acquisizionale.

La linguistica acquisizionale intende i livelli/gli stadi/le varietà

interlinguistiche di apprendimento come il punto cui può arrivare il naturale

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processo di elaborazione di un input linguistico in L2 da parte di un apprendente [Vedovelli 2010, p.61].

Le prime teorie acquisizionali ritenevano che questo ordine naturale universale non potesse in alcun modo essere influenzato dalla lingua madre dell’apprendente [Krashen 1982] però in tempi recenti si è dimostrato che la L1 può costituire una variabile importante e determinante [Villarini 2011b].

Riporto un esempio fatto da Rastelli:

Un insegnante di inglese può trovare normale che gli apprendenti spagnoli omettano il soggetto pronome soggetto (espletivo) “it” in frasi come “it snows”

(“nevica”) poiché nella loro lingua non c’è. […] Qualcuno ritiene che sia sufficiente l’evidenza positiva implicita […]. Altri invece ritengono che per spostare il valore del parametro, questo apprendente deve anche ricevere - oltre all’input – un’evidenza negativa (esplicita o implicita), cioè una spiegazione della regola e una correzione (feedback negativo), poiché altrimenti questo apprendente continuerà a basarsi sui parametri della sua L1 [Rastelli 2009, p.65].

Secondo questo secondo punto di vista, la conoscenza delle caratteristiche della

L1 dei propri apprendenti può aiutare gli insegnanti a fare previsioni

sull’interlingua e intervenire efficacemente.

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5. LA DIDATTICA DELLE LINGUE

Abbiamo detto alla fine del Capitolo 3 che per la linguistica acquisizionale la didattica non può intervenire nella sequenza di acquisizione quindi lo studio formale di certe regole sembrerebbe non portare alla loro interiorizzazione se questo non avviene nel giusto momento del processo di acquisizione (ipotesi dell’insegnabilità) [Pienemann 1984]. Si stabilisce quindi un campo di intervento per l’insegnamento con la didattica acquisizionale [Vedovelli 2003] secondo la quale la didattica, benché non alteri le sequenze di acquisizione, può armonizzarsi a esse cercando di favorire il processo attraverso un insegnamento efficace che fornisca le giuste strategie per passare più rapidamente a uno stadio acquisizionale più avanzato [Rastelli 2009].

Tra queste strategie sono state individuate cinque variabili fattorizzabili, ossia

misurabili e replicabili; nello specifico si tratta di far riferimento diretto o meno

alle regole della grammatica (insegnamento esplicito o implicito) e di dirigere

l’attenzione degli studenti su aspetti diversi: sul significato (focus on meaning), sulle

forme linguistiche (focus on forms) o sulla forma (focus on form). Le sperimentazioni

hanno dimostrato che queste variabili possono combinarsi e dare vita a

insegnamenti più o meno efficaci [Norris, Ortega 2000, citati in: Rastelli 2009,

pp.53-54].

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Pur facendo riferimento all’ordine naturale di acquisizione gli studiosi sono concordi oggi nel ritenere che sia possibile facilitare il processo attraverso una didattica efficace. Si compie quindi un passaggio naturale dalla teoria dell’apprendimento alla pratica dell’insegnamento. La glottodidattica si occupa di questa connessione in quanto scienza pratica che, tenendo conto delle conoscenze teoriche relative all’apprendimento linguistico, sviluppa approcci e metodi sulla base dei quali elaborare una metodologia didattica specifica.

Con approccio si intende la filosofia di fondo di ogni proposta glottodidattica [Diadori 2011, p.37]. L’approccio è un’idea di lingua, di cultura, di finalità dell’insegnamento, di apprendente e di insegnante [Balboni 2008, p.24]. Con metodo invece si fa riferimento all’insieme di modelli operativi coerenti con un determinato approccio, al modo in cui i principi generali contenuti nell’approccio vengono applicati all’insegnamento [Diadori 2011, p.37]. Sulla base del metodo si individuano delle azioni didattiche mirate a raggiungere l’obiettivo dell’apprendimento [Balboni 2008, p.25].

La glottodidattica ha quindi come oggetto la lingua e come attori l’apprendente e l’insegnante [Balboni 2008, p.27].

L’insegnante è un facilitatore, tutore o regista (a seconda degli approcci) che

deve avere tra le sue capacità quella di saper capire l’apprendente, di saper

individuare i suoi bisogni di apprendimento e le sue caratteristiche personali e

non solo, al fine di progettare degli interventi efficaci che portino al compimento

della sua missione, l’insegnamento appunto.

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L’apprendente, con tutte le variabili di cui abbiamo parlato nel precedente capitolo, non è quindi una tabula rasa, un contenitore in cui l’insegnante deve sversare delle conoscenze ma è parte attiva e , in quanto tale, influenza la scelta delle azioni didattiche.

Parlando delle caratteristiche dell’apprendente si torna al tema centrale di questo

elaborato: la lingua madre.

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6. L1 E L2

Nei capitoli precedenti abbiamo visto alcune teorie che dimostrano come la lingua madre sia una variabile da tenere presente per programmare un intervento didattico. Detto questo è necessario approfondire l’atteggiamento da tenere nei confronti della L1.

