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5. ASPETTI DI USO, PRODUZIONE E SCAMBIO

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5. ASPETTI DI USO, PRODUZIONE E SCAMBIO

Terminata l’analisi dei materiali inediti tenteremo ora di fornire un’immagine del contesto a cui questi appartenevano. L’indagine sarà ora condotta seguendo i tre ambiti disciplinari della storia della cultura materiale: i tre aspetti dell’uso, della produzione e dello scambio816, fortemente interrelati tra loro.

5.1. USO

Definire l’ambito di utilizzo di gioielli e amuleti significa tentare di comprendere le motivazioni principali e secondarie che portavano gli antichi fruitori ad indossarli, muovendoci in questo caso tra le due possibilità del fine pratico, estetico e di quello simbolico o magico-religioso. Sarà inoltre necessario ritornare alla distinzione arbitraria già utilizzata tra le tre categorie di gioielli, amuleti e scarabei perché gli studi precedenti non hanno potuto prescindere da questa suddivisione nella comprensione degli aspetti funzionali.

5.1.1. GIOIELLI

Per quanto concerne i gioielli una funzione che andasse al di là dell’aspetto estetico non è mai stata messa in dubbio, seppur quasi sempre sottaciuta. Nelle società caratterizzate da un minor grado di complessità rispetto alla nostra, e tra queste quelle antiche, la scelta di indossare gioielli non era dettata dalla sola esigenza di “apparire”, ma anche da necessità di ordine simbolico. Alle caratteristiche estetiche, iconografiche e materiche insieme, degli oggetti preziosi erano attribuite credenze proprie di un popolo, di una società articolata nelle sue classi e di un determinato periodo della sua storia.

Gli stessi termini moderni utilizzati per questa classe di materiali (gioielli,

bijoux e jewels) mostrano una derivazione dal latino iocalia, che traduce pienamente il

greco athyrmata col significato di “trastulli”, “giocattoli”, “ornamenti”. E già nelle fonti relative alle civiltà classiche si coglie l’afferenza di questi oggetti alla sfera simbolica ed il passaggio da elemento di significazione molteplice ad oggetto

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puramente decorativo817. Tale processo appare giunto alla sua compiutezza già nella prima età imperiale, secondo quanto si evince dalle testimonianze di Plinio818 e Macrobio819. Ma per quanto meglio riguarda il periodo in esame e la civiltà fenicio-punica la scarsità e la qualità dei testi scritti relativi a quest’ultima ci è di poco aiuto. Il glossario desumibile dai testi dell’Antico Testamento, spesso portato a supporto della lacuna letteraria fenicia, presenta due termini principali per designare gli ornamenti:

‘ădî, traducibile con “oggetto da indossare” e kĕlî zāhāb o kesep che significano

“oggetto realizzato in metallo prezioso”820. Meno in generale i termini usati per ogni singolo tipo di oggetto tendono a ridurlo alle sue specifiche caratteristiche materiche, formali, di realizzazione, di funzione, di valore o di simbolismo821, e tra queste non irrilevante dovette essere quella pertinente alla sfera religiosa e sacrale822.

L’aspetto materico impone ed ha imposto negli studi tipologici un ulteriore distinzione in seno a questa categoria di athyrmata: gioielli in metallo e in materiale non metallico. Se i metalli preziosi possono essere, e difatti lo erano, indicatori di uno status sociale elevato non di meno erano attribuiti loro valori in virtù delle loro proprietà chimiche o fisiche. Così da sempre l’oro è simbolo dell’incorruttibilità e della purezza, al pari dell’argento che si presenta bianco nel suo stato naturale. Per gli stessi motivi i due metalli possono trovarsi uniti in una lega, l’elettro, che conferiva all’oggetto le due diverse caratteristiche823, o nella tecnica della placcatura, per cui solo l’aspetto del metallo più nobile sarebbe risaltato. Inoltre quei gioielli che si univano in maniera “forte” al corpo, tramite foratura del lobo o del naso, dovevano possedere un altrettanto forte significato che ne giustificasse le motivazioni per cui erano portati. Così ecco presentarsi l’aspetto rituale del gioiello: in tutte le culture, anche le più complesse, i riti che segnano i passaggi da uno stato ad un altro (età, condizione sociale, etc.) per rendere riconoscibile a tutti l’avvenuto passaggio possono prescrivere l’uso di segni tra i quali rientrano tatuaggi e gioielli. Se per questi ultimi ci

817 Guaitoli 1997, p. 22.

818 Plinio Naturalis Historia, XXXIII, 8-41, sull’origine degli anelli e sul passaggio dalla destinazione funzionale a quella di qualificazione dello sfarzo e del lusso, cit. in Guaitoli 1997, p. 22,.

819 Macrobio Saturnalia, VII, 13, 11-13, in cui si riporta per voce di Cecina Albino un frammento del giurista Ateio Capitone, console nel 5 d.C., di argomento analogo al succitato passo di Plinio, cit. in Sfameni Gasparro 2003, p. 20.

820 Bénichou-Safar 1996, p. 525. 821 Ibidem.

822 Ib., p. 23.

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sono in qualche modo utili ed indicative le circostanze del rinvenimento archeologico, la insufficiente nozione dei primi824 è di scarso aiuto nel tentativo di ricostruire le modalità e le circostanze in cui questi riti potevano occorrere. La morte è senz’altro un momento contrassegnato in tutte le culture dal rito e l’archeologia ce ne da l’evidenza, nella provenienza quasi esclusivamente funeraria dei gioielli. La destinazione esclusivamente funeraria degli ornamenti è un argomento che per essere formulato dovrà tener conto anche delle caratteristiche degli altri tipi di oggetti, come amuleti e scarabei, per i quali si rinvia alle pagine successive. Tuttavia nel 1994 G. Garbini in un contributo dedicato all’escatologia funeraria dei fenici d’Occidente825, dopo aver lamentato l’insufficienza dell’analisi storico-religiosa sino a quel momento condotta sugli oggetti di ornamento fenicio-punici826, proponeva una destinazione “quasi” esclusivamente funeraria in relazione ai gioielli827. L’analisi del Garbini era fondata sul riconoscimento di alcune iscrizioni, su gioielli e non solo, che permettono di riconoscere l’accettazione da parte dei cartaginesi, e così anche dei territori coloniali da loro controllati, di credenze escatologiche di origine egiziana. I due gioielli da questi analizzati erano costituiti da laminetta d’argento arrotolata entro un astuccio rinvenuto in una tomba non identificata di Tharros e di un anello in oro con castone circolare appartenente ad una collezione privata. Il primo oggetto828 appartiene ad una tipologia ben nota nel mondo fenicio e punico829 e riportava, oltre all’iscrizione fenicia830, secondo una prassi usuale su questo tipo di lamine un corteo di divinità egiziane noti come “decani”. La recezione di queste figure e del loro significato da parte dei fenici d’Occidente è stata recentemente analizzata da R. Ben Guiza831 che ha riconosciuto la funzione di protezione per i vivi dai pericoli provocati dalla dea

824 Faccenna 1996.

825 Garbini 1994, pp. 83-118 (cap. XI: Iscrizioni funerarie ed escatologia). 826 Ibidem, p. 107.

827 Ib., p. 108.

828 Ib., pp. 93-96; Garbini 1982, pp. 462-463; per la bibliografia completa v. Ben Guiza 2005, pp. 65-66

(argent-I).

829 Si v. da ultima Quillard 1987, pp. 86-110.

830 Se ne riporta qui la traduzione: “proteggi ‘bd’ figlio di Šmšy davanti ai possessori della bilancia”: Garbini 1994, p. 95.

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Sekhmet832. La destinazione “terrena” di questa tipologia di materiali è assicurata inoltre dalla presenza di tracce di usura sulla superficie degli astucci833.

