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5. ARCIMBOLDO ARTISTA DEL GROTTESCO
Dopo questa panoramica dello sviluppo dell’arte grottesca nelle sue molteplici forme, è ora giunto il momento di affrontare il tema centrale di questo studio, ovvero il contributo artistico che, a tale sviluppo, ha dato Giuseppe Arcimboldi. La sua arte, benché d’indubbia originalità e novità, si va a inserire infatti nell’ambito di quella tradizione artistica che si basava sulla ricerca dell’insolito, meraviglioso e mostruoso di cui abbiamo fin’ora parlato. Nelle sue celeberrime teste grottesche si concentrano l’attenzione al dettaglio naturalistico e la capacità di creare vere e proprie «chimere», che permettono di ricollegare tali capolavori alle «drôleries» medievali.
In alcuni casi queste bizzarre composizioni avevano un carattere allegorico e contenevano evidenti riferimenti alla Casa d’Asburgo della quale l’artista intendeva celebrare le glorie e le gesta (come nel caso dell’intera serie delle Stagioni e del famosissimo ritratto di Rodolfo II come Vertumno). In altri avevano un carattere meno ufficiale e vicino alla caricatura (come nel caso del Cuoco, che rientra nella produzione altrettanto originale delle «teste reversibili»).
Il modello di riferimento delle creazioni arcimboldesche è senz’altro
Leonardo, e in particolare la vasta gamma degli studi fisiognomici ai quali
abbiamo accennato nel precedente capitolo. Il tratto che accomuna le teste
arcimboldesche a quelle leonardesche è la poetica dell’immagine «casuale»,
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cioè apparentemente creata dalla natura, che proprio Leonardo aveva contribuito ad approfondire in alcuni appunti del suo Trattato di Pittura 1 .
Le componenti leonardesche sono particolarmente ravvisabili nell’Inverno (1563), ritratto in cui la conformazione del profilo della stagione è composta da un rinsecchito tronco ramificato dall’arcigno profilo di vecchio, emergente da una stuoia di paglia. In quest’opera i riferimenti a Leonardo e alla cultura figurativa lombarda sono molteplici: nella concezione generale del ritratto «caricato», mostruoso, e osservato nei suoi connotati fisiognomici, nella conformazione della struttura del tronco antropomorfo che riconduce alla poetica del deforme e a precisi fogli anatomici e caricaturali dell’artista fiorentino.
In una visione più generale, è possibile riscontrare delle analogie tra le fattezze del volto dell’Inverno e alcuni particolari delle teste fisiognomiche di Leonardo: la sagoma arcigna del primo si ritrova ad esempio nel volto di profilo di un vecchio con il mento sporgente, il naso aquilino, l’arcata sopracciliare accentuata e la veste che fa da base al collo. È possibile inoltre riconoscere anche in altre opere dell’artista milanese il riflesso di una conoscenza dei disegni «grotteschi» di Leonardo: il carciofo che esce dal busto dell’Estate o il fiore che sbuca dal petto della Primavera sembrano ripresi da disegni di Leonardo con una donna vecchia di profilo, caricata e ridicolizzata con un fiore in seno nella stessa posizione in cui compare nelle sopracitate opere arcimboldesche, infine la figura leonina che costituisce la spalla della Terra si può accostare a una testa mostruosa ideata dal Vinci in
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Nel Trattato Leonardo sottolinea come nelle forme indistinte della natura, nei «muri
imbrattati di varie macchie» o nelle forme fantasiose dei vari «nuvoli», il pittore attento
può scorgere «invenzioni mirabilissime, poiché nelle cose confuse l’ingegno si desta a
nuove invenzioni». Leonardo inoltre indica la possibilità di scorgere nell’informe casuale
anche «teste d’omini, strane arie di volti o cose mostruose, come diavoli» in questo modo
associando in parte la genesi inventiva delle teste grottesche alla casualità delle macchie
che stimolano la creazione delle deformità dei lineamenti del volto.
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un foglio ora a Windsor. La conoscenza dell’Arcimboldo di disegni leonardeschi, in particolare prima della sua partenza per Vienna era del tutto naturale, visto che nell’ambiente artistico lombardo del Cinquecento circolavano modelli e copie del maestro toscano, basti pensare alle sculture di teste che Leonardo aveva plastificato, per approfondire il suo interesse per la ricerca fisiognomica, che godevano di un grandissimo successo in quanto modelli artistici.
