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NULLA E ONTOLOGIA FENOMENOLOGICA. Sul progressivo esplicitarsi della rilevanza del concetto di nulla da Husserl ai principali interpreti del pensiero fenomenologico.

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Academic year: 2021

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Ringraziamenti

All'inizio di questo lavoro è mio dovere ringraziare le persone che lo hanno reso possibile:

la mia famiglia, che ha sempre supportato ogni mia scelta e mi ha dato tutto ciò di cui avevo bisogno per portare a termine questo percorso;

i miei amici Lorenzo e Alessandro, che hanno condiviso con me le preoccupazioni della laurea e della fine del percorso di studi, aiutandomi a superarle, riuscendo ad essere i più validi punti di conforto e confronto possibili;

i miei relatori, il professore Barale e il professore Altobrando, per la loro costante gentilezza e serietà;

infine, devo ringraziare soprattutto Elisa, che è stata tutte queste cose assieme, dandomi inoltre ogni attenzione e ogni motivazione, anche nei momenti in cui mi sarebbero altrimenti mancate.

(2)

“Che cosa succede quando l'albero si presenta a noi, e noi ci mettiamo di fronte all'albero? Dove ha luogo questa presentazione quando siamo di fronte ad un albero in fiore, davanti ad esso? Nella nostra testa? Certo. […] Ma che ne è, per limitarci al nostro caso, che ne è, tra le correnti celebrali scientificamente registrate dell'albero in fiore? Che ne è del parto? Che ne è dell'uomo? Non del cervello dell'uomo, che domani potrebbe estinguersi, quello stesso che ci era venuto incontro dal passato. Che ne è della presentazione in cui l'albero si presenta e l'uomo si porta davanti all'albero?[...]

Senza rendercene conto, infatti abbandoniamo tutto, non appena la fisica, la fisiologia, la psicologia, insieme con la filosofia scientifica, ci spiegano con tutto lo sfoggio dei loro mezzi di documentazione e di verifica, che propriamente non percepiamo alcun albero, ma in realtà solo uno spazio vuoto, in cui si inseriscono qua e la cariche elettriche che sfrecciano in ogni direzione e a grandissima velocità. […]

Se ci fermiamo a pensare che cosa significa che un albero in fiori si presenti a noi, in modo che noi possiamo porci di fronte a esso, troviamo che finalmente si tratta, prima di ogni altra cosa, di non lasciar cadere l'albero in fiore, ma di lasciarlo stare là dove è. Perché diciamo «finalmente?» Perché il pensiero finora non ha mai lasciato l'albero là dove esso è.”

(M.Heidegger, Che cosa significa pensare).

" [...] In genere, si ha bisogno di essere ricordati a se stessi. Non sempre si è in possesso di sé, la nostra autocoscienza è debole in quanto le cose nostre non sempre ci sono presenti. Soltanto in momenti di rara chiarezza, di raccoglimento e perspicuità sappiamo veramente chi siamo, è può darsi che questa sia in buona parte l'origine della sorprendente modestia dei grandi uomini: per lo più essi sanno poco di sé, non sono presenti a se stessi e a buon diritto si sentono uomini comuni. Comunque sia, è pur sempre attraente ricevere dalla critica chiarimenti dell'essere nostro, ottenere istruzioni su opere del nostro passato e farci riportare ad esse, mentre di rado mancherà la sensazione che meglio di tutto possiamo esprimere in francese: «Possible que j'ai eu tant d'esprit?». La mia costante frase di ringraziamento per siffatte gentilezze è questa: «Le sono molto obbligato di avermi così amichevolmente ricordato a me stesso.»”

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NULLA E ONTOLOGIA FENOMENOLOGICA.

Sul progressivo esplicitarsi della rilevanza del concetto di nulla da

Husserl

ai principali interpreti del pensiero fenomenologico.

Introduzione ... p.6

Cap. I Le implicite acquisizioni nella questione del nulla in una teoria del fenomeno... p.9

I.1 Aristotele e i tre significati di non-essere... p.10 I.2 Kant e il noumeno come concetto della tavola del

nulla... p.21 I.2.1 Filosofia trascendentale e disciplina dell'intelletto... p.21 I.2.2 La nozione di oggetto come sintesi di un'attività spontanea... p.30 I.2.3 Il noumeno come concetto senza oggetto... p.34 I.3 Hegel e l'inizio della Scienza della Logica... p.44 I.4 Nietzsche: la volontà del nulla e l'impossibilità dell'indipendenza inseità

dell'oggettività del fatto bruto... p.51 I.4.1 Decadenza e volontà del nulla... p.53 I.4.2 Il fatto come prodotto valutativo ... p.58

Cap.II La questione del nulla come implicito lascito della fenomenologia husserliana... ... p.67

II.1 La neutralizzazione dell'ipotesi di esistenza come radicale inizio della fenomenologia. Epoché e metodo... p.67 II.2 L'io trascendentale come non-esistente... p.81

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II.3 Il fenomeno come oggetto di scienza eidetica e non di scienza empirica... p.96

Cap.III Heidegger e Fink, gli eredi tedeschi della fenomenologia... p.109

III. 1 Heidegger... p.111 III.1.1 Semplice-presenza e trascendenza... p.111 III.1.2 L'esser-per-la-morte e l'intenzionalità del non-ente come la più

propria della possibilità... p.127 III.1.3 L'essere come ni-ente... p.135 III.1.4 La valenza fondamentale del nulla come superamento del

nichilismo... p.149

III.2 Fink... p.159

III.2.1 Il meontico nella Sesta meditazione cartesiana... p.159

Cap. IV Sartre e Merleau-Ponty, la fenomenologia in Francia... p.168

IV.1 Il primo Sartre: la fenomenologia come via d'accesso all'essere e al nulla... p.170 IV.1.1 Lo svuotamento del campo trascendentale e la trascendenza dell'Ego... p.170

IV.1.2 Mondo reale e mondo immaginativo. L'illusione d'immanenza e

l'oggetto irreale... p.183

IV.1.3 L'ontologia dell'essere e del nulla come esito

fenomenologico... p.199 IV.2 Il senso della filosofia negativistica tra superamento e mantenimento

in Merleau-Ponty... p.217 IV.2.1 Il primato della percezione e le critiche ad una filosofia del positivo... p.217 IV.2.2 Le difficoltà di una filosofia del puro negativo. Merleau-Ponty contro Sartre... p.231 IV.2.3 La “carne” come superamento delle dicotomie... p.241

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Conclusioni... p.256 Bibliografia... p.260

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Introduzione

Lo scopo di questo lavoro è di mostrare come il ritorno al fenomeno, effettuato nel novecento dalla fenomenologia, non coincida con un ritorno al positivo; né dal punto di vista dell'oggetto, nel senso di un ritorno alla mera positività del dato, né dal punto di vista metodologico, nel senso di una ricerca che sia quella delle scienze positive.

L'indagare il fenomeno proprio della fenomenologia si muove a partire da altri presupposti rispetto alla positività dell'essente: essa si delinea, fin da Husserl, come scienza eidetica e trascendentale, con tutte le variazioni che storicamente ciò ha comportato all'interno della stessa disciplina fenomenologica. L'indagine sul nulla che questo lavoro prova a compiere si muove proprio da queste direttive, partendo dalle eredità che nella strutturazione del nulla la fenomenologia, consapevolmente o inconsapevolmente, raccoglie nel proprio procedere filosofico. Se il ritorno al fenomeno si configura nei suoi caratteri eidetici e trascendentali, il problema della strutturazione fenomenica del non-essente è irrinunziabile. È proprio a partire da questo, come indagine propria ad una ontologia fenomenologica, che si muove il problema della definizione di questo nulla e del suo ruolo, che, tanto nel metodo quanto nell'oggetto di indagine, non può essere trascurato. Il termine nulla è innanzitutto analizzato come correlato necessario alla manifestazione del fenomeno, come ciò cui una teorizzazione fenomenologica – e quindi eidetica e trascendentale –, e non solo fenomenica, non può mai rinunziare per essere davvero tale. Dal lato metodologico, il fenomeno rimanda nel suo manifestarsi ad una serie di strutture di senso e trascendentali, che mai all'essere stesso di questo fenomeno, come oggetto di indagine, possono propriamente e semplicemente riferirsi, ma hanno necessità di porsi in rapporto a un non-esistente di fatto come condizione di questa fenomenicità. Dal punto di vista oggettuale, lo stesso oggetto della scienza fenomenologica, per essere tale, non è più legato a posizioni di esistenza fattuali come datità vera e propria; e neppure nel caso di un oggetto esistente, l'esistenza dello stesso è il fine dell'analisi fenomenologica.