L’anello esaminato dallo studioso834 presenta invece nella metà superiore del castone l’iscrizione tzk lr‘ ’yt tb šl (“illuminerai a Ra la sua venuta”835) ed in quella inferiore una nave. L’iscrizione unitamente alla nave raffigurata sembrano tradire un’elaborazione fenicia del culto solare e del pensiero escatologico egiziano836, inoltre sul presente oggetto il Garbini notava la mancanza di tracce di uso a riprova di una destinazione funeraria della categoria. L’anello tuttavia pone alcuni problemi già in parte sollevati dalla Pisano allo scopo di metterne in dubbio l’autenticità837: per quanto l’iscrizione assegni una datazione al 650-550 a.C., la tipologia dell’anello impone una cronologia ben più tarda, da porre forse entro la prima metà del IV secolo838. L’oggetto pare infatti composto di due parti distinte: il tondo su cui è l’iscrizione sarebbe stato inserito successivamente nel castone dell’anello, la cui paternità della stessa oreficeria punica è messa in dubbio dalla Pisano839, e potrebbe spiegare l’assenza di tracce d’usura.

Queste considerazioni rendono pertanto molto debole un tentativo di ascrivere i gioielli fenicio-punici alla sola sfera funeraria, quand’anche una seppur inferiore presenza nei santuari sarebbe contraddittoria840, tentativo che costituirebbe un completo rifiuto del significato “terreno” e della funzione decorativa che non può comunque esser messa in dubbio per questi oggetti.

Peraltro durante la vita dovevano essere numerose le occasioni e le festività in cui potesse esser prescritto l’uso di gioielli. H. Bénichou-Safar ha proposto, sulla base di una personale lettura delle fonti bibliche e delle iscrizioni puniche, di individuare nel tophet il luogo in cui il cittadino, o l’aspirante tale, si sarebbe “sottoposto al giogo”

832 Ibidem, p. 63.

833 Ib., p. 58; Quillard 1987, p. 103.

834 Garbini 1983, pp. 95-99; Garbini 1989; Garbini 1994, pp. 96-105, tav. VIII. 835 Ibidem, p. 101.

836 Ib., pp. 104-105.

837 Pisano 1995d, pp. 58-60, tav. VII

838 Pisano 1974, nn. 122-123 in argento e oro, 124 in oro (anelli tipo III b, con motivo della palmetta in filigrana), v. anche p. 54 in cui menziona l’unico confronto datato in bronzo della I metà del IV sec. da Ampurias; il tipo è attestato anche a Sulcis da un anello in oro che presenta sul castone una rosetta a otto petali e intarsi in pasta vitrea: v. § 2.1.1; Bernardini 1991, tav. V, 1.

839 Pisano 1995d, p. 60.

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della divinità841. Questo atto di profonda sottomissione sarebbe stato sancito dall’indossare un giogo simbolico, come un gioiello: una collana, un orecchino o un

nezem842. In seguito a quanto detto a proposito degli orecchini ad estremità avvolte a spirale843 e della modalità di inserzione nel lobo (o nel naso), pensiamo di poter proporre questi come possibili protagonisti di questa cerimonia. La tesi dell’autrice, è necessario notare, non ha goduto di particolare fortuna in ambito accademico, e il tema dei riti praticati nei tophet è da tempo vexata questio dell’archeologia fenicio-punica844, motivo per cui discutiamo qui il tema solo a scopo di completezza senza prendere posizione in merito.

Tra i gioielli in materiale non metallico i vaghi in pasta vitrea con decorazione “a occhi”, ottenuta dalla inserzione a strati di gocce di vetro di diverso colore, possedevano un presunto valore apotropaico845. Il motivo dell’occhio è una costante che ricorre nella cultura materiale di numerose civiltà846 e trova giustificazione nella credenza che il potere dello sguardo di determinate divinità, forze ultraterrene o comuni mortali (malocchio), potesse essere dannoso e che a questo potessero fare da deterrente uno o più occhi sostitutivi847. Quali fossero i principali destinatari di tale tipo di protezione non è possibile stabilire sulla base della documentazione sulcitana: la maggior parte proviene infatti dalla necropoli punica e sembra così indicare una prevalente componente di età adulta, d’altro canto lo stato di conservazione dei vaghi rinvenuti nel tophet, e destinati a fruitori di età infantile, non consente spesso una corretta identificazione. Peraltro la documentazione di Ibiza, seppur parzialmente analizzata in maniera scientifica, indica come non esistesse una “marcada división a nivel simbólico entre adultos y niños a pesar de la mayor riqueza aparente de los ajuares de los primeros”848.

841 Bénichou-Safar 1993.

842 Safar 1996, in particolare pp. 530-531; e contestualizzazione nell’ambito del tophet: Bénichou-Safar 2004, p. 54, nota 279.

843 NN. 35-36.

844 V. Bernardini 2006 come ultimo contributo edito al riguardo.

845 Ruano Ruiz 1996, pp. 79-81, relativamente alla situazione iberica in cui si riscontra una maggiore presenza nelle sepolture infantili di età punica.

846 Vàzquez Hoys 2000, § 1.2; sul valore apotropaico dell’occhio di Horus (udjat) v. più avanti. 847 Ruano Ruiz 1996, p. 80.

848 Gomez Bellard C., Gomez Bellard F., (1989). Enterramientos infantiles en la Ibiza fenicio-púnica. In Cuadernos de Prehistoria y Arqueologia Castellonenses vol. 14, pp. 211-239, p. 230, cit. in ibidem, p. 79.

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Sull’aspetto funzionale di alcuni gioielli illuminano il n. 3 del catalogo (da integrare probabilmente con il n. 4) e quello rinvenuto nella tomba 11 AR (n. 77), i quali testimonia l’uso di anelli “sigillari”. Per le loro dimensioni però difficilmente potevano essere portati al dito, più facilmente invece al collo dimostrandosi così del tutto analoghi agli scarabei, sui quali ritorneremo più avanti. Sarà solo doveroso ricordare che nella glittica, così come sugli anelli, siano quasi sempre solo raffigurate scene o iconografie, egittizzanti o greche, mentre siano ben più rare iscrizioni in caratteri fenici: proporzionalmente queste sembrano essere più numerose sugli anelli, si citano qui i due esempi sardi di un anello dalla tomba 26 di Nora849 e di quello rinvenuto nel 1862 da A. Roych in località Villaperuccio (forse l’insediamento fenicio di Pani Loriga)850.

5.1.2. AMULETI

Ulteriori e più numerosi spunti di discussione sono forniti invece dalla categoria degli amuleti, sebbene in mancanza di fonti scritte il discorso rimanga per lo più ipotetico. Partendo dall’etimologia si nota come il termine amuletum compaia per la prima volta in Plinio851 derivato da una radice semitica ancora presente nell’arabo moderno

hamulet, usato per designare genericamente qualcosa “che viene indossato”852. Già il Petrie proponeva di attribuire ai fenici, per il tramite di Cartagine, la diffusione del termine in Occidente853, il quale avrebbe verosimilmente accompagnato gli oggetti che designava.

In un ottica macroscopica le opinioni degli studiosi nei riguardi di questa categoria artigianale si limitano nel riconoscere una più o meno forte valenza magica854 se non addirittura a postulare un “somero conocimiento del valor profiláctico de la imagen o el símbolo”855. Ma questa generale afferenza alla sfera magico-religiosa non può che essere subordinata alla funzione di ogni singola tipologia e iconografia. Se infatti gli amuleti egiziani ed egittizzanti rivelano la

849 Guzzo Amadasi 1967, sard. 33, p. 112, tav. XLIII; Chiera 1978, p. 76-77, tav. V, 3 (nome: ’zb‘l ) 850 Guzzo Amadasi 1967, sard. 11, p. 93, fig. 13; Garbini 1983, pp. 461-462 (nome: Bst’drt ). 851 Plinio Naturalis Historia, XXIX,4.

852 Per primo Petrie 1914, p. 1; da ultima Martini 2004, p. 15.

853 Petrie 1914, p. 1, in cui giustifica la deduzione sostenendo come questi fossero “l’unica fonte di termini semitici nei mari occidentali prima del periodo romano”.