Per i comportamentisti apprendere una L2 significava superare le abitudini legate alla L1. Gli errori, attribuibili alla distanza linguistica tra L1 e L2 erano quindi considerati come la dimostrazione che il passaggio alla L2 non era ancora avvenuto e quindi ritenuti segnali negativi (transfer negativo). Su questo filone si colloca l’Analisi Contrastiva, a cui abbiamo già fatto riferimento nel capitolo 4, secondo cui sono più difficili da imparare le strutture più divergenti della L2 dalla L1 (ipotesi forte). Abbiamo detto che questo assunto è stato confutato con l’osservazione delle produzioni degli apprendenti che hanno dimostrato che gli errori non sempre possono essere previsti. Inoltre creare sillabi basati sull’analisi comparativa di tutte le lingue sarebbe impossibile. Nel campo dell’analisi contrastiva si è sviluppata anche un’ipotesi debole che parte invece dall’analisi a posteriori degli errori, ne individua le cause e imposta così delle strategie didattiche appropriate [Benucci 2011].

Nella teoria dell’interlingua, di cui abbiamo parlato nelle pagine precedenti,

questi segnali vengono considerati positivamente. In questo approccio il rapporto

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tra L2 e L1 degli apprendenti non è conflittuale ma parte da un piano più

“vantaggioso” considerando il patrimonio linguistico già in possesso come un terreno fertile, una buona base di partenza verso l'apprendimento di un nuovo codice linguistico.

Con la lingua madre ognuno di noi impara a esprimere concetti, a comunicare con parole e gesti, a costruire relazioni, entra in contatto con universali linguistici.

Anziché estirpare questo bagaglio di conoscenze e capacità, l’insegnante di L2 deve imparare a capirne l’utilità e a sfruttarne l'aiuto.

From this perspective, the aim of language education is profoundly modified. It is no longer seen as simply to achieve ‘mastery’ of one or two, or even three languages, each taken in isolation, with the ‘ideal native speaker’ as the ultimate model. Instead, the aim is to develop a linguistic repertory, in which all linguistic abilities have a place. [CoE 2001, Capitolo 1.3]

Nel cammino verso l’acquisizione di una nuova lingua normalmente si trovano

dei segnali del trasferimento delle caratteristiche morfologiche e fonologiche della

L1 alla L2. Questi transfer non sono da considerarsi interferenze negative, non

sono più segnalati come errori, ma vengono considerati un influsso

interlinguistico [Kellerman, Sharwood Smith 1986, citati in Chini 2011, p. 63], un

passo avanti nel processo di acquisizione della L2, verso il miglioramento delle

proprie abilità. Non sono più punti sottratti a una L2 perfetta e ideale ma gradi di

affinamento dell’interlingua guadagnati attraverso la formulazione di ipotesi sulla

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struttura della L2 alla luce del proprio sistema linguistico di partenza. L’influsso

della L1 risulta avere quindi un effetto facilitante [Chini 2011, pp.63-64].

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7. GLI ERRORI

Pur parlando di interlingua e di transfer positivo della L1 sulla L2 ci troviamo di fronte al problema del trattamento degli eventuali errori.

È naturale che un insegnante debba in qualche modo trattare questo materiale che si trova regolarmente di fronte. Si tratta di un argomento su cui ogni insegnante si è interrogato almeno una volta. La possibilità di segnalare l’errore è in effetti uno strumento utilizzabile in contesti di insegnamento guidato che potrebbe contribuire all’influsso favorevole dell’insegnamento sui processi di acquisizione (vedi Capitolo 5).

Innanzitutto non tutti gli errori, ovviamente, sono dovuti all’influsso della L1.

Corder a questo proposito fa una distinzione tra mistake, errore legato alla performance, ed error, errore legato alla competence che evidenzia il sistema di acquisizione [Corder 1967, p.167].

È molto chiara anche la distinzione che fa Benucci tra errori occasionali (che si

presentano prima di conoscere le regole), cristallizzati (prodotti dall’ipotesi sulla

L2), superflui (dovuti a distrazione), linguistici, discorsivi, referenziali,

socioculturali, comunicativi [Benucci 2011, p.295]. La correzione dell’errore

dipende dal tipo di errore, ad esempio l’errore occasionale non deve essere

corretto quello superfluo sì, e anche da altri fattori come gli obiettivi del corso e

l’età degli studenti.

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Ci sono diversi modi per fornire un feedback negativo e non c’è accordo su quale dia risultati migliori. In ambito comunicativo una correzione esplicita può interrompere il flusso e quindi è preferibile una riformulazione che mantiene l’attenzione sul contenuto [Long 2007, citato in Rastelli 2009, p.57]. Un’altra opinione invece ritiene che solamente un riferimento esplicito alla regola possa ottenere dei risultati positivi, soprattutto nei livelli basici [Lyster 1997].

Quello che in ogni caso si ritiene efficace al fine dell’acquisizione è il noticing [Schmidt 2001] perché quando l’apprendente nota e attribuisce importanza a un aspetto della lingua, con il tempo lo incamera e questo aspetto ha la possibilità di diventare produttivo e dare origine ad acquisizione [Rastelli 2009, p.59].