Naturalmente quelli leonardeschi non erano gli unici modelli a ispirare la fervida fantasia creativa di Arcimboldo: l’arte bizzarra e dissacrante di Hieronymus Bosh costituiva un’altra importante fonte d’idee, come anche l’opera d’intarsio di Lorenz Stoer, le stampe di René Boyvin, Tobias Stimmer e altri artisti satirici di ambiente protestante. Queste immagini si possono accostare alla produzione arcimboldesca almeno nel tempo e nello spazio, ma sono state individuate varie fonti anche nel Rinascimento italiano 2 .
Altro modello certo delle creazioni di Arcimboldo sono i cosiddetti
«grilli», cioè immagini composte, conosciute sin dall’antichità. Essi si ritrovano in particolar modo su antichi monili, nelle gemme incise e nei cammei costituiti da diverse figure umane e animali, mostri e talvolta teste.
È molto probabile che fossero in particolare le gemme antiche a ispirare l’inventiva di Arcimboldo, visto che l’Imperatore Massimiliano II ne era un grande collezionista, e che molte di quelle piccole opere d’arte erano esposte nelle collezioni imperiali, sotto gli attenti occhi dell’artista milanese. A prescindere dalla fonte dalla quale trasse ispirazione,
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Svariati artisti cinquecenteschi, come ad esempio Giovan Francesco Rustici, Andrea del
Sarto e Domenico Puligo creavano composizioni elaborate, utilizzando alimenti di vario
genere per i fastosi banchetti della Compagnia del Paiuolo o della Cazzuola di Firenze, e
questi potrebbe costituire un legame con le opere di Arcimboldo.
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Arcimboldo prese l’idea della testa composita e la rielaborò servendosi di composizioni di animali stilizzati, ma fondò l’elaborazione sullo studio dal vero della natura. La composizione di tali figure in un’immagine organica e coerente, composta da creature dissimili fu elaborata in una serie di Stagioni e di Elementi, per culminare con lo straordinario ritratto di Rodolfo II come Vertumno. Le associazioni suggerite da altre composizioni vennero sistematizzate in allegorie imperiali e quindi principesche. In Arcimboldo non si trattò di creare un genere ex novo ma di dar vita a nuove tipologie di teste composite totalmente innovative per gli accostamenti da lui proposti.
Hieronymus Bosch, Il giudizio finale, (particolare), 1504, Vienna, Akademie der
Bildenden Künste.
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Tobias Stimmer, Caput Gorgoneum, Zurigo, Biblioteca centrale.
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È molto probabile che le teste grottesche di Arcimboldo facessero parte del vastissimo repertorio della cosiddetta Kunstkmmer imperiale, una sorta di museo personale, al quale gli Asburgo tenevano moltissimo e che il nostro artista contribuì ad ampliare, non solo offrendo le sue personali creazioni, ma anche consigliando agli imperatori l’acquisto di opere d’arte e oggetti rari.
Genericamente parlando, le Kunstkammern (termine traducibile in italiano come «gabinetti delle curiosità» e conosciute anche con il nome di Wunderkammern, ovvero «camere delle meraviglie»), erano luoghi in cui si radunava una variegata moltitudine di oggetti, appartenenti sia al regno naturale (in questo caso si parlava di naturalia) che artificiale (gli artificialia), non risparmiando concessioni al gusto grottesco e tendente al mostruoso (alcuni imperatori arrivavano a conservarvi addirittura esseri umani imbalsamati ritenuti in qualche modo scherzi di natura come i nani) 3 .
Queste Camere delle Meraviglie erano una prerogativa delle residenze di molti sovrani e imperatori, che amavano guidare i propri ospiti nella visita di questi scrigni di portenti, e che erano motivo di prestigio e fama a livello nazionale e internazionale. Tra gli imperatori cinquecenteschi che potevano vantare simili collezioni, Massimiliano II era al primo posto, e visto il suo amore per le belle arti e le scienze, ciò non deve destare alcuna meraviglia 4 .