Così, in definitiva, si apre uno iato incolmabile tra il considerare l'ente come dato e il considerarlo come fenomeno. Il primo può darsi solo a partire dalle condizioni

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preliminari che apre il secondo; ed è non alla realtà del fenomeno, come fenomeno reale-esistente in senso naturale, che la fenomenologia vuole dirigersi, ma il suo andare alle cose stesse è propriamente l'andare al fenomeno – che esibisce implicitamente nel suo strutturarsi in quanto tale le proprie condizioni manifestative – di questa stessa realtà.

Questo lavoro vuole muoversi sue due piani: mostrare la necessaria attività nella fenomenologia che il suddetto concetto non solo si trova ad espriemere, ma è quasi costretto a implicare, in quanto tratto che nessuna mutazione temporale della propria valenza concettuale ha mai potuto intaccare. Inoltre, premettendo a ciò l'analisi dello sviluppo diacronico del concetto di nulla prima di giungere alla fenomenologia, consci che l'immutabilità e la naturalità d'un concetto sono valori esclusivamente mitologici1, vuole mostrare le eredità che la fenomenologia ha nella considerazione del nulla, che le hanno quasi <<preparato il terreno>> dell'approccio al fenomeno.

La prima connessione, quanto meno semantica, cui il termine nulla rimanda è con la questione del nichilismo; in realtà questi due concetti hanno, non solo storie, ma anche implicazioni totalmente differenti2, se non addirittura antitetiche. Il termine “nulla” in questo lavoro non indica né una funzione logica, né il nulla mistico, né il non-essere parmenideo, quanto piuttosto un correlato manifestativo insopprimibile. Indice di questa insopprimibilità è la necessità con cui, dopo Husserl, i principali interpreti della fenomenologia si trovano a discutere della tematica del nulla in varie e differenti modalità. Questa necessità non è l'esplicitazione di un distacco dalla fenomenologia stessa, quanto piuttosto l'indice di una problematica propria allo stesso pensiero fenomenologico, che in alcuni punti era stata toccata anche da Husserl stesso.

In un primo momento, così, questo termine indica il “non-essente” reale, ma che ha validità effettiva nella realtà stessa; in un secondo momento la costruzione dello statuto ontologico proprio a questo non-essente, a questa necessaria differenza ontologica con la positività dell'esistente, cui ogni riflessione fenomenologica perviene. La

1 Il concetto, anche quando si esprime in una pretesa spontaneità non implica, in un'indagine fenomenologica, naturalità e immediatezza nella sua formulazione. La spontaneità d'un concetto nella sua espressione, non è la spontaneità della sua genesi; anzi possiamo dire essere in questo spazio che si muove la stessa filosofica θαυμάζειν. "Ciò che ci appare come naturale è presumibilmente solo l'abituale di una lunga abitudine, la quale ha obliato l'inabituale da cui è scaturita. Quell'inabituale, tuttavia, un tempo ha colto l'uomo di sorpresa e ha colmato il pensiero di stupore." (M.Heidegger,

Holzwege, Sentieri erranti nella selva, trad.it a cura di Vincenzo Cicero, Bompiani, 2002 Milano,

p.23).

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fenomenologia, nel suo strutturarsi ontologico, avendo messo sotto epoché l'esistenza positiva del mondo, ha necessità di strutturare un concetto di questa alterità, di ciò che rimane al di là della positività esistente, a partire dal tema del residuo fenomenologico per eccellenza: la soggettività trascendentale.

La fenomenologia, avendo rinunziato a cercare un essere dietro al fenomeno, ha aperto una nuova via all'ontologia stessa:

“Ora, se l'essenza dell'apparizione non si oppone ad alcun essere, prosegue Sartre, sorge il problema dell'essere di questo apparire. Essere che, perciò, non può essere pensato se non a partire dal nulla: il nulla ontologico della realtà che starebbe dietro l'apparenza”.3

Ciò che qui Givone afferma riguardo Sartre può valere come una scoperta propria della stessa fenomenologia. Se la realtà è anzitutto manifestazione, l'essere di questa ha due vie per essere indagata:

– Come ciò che sta dietro alla manifestazione stessa, nel senso di sua causazione positiva (ma ciò costituisce proprio quel tipo di teoria che l'epoché ha fatto cadere);

– Come ciò che si manifesta come fenomeno di realtà, ovvero come ciò che ha due modalità di approccio: la significatività eidetica e la costruzione trascendentale. Esse hanno sospeso del tutto la ricerca sull'esistenza effettiva del dato per andare verso il fenomeno di questa, nel suo rapporto intenzionale con la soggettività trascendentale e nella sua significatività eidetica.

Seguendo la seconda di queste vie, come la fenomenologia fa, ci si ritrova a non avere più un'indagine sull'ente a partire dall'esistenza di questo, indagine che cerca la propria causa in qualcosa a sua volta esistente (in un senso mondano, come la serie di rapporti causali, o extra-mondano), ma ad assumere un certo ruolo ontologico proprio al nulla di questo mondano neutralizzato e di ciò che la fenomenologia scopre annullando ogni teoria positiva-naturale. Ciò non significa che la fenomenologia scopra ingenuamente il campo del nulla, ma piuttosto che un'ontologia fenomenologica ha, per necessità, rapporti con questa nullità.

(9)

Cap. I Le implicite acquisizioni nella questione del nulla in una teoria

del fenomeno

Per considerare adeguatamente ciò che nella fenomenologia, implicitamente o esplicitamente, viene richiamato col concetto di nulla, è necessaria una preliminare esposizione di come questo concetto è stato ben lontano del rimanere immutato nei secoli, e quali accezioni siano divenute imprescindibili lasciti nella considerazione del tema. I pensatori presi in analisi sono quelli le cui eredità sono più direttamente entrate a contatto con gli esponenti del movimento fenomenologico: in alcuni casi – soprattutto nel primo Husserl – esse restano implicite e non chiare neppure al fondatore stesso della fenomenologia; in altri casi – Heidegger, Fink, Sartre, Merleau-Ponty – sono esplicitamente punti di confronto.

Nella vastità del tema, gli autori indicati sono filosofi che, nelle rivoluzioni di pensiero di cui ciascuno di essi è fautore, hanno riesaminato, risemantizzato, e quasi di volta in volta rifondato il concetto stesso di nulla in un sistema di relazione sempre differente, ma che non ha mai prescisso da un rapporto costante col fenomeno, trovando in una alterità, anche immanentizzabile, al fenomeno stesso una chiave imprescindibile di tematizzazione ontologica dello stesso.

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1.1 Aristotele e i tre significati di non-essere

La differenza tra Aristotele e i fenomenologi su questo tema risiede principalmente nella priorità che egli dà alla sostanza. Aristotele distingue tre generi della sostanza che costituiscono relativi ambiti di studio: distingue le sostanze in sensibili e soprasensibili, e le sensibili in corruttibili ed eterne. Le sostanze sensibili sono oggetto della fisica, quella soprasensibili della scienza prima in quanto cause. Aristotele, rendendo le cause sostanze, ma sostanze soprasensibili, vuole mettersi in mezzo tra i Platonici, che individuavano gli universali come cause, cioè qualcosa che per Aristotele non costituisce sostanza, e i naturalisti che usavano sostanze sensibili come cause.

Analizzare i significati di sostanza che Aristotele delinea nel libro Delta risulta quindi fondamentale. Sostanza:

“sono detti tutti i corpi semplici: per esempio fuoco, terra, acqua e tutti gli altri corpi come questi; e in generale tutti i corpi le cose composte di essi: per esempio animali, esseri divini e le parti di questi. Tutte queste cose si dicono sostanze, perché non vengono predicate di un sostrato, mentre di esse viene predicato tutto il resto.

In un altro senso, sostanza si dice ciò che è immanente a queste cose che non si predicano di un sostrato ed è causa del loro essere: per esempio l'anima negli animali.

Inoltre, sostanze sono dette anche quelle parti che sono immanenti a queste cose, che delimitano queste stesse cose, che esprimono alcunché di determinato e la cui eliminazione comporterebbe l'eliminazione del tutto. Per esempio, se si eliminasse la superficie – secondo alcuni filosofi – si eliminerebbe tutto il corpo, e se si eliminasse la linea si eliminerebbe la superficie. […]

Inoltre, si dice sostanza di ciascuna cosa anche l'essenza, la cui nozione è definizione della cosa. Ne risulta che la sostanza si intende secondo due significati: ciò che è sostrato ultimo, il quale non viene più predicato di altra cosa, e ciò che, essendo un alcunché di determinato, può anche essere separabile, e tale è la struttura e la forma di ciascuna cosa”.4

4 Aristotele, Metafisica, trad.it a cura di Giovanni Reale, Metafisica, in Introduzione, traduzione e

(11)

Sia in ambito fisico che metafisico la sostanza, nelle sue differenti accezioni, è l'oggetto della ricerca. Sia che Aristotele parli di essere che di non-essere, in ogni accezione che i termini assumono, egli parla comunque in riferimento alla sostanza, la quale costituisce il termine metafisico irriducibile.