Per riassumere, un insegnante ha il compito di far sentire gli apprendenti liberi

di formulare ipotesi sulla L2 e di sbagliare, di far notare gli aspetti della L2

apprendibili al livello in cui ci si trova, di far riflettere sulle differenze tra L1 e L2,

così che gli studenti progressivamente avvicinino la loro interlingua alla lingua

obiettivo, la L2.

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8. L1 E IL FATTORE AFFETTIVO

Questo approccio all’insegnamento porta a migliori risultati sull’acquisizione anche per un altro aspetto che finora non è stato trattato: il filtro affettivo. Il termine filtro [Krashen 1981] indica bene la funzione di permettere o meno il passaggio di informazioni. Tra i fattori che influiscono sul filtro ci sono fattori interni come ansia, autostima e personalità, e fattori esterni come l’ambiente in classe [Villarini 2011a, pp.77-81].

Per quanto riguarda l’ambiente in classe, bisogna considerare che l’apprendimento viene promosso da un clima-classe disteso ed accogliente dove sono ben chiari gli obiettivi dell’insegnamento e dove i bisogni del discente vengono tenuti nella giusta considerazione. Per questo motivo è fondamentale per un insegnante lavorare sul fattore ambientale, motivare gli allievi al perseguimento degli obiettivi che egli si è proposto, rispettarne i bisogni formativi, lavorare tenendo conto delle caratteristiche di ogni singolo allievo [Villarini 2011a, p.79].

Un atteggiamento positivo nei confronti della lingua madre va proprio in questa

direzione: sentirsi legittimati a usare la propria lingua e vederla valorizzata

permette l'abbassamento del filtro affettivo e un atteggiamento maggiormente

accogliente nei confronti della nuova lingua da apprendere che alla luce di un

confronto sereno con la propria lingua madre appare meno terribilmente ostica. Al

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contrario, una lingua madre che diventa silenziosa, clandestina, marginale sarebbe vissuta come una frattura, una situazione di perdita e regressione [Favaro 2018, p.57].

Tullio De Mauro scrive nell’introduzione alla collana I Mappamondi (ed.Sinnos):

La lingua madre in cui siamo nati e abbiamo imparato a orientarci nel mondo, non è un guanto, uno strumento usa e getta. Essa innerva la nostra vita psicologica, i nostri ricordi, associazioni, schemi mentali. Essa apre le vie al con-sentire con gli altri e le altre che la parlano ed è dunque la trama della nostra vita sociale e di relazione, la trama, invisibile e forte, dell’identità di gruppo (De Mauro T., Seimila lingue nel mondo).

Per concludere non possiamo evitare di fare riferimento alle “Sette tesi per la

promozione di politiche linguistiche democratiche” della Società Linguistica

Italiana (SLI) in cui si afferma che il plurilinguismo degli individui e della società è

un valore da promuovere attraverso il rispetto e la tutela di tutte le L1 e che l'uso

parlato e scritto della propria lingua è un diritto umano inalienabile. Le sette tesi

del 2013 riprendono i concetti affrontati dal GISCEL (Gruppo di Intervento e

Studio nel Campo dell'Educazione Linguistica) nelle Dieci tesi del 1975 che

intendevano definire i presupposti teorici basilari e le linee d’intervento

dell’educazione linguistica in una scuola democratica. Le dieci tesi ponevano come

obiettivo dell'educazione linguistica la diffusione dell'italiano come lingua d’uso

mantenendo la pluralità delle L1 e valorizzandole [Vedovelli 2016, pp.38-41].

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Nelle dieci tesi si faceva riferimento alla pluralità di dialetti dell’italiano ma una riflessione di questo genere è estendibile anche alle L1 degli stranieri.

La scoperta della diversità dei retroterra linguistici individuali tra gli allievi dello stesso gruppo è il punto di partenza di ripetute e sempre più approfondite esperienze ed esplorazioni della varietà spaziale e temporale, geografica, sociale, storica, che caratterizza il patrimonio linguistico dei componenti di una stessa società: imparare a capire e apprezzare tale varietà è il primo passo per imparare a viverci in mezzo senza esserne succubi e senza calpestarla.

(GISCEL, Tesi VIII.4) [De Mauro 2018, pp.277-278]

In effetti se partiamo dal presupposto, ormai condiviso universalmente, che lo scopo dell’educazione linguistica sia favorire la comunicazione e ridurre il rischio di marginalizzazione e squilibri sociali capiamo che è necessario incoraggiare l’individuo a mettere in gioco tutta la strumentazione linguistica in suo possesso.

In ogni caso e modo occorre sviluppare il senso della funzionalità di ogni possibile tipo di forme linguistiche note e ignote.[…] (GISCEL, Tesi VIII.10) [De Mauro 2018, pp.278]

In questa prospettiva i diversi codici che via via entrano nell’esperienza

linguistica di un individuo non restano separati ma contribuiscono a formare una

competenza comunicativa unica in cui le lingue apprese non si aggiungono alla

lingua madre come in un’addizione ma si crea una relazione sistemica tra loro.