854 Scandone Matthiae 1988, p. 22. 855 Marin Ceballos 1998.

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diffusione di credenze magiche egiziane nel mondo punico, quelli legati invece alla tradizione figurativa punica sono rivelatori di credenze autonome e proprie di tale cultura. La fortuna della magia egizia in ambito punico è dovuta al fascino che questa civiltà suscitò e suscita nel corso del tempo, e giustificabile, come spiega esemplarmente S. Ribichini, con la frequente provenienza “estera” della magia in numerose civiltà antiche e moderne856. In un tale assunto riteniamo tuttavia risieda un duplice difetto: oltre al fatto di generalizzare in merito ad una categoria che conosce una duplice articolazione di tipo tipologico-iconografico e di tipo spazio-temporale, ha scoraggiato a lungo l’analisi particolareggiata delle valenze che sottostavano ad ogni singolo tipo, simbolo o divinità rappresentata. È doveroso partire in questa analisi dalle valenze che caratterizzano il singolo tipo nell’ambito di provenienza, tenendo conto di differenti ambientazioni di classe sociale, età e sesso; considerare inoltre eventuali contesti di transizione e infine quelli di destinazione857: in ambito occidentale, vista la carenza di fonti scritte, i dati disponibili sono di tipo archeologico e prevalentemente funerario. Ci troviamo quindi di fronte ad un vero e proprio fenomeno di

acculturazione858 particolarmente articolato, che probabilmente non raggiungeva le sole classi privilegiate, ma anche strati più umili della popolazione. È perciò plausibile che a differente livello sociale del fruitore corrispondesse una equivalente consapevolezza delle caratteristiche dell’amuleto: una profonda conoscenza delle formule profilattiche egiziane è riconoscibile negli astucci porta-amuleti e in particolare nelle lamine di oro e argento che essi contenevano. Queste infatti presentano iscrizioni in lingua punica che rispettano formulari egiziani, il che presuppone un contatto diretto con la cultura egiziana e un’intima conoscenza delle sue credenze859. Tali manufatti sono tuttavia realizzati in metallo prezioso, tale da renderne possibile l’accesso ai soli personaggi abbienti860. I tipi di amuleti in materiali

856 Ribichini 1976, p. 150. Per la presenza di pratiche magiche in ambito punico v. anche: Ribichini 1987b. Per la definizione di “magia” v.: Ribichini 1998; Brelich 1976.

857 De Salvia 1978, p. 1015, nota 24, in cui l’autore distingue il processo di questa particolare acculturazione in una dinamica orizzontale o geografica e in una verticale o cronologica.

858 Per una definizione del concetto di “acculturazione” v. Signorini 1992, pp. 58-61.

859 Ribichini 1987b, p. 36; per la tipologia degli astucci porta-amuleto v. Quillard 1987, pp. 1-11, 86-110; per la destinazione funeraria di questi come di altri tipi di gioielli v. supra; per le tracce di contatti diretti tra cartaginese ed egiziani fornite dall’epigrafia v. più avanti § 5.3.

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meno pregiati, e disponibili anche nella versione aurea861, erano altresì portati dagli stessi ma accessibili a più strati della popolazione. Sebbene questi amuleti siano per lo più “muti” non mancano tuttavia iscrizioni alla base che oltre ad indicarne il generale ambito di provenienza, quando redatte in geroglifici egiziani, gettano luce sulla funzione stessa dell’amuleto862 e sull’acquisizione diretta dalla fonte egiziana della credenza a quella funzione correlata. Iscrizioni presenti su importazioni egiziane, così come su prodotti occidentali, riportano brevi formule augurali e nomi, sia regali che privati, a testimonianza della conoscenza del valore benaugurale ad essi attribuito in Egitto. Non mancano poi geroglifici riportati in maniera apparentemente acritica, indiziari di una produzione extraegiziana, come nel n. 31 del nostro catalogo il cui significato magico era garantito dal solo essere geroglifici, e la loro associazione, frutto di una giustapposizione, non trova confronti nella lingua egiziana. Ad un terzo livello, inteso in senso concettuale ma con una probabile corrispondenza cronologica, sono da attribuire gli amuleti in cui gli attributi, iconografici e geroglifici, sono oggetto di schematizzazione o sono resi in maniera geometrica. Ad essi si può attribuire una deriva del significato intrinseco originario: nei nostri pateci ad esempio la perdita degli attributi panteistici è la spia di un allontanamento dal pieno valore originario della divinità863; ne fa da corollario la progressiva sostituzione delle iscrizioni geroglifiche con motivi geometrici864 e occasionalmente qualche iscrizione in lingua fenicia865.

Un merito si deve riconoscere invece all’autrice di recenti pubblicazioni, che nello studio di amuleti e gioielli rinvenuti nelle recenti indagini a Monte Sirai866 e di quelli appartenenti ad una collezione sulcitana, ha focalizzato l’attenzione sulle caratteristiche sensibili dell’ultimo fruitore di ogni singola tipologia, individuando quelle maggiormente funzionali alla sfera infantile e femminile. Si illumina quindi un aspetto importante e non scontato dell’uso di questa categoria: principali destinatari di

861 Per un esemplare in oro di pateco da Cadice v. per primo Marin Ceballos 1976; un altro cartaginese in Quillard 1978; un pateco in avorio con appiccagnolo in oro in Vercoutter 1945, p. 294, n. 822, tav. XXII. 862 Conti 2000a.

863 Di diversa opinione è E. Acquaro (Acquaro 1984, p. 115) il quale ritiene che l’evoluzione figurativa trovi “corrette ipotesi interpretative […] (in) una fenomenologia esclusivamente figurativa”. All’artigiano insomma al termine di questo processo sarebbero bastate poche incisioni per richiamare l’iconografia originaria, che non sarebbe andata persa nella mente del fruitore.

864 Conti 2000a.

865 Ibidem, p. 25-26; più attinenti il n. 64 del nostro catalogo e l’amuleto tharrense pubblicato dallo Spano in BAS, anno II (1856), pp. 72-74; v. inoltre § 4.2.4.

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protezione dovevano essere quelle categorie di individui maggiormente soggetti a pericoli come la mortalità infantile e quella per parto. L’associazione di amuleti e gioielli, di cui abbiamo ricordato il valore profilattico, a sepolture infantili e femminili, quando riconosciute come tali, parla chiaramente. Il fenomeno è documentato in Sardegna867, in Spagna e a Cartagine868 sia in epoca arcaica che pienamente punica, per quanto riguarda le sepolture infantili. La frequenza di athyrmata nel tophet conferma questo status anche a Sulcis, ma la mancata conservazione dei resti ossei nelle sepolture di individui adulti nella necropoli non consente di verificare la destinazione ad individui di sesso femminile.

Ne risulta quindi un panorama che conosce una forte articolazione, la quale per la maggior parte può essere solo presupposta. A questo problema di definizione dei destinatari si aggiunga inoltre l’opinione di alcuni studiosi che interpretano le divinità rappresentate dagli amuleti, o da alcuni di loro, come oggetto di culto o venerazione, ma con atteggiamenti leggermente diversi:

• Alcune divinità egizie come Iside, Osiride, Horus, Bastet869, Apis e Ptah, sarebbero

state oggetto di un culto “individuale”, popolare o elitario, loro tributato870, testimoniato dall’onomastica: i nomi teofori di divinità egiziane che attualmente risultano generalmente diffusi solo nel Levante e a Cartagine871.

• L’ingresso di divinità egiziane a livello ufficiale nel pantheon fenicio-punico si spiega con il carattere eclettico di questa religione, sebbene attenda ancora di essere dimostrata la venerazione di divinità egiziane tout court in piena epoca classica872.

867 Taramelli 1912, coll. 150-154.

868 Padró I Parcerisa J., (1981). Las divinidades egipcias en la Hispania Romana y sus precedentes. In AA.VV., (1981). La religión romana en Hispania. Madrid, p. 341-343, cit. in Martini 2000, p. 130, nota 28.