Anche, come fa il libro Lambda della Metafisica, distinguere le scienze fisiche da quella metafisica, che è scienza prima e della totalità, significa trattare della sostanza: le condizioni di determinazione dell'ente in quanto ente sono immanenti all'ente stesso, in quanto costituiscono la sostanzialità stessa. Il soprasensibile non ha carattere soprasostanziale.

Con Aristotele, così, la tematica del non-essere, passata soprattutto attraverso le analisi parmenidee e platoniche, assume una connotazione radicalmente nuova e particolarmente incisiva nella storia del pensiero. Aristotele nella Metafisica esce dalla contraddizione tra platonici e parmenidei, espressa da Platone nella celebre figura del parricidio del Sofista5, non contraddicendo, ma assumendo ambedue le definizioni di

non-essere come non contraddittorie. Il non essere si dice in tre modi: secondo le categorie, come la non esistenza di alcunché di determinato, assumendo in questa idea il non-essere parmenideo identificato con il non essente; secondo differenza, il non-essere

5 " Straniero « Quando diciamo il non-essere, a quanto pare, non intendiamo qualcosa di contrario all'essere, ma soltanto di diverso.»

Teeteto «Come?»

Straniero « Per esempio dichiarando qualcosa non grande, ti sembra che stiamo indicando con questa forma il piccolo piuttosto che l'eguale?»

Teeteto «E come?»

Straniero «Di conseguenza, non permetteremmo che si dica che la negazione significhi contrarietà, ma questo soltanto, che le negazioni μή e οΰ, poste avanti, indicano una cosa diversa dalle parole che seguono o piuttosto dalle cose alle quali si riferiscono le parole che seguono la negazione.» [...] Straniero « Vi è una parte del diverso opposta al bello?»

Teeteto «Sì»

Straniero «E diremo che è senza nome oppure una certa denominazione ce l'ha?»

Teeteto «Ce l'ha, giacché ogni volta che pronunciamo l'espressione "non bello" si tratta proprio di cò che è diverso dalla natura del bello e nient'altro.» [....]

Straniero «Un'opposizione di essere e essere, allora: questo risulta essere, a quanto pare, il non bello.» Teeteto «Giutissimo.»

Straniero «E allora, secondo questo ragionamento, porremo forse che il bello si trovi fra le cose che sono a maggior titolo, e il non bello, invece, a minor titolo?»

Teeteto «Per nulla.» [...]

Straniero «Pare pertanto che l'opposizione di una parte del diverso e dell'essere, che si contrappongono reciprocamente, non sia affatto meno realmente essente, se è lecito dirlo, dello stesso essere, giacché tale opposizione non indica contrarietà all'essere, ma questo soltanto, diversità ad esso.»

Teeteto «È chiarissimo.»

Straniero «Come dobbiamo allora chiamarla?»

Teeteto «Evidentemente, proprio questo è il non essere di cui andavamo in cerca per via della caccia al sofista.»" (Platone, ΣΟΦΙΣΤΕΣ, trad.it a cura di Francesco Fronterotta, Sofista, BUR, Milano 2007 pp. 441-451).

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come predicazione del differente, assumendo Platone; e infine il non-essere come potenza, come il non esistente in atto, quindi in modo effettivo, o il non ancora, assimilando così uno dei concetti cardine dell'intera metafisica al non-essere6. Aristotele, già dal libro Delta, assume la pluralità nel concetto7: in funzione anti-platonica8 esso non è più un universale esistente in atto, ma ciascun concetto, nella sua radicale non-contraddittorietà, si predica in molti modi. Così facendo, Aristotele può affermare che “non solo si può dire, in un certo senso, tutto deriva dal non-essere, ma, anche, che ogni cosa deriva dall'essere: evidentemente dall'essere in potenza e dal non-essere in atto“9, senza dover supporre da ciò che dal nulla si generi qualcosa o possa derivare l'essere. L'essere in potenza di fatto è il non-essere in atto, e non solo nel senso del non ancora essente. La potenza non ha in sé il principio del proprio compimento, deve essere sempre eterodiretta da un essere in atto per attualizzarsi: la potenza di per-sé non ha attività effettiva se non nella sua attualizzazione. In questo senso si comprende come per Aristotele la potenza non possa precedere l'atto: se in principio vi fosse stata

6 Cfr. Aristotele, Metafisica, pp.545-547. “I tre modi di non-essere sono: 1) il non-essere come potenza, 2) il non essere secondo le categorie, 3) il essere come falso. Quest'ultimo significato del non-essere riguarda solo il nostro pensiero e non interessa in alcun modo la generazione e la corruzione. Il non-essere nel secondo significato è il non essere assoluto (ossia negazione di quei modi di essere che posseggono tutti gli altri): non-sostanza, non-qualità, non-quatità, ecc...: ma dal non-essere assoluto

non si ha alcuna generazione.” (G.Reale, Commentario a Metafisica, pp.1241-1242).

7 Non è sufficiente aver mostrato un significato diverso di essere e non essere, come fa Platone nel Sofista, per contraddire la teoria di Parmenide. Come Aristotele afferma nella fisica il primo errore di Parmenide è stato assumere l'essere in un senso solo, infatti la sua teoria è falsa innanzitutto "in quanto assume che l'essere si dice in senso assoluto, mentre si dice in molti sensi" (Fisica, I.3). La teoria platonica dell'essere del Sofista così risulta diversa, ma non contraddittoria rispetto a quella di Parmenide; in quanto l'essere si dice in molti modi, e di conseguenza anche il non-essere, è possibile, assumendo nel concetto questa molteplcità, assumerle entrambe e completarle con le categorie di atto e potenza.

Questa molteplicità di significati dell'essere ha un'implicanza notevole nel pensiero Aristotelico, e di riflesso in tutto il pensiero occidentale; come nota Berti " «L'essere – egli afferma – si dice in molti sensi (τò ὂν λέγέται πολλακῶς)», e cioè non solo è costituito da una molpteplicità di enti, ma questa molteplicità è tale da non poter mai essere assunta sotto un genere unico, ovvero sotto un concetto univoco, il che significa che non ha in se stessa le condizioni della propria intellegibilità. L'essere si presenta pertanto nella forma di un problema; la sua totalità, ovvero la totalità dell'esperienza, non è altro che una totale ed integrale problematicità, ossia è una totalità completamente priva dell'assolutezza, della autosufficienza." (E.Berti, Studi Aristotelici, L.U. Japadre Editore, L'Aquila 1975, p.64).

8 Sebbene la sua chiusura della polemica tra i concetti platonici e parmenidei di essere e non-essere denoti una matrice platonica, a giudizio di Berti, dell'impostanzione, infatti "Aristotele, scolaro di Platone, aveva appreso la necessità di introdurre nell'essere le differenze, cioè le determinazioni (τὸ ἕτερον del Sofista), affinché esso potesse veramente contenere in se l'intera realtà." (E.Berti, Studi

Aristotelici, p.73), Aristotele tramuta questa esigenza dall'inserire in un concetto univoco di essere

ogni differente determinazione (sia essa logica o ontologica) in un'esigenza di molteplicità dello stesso concetto di essere. Così facendo "la molteplicità dei significati appartiene dunque non a ciò che è, ossia all'ente particolare, che è sempre univoco, ma all'essere di ciò che è." (Ibidem).

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solo potenza, avrebbe potuto non generarsi niente; se all'origine dell'esistente in quanto esistente vi fosse stata sola potenza, vi sarebbe stato il nulla che l'essere in potenza fattualmente è di per sé stesso.