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Per una panoramica storica ed evolutiva delle Wunderkammern imperiali Cfr. Joy Kenseth, The Age of Marvelous, Hannover-New Hampshire 1991
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Giampaolo Lomazzo nella sua opera L’Idea del tempio della pittura (1590), nel
celebrare i meriti di Arcimboldo, citava anche Massimiliano II che aveva affidato al
geniale artista incarichi destinati ad ampliare il suo grandioso museo, «degno di essere
commemorato in eterno». Parole di elogio molto simili furono espresse da Samuel
Quiccheberg, autore di un trattato, L’Inscriptiones vel Tituli Theatri Amplissimi,
considerato la prima bozza significativa per una classificazione museale o delle
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L’Imperatore, come era noto, amava condurre i distinti visitatori attraverso l’esposizione delle sue immense collezioni e nel 1572 mostrò al principe elettore Augusto di Sassonia, tra le altre opere, anche il ritratto del dottor Johan Urlich Zasius composto da libri e documenti (ovvero il Bibliotecario). Da parte sua, Arcimboldo, anche sotto l’Imperatore Rodolfo II si occupava di rifornire l’immensa collezione «acquisendo antichità e oggetti d’arte, nonché animali e uccelli fantastici dal Nuovo Mondo»
Le Kunstkammern indicavano lo sforzo di mettere insieme, e in contrapposizione, i prodotti della natura e dell’uomo. Il rapporto tra il mondo naturale e quello dell’arte, nell’universo delle Wunderkammern trovò un’espressione particolarmente evidente nel complesso insieme in cui erano inclusi materiali naturali straordinari come uova di struzzo, conchiglie, coralli, resine e minerali, trasformati in oggetti da mostra che non avevano alcun altro scopo oltre a quello di essere ammirati. A essi era attribuito un valore speciale, poiché rappresentavano sia le capacità artistiche manuali, sia quelle spirituali e scientifiche, con cui l’uomo si avvicinava al materiale e lo trasformava in qualcosa di nuovo, tramite la lavorazione.
Riguardo al patrimonio degli oggetti naturali contenuti in questi simulacri delle rarità, non deve sorprenderci che molti fossero specie straniere, rare o esotiche. La fauna autoctona si limitava a corna di cervi,
collezioni. Nella sua lista di collezionisti esemplari Massimiliano era al primo posto:
«Egli, infatti, è il maggior osservatore dagli ornamenti forniti dalla natura di questo
mondo, e un eccellente arredatore dell’Archivio, strapieno delle cose più belle, tanto che
sembra che la natura stessa, abbia più che altro generato lui in questi tempi onorevoli», e
ancora «Al suo servizio cerano artisti, agenti e ricercatori, per arricchire il tesoro paterno
di antiche memorabilia, quadri squisiti, e di cose tanto meravigliose e conservate con tale
cura, che il risultato doveva suscitare in tutti il massimo entusiasmo.»
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camosci, caprioli e stambecchi, ritenute straordinarie a causa delle dimensioni o di deformazioni 5 . Negli inventari le specie di flora autoctona erano praticamente inesistenti, tranne che sotto forma di bizzarria (legno e viti pietrificate, escrescenze del legno, grano piovuto dal cielo, simbolo di un evento davvero eccezionale e quindi bizzarro). «Quanta rariora tanta meliora» (più erano rari e meglio era) era questo il pensiero principale di Massimiliano II al momento d’incaricare il proprio ambasciatore a Madrid di acquistare nuovi oggetti da aggiungere alla Kunstkammer. Questo concetto esprimeva benissimo tutto il fascino esercitato all’epoca dagli oggetti esotici e rari, sia in natura che nell’arte.
Come possiamo ben vedere quindi, queste camere delle meraviglie erano un po’ il riflesso di quella corsa al bizzarro, mostruoso e miracoloso che imperversava in ogni campo del sapere; in tali simulacri si cercava di sistematizzare, collezionare ed esporre gli esempi d’irregolarità di forma e contenuto, offerti dalla natura o creati dalla mano dell’uomo.
Thomas Da Costa Kaufmann ha rimandato anche a paralleli tra le
«fantastiche visioni di natura e arte» di Arcimboldo e oggetti specifici considerati nelle Kunstkammern veri e propri scherzi o giochi della natura.
A questa classe appartenevano ad esempio reperti naturali, richiamanti immediate associazioni figurative alle forme di altri oggetti: pietre che sembravano penne, cappucci da notte, rami di coralli, serpenti o arti di bambini. Allo stesso modo si potevano trovare metalli argentiferi a forma di draghi, o piante legnose a forma di teste di animali.
Naturalmente la fantasia era aiutata, tramite la lavorazione di tali reperti, per rafforzare l’associazione d’idee. Questo procedimento era
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Altre specie annoverate nelle Wunderkammern erano animali caratterizzati da bizzarre
escrescenze o anomalie, come nel caso del cranio animale con un albero, la testa di vitello
doppia, o il pollo con tre zampe, tutte ritenute dei veri e propri miracoli naturali .