869 Nella presente ottica potrebbe essere considerata la diffusione levantina tra amuleti e avori dell’iconografia della sfinge con testa umana. E. Gubel ne attribuisce la propagazione ai fenici impegnati nella costruzione del tempio di Bastet a Bubastis nel Delta egiziano, o comunque alla loro attività in questa regione: Gubel 1998, pp. 638, 644, per un esempio tra gli amuleti v. fig. 5.

870 Ribichini 1975, p. 13,

871 Per il Levante: ibidem; Lamaire 1984; per Cartagine: Halff 1965, p. 74; per la Sardegna si cita il nome teoforo (Bst’drt = “Bastet è potente”) inciso sul castone di un anello aureo proveniente da Villaperuccio (sic = Pani Loriga?) e ormai perduto: v. Garbini 1983, pp. 461-462; Guzzo Amadasi 1967, Sard. 11, p. 93, fig. 13; cfr. nota 850.

872 È eloquente l’interpretazione del dio Sid (= Djed) venerato ad Antas proposta da Lipinski 1995, pp. 332-350, e la critica mossa in Minunno 2005, p. 276, nota 76. Per le altre divinità egizie v. Lipinski 1995, pp. 319 e segg. Più contenuta l’opinione di J. Padrò (Padrò 1999), che ammette per gli oggetti di adorno una giustificazione di “carattere magico o religioso” (p. 95) e si limita a riscontrare la continuità di presenza di alcune divinità in epoca romana-ellenistica come Bes, Amon (= Giove), e gli dei del ciclo di Osiride (p. 96).

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• Le iconografie egiziane rivelerebbero solamente l’aspetto esteriore di divinità propriamente fenicie: un caso è quello di Iside/Astarte e forse quello del giovane Horus873. L’Egitto insomma avrebbe messo “a disposizione le proprie iconografie religiose”874.

Le tre opinioni proposte da eminenti autori sono rivelatrici di atteggiamenti differenti nei confronti del rapporto tra la religione egizia e quella fenicia, in cui potrebbe avere parte questa categoria artigianale, atteggiamenti che possono avere la loro ragion d’essere se applicati a tipi, iconografie e situazioni o ambiti culturali distinti. In questo momento più che mai è auspicabile un’analisi che verifichi le caratteristiche di ogni singolo tipo amuletico, come abbiamo denunciato più sopra. In questo lavoro tuttavia non è previsto un tale approfondimento, sarà invece data attenzione ai tre tipi amuletici maggiormente rappresentati nel mondo punico, sulcitano e delle ultime tombe scavate dello stesso centro: l’occhio udjat, lo Ptah-pateco e il serpente ureo, nello specifico interesse di individuare un’eventuale funzione funeraria per questi tipi.

L’udjat è uno dei simboli più noti dell’antico Egitto e la particolare frequenza con cui incorre tra gli amuleti, e non solo, fenicio-punici ha senz’altro contribuito alla sua fortuna e diffusione. Il significato del termine udjat (o wd3t) è quello di “occhio sano di Horus”875: secondo il mito egiziano infatti durante la lotta con Seth, Horus avrebbe perso l’occhio sinistro, miracolosamente salvato e “riempito” da Thot, dio della luna876. Il carattere solare del dio Horus nella sua forma più antica è coerente con una prima valenza magica dell’amuleto in funzione dei vivi: l’amuleto donava forza, vigore fisico, buona salute, etc. al suo portatore, così come il sole, nell’immaginario egiziano, forniva forza motrice al falco, animale del quale il dio Horus prendeva le sembianze877.

In una versione più recente il mito vedeva Horus figlio di Osiride, dio dei morti, vendicare la morte del padre nella consueta lotta contro Seth. L’aiuto del dio nei confronti del padre, in coincidenza con la diffusione dell’osirizzazione a partire dal 873 Hölbl 2004, p. 78. 874 Ibidem. 875 Verga 1981, p. 23, nota 2. 876 Ibidem, p. 15. 877 Ib., pp. 15-16.

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Medio Regno, processo evolutivo religioso per quale il defunto si identificava con il dio Osiride, avrebbe contribuito all’emergere della funzione funeraria dell’amuleto e del simbolo rappresentato. Da questo momento il morto riponeva in esso le proprie speranze per l’ascesa al mondo ultraterreno, a tal scopo il “Libro dei morti” al capitolo CXL prescrive la realizzazione di un amuleto in lapislazzuli e oro, e di un secondo in corniola. Al primo dovevano essere fatte offerte di “tutte le cose buone e pure”, mentre l’ultimo andava posto su una parte del corpo878.

Un’ulteriore più semplice interpretazione vedrebbe nell’udjat la luna, l’occhio sinistro di Horus, così come il destro rappresenta il sole. Così il carattere speculare degli amuleti egiziani, e dei nostri punici incisi sui entrambi i lati, si adatta a tale ambivalenza assicurando un più ampio spettro di protezione. In generale infatti, prescindendo dalle complesse speculazioni e mitologie egiziane, che possono aver suscitato curiosità nei non egiziani ed aver accompagnato la fortuna di questi amuleti, si ritiene l’occhio rappresentato su amuleti e vaghi di collana879, ma anche sulla ceramica880 e sulle uova di struzzo881, possegga un particolare valore apotropaico di difesa dal malocchio, secondo il principio omopoietico della magia: contra similia

similibus882. Allo scopo di costituire un aiuto nel prevedere pericoli non altrimenti

visibili, gli occhi venivano anche dipinti o scolpiti sulla prua delle navi883.

La grande frequenza nelle tombe puniche degli udjat non deve trarre in inganno su un carattere esclusivamente funerario, non mancano infatti attestazioni nei santuari, sia orientali884 che occidentali885.

Il pateco invece, come già accennato nell’analisi tipologica dei nuovi esemplari sulcitani886, è una divinità o genio protettore le cui individuazione si basa su un passo delle Storie di Erodoto (III, 37) in cui l’autore descrive il disprezzo con cui Cambise derise le immagini del dio Ptah-Efesto, simili a quelle dei “pateci fenici, che i fenici

878 Bresciani 2001, pp. 666. 879 V. supra.

880 Campanella, Martini 2000, p. 46, nota 54. 881 V. il recente studio in Savio 2004. 882 Vázquez Hoys 2000.

883 Bartoloni 2000b, p. 92. 884 Kition II 1976, tavv. XVI-XIX.

885 Antas 1997, p. 106; Phoinikes 1997, pp. 278-279, nn. 234-241. 886 V. supra.

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portano sulle prore delle triremi”887. Aggiunge inoltre che, per chi non li avesse visti, somigliano ai pigmei888.

Un interesse non meramente tipologico ha mosso V. Dasen nell’intraprendere uno studio sulla figura del pateco in Egitto889. L’autrice ne ha delineato lo sviluppo iconografico e storico-religioso in Egitto, presupposto minimo per comprendere la possibile funzione degli amuleti che lo rappresentano nel mondo fenicio occidentale890. Una primo argomento di studio riguarda il nome: il termine pateco può risultare scorretto. La sua etimologia non è del tutto chiara: l’ipotesi più affermata è che si tratti di un diminutivo del nome del dio Ptah891, mentre non viene presa in considerazione la possibilità che si tratti di una sua vocalizzazione alla greca. Un ulteriore ipotesi di interpretazione vedrebbe il termine provenire da una radice fenicia e presente in greco nel verbo πατασσω, col significato di “colpire” e “percuotere”, in riferimento all’azione della prua della nave, sulla quale il pateco aveva funzione di polena892. Il nome Ptah invece è giustificato dalle iscrizioni geroglifiche presenti sulle sue rappresentazioni, nelle occasioni in cui fanno il nome della divinità893, ma non mancano menzioni di Sokar894 e del dio Atum, che si celerebbe dietro i cosiddetti “trigrammi panteistici” spesso presenti sulle basi895.