Per evitare ciò, Aristotele pone, da un lato, la precedenza dell'atto rispetto alla potenza; dall'altro, definisce la potenza e l'atto non come esseri per se stessi, ma come predicazione dell'essere: un essere può essere in potenza, ma non può esservi potenza senza che sia di qualcosa. La potenza presuppone sempre alcunché di determinato o di determinantesi, senza esistere in sé stessa, in quanto non avrebbe sostanza, ma ha bisogno di un sostrato sostanziale cui inerire. In questo senso il non-essere della potenza non è il non-essere di Parmenide, in quanto è sempre il non-essere d'un essere e non può mai predicarsi come l'assenza di alcunché di determinato che è totalmente altro dall'esistente.10 Così facendo la forza della generazione, che dal non-essere ha origine, non è univoca, ma plurale:

“si potrebbe sollevare il problema da quale tipo di non-essere abbia luogo la generazione, infatti, si parla di non-essere in tre diversi significati. La risposta è: dal non-essere in potenza. Tuttavia non da qualsiasi potenza ha luogo la generazione di qualsiasi cosa, bensì da potenze diverse si generano cose diverse”. 11

La potenza è per Aristotele un certo modo di non-essere di un essere :

“C'è qualcosa che è solo in atto, e qualcosa che è in potenza e in atto: e tale distinzione va applicata all'essenza determinata, alla quantità, alla qualità e, parimenti, alle altre categorie dell'essere” 12

l'essere di qualunque cosa può essere infatti in potenza e atto o solo in atto, ma non può esserci qualcosa solo in potenza, in quanto non sarebbe, infatti

“l'atto è l'esistere della cosa, non però nel senso in cui diciamo che è in potenza: e diciamo in potenza, per esempio, l'Ermete nel legno, la semiretta nell'intera retta, perché li si potrebbe ricavare, e diciamo pensatore anche colui che non sta speculando, se ha capacità di speculare;

10 La potenza è sempre il non-essere di qualche determinazione, e genera attualizzando la specifica determinazione di cui è potenza. (“ora, poiché ciò che è in potenza, è in potenza qualcosa di

determinato, in un tempo determinato e in una maniera determinata (e con tutte le altre circostanze che rientrano necessariamente nella definizione di essa).” (Ivi, p.407)

11 Ivi, p.547.

12 Aristotele, Fisica, trad.it a cura di Antonio Russo, Fisica, in Aristotele vol.I, Merdiani Mondadori, Milano 2008, p.109.

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invece diciamo atto l'altro modo di essere della cosa.”13

L'atto è ciò che la cosa è quando è, la potenza è ciò che la cosa di fatto non è avendone la capacità. Se l'atto è l'esistere della cosa, un'essenza che è di fatto, ovvero un'essenza in atto e esistente, un essere in potenza, invece, si pone in modo totalmente differente, poiché la potenza, in quanto non-essere di un determinato essere, ha bisogno di una particolare conciliazione col principio primo della scienza dell'essere in quanto essere14, il principio di non-contraddizione. Ciò è necessario proprio perché è un modo d'essere particolare, che al contempo non è fattualmente ed è necessariamente. Contrariamente a ciò la realizzazione della potenza non può mantenere questa ambivalenza:

“per questo motivo, se uno volesse o desiderasse fare, nello stesso tempo, due cose differenti, o due cose contrarie, non le potrebbe fare; infatti, non in questo modo egli possiede la potenza di fare quelle cose, né esiste potenza di fare cose opposte nello stesso tempo”15

Questo si evince ulteriormente andando ad analizzare quei concetti che possono esistere solo in potenza:

“L'infinito, il vuoto e le altre cose di questo genere sono dette in potenza e in atto in modo differente rispetto alla maggior parte delle altre cose: per esempio ciò che vede, ciò che è cammina o ciò che è visibile. Queste cose, infatti, possono dirsi talora in potenza o in atto in senso vero e proprio: una cosa si dice visibile, infatti, o perché è effettivamente veduta o perché può essere veduta; invece l'infinito non è in potenza nel senso che esso possa diventare in atto una realtà di per sé sussistente, ma è in potenza solo in ordine alla conoscenza, giacché, il fatto che il processo di divisione non abbia mai un termine, fa si che questa attività esista come potenza, ma non che esista come realtà separata”16

L'infinito ha uno statuto ontologico particolare: esso non è in quanto effettivo, ma in quanto potenza non esistente di per sé, che tuttavia non è estraneo allo svolgimento del reale, intervenendo nel celebre esempio della divisione infinita, la quale però resta puramente ipotetica in quanto irraggiungibile realmente. Così l'infinito, in quanto pura potenza:

13 Aristotele, Metafisica, p.409. 14 Cfr. Ivi 131.

15 Ivi, p.409. 16 Ivi, p.411.

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–esiste solo come mezzo della conoscenza, non è esistente fuori da essa come sostanza in atto che possa fungere da sostrato ad altro.

–mostra, come evidenziano vari commentatori, una cesura con l'idea espressa poche pagine prima, per cui ogni potenza debba attuarsi per essere tale, cesura forse conscia allo stesso Aristotele che prima di trattare di questo tema premette che in esso atto e potenza sono in modo particolare, per analogia.17

–Contrariamente ad altri casi simili, in quanto non esistente in atto, Aristotele porta una dimostrazione per induzione e non per deduzione di esso. Ciò avviene non perché esso sia causa prima, ma perché, non essendo in atto, può esser rilevato solo induttivamente da dove questa potenza abbia un ruolo che non può avere di per sé stessa.

Per Aristotele non possono esistere potenze che non si attuino mai, così come non possono darsi potenze a posteriori, perché una potenza non è la mera possibilità di un mutamento, ma ne è la condizione. Una potenza che non dovesse mai giungere all'atto (es. la possibilità di trovare la quadratura del cerchio) non è una potenza di un essere, ma una mera possibilità che non ha le caratteristiche della potenza – un non essere assimilabile al non-essere secondo le categorie, il quale per Aristotele è il non essere in senso parmenideo – e che non permetterebbe alcun mutamento, mutamento che invece nella potenza è insito nella strutturazione stessa che essa ha.

L'infinito non è una possibilità, ma una potenza, in quanto è coglibile come tale in ogni procedimento che lo presuppone (es. l'infinità divisibilità del numero).

“Si dice che l'essere è o in potenza o in entelechia, mentre l'infinito è da una parte per aggiunzione, dall'altra per detrazione. Si è, poi, detto che la grandezza, in quanto sia in atto, non è infinita, ma lo è per divisione, giacché non è difficile toglier via le linee indivisibili: rimane, allora, da dire che l'infinito è in potenza. Ma, in questo caso, non si deve assumere l'espressione «ciò che è in potenza» nel senso con cui si dice, ad esempio, «questa cosa è in potenza una statua, e quindi sarà una statua», ché in tal caso si ammetterebbe qualcosa di infinito che sarà, poi, in atto; ma poiché l'essere è in molti modi, si deve intendere che l'infinito «è» nel senso in cui si dice: «il giorno è, la gara è», poiché questi diventano sempre qualcosa di diverso (e, invero, negli esempi ora riferiti l'essere è in potenza ed anche in atto, perché i giochi olimpici sono sia in quanto possono diventar gara sia in quanto diventano gara in atto); è chiaro, infatti, che in un modo si intende [l'infinito] nel tempo, in un altro modo rispetto alle umane generazioni e in un altro ancora rispetto alla divisione delle grandezze. Così è infatti l'infinito in universale, perché si pone come sempre diverso, mentre ciò che si assume da esso è sempre finito, benché ci sia sempre, poi, altro ed ancora altro”18

17 Cfr. Ibidem.

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L'infinito, per la sua natura di non essere mai in atto, non è più la causa particolare o il contenitore universale di ogni esistente, poiché esso non può contenere l'atto di ogni esistente.

“In verità capita che l'infinito sia proprio il contrario di quel che si dice. Difatti, l'infinito non è ciò al di fuori di cui non c'è nulla, ma ciò al di fuori di cui c'è sempre qualcosa. […] L'infinito è ,dunque, ciò al di fuori di cui, se si assume come quantità, è sempre possibile assumere qualche altra cosa. Ciò, invece, al di fuori di cui non c'è nulla, è perfetto ed intero. Che noi così definiamo l'intero: ciò di cui non manca nulla, ad esempio l'uomo intero e lo scrigno”19

L'esistente è sempre determinato in atto20 e pertanto la determinazione è l'unità di questo esistente. L'infinito invece si costituisce come ciò che non è mai determinato ed intero, quindi Aristotele lo assume come potenza primariamente per la sua opposizione all'atto e alla determinazione unitaria, fuori dalla quale nulla si può più predicare d'un essente, proprio perché è esso a predicarne la totalità, mentre in questo modo nell'infinito nulla di determinato dell'esistente si potrebbe predicare.

“L'infinito, in verità, è la materia del compimento della grandezza, ed è l'intero in potenza, ma non in entelechia, ed è divisibile per detrazione e, inversamente, per aggiunzione, ed è intero e limitato non per sé ma per altro, e non contiene, ma è contenuto proprio in quanto infinito. Perciò, come infinito esso è anche inconoscibile, giacché la materia non ha una forma. Di conseguenza, è chiaro che l'infinito rientra nel concetto di parte più che in quello di intero: la parte, infatti, è la materia dell'intero, come il bronzo della statua bronzea, poiché, se si ammette che nelle cose sensibili il grande e il piccolo contengono tutto, anche riguardo alle cose intellegibili essi dovrebbero contenere le intelligibili. Ma è assurdo e impossibile pensare che l'inconoscibile e l'indeterminabile possano contenere e definire”21

L'infinito, conclude Aristotele, è sempre esperito in potenza in qualcos'altro, come nel classico esempio della divisibilità infinita del numero, ma non è ciò che determina la grandezza del numero, quanto piuttosto ne è la materia, in quanto potenza; dunque non è

19 Ivi, p.126.

20 "Le espressioni «quando è» e «quando non è» significano che, se ad un certo soggetto appartiene una qualche determinazione, per esempio bianco, non gli può appartenere nello stesso tempo e sotto il medesimo rispetto la determinazione ad essa contraddittoria, per esempio non bianco. Ciò non significa ammettere la possibilità che le determinazioni dell'essere ora siano ed ora non siano: anche le determinazioni infatti, come lo stesso Severino ha osservato a chi pretendeva di distinguerle

dall'essere, sono pur sempre essere e quindi non possono non essere. Aristotele dichiara soltanto che una determinazione non è un altra, e cioè appunto che l'essere nella sua totalità è molteplicemente determinato." (E.Berti, Studi Aristotelici, p.74).