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familiare anche ad Arcimboldo, che riusciva a dare forma ai profili umani attraverso quella di altri oggetti, favorendo inediti collegamenti tra universi anche molto diversi tra loro (come quello organico e quello inorganico, con accostamenti anche estremamente audaci, ad esempio nel Cuoco il volto umano è composto da pezzi di carne cotta, o nello spaventoso Erode, composto da corpi di fanciulli).
Le Wunderkammern erano la concretizzazione del desiderio di raggruppare quanto di più insolito si potesse trovare in natura o in arte. Lo stesso desiderio sembra animare Arcimboldo al momento di ideare le sue favolose teste grottesche: come piccole kunstkammern, esse riuniscono in un insieme omogeneo ciò che in realtà la natura aveva creato eterogeneo.
Osservandole da vicino, si ha l’impressione di trovarsi di fronte a veri e propri campionari dei vari mondi di volta in volta presi in esame (quello della fauna marina, terrestre, degli utensili da cucina ecc..) ogni specie, oggetto, dettaglio, è curato con la stessa maniacale precisione, e isolando ciascun elemento dal suo insieme è possibile ammirare singoli capolavori.
Osservandole da una certa distanza, l’insieme non perde il suo fascino, anzi ne acquista ancora di più, in forza della capacità dell’opera di suscitare sentimenti contrastanti che vanno dalla sorpresa, il timore e la meraviglia, all’orrore e al disgusto.
Piccoli miracoli pittorici, grilli, scherzi, bizzarrie, insomma qualcosa di
assolutamente innovativo e fuori dal comune: queste erano le teste
grottesche di Arcimboldo. Al fine di comprendere il valore che tali opere
ebbero nello sviluppo della tematica del grottesco, è venuto il momento di
analizzarne alcune. La necessaria selezione non si è basata su criteri estetici,
ma su tratti stilistici e tematici che avvicinano le opere al contesto del
grottesco. Di solito, tutti gli studi che prendono in considerazione l’arte di
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Arcimboldo, trattano la serie (di eccezionale bellezza) delle Stagioni, e ne
mettono in risalto l’ovvia componente panegirico-allegorica che le
contraddistinguono. Nel mio caso invece, ho preferito privilegiare la serie, a
mio parere ancora più straordinaria sotto ogni profilo, degli Elementi,
eseguita nel 1566, analizzandola dal punto di vista stilistico tematico e dei
legami con il dominio del grottesco cinquecentesco.
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Aria (1566, Olio su tela, 74,4x56cm, Collezione Privata, Svizzera)
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Questa tela, la prima della nostra serie, è davvero unica nel suo genere.
Qui l’espressione del gusto grottesco tocca un punto altissimo, in quanto una figura umana composta da volatili non può che suscitare un misto di fascino, meraviglia e orrore allo stesso tempo. Inoltre la ricerca di bizzarro e mostruoso tipicamente cinquecentesca e, in particolare, manierista, si sposa con una cura dei dettagli da autentico naturalista. Secondo Fonteo questa opera era un’allegoria imperiale 6 , come anche le altre della serie che andremo ad analizzare.
Ciò che risulta subito evidente, è lo straordinario studio della natura contenuto in questa ‘voliera antropomorfica’, e molti dei volatili in essi contenuti, furono ritratti da Arcimboldo nei suoi disegni. Qualche differenza nelle dimensioni e nel supporto, distinguono l’Aria dagli altri Elementi, qualcuno addirittura arriva a considerarla una copia. Si può sostenere che questa bellissima tela sia una versione di bottega, facente parte di una serie successiva dedicata al tema degli elementi, o forse una replica fatta per l’imperatore.
In ogni caso resta il fatto che Aria può essere considerato un piccolo capolavoro di maestria e finezza di tocco, dato che i particolari anatomici di ciascun volatile sono determinati con precisione e l’insieme che ne risulta è di stupefacente bellezza.
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L’aquila che forma il petto dell’Aria è veramente l’aquila imperiale e il pavone è un
animale appartenente all’araldica asburgica. Il grande risalto conferito a questo volatile
nell’arco trionfale eretto per l’entrata solenne in Vienna di Massimiliano II nel 1563 ne
dimostra l’importanza e la contemporaneità con l’invenzione arcimboldesca.