L’evoluzione iconografica è altrettanto poco definita, ma si avverte dal Terzo Periodo Intermedio (1069-702 a.C. circa), sino a tutta la bassa epoca, un aumento della complessità rappresentazionale nell’aggiunta di elementi e attributi quali la corona

atef, eventuali ali, i coccodrilli e i falconi sulle spalle, e dalla dinastia Saita in

particolare l’associazione alle divinità della triade Horus-Iside-Nephtys896. Più precisa è invece la ricostruzione della sua evoluzione storico-religiosa dalla quale si

887 Erodoto Storie, III, 37.2. 888 Ibidem.

889 Dasen 1993; v. il più recente e sintetico contributo in Dasen 2005.

890 Cfr. la menzione di questo studio nel recente intervento di D. Gomez Lucas: Gómez Lucas 2004. 891 Ibidem p. 130.

892 V. Elayi, Elayi 1986, p. 4-5, nota 17. Secondo gli autori il termine pateco designerebbe la polena e non l’oggetto rappresentato.

893 Gomez Lucas 2004, p. 130, nota 2. v. anche Koenig 1992, p. 127, nota 15, per il quale la relazione con il dio Ptah si dimostra secondaria ai fini dell’interpretazione delle figurine.

894 Gomez Lucas 2004, p. 130; Amenta 2002, p. 164.

895 Ibidem; per i “trigrammi panteistici” v. Koenig 1992, p. 127; Ryhiner 1977. Questi rebus tuttavia sembrano costituire un fenomeno di sincretismo che farebbe la sua comparsa in piena età ellenistica e che non pare comunque noto alle popolazioni fenicie occidentali.

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comprende come immagini di nani, presenti sin dall’epoca predinastica e connesse con concetti di fertilità e protezione, vadano scomparendo nel Nuovo Regno per la comparsa dello Ptah-pateco ed il sorgere a rango di divinità di Bes, prima relegato esclusivamente alla sfera domestica ed al quale il pateco pare spesso associato. Al concetto di fecondità si vanno ad aggiungere quindi quelli di rigenerazione del dio Ra, del quale ad esempio porta lo scarabeo sul capo897, nonché di altre divinità del mondo funerario quali Osiride, Min e Sokar898. Quali intermediari di queste divinità gli dei nani svolgono infine una funzione apotropaica, come apprendiamo da un papiro del Nuovo Regno che riporta la formula da recitare sopra un nano di terracotta in occasione del parto di una donna899. Il valore apotropaico dello Ptah-pateco è d’altronde sempre rimasto soffuso negli studi fenicio-punici sugli amuleti perché affiancato da altre possibili funzioni di tale amuleto: non ultima quella che lo vuole protettore dai morsi di serpenti o altri animali nocivi e quella che lo interpreta come patrono di categorie artigianali, come orefici, metallurghi o minatori900. Per quanto quest’ultima possibilità appaia suggestiva per l’ambientazione sarda e cipriota della tipologia amuletica e non solo901, è in contrasto con quanto esposto da V. Dasen, la quale argomenta con una casuale e precoce associazione tra i nani e le attività artigianali nell’Egitto durante l’Antico Regno, associazione che non avrà fortuna nei tempi successivi902. La possibilità non può essere del tutto accantonata tuttavia essendo il pateco un’ipostasi di Ptah, il dio artigiano903. La prima invece trova riscontro in un ambientazione nordafricana, nella cui regione serpenti e scorpioni costituivano un vero flagello a detta di Plinio904, ma andrà ricusata sulla semplice osservazione che in Sardegna, in cui è grande la frequenza di amuleti raffiguranti lo Ptah-pateco, di serpenti, scorpioni o altri animali velenosi non vi è mai stata traccia.

Va notato che la presenza di questa divinità tra gli amuleti nella fase precedente l’inizio della dominazione cartaginese in Sardegna non è cospicua come nella fase successiva. La fine del VI secolo, e più in generale il V, in Sardegna, come nel resto

897 Ibidem, p. 138 e 141. 898 Ib., p. 142-143.

899 Papiro Leiden I, 348, cit. in ib. p. 140. 900 Kition II 1976, n. 6, p. 125.

901 Cfr. le figurine in terracotta diffuse a Cipro e in Fenicia: ibidem, p. 126. 902 Gomez Lucas 2004, p. 134.

903 Riteniamo si tratti comunque di un carattere secondario nella valenza profilattica dell’amuleto. 904 Plinio, Naturalis Historia, V, 7 e XI, 30, cit. in Ribichini 1987, p. 36, nota 6.

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del mondo fenicio-punico905, segna un notevole incremento nella presenza, e naturalmente della richiesta, di questa tipologia così come di tutta la categoria artigianale906. Il caso della necropoli arcaica di Monte Sirai, in generale e per quanto concerne il Sulcis in particolare, è emblematico: tra i non numerosi amuleti rinvenuti nelle sepolture sinora scavate i pateci figurano con un solo esemplare907. Delle tipologie di pateci maggiormente diffuse in Etruria sino alla fine del VI secolo, quelli con ventre prominente, braccia separate dal corpo, tempie sporgenti e con serpenti ai lati908, e presenti anche a Cipro909, ad esempio non vi è traccia nelle collezioni sarde910. Cartagine dovette avere quindi una certa responsabilità in questo cambiamento di gusto: nel momento in cui si può riconoscere una produzione locale in Occidente, in autonomia rispetto alle importazioni dall’Egitto o anche da centri vicino orientali, nella ricca gamma delle tipologie egiziane disponibili vengono selezionati i tipi che più rispondevano alle necessità di protezione richiesta a questo tipo di oggetti911. La nuova madrepatria in sostanza impone, non dichiaratamente e senza coercizione si intende, il proprio marchio all’offerta e alla domanda di oggetti profilattici della sfera personale, così come in altri aspetti della cultura materiale912 e il pateco in questo ambito ha un ruolo di primissimo piano. Alla base di questa selezione potrebbe essere un processo che avrebbe portato all’ascesa di questa divinità o genio nella stessa madrepatria, e la sua diffusione in Sardegna sarebbe avvenuta con lo spostamento di quegli stessi individui che la veneravano, o meglio le dimostravano devozione, a Cartagine. A verifica di tale ipotesi si potrebbe cercare di individuare se a Cartagine la massiccia presenza di questi amuleti si riscontri gia prima dell’inizio della sua politica

905 Padró 1999, p. 94.

906 Campanella, Martini 2000, p. 51, nota 86.

907 Cfr. ibidem; Martini 2000; per il solo esemplare noto da contesto fenicio v. Bartoloni 2000a, tav. II, d, dalla tomba 88 del secondo quarto del VI sec.

908 V. ad es. Principi Etruschi 2000, p. 136-137, n. 91: collana composta da 38 pateci di probabile origine vulcente e datata al VII secolo.

909 Kition II 1976, p. 145, n. 772, p. 150-151, nn. 1015-1016, p. 162-163, n. 3361, tav. X. I primi tre amuleti provengono da uno strato di VI-metà V secolo, il quarto è molto più antico: seconda metà del IX secolo (p. 11). Non è escluso si possa trattare di prodotti egiziani, almeno per quanto riguarda il n. 772, per via dei geroglifici alla base.

910 V. per la loro consistenza quella di Cagliari (Acquaro 1977b) e quella Sassarese (Acquaro 1982) 911 Campanella, Martini 2000, p. 51, nota 86.

912 V. la sostituzione del rito di inumazione a quello dell’incinerazione e la diffusione delle maschere virili e le protomi femminili, nuove forme ceramiche e importazione di ceramiche attiche in luogo di quelle etrusche, nonché diffusione nel repertorio delle stele di iconografie e tipologie Cartaginesi. Sulla presenza cartaginese in Sardegna v.: Bartoloni, Bondì, Moscati 1997, p. 63 e segg.; in particolare per i cambiamenti nella cultura materiale dell’isola: ibidem, p. 71-72.