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9. SPECIFICITÀ DELL'APPRENDENTE ARABOFONO

Individuate le ragioni per cui è utile che l’insegnante di lingua seconda conosca i tratti principali della lingua madre degli apprendenti passiamo quindi a delineare un profilo dell’apprendente arabofono e della sua lingua ad uso di un insegnante di italiano L2.

Innanzitutto analizziamo il significato del termine arabo.

Arabo è colui che parla la lingua araba. Il nostro termine «nazione» è reso in arabo con ummah (lo stesso termine che designa anche la comunità islamica) ; gli abitanti dei diversi paesi arabi si considerano membri d'una sola «nazione»

(ummah) e si richiamano a una sola «patria» (wațan) [Anghelescu 1993, p.8].

La lingua araba identifica l'essere arabo che non si riferisce all’origine geografica dell’individuo ma alla sua appartenenza culturale. Si tratta di una lingua semitica nata nella regione centrale della penisola araba, la cui perfezione era tale da essere stata scelta per la rivelazione del Corano. Dal settimo secolo d.C. con l'espansione arabo-islamica si è diffusa dall'Asia all'Atlantico e i non-arabi convertiti all'Islam hanno adottato la lingua araba come simbolo di adesione e integrazione alla nuova cultura dominante proclamando la sua necessaria superiorità.

La lingua nella quale è stato trasmesso il Corano deve possedere qualità

intrinseche tali, da una parte, da giustificare la scelta di essa, e da valorizzare,

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d'altra parte, un passato culturale che gli arabi oppongono adesso ad antiche tradizioni di civiltà rappresentate dai Persiani e dai Bizantini [Anghelescu 1993, p.96].

La sua adozione da parte di popolazioni parlanti correntemente lingue diverse ha reso necessaria la sua codifica e la creazione di grammatiche che hanno contribuito a fissarla in una forma che ancora oggi risulta invariata.

Attualmente è l’idioma ufficiale dei paesi della Lega Araba e co-ufficiale in alcuni paesi tra cui Israele e Somalia, è una delle lingue ufficiali dell'ONU e lingua veicolare in alcune zone dell'Africa. Si calcola che gli arabofoni nel mondo siano più di 220milioni e che sia la quinta lingua più parlata al mondo [Cuciello 2014, p.35].

Quello che va chiarito però è di quale arabo stiamo parlando.

La lingua araba letteraria, […], è in buona parte una lingua ricostruita dai grammatici secondo modelli parziali, che sono, a loro volta, ricostruzioni tarde:

tanto la poesia arcaica quanto il Corano furono messi per iscritto molto tempo

dopo la loro apparizione. In questa forma, con alcune modificazioni attinenti

soprattutto al lessico e non alla struttura grammaticale, la lingua araba

letteraria si conserva fino ad oggi, estendendo le proprie funzioni da quelle

legate alla letteratura, alla scienza, all’amministrazione, ecc., a tutti i tipi

comunicazione di massa, a discussioni ufficiali, discorsi, ecc., ma tenendo una

sua forza e una sua vitalità indubitabile. Parallelamente a questa lingua di

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cultura sono esistite, come sole «lingue» di conversazione, le antiche parlate dei Beduini e dei sedentari e, più tardi, i nuovi «dialetti» formati nelle complesse condizioni dell’estensione dell'ambito della lingua araba [Anghelescu 1993, p.11].

L'arabo classico, la lingua del Corano e della poesia preislamica, è stato

codificato tra l'VIII e il X sec. d.C. e da allora è invariato, incontestabile ed esempio

di perfezione. Viene considerata lingua sacra ed è diventata una lingua liturgica

perché usata da tutti i musulmani, di qualsiasi provenienza, per la preghiera

[Cuciello 2014, p.33]. Al suo fianco si trova l’arabo standard, che ne è l'evoluzione,

è usato in letteratura moderna, giornalismo, burocrazia, media, discorsi ufficiali,

comunicazioni internazionali. Entrambi contraddistinguono l’identità culturale

araba ma nessuno dei due è la lingua madre di qualcuno, nessuno li parla

correntemente e vengono appresi a scuola come lingua seconda [Cuzzolin 2004,

pp.93-94]. Gli arabi, infatti, parlano varietà nazionali, regionali e locali di arabo

ognuna delle quali ha una versione popolare e una versione corrente. Esiste anche

un arabo mediano (al-'arabiyya al-wusțā) usato nelle comunicazioni tra parlanti di

aree diverse caratterizzato comunque da una variazione diatopica con fonetica e

morfologia locali ma lessico e morfosintassi vicini all’arabo standard [Cuciello

2014, p.37]. Un arabofono alfabetizzato e istruito quindi comprende e utilizza

normalmente almeno quattro codici diversi: arabo classico, studiato a scuola e

fruito attraverso il Corano se è musulmano, arabo standard, nei media e per la vita

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pubblica, l’arabo mediano per la comunicazione su larga scala e la variante locale per il contesto familiare che può variare in base al livello di alfabetizzazione del parlante [Cuciello 2014, pp.36-39].