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l'intero del numero (che è l'atto del numero stesso), quanto parte del movimento di definizione di esso. Tuttavia, esso in sé non lo contiene, quanto piuttosto è contenuto nella definizione di ogni grandezza determinata.

L'infinito non è non-esistente in senso assoluto, altrimenti il numero, il tempo, il pensiero ed il mutamento dovrebbero essere finiti, ma esso non è esistente in atto per sé, ma solo in potenza come parte dell'intero di cui si dice che è infinito. Infatti “il tempo e il movimento sono infiniti insieme con il pensiero, ma ciò non comporta la reale sussistenza di quello che viene desunto da essi”22, cioè senza che ciò che è nel tempo o nel mutamento o nel pensiero permanga in atto come infinito. “L'infinito è causa in quanto materia e il suo essere è la privazione (mentre il sostrato è il continuo sensibile)”.23

A partire da ciò risulta più chiaro come definire che cosa Aristotele intenda per materia. Essa, considerata astrattamente come scissa da ogni essenza, si definisce come potenza, poiché la materia pura è sempre in attesa della forma, cioè del suo atto: la materia in quanto tale è in attesa di esistenza. Infatti, pur avendo in sé stessa la necessità di attuarsi ed essendo condizione necessaria di questa esistenza, essa non è sufficiente all'esistenza stessa: ne è la potenza. Ciò non va inteso come se la forma possa avere una qualche trascendenza sulla materia, poiché la forma è immanente alla materialità, ma se ne distingue in quanto è l'atto della sostanza. Qui sta anche parte dell'argomento sulla precedenza dell'atto sulla potenza: se l'esistente per essere tale è alcunché di

determinato, questa determinazione è l'atto dell'esistere di una sostanza; atto che rende

esistente ogni potenza, che di per sé stessa non potrebbe essere il proprio mutamento, pur essendo necessaria ad esso. Anche da ciò si riesce ad evincere il perché Dio sia pura forma e puro atto, esso lo è per non ricorrere ad una fuga all'infinito verso l'attualizzazione della materia.

Dei tre sensi di non-essere che vengono descritti24, al termine del libro Theta viene specificatamente tematizzato il terzo, quello che proviene ad Aristotele dalle eredità del parricidio platonico.

L'essere e il non-essere come vero e falso risiedono nell'enunciazione e non nelle cose,

22 Ivi, p.130.

23 Aristotele, Fisica, trad.it a cura di Marcello Zanatta, Fisica, UTET, Torino 1999, p.412.

24 “L'essere e il non-essere si dicono, in un senso, secondo le figure delle categorie, in un altro senso, secondo la potenza e l'atto di queste categorie o secondo i loro contrari, e, in altro senso ancora, secondo il vero e il falso”. ( Aristotele, Metafisica, p.427)

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ma questa connotazione non le denota fuori dall'ontologia aristotelica, tanto da esser riproposta non solo in chiave logica, ma anche all'interno della trattazione sulla scienza prima; ponendosi come rapporto tra l'intelletto e la cosa può esser trattata da entrambi i punti di partenza25. Nel libro Theta viene detto da Aristotele che

“per quanto riguarda le cose, l'essere come vero e falso consiste nel loro essere unite o nel loro essere separate, sicché sarà nel vero chi ritiene esse separate le cose che effettivamente sono separate ed essere unite le cose che effettivamente sono unite”26

Questa proprietà del discorso, del cogliere la reale unione delle cose, non è propria di tutti i discorsi, ma solo di parte di essi.

“Ma non tutti i discorsi - precisa Aristotele - possono essere veri o falsi, bensì soltanto i discorsi "enunciativi" (apophantikoi), cioè quelli che pretendono di descrivere, o di "manifestare" (apophainesthai), come stanno le cose. Esistono poi altri tipi di discorso, i quali, pur essendo ugualmente significativi (sémantikoi), cioè riferibili a cose, e quindi comprensibili, non sono né veri né falsi, per esempio i discorsi prescrittivi, quali un comando ("chiudi la porta"), oppure, per usare l'esempio di Aristotele, una preghiera (De interpretatione 1-4)”27

Questa teoria ha una connotazione centrale nello sviluppo di tutto il pensiero metafisico. Infatti, il discorso apofantico può esser vero sia in senso sostanziale (cogliendo ciò che è necessariamente unito o disgiunto nella cosa) sia in senso accidentale (cogliendo ciò che è accidentalmente unito o disgiunto nella cosa), ma questa disgiunzione o unione è proprietà della sostanza e non del discorso: l'unione o la disgiunzione sono proprie della cosa, mentre l'essere o il non-essere come verità o falsità sono proprie del discorso. Aristotele però non pensa che l'essere e il non-essere nel Logos siano soltanto il vero e il falso come appena esposto. Distinguendo le tipologie di discorso, esiste un discorso che è proprio della scienza prima, ma che non ha il suo essere o non-essere nella sua verità o falsità, intese come capacità di unire o disgiungere nel Logos ciò che nella cosa è unito o disgiunto. Questo discorso è quello che verte non sugli enti composti, ma sulle

25 Nel libro Epsilon infatti il vero e il falso vengono ribaditi essere “non nelle cose ma nel pensiero”, esse sono “affezioni del pensiero” (Ivi, p.275).

26 Ivi, p.429.

27 E.Berti, Verità e filosofia, in Ragione e verità: l'alleanza socaritco-mosaica, a cura di V.Possenti, Armando, Roma 2005, p.23.

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sostanze semplici e incomposte, identificabili con le essenze28.

“Delle sostanze semplici in cosa consiste l'essere o il non-essere e il vero e il falso? Infatti non si tratta di qualcosa di composto, nel qual caso l'essere si avrebbe quando esso fosse composto e il non-essere quando fosse diviso, come quando si dice che il legno è bianco e che la diagonale è incommensurabile. E, così, neppure il vero ed il falso potranno aver luogo nello stesso modo che per quegli esseri”29

Il motivo di ciò risiede principalmente nella natura dell'essenza, che essendo atto non è possibile che di essa si predichi il non-essere, inteso in questo caso come falsità.

Degli esseri incomposti il vero è l'intuizione di esso, il falso il non afferrarlo, “sbagliarsi circa l'essenza non è possibile se non per accidente; e così non è possibile sbagliarsi circa le sostanze non composte; infatti, se così non fosse, si genererebbero e si corromperebbero; invece, ciò che è essere per sé non si genera e non si corrompe”.30 Per poter dire il falso su una essenza, bisognerebbe presupporre che essa possa essere unita o disgiunta a qualcosa in un modo che non ne sia l'atto, che possa, cioè, aderire a qualcosa senza esserla e che si possa dire d'un ente semplice che non è la sua essenza, ovvero in ultima istanza che non è ciò che è, che l'essere dell'oggetto non è il suo atto. “Dunque, intorno a ciò che è essenza e atto, non è possibile essere in errore ed è solo possibile pensare e non pensare: di queste cose si ricerca che cosa sono e se sono o no di una data natura”.31 L'essere e il non-essere del discorso non possono avere luogo nell'atto di un essere.

I tre significati di non-essere che Aristotele espone e concilia, come abbiamo visto, hanno delle caratteristiche nuove: permettono il primato dell'essere determinato, dell'esistenza come alcunché di determinato, non consentendo una esclusione dall'ontologia di quei principi che permettono la determinazione stessa, senza ricorrere in essi a una trascendenza continua. Il non-essere, nel più originale dei suoi significati, si configura come materia, intesa non come fatto brutto realmente esperito, ma come materia considerata nel senso di una astrazione in attesa di una forma che ne divenga l'atto, permettendo una differenza inconciliabile tra le sostanze infinite e la sostanza divina in quanto puro atto.