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espansionistica913 e quale livello avesse raggiunto l’Egitto contemporaneo nella loro elaborazione, così da capire quali aspetti di questa divinità fossero noti ai loro fruitori occidentali. Sembra per il momento evidente che in Occidente sfuggissero quelle elaborazioni complesse che in Egitto portano ad intendere il pateco come una “divinità ‘pantea’”, o almeno i punici non si spinsero così lontano, “vale a dire frutto di speculazioni alla ricerca dell’Uno e della sua manifestazione nella dimensione terrena, tale da racchiudere la totalità delle manifestazioni del divino”914. Il disinteresse nei confronti di complesse speculazioni teologiche è stato già messo in evidenza nella sfera degli amuleti per l’assenza di altre particolari tipologie, come gli organi animali, il segno sm3, il nodo isiaco, la squadra e la livella, o per la subordinazione di simboli regali come la corona bianca e quella rossa915.

Ancora lontani siamo quindi dal definire l’ambito specifico di questa tipologia e divinità, senza poter affermare più che un generale carattere apotropaico e profilattico. Degli stessi fruitori ci sfugge la caratterizzazione sociale e il sesso. Esso compare tanto nelle sepolture infantili916 che di adulti, nonché in contesti santuariali917, a riprova della sua fortuna, evidente non solo dal numero delle presenze ma da quello dei contesti stessi di presenza. È presumibile tuttavia che ad una così grande fortuna portasse la capacità di soddisfare più esigenze e più categorie di fruitori, motivo per il quale risulta difficile riconoscere una specifica sfera di profilassi.

A queste qualità potrebbe essere anche aggiunta una valenza funeraria, richiamata in Egitto dall’associazione con Osiride, Min e Sokar918 e dallo stesso passo di Erodoto sopra citato con i Cabiri919, divinità venerate sotto forma di nani a Tebe, ma i cui santuari principali erano a Lemnos e Samotracia. Queste divinità erano oggetto di culti misterici ed avevano numero variabile, quando più il loro numero verrà fissato in

913 Purtroppo i dati su Cartagine sono ancora sommari e non godono di datazioni affidabili, rimane ancora insuperato il lavoro di Vercoutter (Vercoutter 1945) ad eccezione dell’articolo di T. Redissi (Redissi 1991) che propone tuttavia un’analisi stilistica non fondata su datazioni fornite dal contesto.

914 Amenta 2002, p. 163. 915 Ferrari 1998, p. 88.

916 Ferrari 1994, p. 85 e relative note. L’autrice fa riferimento ad esemplari rinvenuti nei tophet di Cartagine, Tharros e Sulcis. Per quest’ultimo v.: Bartoloni 1973, p. 192, nn. 28-29, tav. LX, 2 e 9. Va aggiunto il pateco rinvenuto durante le campagne di scavo 1995-1998: Montis 2005, n. 43.

917 Ci si riferisce in questo caso al santuario cipriota di Kition (Kition II 1976, nn. 771, 1015-1016, 3361, cit.) e a quello di Antas nel Sulcis Iglesiente (Antas 1997, pp. 275-276, nn. 222-227).

918 V. supra.

919 Erodoto Storie, III, 37.3 in cui lo storico accosta nella narrazione, ma tiene distinte allo stesso tempo, le immagini di Cabiri, figli di Ptah-Efesto, e (37.2) di Ptah-Efesto, simile ai pateci fenici.

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due, avverrà l’assimilazione con i Dioscuri. Come questi ultimi proteggevano i naviganti dai pericoli del mare, ma inizialmente erano connessi con aspetti della fertilità920. L’aspetto embrionale dei pateci d’altronde richiama concetti di rigenerazione, reincarnazione e alla fecondità del suolo e della natura921. Ai primi due concetti richiama per certo lo scarabeo che porta sul capo e sul cui argomento ritorneremo più avanti nel trattare gli amuleti che portano questa forma.

Alle divinità ctonie, legate per definizione e competenze alla terra, poteva essere richiesto di accompagnare i defunti, che in essa dimorano, nel viaggio verso l’aldilà e di proteggerli dai pericoli del percorso. In virtù di questa probabile ulteriore competenza i pateci trovavano un posto d’onore negli ornamenti personali dei defunti, ai quali venivano posti indosso dopo essere loro appartenuti in vita.

L’ureo è il terzo tipo di amuleto che per frequenza incontriamo nelle tombe sulcitane, condizione che condividono quelle cartaginesi922 e quelle ibicenche923. Il motivo, come nel caso dell’occhio udjat si presta a diverse interpretazioni. In primo luogo la divinità rappresentata può essere la dea Renenutet (Rnnwtt, la greca Hermoutis), in origine protettrice delle messi e per estensione, dalla XVIII dinastia, preposta all’allattamento dei bambini, che continua a proteggere anche dopo la nascita, sebbene la dea cobra più popolare fosse Uadjet (W3dt), non dissimile dalla precedente. Come Renenutet appare nel mito proteggere e allattare il giovane Horus nelle paludi di Khemnis, dove è stato nascosto all’ira di Seth924. Come indica il suo nome (“la Verde” o “la Vigorosa”925) è preposta anch’essa alla protezione del raccolto, ma in senso più lato della vegetazione. Ma importante è nella sua figura il carattere regale, in quanto protettrice della corona rossa del Basso Egitto, insieme alla paredra Nekhbet che proteggeva invece la corona bianca dell’Alto Egitto. Entrambe le dee sul capo del Faraone rappresentavano il dominio sulle due regioni unite.

920 La stessa introduzione del loro culto nell’Egeo era inizialmente attribuita ai primi frequentatori fenici (v. ad es.: Mazzarino 1947, p. 259-260; ma soprattutto Pettazzoni R., (1909). Le origini dei Kabiri nelle isole del

Mar Tracio. ANL Memorie, serie 5, anno CCCV (1908), Roma, cit. in Jesi 1962, p. 262, nota 5), ora

proveniente dalla Frigia. 921 Kition II 1976, p. 125, nota 6.

922 Vercoutter 1945, p. 274. L’autore pone questo tipo al secondo posto nella sua trattazione, ma senza dichiarare il numero degli esemplari.

923 Fernandez, Padró 1986, p. 93. La collezione del Museo di Ibiza e Formentera possedeva all’epoca 51 esemplari.

924 Tran Tam Tinh 1973, pp. 13-14. 925 Da w3d = papiro, la cui pianta è verde.

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Che gli aspetti della regalità egiziana e vicino-orientale fossero noti e apprezzati nell’arte fenicia è fatto che non può essere messo in dubbio926, ma in quale misura e modo fossero rappresentati sugli amuleti è ancora da chiarire. La difesa del raccolto e dell’infanzia sono motivi sufficienti per spiegare la fortuna di questo amuleto, ma secondo una proposta di J. Vercoutter l’ureo sarebbe un’ipostasi dell’udjat: secondo una alternativa versione del mito riportato in precedenza927 Ra avrebbe trasformato il proprio occhio in un serpente928 per difendersi dai propri nemici929. La grande quantità di amuleti dei due tipi è sufficiente per permettere all’autore di notare che i cartaginesi non importassero “au hasard” amuleti in Egitto, ma c’è di più: la proposta di Vercoutter trova una conferma, seppur per quanto ci è noto isolata, nella collana della tomba 5 PGM. Gli amuleti nn. 23-26 (e forse il 27 rinvenuto in setacciatura) in forma di ureo e i nn. 28-29 (e forse il 30 rinvenuto in setacciatura), forse in posizione alternata, componevano una collana appartenuta al defunto della deposizione 1. A completamento della collana era un solo pateco e tre vaghi in vetro con decorazione ad occhi. Gli amuleti più diffusi del mondo punico in una sola collana o su un solo corpo930 dovevano costituire un sistema ormai collaudato contro i pericoli di ogni sorta.