Un apprendente con una padronanza linguistica di questo tipo avrà quindi

un’ottima capacità di code switching utile per l'apprendimento di una L2 ma non

tutti gli apprendenti arabofoni hanno avuto un’istruzione tale da permettere

questa varietà. Facilmente si potrà incontrare apprendenti analfabeti che sono in

grado di utilizzare solamente la varietà locale.

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10. DIFFERENZE E ANALOGIE TRA L'ARABO E L'ITALIANO

Per permettere all’insegnante di italiano L2 ad arabofoni di focalizzare l’attenzione degli studenti sulle differenze tra i codici e di interpretare nel modo giusto i tratti della nuova lingua in formazione, in questo capitolo si descrivono le principali differenze tra italiano e arabo. A supporto di questa analisi si affiancano i risultati degli studi di vari autori su corpora di produzioni in italiano di arabofoni.

Nelle prossime pagine analizzando i tratti linguistici si portano alcuni esempi concreti che hanno richiesto l’uso della grafia araba e della relativa traslitterazione.

Nella tabella seguente si riportano le lettere arabe e la traslitterazione usata in questo testo.

Grafia araba IPA Traslitterazione

1

ا aː ā

2

ب b b

ت t t

ث θ th

ج d͡ʒ j

ح ħ ḥ

خ x kh

1

In questa colonna si presenta la traslitterazione adottata in questo testo.

2

Se è iniziale di parola è supporto per una vocale (a,i,u)

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د d d

ذ ð dh

ر r r

ز z z

س s s

ش ʃ sh

ص sˤ ṣ

ض dˤ ḍ

ط tˤ ṭ

ظ ðˤ ẓ

ع ʕ ʿ

غ ɣ gh

ف f f

ق q q

ك k k

ل l l

م m m

ن n n

ﻩ h h

و uː w/ū

ي iː y/ī

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10.1 Grafia

Nella lingua araba la scrittura e la lettura avvengono da destra a sinistra per questo alcuni apprendenti basici potrebbero avere difficoltà anche ad orientarsi nel libro e nel quaderno. I numerali invece vengono scritti da sinistra a destra.

L'alfabeto è composto da 28 lettere che derivano dall’alfabeto fenicio come quello latino. Hanno una forma diversa in posizione isolata, iniziale, mediana o finale di parola ma non tutte le lettere si legano con la successiva. Esiste solamente la grafia corsiva e non c’è differenza tra maiuscolo e minuscolo. È da acquisire quindi l’uso della lettera maiuscola per i nomi propri, all'inizio della frase e dopo il punto. Non esiste la divisione in sillabe e i segni di punteggiatura potrebbero comportare incertezze perché sono usati nella lingua scritta araba solo dalla fine del XIX sec per influenza delle lingue europee .

Nell’alfabeto arabo non ci sono le vocali. Ma solo tre segni che servono da

appoggio: ا , una consonante muta che può essere vocalizzata con A, I, U; و ,

approssimante velolabiale che serve da appoggio per la U; ي , approssimante

palatale che serve da appoggio per I . Nei testi arabi le vocali possono essere

segnate con un piccolo tratto sopra o sotto la lettera a cui si appoggiano ma di fatto

non sono mai indicate, ad eccezione del Corano che le riporta perché sia

mantenuta la sua immutabilità e perfezione. Un arabofono che inizia a scrivere in

italiano può tendere a dimenticare di scrivere alcune vocali. Questa peculiarità è

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stata confermata dall’analisi di un corpus di 46 testi scritti da 14 alunni arabi delle scuole primarie e secondarie di primo grado svolta da F. Della Puppa, ad esempio:

“frtello”, “srpresa” [Della Puppa 2007, p.23].

In arabo non esistono digrammi, trigrammi, dittonghi ma ad ogni grafema

corrisponde un fonema. Sarà quindi utile che lo studente arabofono focalizzi la sua

attenzione sulla resa grafica di alcuni suoni delle parole italiane.

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10.2 Fonetica e fonologia

La fonologia è il campo in cui le interferenze causate dalla L1 sono maggiori anche ai livelli superiori di padronanza della lingua [Giacalone Ramat 2014, p.6].

Le articolazioni dei suoni arabi presentano alcune importanti differenze rispetto all'italiano. Tra le 21 lettere dell'alfabeto italiano 8 rappresentano suoni estranei all'articolazione fonetica araba: la C palatale affricata sorda, la G occlusiva velare sonora, la H “muta", la P, la V, la Z alveolare affricata sonora e le vocali E e O.

D'altro canto tra le 28 lettere dell'alfabeto arabo, ben 17 hanno una pronuncia che non esiste in italiano.

Innanzitutto l’italiano è una lingua di articolazione anteriore in quanto 17 foni su 21 si realizzano tra labbra e postalveoli e 19 tra labbra e palato duro (90%), non andando mai oltre il velo. L’arabo invece possiede una ricca serie di consonanti posteriori rispetto al luogo velare tra cui le fricative velari sorda خ [x] e sonora غ

[ɣ], le fricative faringali sorda ح [ħ] e sonora ع [ʕ], l’occlusiva uvulare sorda ق [q]

e l’occlusiva glottidale ﻩ [h] [Pettorino 2010] e quattro dentali caratterizzate da un

diaframma aggiunto a livello faringale, le consonanti enfatiche ص [sˁ] ض [ dˁ] ط [ tˤ] ظ [ ðˁ].