28 Cfr. G.Reale, Commentario alla Metafisica di Aristotele, 1146. 29 Aristotele, Metafisica, 429.

30 Ivi, pp.429-431. 31 Ivi, p.431.

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Aristotele pare così essere il punto di partenza essenziale per delineare il concetto di nulla in una tematica che a parte dalla considerazione del fenomeno in quanto tale. Egli, ponendo pluralità in questo concetto, definendolo in tre differenti modi, ha portato alla luce una considerazione del nulla non solo come totale e inesprimibile differenza all'ente o come falsità nel discorso, ma lo ha posto come concetto ontologico decisivo, come possibilità assolutamente propria ad uno studio che filosofico – e che al contempo ponga il fenomeno costantemente in questione – voglia essere.

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1.2 Kant e il noumeno come limite positivo

1.2.1 Filosofia trascendentale e disciplina dell'intelletto

Che la filosofia kantiana sia stata nel novecento la più assimilata e paragonata alla fenomenologia, a partire anche da autori, come Heidegger, interni allo stesso movimento fenomenologico, appare oggi un dato acquisito. I motivi di questo parallelismo sono molteplici e chiari e sono riassunti da Deleuze nella formula “alla coppia disgiuntiva apparenza/essenza, Kant sostituisce la coppia correlativa ciò che si manifesta/condizione del manifestarsi”32, cioè ciò che si manifesta per Kant, e che lui indica con il termine Schein, cessa di essere apparenza [apparence] per divenire manifestazione [apparition]33.

Questa lettura fenomenologica dell'opera kantiana, della quale Deleuze è solo uno dei ricettori, porta completamente alla fine le letture della filosofia trascendentale come una dualistica contrapposizione tra un fenomeno apparente e un noumeno come verità di questa apparenza34. Lo stesso testo kantiano, al di là di tutte le ambiguità ravvisate in secoli di critica, su questo punto risulta abbastanza chiarificatore: “In senso positivo, perciò, la divisione degli oggetti in phaenomena e noumena, e del mondo in mondo dei sensi e mondo dell'intelletto, non può assolutamente venir ammessa”35.

La domanda sul noumeno dunque deve, per potersi sviluppare, partire da questa considerazione che non fa del noumeno l'oggetto più vero del fenomeno, quanto la funzione di estensione negativa del nostro intelletto36. La rivoluzione copernicana e la

32 G.Deleuze Fuori dai cardini del tempo, trad.it a cura di Sandro Palazzo, Mimesis, Milano 2005, p.91 33 Cfr. Ibidem.

34 Questo cambiamento di prospettiva consente di non considerare più la verità della manifestazione come un problema, come accadeva per una filosofia di stampo dogmatico o sensistico per cui l'unità del fenomeno necessitava di un'ulteriore domanda sulla propria verità: “è chiaro allora perché, mentre la parvenza pone il problema della sua verità, il fenomeno non pone quello della propria. La verità di un fenomeno che sia propriamente tale si dà interamente con esso (è quella che con esso si dà) e non è nei suoi limiti né problematica né problematizzabile.” (M.Barale, Kant e il metodo della filosofia, ETS, Pisa 1988, p.61).

35 I.Kant, Kritik der reinen Vernunft, trad.it a cura Giorgio Colli, Critica della ragion pura, Adelphi, Milano 2010, p.330.

36 “Orbene il nostro intelletto riceve a questo modo un'estensione negativa, ossia non viene limitato dalla sensibilità, ma piuttosto la limita, col chiamare noumena le cose in se stesse.” (Ivi, 331).

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filosofia trascendentale hanno reso necessaria questa distinzione. Infatti:

“La rivoluzione copernicana di Kant consiste nell'affermazione che gli oggetti della conoscenza obbiettiva non compaiono da se stessi, ma devono essere portati ad apparenza dal soggetto (trascendentale). Essi quindi non devono più essere definiti cose, che sussistono per sé, ma fenomeni. Poiché con ciò è mutato il fondamento dell'oggettività e la teoria degli oggetti, l'ontologia, è resa dipendente da una teoria del soggetto, un'ontologia autonoma non può sussistere. Il fulcro della Critica della ragion pura consiste nell'intreccio di entrambi gli aspetti: una teoria filosofica dell'ente, di ciò che è oggetto in quanto oggetto, può, da una parte, essere fornita soltanto come teoria della conoscenza dell'ente, mentre, dall'altra, una teoria della conoscenza può essere ottenuta soltanto come determinazione del concetto oggetto.”37

Oggetto della filosofia trascendentale non è l'esistente positivo nella sua datità, ma ciò che lo precede sempre, che nel suo carattere regolatore non è nessuna delle cose regolate: l'apriori non è il semplicemente esistente prima, ma ciò che precede l'esistenza determinata del fenomeno38. Kant, con la filosofia critica trascendentale (come invita a chiamarla Höffe per distinguerla dalla filosofia trascendentale di stampo medievale), porta a nozione ciò che precede l’esperienza permettendola e ciò che è pensabile, ma esterno ad essa, a partire dall’esperienza stessa39. Risulta chiaro come entrambi gli

37 O.Höffe, Immanuel Kant, trad.it a cura di Sonia Carboncini e Paolo Rubini, Immanuel Kant, Il Mulino, Bologna 2002, pp.42-43.

38 “A priori e trascendentale divengono così termini sinonimi, come solitamente si è portati a credere? Qui si presenta una grossa questione, che ha interessato in maniera particolare alcuni studiosi del pensiero kantiano. Se rileggiamo con attenzione il brano appena citato e ci soffermiamo sui corsivi che abbiamo introdotto in esso, ci accorgiamo che duplice è l'uso del termine «trascendentale». Da una parte, esso riguarda non gli oggetti, ma «la conoscenza […] del nostro modo di conoscere gli oggetti», sicché, per dirla con Francesco Barone , trascendentale è «non la conoscenza apriori in genere, bensì la riflessione su come certe rappresentazioni siano possibili e applicabili apriori agli oggetti». Dall'altra, a priori e trascendentale paiono indicare la stessa cosa, ovvero l'insieme completo, la totalità dei principi a priori che rendono possibile, in generale, la nostra conoscenza, cioè quello che Kant chiama «l'a priori», e quindi «il trascendentale». […]

Kant, ritornando sullo stesso tema afferma, testualmente che «non bisogna chiamare trascendentale ogni conoscenza a priori, ma soltanto quella onde conosciamo che, e come, certe rappresentazioni (intuizioni o concetti) vengano applicate o sono possibili esclusivamente a priori: cioè, la possibilità della conoscenza, o l'uso di essa a priori», sicché «non è una rappresentazione trascendentale (transscedentale Vorstellung) né lo spazio, né un qualunque determinazione geometrica a priori di esso, ma si può chiamare

trascendentale soltanto la conoscenza che queste rappresentazioni non sono affatto di origine empirica, e la possibilità che tuttavia hanno di riferirsi a oggetti dell'esperienza». Ma nei Prolegomeni egli dichiara testualmente che «la parola “trascendentale” […] non significa qualcosa che oltrepassa ogni esperienza, ma qualcosa che certo la precede (a priori) ma non è determinato a nulla più che a render possibile la semplice conoscenza dell'esperienza», sicché, per dirla ancora con Francesco Barone «”trascendentale” non è riferito alla conoscenza circa la possibilità e applicabilità a priori delle rappresentazioni, bensì alle rappresentazioni stesse per caratterizzarne l'apriorità. […] In quest'ultima accezione il termine viene sostantivato e si parla del trascendentale (o dell'apriori) riferendosi a quelle strutture della conoscenza (intuizioni o concetti) che non sono derivate dell'esperienza e che tuttavia la rendono possibile”. (Marcucci, Guida alla lettura della Critica della Ragion Pura di Kant, Laterza, Roma-Bari 2009, pp.40-41).

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ambiti siano determinanti per la conoscenza positiva, ma non ne siano parte. La dottrina kantiana, proprio perché fenomenica, non si ferma alla positività del dato, ma ricostruisce interamente la datità del positivo, comprendendo preliminarmente ciò che datità e positività significhino. In questo contesto espone la funzione negativa dell’intuizione intellettiva, per poterla considerare come un nulla imprescindibile per ogni considerazione trascendentale che consente questa datità senza esserla essa stessa40. La stessa definizione di filosofia trascendentale non è, come è noto, mutuata su un oggetto determinato della conoscenza, quanto piuttosto è da considerarsi “trascendentale ogni conoscenza che in generale si occupa non tanto degli oggetti, quanto invece del nostro modo di conoscere gli oggetti, nel senso che tale modo di conoscenza dev'essere possibile a priori”41. Lo stesso organon della ragion pura “dovrebbe essere un insieme di quei principi, sulla base dei quali possono essere acquistate e realmente costituite tutte le conoscenze pure a priori”42. Come sempre in tema di esposizione trascendentale Kant indica con quest'organon l'insieme tutti i principi necessari, dunque inevitabilmente a

priori43, ad una conoscenza possibile (e mai a sua volta necessaria). L'apriori è la

necessità d'una possibilità, indica le condizioni di un'esperienza che non è determinata a sua volta da necessità, se non nelle sue condizioni a priori, cioè nelle condizioni della

costituisce la possibilità dell'esperienza, sia come condizione della sua manifestatività che della sua unità (di senso e di manifestazione). Da un lato è bene ricordare che “i principi dell'intelletto puro [...] non contengono altro che il puro schema per l'esperienza possibile”(I.Kant, Kritik der reinen Vernunft, p.364), dall'altro che la purezza dell'intelletto ha un senso solo escludendo la purezza dell'oggetto, cioè solo considerando l'oggetto in rapporto all'intelletto stesso.