Sotto un’altra prospettiva l’ureo non è una ipostasi dell’udjat, ma tutt’al più il contrario: secondo la studiosa spagnola A. M. Vázquez Hoys il cosiddetto “occhio di Horus” è invece un aspetto complementare della dea-serpente, che a prescindere dalle forme e denominazioni che assume, a partire dal Nuovo Regno è influenzata dal culto solare. L’udjat sarebbe il “complemento femminile” di una divinità androgina, né maschile né femminile, pura energia931.

La stessa autrice, da tempo dedita ad indagare gli aspetti religiosi e magici di questo rettile, ha presentato una serie di aspetti sotto i quali era considerato nel mondo

926 V. al riguardo: Ciafaloni 1995b. In particolare p. 545 per il motivo dell’allattamento legato al culto del re. 927 V. supra.

928 L’associazione deve essere stata suggerita, o alla base, dalla analogia tra wd3t (= occhio di Ra) e w3dt (= cobra).

929 Vercoutter 1945, p. 285.

930 Non è escluso infatti che l’inumato portasse più di una collana o che amuleti e vaghi entrassero nella composizione di braccialetti.

931 Vázquez Hoys 2002; l’identificazione tra la dea Bastet/“occhio del sole” e l’ureo è anche nel testo del racconto post-tolemaico intitolato I dialoghi filosofici della Gatta Etiopica e del Piccolo Cinocefalo o anche noto come Il mito dell’Occhio del Sole: Bresciani 2001, pp. 71-92, in particolare p. 76.

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vicino orientale e occidentale in età preromana932, per cui si comprende come in generale potesse significare “tanto la vida como la muerte”933 ed il tema dell’ouroboros, il serpente che si morde la coda rappresentava secondo Macrobio934 la concezione fenicia dell’universo: simbolo del mondo che si nutre della propria sostanza e ritorna su se stesso935.

Una dea serpente nota precedentemente da un’epigrafe ugaritica936, è stata inoltre identificata in una tabella defixionum cartaginese937, la dea Hwt (da hiwia = serpente) dal carattere ctonio e infernale938. Il serpente appare legato anche al dio Horon, divinità cananea il cui culto era diffuso in Levante e in Egitto dal II millennio. Il dio è invocato negli incantesimi contro i serpenti incisi su due tavolette ugaritiche, nei due amuleti di Arslan Tash939, e noto per assicurare la protezione dagli animali selvaggi in Egitto940. Sulle sue capacità terapeutiche illumina anche l’iscrizione scolpita sulla base di una statua offerta al dio Sid nel santuario di Antas, cui farebbe da

pendant in epoca tarda la fascetta in argento trovata al dito di una donna, sepolta nei

pressi del tempio. L’anello reca inciso il disegno di un serpente tra le cui spire si legge, in caratteri latini, il nome della divinità cui era tributato il culto nel santuario, ed alcuni monogrammi di difficile interpretazione, forse cristiani941. L’aspetto salutare del serpente non era sconosciuto nella religiosità greca perché legato al dio Asclepio, presente ad esempio nel caduceo di Hermes, ma risulta essere comunque una costante etnologica942: per il principio omeopatico della magia il serpente poteva proteggere dai morsi di animali altrettanto velenosi; la loro assenza in Sardegna non può tuttavia giustificare, perlomeno in maniera esclusiva, la presenza e la fortuna degli amuleti, così come abbiamo segnalato a proposito del pateco.

932 Vázquez Hoys 1991. 933 Ibidem p. 426.

934 Macrobio Saturnalia, I.9, 12.

935 Ribichini 1995, p. 337. In un mito fenicio tramandato da Eusebio di Cesarea (Preparazione Evangelica I 10, 45, 53) era il dio serpente Ophion a sfidare l’armata di Kronos, in un conflitto primordiale assimilabile alla teomachia greca (ibidem).

936 Vázquez Hoys 1991, p. 428, frammento NK 12-201. 937 CIS I, 6068 in Ribichini 1976.

938 Critica la più recente posizione del Ribichini (Ribichini 1995b, pp. 19-20, e relativa bibliografia) che considera opinabile la lettura del frammento epigrafico.

939 Vázquez Hoys 1991, p. 429. Sugli incantesimi di Arslan Tash v. anche Garbini 1981; da ultimo: Zamora 2003.

940 Xella 1972, p. 276.

941 Ibidem, p. 277, nota 26. Sulla fascetta di Antas v.: Cecchini 1969a, p. 158, tav. LXIII, 1. 942 Xella 1972, p. 284, nota 58.

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La difficoltà di identificare il carattere di ogni singolo amuleto è complicata dall’assenza di specifiche fonti, sia epigrafiche che strettamente letterarie, inerenti questa sfera della cultura punica. Se gli amuleti portano raramente sulla loro superficie iscrizioni che ne suggeriscano l’identità e le caratteristiche, questo è perché si tratta di oggetti che dovevano risultare eloquenti intrinsecamente, non necessitando di ogni ulteriore specificazione. Si può d’altronde spiegare questa circostanza con la loro appartenenza a individui, o ad una classe di individui, non particolarmente letterata: i bambini appunto, e forse anche le donne. La difficoltà di trovare una funzione specifica può essere invece non solo il riflesso di una scarsa documentazione, o della sua oscurità, ma di una pluralità di funzioni, la quale meglio si addice a spiegare la fortuna di queste tre tipologie appena esposte.

5.1.3. SCARABEI

Gli scarabei appartengono anch’essi ad una tipologia di amuleto egizio, senz’altro la più diffusa entro e fuori l’Egitto. È nota la relazione dello scarabeo con il culto delle divinità solari in Egitto, ispirata dal comportamento dello scarabaeus sacer943, che avvolge le proprie uova in una pallina di escrementi paragonata all’astro solare944, notizia riportata da autori classici come Plutarco e Horapollo945, i quali aggiungono la convinzione della sua natura asessuata e che il periodo di incubazione delle uova fosse di ventinove giorni, nel tentativo di collegarlo al ciclo lunare.

Le possibili funzionalità dello scarabeo sono state introdotte nell’ambito degli studi fenicio-punici dall’opera del Vercoutter946 che, sulla scorta degli studi e dati archeologici al tempo disponibili si muoveva tra le tre funzioni in una scansione cronologica così schematizzabile:

943 F. De Salvia nota come, nonostante le fonti parlino del culto tributato ad almeno tre diversi tipi di coleottero (Scaraboidi, Lucanidi e Rincofori), ogni tentativo di risalire al tipo rappresentato non abbia dato risultati rilevanti, sennonché risulti metodologicamente scorretto “desumere la natura dall’arte”:De Salvia 1978, p. 1009, nota 15.

944 Andrews 1994, pp. 50-51. L’autrice precisa che la forma sferica era data al cibo, mentre le larve crescevano all’interno di un agglomerato di escrementi ovini piriforme (p. 50).

945 Ibidem, p. 51.

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Periodo Predinastico –

VI Dinastia: amuleto funerario anepigrafo; VI Dinastia – XVIII

Dinastia: sigillo a valore amuletico; XVIII Dinastia in poi:

amuleto per i vivi,

amuleto per i morti, sigillo, e alternativamente oggetto votivo947;

Lo studioso notava come progressivamente lo scarabeo assommasse su di se sempre più prerogative, che almeno in parte dovettero transitare nel mondo fenicio ed essere note al fruitore.

Una recente analisi delle caratteristiche emiche di questo tipo di manufatto ha evidenziato come alla ricchezza delle possibilità incisorie della base faccia da pendant una pluralità di funzioni, intese come finalità di produzione e interpretazioni ricettive948. Le basi iscritte degli amuleti propongono iconografie variamente classificabili come regali, apotropaiche e divine, nomi e titoli personali e rappresentazioni di tipo vicino-orientale, adottate e rielaborate, nonché motivi geometrici, floreali e astratti. A queste iconografie difficilmente associabili ad una univoca funzione si applicano due tipi di lettura: quella letterale/fonetica (nel caso si tratti di geroglifici o di immagini di animali e personaggi leggibili come tali) e quella crittografica949, entrambe non sempre univoche. La concomitanza di più fattori suggerisce una “multi-layered function”, generata dallo spazio limitato del campo figurabile che impone effetti di miniaturizzazione, abbreviazione e astrazione950.