È importante ricordare che alcuni suoni che in italiano hanno il corrispondente

sonoro non lo hanno in arabo. Sono la B[b], la F [f] e la G dolce [ʤ] (semiocclusiva

affricata sonora) che in arabo corrispondono a ب , ف e ج . Mentre per quanto

riguarda i suoni vocalici nell'arabo standard mancano E e O aperti e chiusi. La

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strategia degli apprendenti in caso di suoni estranei alla lingua madre è riprodurre il suono più simile che conoscono, si osservano quindi ipodifferenziazioni o sostituzioni di foni. Gli arabofoni potrebbero avere difficoltà con la realizzazione di P/B e F/V per le consonanti e E/I e O/U per le vocali [Della Puppa 2006, p. 58].

L’analisi svolta da F. Della Puppa ha confermato la presenza di scambio consonantico P/B e scambio vocalico E/I e O/U. Questi aspetti non sono stati rilevati negli scritti di alunni con altra lingua madre [Della Puppa 2007, p.23].

Sono assenti in arabo anche l’occlusiva nasale sonora GN [ɲ] e la liquida laterale sonora GL [ʎ] ma le analisi delle produzioni di arabofoni non segnalano particolari difficoltà legate a questi suoni. Una difficoltà per l’apprendente arabofono è la presenza in italiano di lettere a cui corrispondono due suoni a seconda del contesto (C, G, S) oppure un suono con due diverse grafie (C e Q). Ma esistono in arabo, a differenza dell’italiano, due diverse grafie per la S sorda e sonora, rispettivamente س [s] e ز [z]. Per questo motivo nella trascrizione di parole italiane con s sonora un arabofono può trovarsi a utilizzare il segno grafico Z che viene usato in arabo per traslitterare ز [Della Puppa 2006, p. 59]. Inoltre in arabo ci sono due H aspirate, che non esistono in italiano, con diversa aspirazione ح [ħ] e ﻩ [h].

La presenza di questi suoni può portare l’apprendente arabofono a pronunciare

con aspirazione la H “muta” italiana. Infine ricordiamo che le parole in arabo non

iniziano mai con due o tre consonanti per questo facilmente un apprendente di

lingua madre araba inserirà una vocale nella pronuncia delle prime due

consonanti. Es: primo sarà pronunciato pirimo [Cuciello 2014, p. 46].

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Gli studi sulle produzioni in italiano di 10 arabofoni (Bernini 1988) rilevano un’incidenza del 50% di ipodifferenziazione di [p] e [b] in [b] e il 34% di ipodifferenziazione di [dz] e [z] in [z]. La differenziazione di [ts] e [s] è corretta nel 75% dei casi. Un alto livello di realizzazioni corrette si ha anche per [f] e [v] che raramente danno vita a ipodifferenziazione. Semmai in alcuni casi avviene la sostituzione di [v] con [b]. Anche la realizzazione del suono [tʃ] dà pochi problemi rilevati. Una maggiore incidenza si ha invece per la sostituzione di [dʒ] con [ʒ]

attestata al 34% [Bernini 2017, p.2].

La resa corretta precoce di /ʧ/ trova rispondenza nel fatto che se nei sistemi linguistici c’è una sola affricata, questa molto probabilmente è quella palatale.

L’affricata palatale è l’affricata più frequente delle altre nei sistemi linguistici:

si ritrova in poco meno del 50% delle lingue del mondo rispetto al 30% di /ʦ/ e a circa il 25% di /ʤ/ (Gordon 2016: 45). La resa corretta precoce di /v/ con marginali ipodifferenziazioni con /f/ e invece la difficoltà di distinguere /b/ e /p/

è forse collegata con le correlazioni articolatorie di sonorità e luogo di

articolazione evidenti in un campione di 393 lingue UPSID (UCLA

Phonological Segment Inventory Database) [Bernini 2017, p.2].

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10.3 Aspetti morfologici e sintattici

In arabo, come in italiano, la morfologia è presente ed è regolare e sistemica.

L’italiano è una lingua flessiva che presenta una distinzione tra radici e desinenze mentre l’arabo fa parte di un sottogruppo delle lingue flessive: è una lingua introflessiva perché le variazioni avvengono all’interno della radice. Infatti in arabo:

[…] la costruzione delle parole avviene intrecciando una radice (tri)consonantica con particolari sequenze vocaliche, poste tra le consonanti radicali, che esprimono specificazioni sia lessicali, sia grammaticali [Cuciello 2014, p.49].

In arabo si trovano tre categorie morfologiche: il nome (in cui rientrano anche aggettivi, participio, numerali e pronomi), il verbo e la particella (in cui rientrano preposizioni, congiunzioni e numerose particelle che si usano prima di nomi e verbi) [Cuciello 2014, p.49]. In italiano invece le categorie morfologiche sono nove.