"La ragione stessa contiene l'origine di certi concetti e di certe proposizioni fondamentali, che essa non deriva né dai sensi né dall'intelletto." (Ibidem).

40 “Mentre la coppia «trascendente/trascendenza» può indicare un mondo al di là del nostro mondo dell'esperienza, Kant respinge l'idea che l'«al di là», il mondo sovrasensibile, sia un vero e proprio oggetto del quale si possa dare una conoscenza valida nell'ambito teoretico. In verità anche nell'indagine

trascendentale kantiana viene superata l'esperienza. Ma la direzione di questo superamento si è rovesciata: Kant si rivolge (perlomeno in un primo momento) indietro e non avanti. Egli non ricerca, nell'ambito teoretico, «in grandissima lontananza» o in «aerea altezza», dietro l'esperienza, un «mondo dell'al di là» che Nietzsche considera sarcasticamente oggetto della filosofia tradizionale. Kant vuole scoprire le condizioni dell'esperienza che si trovano prima di ogni esperienza. […] Carattere trascendentale ha tutto ciò che noi già presupponiamo sempre quando pensiamo a qualcosa di esistente: l'ente (ens): la entità dell'essente; la cosa (res): l'essere qualcosa o concretezza; l'uno (unum): l'unità ed interna inseparabilità; il vero (verum): la conoscibilità e la relazione all'intelletto; il bene (bonum): il valore e l'appetibilità.” (O.Höffe, Immanuel Kant, p.52).

41 I.Kant, Kritik der reinen Vernunft, p.67. 42 Ibidem.

43 “Non è pertinente tentare di parlare in termini di necessità categorica di proprietà che siano semplici dati di fatto, suscettibili di essere o non essere per ragioni che possono darsi o non darsi, ma in nessun caso determinabili a priori. Una necessità categorica possiamo invece attribuirla alle note di un concetto, una volta stabilite le regole della sua costruzione, sulla base e nei limiti di esse, delle regole secondo cui siamo obbligati a pensarlo e che bastano da solo a renderlo pensabile.” (M.Barale, Kant e il metodo della

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propria possibilità.

La possibilità stessa di questa disciplina trascendentale, che Kant non esita nell'architettonica a considerare la vera ontologia44, non è esposta interamente da proposizioni positive; anzi Kant nei passi iniziali dell'architettonica avverte la necessità di una rivalutazione dei giudizi negativi45. I giudizi negativi hanno il compito di prevenire l'errore, perché

“quando i limiti della nostra conoscenza possibile sono assai ristretti, lo stimolo a giudicare è grande, l'illusione che si presenta è assai ingannevole, e il danno derivato dall'errore è considerevole, in tal caso il lato negativo, che insegni soltanto a preservarci dagli errori, ha un'importanza anche maggiore di parecchi ammaestramenti positivi, che potrebbero accrescere la nostra conoscenza”46.

Quando ci troviamo a determinare trascendentalmente un'esperienza possibile abbiamo bisogno di giudizi negativi, abbiamo bisogno di costruire le condizioni di quell'esperienza possibile a partire dal riconoscimento di quei limiti angusti che la cosa in sé ci permette di tracciare e di delineare negativamente. Questa “costrizione”, di cui la negatività della cosa in sé è limite necessario, per Kant è da chiamarsi “disciplina”, la quale è chiamata a darci costantemente un contributo negativo.

L'ontologia, così, che Kant sembrava aveva escluso nell'analitca trascendentale, torna nella dottrina del metodo come parte della filosofia trascendentale; precisamente come ciò che "considera l'intelletto stesso e la ragione stessa in un sistema di tutti i concetti e di tutte le proposizioni fondamentali, che si riferiscono ad oggetti in generale, senza assumere oggetti che siano dati"47. Definizione tutt'altro che semplice, ma che mostra come l'eguaglianza tra filosofia trascendentale e ontologia sia evidente a Kant, e come intelletto e ragione costituiscano nella loro partizione momenti coessenziali al sorgere

44 “La metafisica – così chiamata in senso stretto – consta della filosofia trascendentale e della fisiologia della ragion pura. La prima considera soltanto l'intelletto stesso e la ragione stessa in un sistema di tutti i concetti e di tutte le proposizioni fondamentali, che si riferiscono ad oggetti in generale, senza assumere oggetti che siano dati (ontologia).” (Ivi, p.816). Come ricostruisce anche La Rocca: “altrove Kant riprende però positivamente il «nome orgoglioso» [dell'ontologia n.d.r.]. Cfr Fortsch. 590 «L'ontologia è quella scienza […] che costituisce un sistema di tutti i concetti dell'intelletto e principi, ma soltanto nella misura in cui riguardano oggetti che possono esseri dati ai sensi»; v. anche la lettera J.S. Bech”. (C.La Rocca, Esistenza e giudizio, ETS, Pisa 1999,p.99).

45 "I giudizi negativi, che sono tali non soltanto rispetto alla forma logica, ma altresì rispetto al contenuto, non godono di particolare considerazione, a causa del desiderio umano di sapere. Li si considera anzi come nemici del nostro impulso conoscitivo, che aspira incessantemente ad un'estensione del sapere, e si richiede quasi un'apologia, per garantire a tali giudizi una tolleranza, e qualcosa di più ancora, per procurare loro favore e rispetto." (I.Kant, Kritik der reinen Vernunft, p.710).

46 Ivi, p.711. 47 Ivi, p.816.

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d'una ontologia, che mai presuponga d'aver il proprio oggetto come dato48; tanto da

poter affermare che "l'esperienza, infatti, non può venir data, ma deve essere fatta"49. Il contrasto con la celebre affermazione secondo cui al “nome orgoglioso di una ontologia, la quale presume di fornire in una dottrina sistematica conoscenze sintetiche a priori di cose in generale (per esempio, la proposizione fondamentale della causalità), deve far posto al nome modesta d'una semplice analitica dell'intelletto puro”50 è più apparente che reale. Non è l'ontologia a dover sparire, ma quella che dietro questo nome cela una

dottrina delle conoscenze sintetiche a priori della cosa in generale. L'ontologia,

dunque, antispinozianamente, non verte più sulle regole interne della manifestazione, ma sulle sue condizioni manifestative, cioè sul modo di divenire esperienza e non più sulle regole interne del fenomeno: così a ciò che usualmente è indicato col termine ontologia va sostituita una analitca dell'intelletto puro, mentre la vera ontologia è da ubicare piuttosto nella filosofia trascendentale51.

“Possiamo ricordare brevemente il modello di fondazione che Kant ritrova nella tradizione alla quale è legato più direttamente e con la quale, quindi, più attentamente si confronta. Il confronto più serrato e documentato svolta su questi temi nelle pagine kantiane è senza dubbi quello con l'ontologia di Alexander Baumgarten. La Metaphysica di Baumgarten era il testo che Kant utilizzava per le sue lezioni sul tema; a quest'opera si riferiscono un gran numero di Reflexionen, che ne costituiscono un vero e proprio, lungo e composito, commento critico. Architrave della ontologia baumgarteniana è il concetto di impossibile, che coincide con quello di nihil negativum. Impossibile è ciò che contiene contraddizione, ed è pertanto non rappresentabile. Da questo concetto, che è l'absolute primum, viene tratto per negazione (cioè come nonnihil) il concetto positivo di aliquid, che equivale al possibile, ovvero al rappresentabile. L'ontologia viene dunque impiantata sulla nozione di rappresentabilità, che è identificata con l'assenza di contraddizione”.52

Questo chiarifica molto due punti qui riportati del discorso kantiano:

- quando Kant espone la necessità di superamento dei concetti di possibile e

48 "La prima [la filosofia trascendentale, ndr.] considera soltanto l'intelletto stesso e la ragione stessa in un sistema di tutti i concetti e di tutte le proposizioni fondamentali, che si riferiscono ad oggetti in generale, senza assumere oggetti che siano dati (ontologia)." (Cfr. Ibidem, corsivo nel testo). 49 I.Kant. Opus Postumum, trad.it a cura di Vittorio Mathieu, Opus Postumum, Zanichelli, Bologna 1963, p.207

50 I.Kant, Kritik der reinen Vernunft, p.320.

51 Non a caso i concetti puri (a priori) dell'intelletto "non potranno mai essere di uso trascendentale, ma dovranno essere invece sempre solo di uso empirico, e inoltre, che le proposizioni dell'intelletto puro potranno venire riferite soltanto – in rapporto con le condizioni universali di un'esperienza possibile – ad oggetti dei sensi, ma non potranno mai essere riferite a cose in generale." (I.Kant, Kritik der reinen

Vernufnt,, p.319).