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Fuoco (1566, Olio su legno di tiglio, 66,5x50,8 ViennaKunsthistorisches
Museum)
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La seconda opera della serie degli Elementi, Il Fuoco, è se possibile, ancora più straordinaria. Il profilo umano è infatti composto da un’intera gamma di strumenti e prodotti legati al campo semantico del fuoco. I capelli sono costituiti da rami infuocati, dalla fiamma guizzante e incredibilmente viva, il volto è composto da svariati utensili che, in qualche modo, riassumono il percorso parallelo dell’uomo e del fuoco: una pietra focaia sono le guance, un fascio di micce arrotolate costituiscono la fronte, una lampada a olio e una candela accesa sono il collo e il mento, due acciarini vanno a formare le orecchie e il naso, addirittura i baffi biondi sono formati da un fascio incrociato di stoppini imbevuti di cera.
La fantasia, la creatività e la bravura di Arcimboldo sembrano non avere fine, dal momento che riesce a conferire alla figura uno sguardo quasi umano, sebbene gli occhi non siano altro che due mozziconi di candela spenti. La parte inferiore del ritratto può essere considerata come il compimento del suddetto percorso umano verso la scoperta prima e lo sfruttamento poi delle potenzialità del fuoco: qui abbiamo infatti il prodotto forse più utile ma anche più distruttivo scaturito da esso: le armi. Il petto è composto da canne di mortai e cannoni, insieme alla paletta per la polvere da sparo e a una canna di pistola.
Come abbiamo avuto occasione di ricordare, anche questa serie di stupefacenti ritratti sono portatori di rimandi alla Casa d’Asburgo. Nel Fuoco, tali riferimenti sono riscontrabili nella voluminosa collana del Toson D’Oro, in primo piano e in posizione preminente, e nell’aquila imperiale, situata subito sotto di essa. Chiaro significato di tali simboli è la capacità del destinatario, Massimiliano II, di domare il fuoco non solo come elemento naturale, ma anche e soprattutto sotto forma di armi.
Tecnicamente questa opera presenta una finezza di tocco ancor maggiore
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assieme a una incredibile precisione nella definizione dei dettagli (ogni strumento è curato fin nei minimi particolari, e alcuni di essi, come ad esempio l’acciarino che costituisce l’orecchio, sembrano quasi possedere un carattere tridimensionale). Come anche gli altri dipinti della serie, anche Il Fuoco si staglia su uno sfondo neutro, che contribuisce a risaltare il profilo antropomorfo e a determinare un più forte impatto visivo.
L’opera è nota anche attraverso svariate copie, riproduzioni e varianti, tutte o quasi, di qualità inferiore all’originale. Nella maggior parte dei casi, i particolari risultano isolati, non riuscendo a formare un insieme coerente, caratteristica questa, che distingue la mano di Arcimboldo.
Copia del 1572
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Terra, 1566, (Olio su Tela, 70,2x48,7 Austria, Collezione Privata).
La Terra, la terza opera della serie degli Elementi potrebbe essere
definita come un’attualizzazione in chiave manierista delle più sfrenate e
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allucinate drôleries medievali. Il profilo che Arcimboldo viene qui a delineare, infatti, è composto interamente da animali. L’impatto visivo è decisamente forte, e la tipologia di testa composta richiama alla mente le tante chimere ed entità mostruose, disseminate nei secoli in affreschi, tele (pensiamo ancora una volta all’importanza di Bosch come creatore di grilli, creature dal corpo umano e la testa ferina, o dalle membra di animali variamente giustapposte) e decorazioni scultoree (come i mostri che troneggiavano su i capitelli delle chiese gotiche, specie in Francia).
La Terra è il dipinto più complesso della serie; come per le altre, G.B.
Fonteo indica che si tratta di un’allegoria imperiale: significa che l’imperatore (Massimiliano II) domina sugli elementi e le stagioni.
Numerosi sono i particolari che fanno riferimento agli Asburgo: i palchi di corna che formano una specie di corona nobiliare, la pelle di leone, con riferimento al mito di Ercole, e il vello a simboleggiare il Toson D’Oro 7 .
Secondo quanto narra il Comanini, tutti gli animali presenti in questa favolosa testa furono copiati dal vero, poiché l’imperatore consentiva ad Arcimboldo di ritrarre le creature del suo serraglio 8 . Sembra quindi che il nostro artista procedesse come molti altri naturalisti del XVI secolo: da un lato affidandosi ad antiche dottrine (in questo caso l’opera di Plinio) dall’altro avvalendosi dello studio diretto della natura.
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La tradizione associa Ercole agli Asburgo e la pelle di leone si presenta in posizione in una posizione analoga sulle spalle di molti busti d’imperatori: il Toson D’Oro è l’ordine della casata d’Asburgo.
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