Cinque variabili: l'articolo, il nome, l'aggettivo, il pronome, il verbo. Quattro invariabili: l'avverbio, la preposizione, la congiunzione, l’interiezione [Iacobini 2011].

Vediamo nello specifico le principali differenze morfologiche dell’arabo rispetto

alla lingua italiana che possono essere utili per un insegnante di italiano L2 ad

arabofoni.

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I nomi possono avere tre casi (nominativo, accusativo e obliquo) che possono essere segnalati con la vocalizzazione dell'ultima lettera della radice: U per il nominativo, A per l'accusativo e I per l'obliquo. In realtà l'arabo standard e le varietà locali non pronunciano queste lettere lasciando l'interpretazione al contesto.

Il genere come in italiano è in certi casi marcato e in altri no, lasciando la responsabilità dell’identificazione all'uso. Le marche del femminile sono quattro, la più frequente è il morfema –at, segnato graficamente con tā’ marbūṭa ﺔـ . Le parole femminili non marcate a volte sono di genere diverso che in italiano e questo potrebbe rendere difficile l’individuazione del caso per gli arabofoni.

Ad esempio sono femminili i corrispettivi di: biglietto, cestino, dente, dito, fuoco, frigo, occhio, orecchio, parco, piede, sole, vento, vino. Mentre sono maschili le parole per: acqua, casa, montagna, barca, libertà, porta, sedia, stagione, via, storia.

Risulta difficile trovare una ragione a questo fenomeno e per un insegnante di italiano L2 può essere utile semplicemente far notare la differenza di genere nelle due lingue per le parole più comuni.

Il numero delle parole oltre al singolare e al plurale ha in arabo anche il duale.

Anche in arabo ci sono esempi di formazione del plurale irregolare, il plurale

fratto che si ottiene aggiungendo prefissi, infissi e suffissi alla radice. Un

arabofono quindi non avrà lo stesso stupore di un anglofono nell'apprendere che il

plurale di dito è dita anziché diti.

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I numerali non sono invariabili ma davanti ai nomi maschili i numerali sono di genere femminile e viceversa. Inoltre il nome è al plurale se preceduto dai numeri

da 3 a 10, tutti gli altri sono invece al singolare. Es: tre libri ٍﺐُﺘُﻛ ُﺔَﺛﻼَﺛ (thalāthatu kutubin), quindici libri ًﺎﺑﺎﺘِﻛ َﺮَﺸَﻋ َﺔَﺴْﻤَﺧ (khamsata ʿashara kitāban) dove kutubin è plurale libri mentre kitāban è singolare libro. In questo caso il sistema italiano risulta più semplice ma un apprendente arabofono può commettere degli errori usando anche in italiano le regole della sua lingua madre.

Un sistema di articoli determinativi e indeterminativi come in italiano non esiste.

Nella lingua araba c’è un solo articolo: ْلأ (al). Per determinare un nome si aggiunge questo articolo invariabile prima del nome. L'indeterminatezza invece è espressa dall’assenza dell’articolo e dall’uso del tanwin alla fine della parola (nei nomi a declinazione triptota) che consiste nell’aggiunta del suono [n] dopo

l’ultima vocale [Tresso 1997, p.37]. Es: i libri ُﺐُﺘُكْلَأ (al-kutubu), alcuni libri ٌﺐُﺘُﻛ

(kutubun). Il corpus di produzioni analizzato da F. Della Puppa mostra che facilmente gli studenti arabofoni confondono l’uso di articoli determinativi e indeterminativi [Della Puppa 2007, p.25].

L'aggettivo, se è attributo di un nome determinato, prende anch'esso l’articolo.

Es: la città grande ُة َﺮِيبَكْلَا ُﺔَنِيدَﻤْلَا (al-madīnatu al-kabīratu) in cui madinatu significa città e kabiratu significa grande, entrambi determinati da al. Se invece è attributo di un nome indeterminato è anch'esso privo di articolo. Es: una città grande ٌة َﺮِيبَﻛ ٌﺔَنِيدَم

(madīnatun kabīratun).

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Se il nome a cui si riferisce l’aggettivo indica un essere inanimato al plurale

l’aggettivo è al femminile singolare. Es: le città grandi ُة َﺮِيبَكْلآ ُنُدُﻤْلَا (al-mudunu al- kabīratu) in cui mudunu è città al plurale e kabiratu è l’aggettivo al femminile singolare.

I dimostrativi sono anche in arabo di due tipi: di vicinanza e di lontananza.

Hanno genere maschile o femminile e tre numeri, singolare, plurale e duale. La differenza con l'italiano è che se il dimostrativo è un aggettivo il nome ha l'articolo, cosa che non avviene mai in italiano. Ad esempio: questo ragazzo ُلُج َﺮْلَا اَذَه

(hadhā al-rajulu) in cui prima di rajulu che significa ragazzo troviamo l'articolo al in una costruzione che in italiano sarebbe questo il ragazzo.