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impossibile nella fondazione di una filosofia trascendentale – per farli precedere da un altro concetto costantemente negativo come quello di noumeno – il bersaglio polemico è proprio il particolare concetto negativo e fondativo del nihil negativum, che anche Kant accetterà, ma come uno dei quattro modi di darsi del nulla, subordinato a quello del concetto privo di oggetto a livello fondativo, e svuotato del primato ontologico della rappresentabilità logica basta sulla non contraddizione;

- Kant nella celebre affermazione del superamento dell'ontologia verso un'analitica dell'intelletto puro è primariamente dell'ontologia in senso classico, che ha come paradigma Baumgarten, che parla. Infatti se il nihil negativum è l'“oggetto vuoto senza concetto”53, esso non può avere un primato ontologico sul concetto e sulla sintesi. Definire a partire dal possibile il concetto di aliquid è fare un'analitica dell'intelletto per Kant, e mai ancora l'ontologia più propria da identificarsi come una delle funzioni della filosofia trascendentale.

Come nota La Rocca:

“Egli separa con ciò il compito di una ontologia che tematizza in modo analitico le diverse strutture di una cosa in quanto tale (della «cosa» in generale) da una ontologia che si rivolge soltanto alle condizioni di senso di quell'idea di «una certa cosa esistente» che viene presupposta in ogni proposizione che avanzi pretesa di verità. L'ontologia razionalista si preoccupava di catalogare i tipi diversi di realitates dell'oggetto, cercando di scoprire tra questi tipi anche uno che corrispondesse all'esistenza, la quale veniva dunque pensata come una determinazione della cosa”.54

Le esigenze che la nozione di filosofia trascendentale55 porta con sé non sono separabili da quelle di una filosofia critica e assieme costituiscono le due istanze portanti della critica della ragion pura. L'istanza critica, come abbiamo visto, consta anche di una disciplina della ragione che per sua necessità non può esser costituita da proposizioni

53 I.Kant, Kritik der reinen Vernufnt,, p.358. 54 C. La Rocca, Esistenza e Giudizio, p.73.

55 "La filosofia trascendentale è il sistema delle che idee che contengono la possibilità dell'interiore relazione dei principi del soggetto a oggetti che determinano per l'esperienza possibile [l'esistenza delle cose indipendentemente dalla] esperienza, ma contengono il fondamento della possibilità di ogni esperienza in generale, e costituiscono sé stesso (il soggetto) in oggetto, nella conoscenza sintetica mediante concetti [...].

La filosofia trascendentale contiene i principi sintetici dell'intuizione delle cose del pensiero: spazio e tempo come fenomeni, non come aggreganti, ma come principi formali dei principi del soggetto, d'essere autore di sé medesimo.

Non si può filosofare su alcun oggetto come su un essere già dato, ma, anzitutto, su di esso come semplice ente di ragione che proviene dal soggetto medesimo; e la filosofia che per questo crea tali idee da sé stessa secondo principi a priori è la filosofia trascendentale" (I.Kant, Opus Postumum, p.372).

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che siano interamente positive, essa deve limitare l'errore che ogni ignoranza del limite può portare ad una indagine che trascendentale mira ad essere. Per Kant esistono tre tipi di ignoranza: l'ignoranza delle cose, che potremmo definire ignoranza empirica, l'ignoranza della destinazione, che si può individuare come ignoranza pratica, e l'ignoranza dei limiti, che sembra costituire quella che si potrebbe definire ignoranza trascendentale, ed è solo questo tipo di ignoranza che può che può esser obiettivo polemico in una Critica della Ragion Pura.56 Se nei confronti dei primi due casi la coscienza può progredire principalmente con affermazioni, nella terza la coscienza ha una necessità di intervento del negativo nei giudizi e nella costituzione del limite stesso. La determinazione dei limiti può avvenire solo con un'indagine a priori, e pertanto trascendentale. Determinare a priori i limiti della ragione nella sua azione significa per Kant il superamento di ogni scetticismo: solo l'indagine trascendentale conosce la ragione per ciò che essa è, inquadrandola in dei limiti che negativamente si possono costituire, senza distaccare la sua attività dall'esteriorità, anzi facendone la radice della cosalità e della forma dell'esperienza.

“In una parola, la coscienza può soltanto usare le condizioni di un'esperienza possibile come condizioni della possibilità delle cose, ma in nessun caso potrà crearsi concetti di cose indipendenti da tali condizioni, perché siffatti concetti, sebbene non contraddittori, risulterebbero tuttavia privi di oggetto.”57

Nelle condizioni di un'esperienza possibile, che solo la ragione a priori può avere, sono contenute le condizioni della possibilità delle cose, ma fuori da esse ogni tentativo di creare cose, di cristalizzare come cosalità concetti puri, è destinato a naufragare, perché in nessun caso essi possono pervenire ad oggetto. Le cose in sé, seppur pensate dall'intelletto come cose per la natura stessa dell'intelletto, non potranno mai determinarsi come oggetti di un'esperienza possibile.

Proprio in questo spazio si inserisce la necessità di concetti e giudizi che siano negativi, che demarchino ciò che l'esperienza possibile può pretendere, e quindi ciò che una possibile esperienza può essere.

56 “tutti i concetti, anzi tutti i problemi, che ci sono presentati dalla ragion pura, non sono difatti contenuti nell'esperienza, ma si ritrovano essi stessi nella ragione soltanto, e devono perciò esser risolti e compresi nella loro validità o invalidità.” (I.Kant, Kritik der reinen Vernunft, p.753).

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“O è l'oggetto soltanto che rende possibile la rappresentazione oppure è la rappresentazione soltanto che rende possibile l'oggetto. Se si ha il primo caso, questo riferimento è soltanto empirico, e la rappresentazione non è mai possibile a priori. E ciò si applica alle apparenze, nei riguardi di quello che in esso appartiene alla sensazione. Se si ha invece il secondo caso, sebbene la rappresentazione in se stessa (non trattandosi qui affatto della sua causalità mediante il volere) non produca il suo oggetto secondo l'esistenza, nondimeno la rappresentazione è allora determinante a priori nei riguardi dell'oggetto, se è vero che solo mediante essa è possibile conoscere qualcosa come oggetto.”58

La struttura trascendentale della rappresentazione rende possibile il conoscere qualcosa come oggetto, ma nella sua applicazione alla cosa in sé essa è destinata al fallimento, in quanto questo qualcosa non è mai un oggetto (Object) passibile di esperienza.

“Da quanto detto sopra risulta però chiaro che la prima condizione – cioè la sola sotto cui possano venire intuiti degli oggetti – in realtà si trova a priori nell'animo, a fondamento degli oggetti, secondo la forma”59.

La condizione soggettiva apriori di fondamento di ogni esperienza possibile è quella che fonda gli oggetti, non secondo il loro contenuto empirico e determinato, ma secondo la loro forma, che è quella appunto di essere oggetti. L'intelletto non trova dentro di sé ogni singola e determinata cosa, trova le ragioni della determinazione della cosalità stessa. Ciò che esso fonda non è la realtà empirica dell'esistente, ma la forma di essa nell'esperienza, la possibilità di un'esperienza effettiva a partire dall'esperienza possibile.60 L'intelletto, contenendo nei suoi concetti e nelle sue proposizioni lo schema puro di ogni esperienza possibile, ha un uso soltanto quando è empirico, cioè quando questi concetti si riferiscono ad oggetti di un'esperienza possibile: apparenze. Non vi è esperienza possibile che verta su cose in generale e cose in se stesse61.

“Da ciò segue ora incontestabilmente, che i concetti puri dell'intelletto non possono mai essere di uso trascendentale, ma dovranno invece essere sempre di uso empirico, e inoltre, che le proposizioni fondamentali dell'intelletto puro potranno venir riferite soltanto – in rapporto con

58 Ivi, p.138. 59 Ivi, p.148.

60 “Del resto ogni esperienza, oltre all'intuizione dei sensi, con cui qualcosa è dato, contiene ancora un concetto dell'oggetto che è dato, o appare, nell'intuizione: perciò i concetti di oggetti in generale staranno, come condizioni apriori, a fondamento di ogni conoscenza di esperienza.” (Ivi, pp.148-149).

61 “L'uso trascendentale di un concetto, in una qualsiasi proposizione fondamentale, consiste nel riferimento di tale concetto a cose in generale e in se stesse, mentre l'uso empirico consiste

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