I pronomi personali hanno una forma indipendente e una forma suffissa. La forma indipendente ha funzione di soggetto mentre la forma suffissa può avere diverse funzioni (negli esempi che seguono viene sempre usato il pronome di seconda persona singolare ك ka). Può essere unita a un verbo con funzione di

pronome diretto: ti ho visto َكُﺘْيَأ َر (ra’aītuka) in cui ka è il pronome diretto; può seguire una preposizione: con te َكَﻌَم (maʿaka); oppure può essere unita a un nome con funzione di aggettivo possessivo: il tuo libro َكُﺑﺎَﺘِﻛ (kitābuka) senza mettere l'articolo ْلأ prima del nome. Da notare inoltre che il pronome possessivo non esiste ma questo pronome è sempre usato in funzione di aggettivo.

La specificazione in arabo classico o standard è fatta con una forma, lo stato

costrutto, in cui non si usa una preposizione ma si fa seguire al nome l’elemento

che specifica. Il secondo elemento può avere l’articolo al se entrambi i nomi sono

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determinati, altrimenti entrambi i nomi sono indeterminati. Es: il libro del bambino

ِلْفِطْلَا ُبﺎَﺘِﻛ (kitābu al- ṭifli) in cui kitabu significa libro e tifli significa bambino, preceduto da articolo; oppure un libro di un bambino ٍلْفِط ٌبﺎَﺘِﻛ (kitābun ṭiflin) senza articolo, tutto indeterminato. In caso di differenza di determinazione si può usare una preposizione [Tresso 1997, pp.126-128]. Questo aiuta nell’uso del di italiano ma può causare difficoltà nell’uso degli articoli appropriati.

Le interrogative, in assenza di pronomi interrogativi, sono introdotte dalla

particella ْلَه (hal) e non hanno l’intonazione italiana che in alcuni casi può dare delle difficoltà.

Il sistema verbale non presenta la suddivisione in coniugazioni. La forma base del verbo, quella da cui si parte per tutte le altre forme, è il Perfetto costituito solamente dalle tre (oppure quattro) lettere della radice. Da questa forma base con alcune modifiche come il raddoppiamento di una consonante radicale, l’allungamento di una vocale, l'aggiunta di prefissi, infissi o suffissi, si possono ottenere dieci forme derivate con varie funzioni: causativo, intensivo, riflessivo, reciproco, etc. Potranno risultare ostiche inizialmente le costruzioni tipiche dell'italiano come far fare, star facendo, stare per fare etc.

La diatesi passiva italiana sarà da studiare con attenzione tenendo conto del fatto

che in arabo il passivo si ottiene cambiano solo la vocalizzazione del verbo. Ad

esempio: fece َلَﻌَﻓ (faʿala), fu fatto َلِﻌُﻓ (fuʿila). Lo stesso succede al presente: fa

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ُلَﻌْفَي (yafʿalu), viene fatto ُلَﻌْفُي (yufʿalu). Come si nota le due diatesi sono scritte allo stesso modo ma hanno diversa vocalizzazione.

La lingua araba non possiede tutta la complessità dei nostri tempi verbali infatti ha una distinzione tra soli due tempi: il Passato (Perfetto) e il Non-passato, in quanto azione compiuta la prima e da compiere o in via di esecuzione la seconda.

Il Passato è quindi usato per tutti i nostri tempi del passato mentre il Non-passato per il presente, il futuro e talvolta l’imperfetto [Veccia Vaglieri 2006, p.110]. Una ricerca svolta in Giordania sull’apprendimento dei tempi verbali su un campione di 90 studenti universitari al secondo e terzo anno di studio dell’italiano ha dimostrato che l’uso dei tempi passati italiani crea non poche difficoltà [Al-Ali 2007].

La negazione del verbo si fa come in italiano aggiungendo una particella negativa prima del verbo ma, a differenza della nostra lingua, non esiste una sola particella ma variano a seconda del tempo e del modo verbale.

Il predicato nominale è formato da un soggetto e un predicato senza l’uso della

copula quindi la frase questo è un libro è ٌبﺎَﺘِﻛ اَذَه (hadhā kitābun) in cui hadha significa questo e kitabun significa libro scritto senza articolo [Tresso 1997, p.28].

L’analisi del corpus di produzioni svolta da F. Della Puppa dimostra che in effetti

gli studenti arabofoni spesso omettono il verbo essere nelle frasi nominali [Della

Puppa 2007, p.25].

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Come non esiste il verbo essere in funzione di copula non troviamo in arabo neanche il verbo avere per esprimere il possesso. Il possesso si può esprimere in

lingua araba con le preposizioni che esprimono il complemento di compagnia َﻊَم

(maʿa), il complemento di attribuzione ِل (li) e il complemento figurato di luogo َدْنِﻋ

(ʿinda) unite al verbo essere [Veccia Vaglieri 2006, p.122].

Infine il verbo non viene sempre accordato in genere e numero con il suo soggetto. Se precede il soggetto, ad esempio, il verbo resta sempre al singolare.

Tenendo conto che dal punto di vista tipologico la lingua araba segue l'ordine

Verbo-Soggetto-Oggetto (anche se l’arabo moderno e le varietà preferiscono

l’ordine SVO) questo è molto frequente.

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