Dal punto di vista produttivo si è riconosciuta la possibilità che alcuni oggetti, specie quelli con iconografie regali, possano essere stati opera di botteghe regali a scopo propagandistico. La faïence, materiale comune, ma di qualità e lavorazione ad elevato livello tecnico, soddisfa infatti produzioni di massa difficilmente conducibili in

947 Ibidem, p. 47.

948 Cooney, Tyrrell 2005, pp. 2-12.

949 Proposta da E. Drioton (cit. in Scandone Matthiae 1975, p. 16, nota 5), si basa sul riconoscimento di lodi e nomi divini, principalmente di Amon, rappresentati in base a principi di acrofonia e analogia tra segni geroglifici monolitteri.

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botteghe private951. Questa produzione, specializzata in iconografie regali, poteva influenzare e soddisfare una richiesta privata, ed essere apprezzata ed interpretata senza scopi di propaganda: in altre parole dal punto di vista del fruitore poteva venire frainteso il valore regale e apprezzato in quanto mediatore nei confronti della divinità, per diventare simbolo di pietà personale.

Dal punto di vista semiotico lo scarabeo è un simbolo di rigenerazione: la lettura fonetica (hpr) dello scarabeo è la stessa del verbo che significa “divenire”. Rigenerazione del sole che sorge ogni mattina, del cuore del defunto che lo scarabeo protegge nelle sale del giudizio oltremondano, e del potere politico nella persona del faraone che succede a se stesso al trono952. Dal punto di vista antropologico è un amuleto e come tale uno strumento di comunicazione tra l’individuo e le diverse sfere dell’esistenza: i rapporti con il sovrano, la natura, la società, gli dei e le altre potenze sovrannaturali, quali demoni e spettri953. Mentre psicologicamente è uno strumento di guarigione per mezzo di intime emozioni e opera come una sorta di effetto placebo954.

In questa prospettiva lo scarabeo propone molteplici significati allo scopo di ricoprire molteplici funzioni allo stesso momento955, tra le quali quella sigillare o più propriamente glittica è del tutto secondaria. La sua considerazione deve essere comunque valutata alla luce del discorso presentato sinora, immaginando che la protezione che si richiedeva alla persona che indossa l’amuleto, nel caso del sigillo, si richiedeva all’oggetto sigillato.

Quali di questi aspetti fossero noti e accolti dai fenici e dai cartaginesi in particolare è cosa che può essere in parte compresa dai dati archeologici, qualora disponibili. È d'altronde impensabile che questi avessero importato e prodotto un tale tipo di amuleto “acriticamente”: essi dovevano infatti essere a conoscenza dei poteri e significati di cui si faceva portatore lo scarabeo, senza però entrare nel dettaglio956.

Il ritrovamento frequente in contesti tombali di questi oggetti non dovrebbe trarre in inganno, come abbiamo proposto per gli amuleti, in merito ad una 951 Ibidem, p. 5. 952 Ib., p. 8. 953 Ib., p. 9. 954 Ib., p. 10. 955 Ib., p. 12.

956 Sino a che punto di questo approfondimento arrivassero i Cartaginesi è cosa difficile da stabilire, ma si forniranno alcuni spunti di ricerca in seguito.

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destinazione esclusivamente funeraria: il loro rinvenimento suggerisce infatti che dovessero essere portati in vita. La distanza tenuta dai fenici nei confronti dell’escatologia funeraria egizia, non era è vero eccessiva, e viene fornito a titolo di esempio l’assenza nei corredi di oggetti egizi tipicamente funerari come lo scarabeo del cuore, il peseshkef, pettorali naoformi, etc.957. Il rito dell’incinerazione infatti, praticato in età arcaica, si adatta difficilmente a concetti di rigenerazione e vita eterna, sebbene sia stato avanzato che il rito della cremazione sia legato alla purificazione dei vivi, più che dei morti958. È nota d’altronde la grande complessità delle credenze funerarie egizie959, ma di queste i fenici, sebbene ne potessero ben essere a conoscenza, non sembra fossero arrivati ad emularle960. La conoscenza di formulari connessi in Egitto al rituale funerario è generalmente messa in relazione con le credenze magiche, ma potrebbe indicare una “forte impronta egiziana nelle concezioni escatologiche fenicie”961.

La presenza in contesti santuariali è per ora relativamente scarsa e limitata a Cipro, dove si rinvengono ad Agia Irini e Kition in età arcaica962, e alla Grotta di Gorham nello stretto di Gibilterra, la cui funzione, santuario o necropoli, rimane tuttora incerta963. Lo stato delle conoscenze non ci permette di trarre conclusioni, ma si potrebbe supporre che lo scarabeo nel mondo punico assolvesse una funzione di tipo principalmente “civile” e relativamente poco caratterizzata a livello religioso. Per quanto riguarda il periodo arcaico la stessa Feghali Gorton nota una differenza di utilizzo tra il mondo greco e quello fenicio-punico evidente sotto tre aspetti: la tecnica di produzione di massa, l’iconografia e i luoghi di rinvenimento. Se quest’ultimo indica un principale contesto templare per il mondo greco e funerario per quello

957 Vercoutter 1945, pp. 287 e 359; Cintas 1946, p. 115; Fresina 1980, p. 27.

958 Cfr. Hertz 1907; per la pratica della cremazione nel Levante e delle possibili implicazioni igieniche, economiche o demografiche v. Bieńkowski 1982; per il mondo fenicio occidentale v. Gras, Rouillard, Teixidor 2000, pp. 187-195; per la Sardegna fenicio-punica v. Bartoloni 1981; Bartoloni 1989.

959 L’individuo per gli egizi è costituito da cinque elementi: l’ombra (doppio immateriale di ogni forma che l’uomo assume in vita), l’akh (principio solare che consente l’ascesa alle stelle alla morte), il ka (forza vitale che deve essere alimentata dalle offerte), il ba (altro doppio immateriale indipendente dal corpo) e il nome che trae vita dal solo essere nominato: v. Grimal 1988, pp. 138-139.

960 Cfr. quanto esposto al § 5.1.1. 961 Garbini 1982, p. 463.

962 Feghali Gorton 1996, pp. 175-176. Gli scarabei di Kition provengono dal Bothros 1, i cui depositi sono datati fra il 600 e il 450 a.C.: Kition II 1976, pp. 9-10.

963 Feghali Gorton 1996, p. 153. L’uso della grotta è documentato dal VII al V secolo. Per il lotto di scarabei ivi rinvenuti v. Culican 1972, pp. 110-120 e 134-136, figg. 1-5.

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fenicio, ma potrebbe derivare da uno stato parziale della ricerca, i primi due forniscono un ulteriore spunto di antinomia. La produzione di massa degli scarabei greci infatti predilige formule di buon augurio, nomi di divinità e motivi fondamentali dell’arte egizia, mentre quelli di produzione punica presentano prevalentemente rappresentazioni di divinità del pantheon egiziano, nomi comuni, reali e di divinità, dimostrando una maggiore comprensione di ciò che veniva copiato e riflettendo quello che sembra essere “a more personalized religious and magical significance”964.

Un aspetto spesso trascurato degli scarabei nel mondo punico, così come in quello egiziano965, è stato richiamato ormai da qualche tempo da E. Acquaro ed appare limitato dalla casuale mancanza di documentazione: la funzione sigillare966. Il rinvenimento di un cospicuo lotto di cretule, impresse con temi propri della glittica greco-fenicia, presso il Tempelarchiv di Cartagine967 si aggiunge a quelle gia note provenienti dalla città e conservate in parte al Musée Lavigerie della stessa968, oltre che a quelle rinvenute nell’acropoli di Selinunte ed edite dal Salinas nell’ultimo ventennio del 1800969. Il fenomeno, non insolito a quanto pare, di sigillare i rotoli di papiro con cretule di argilla su cui veniva impressa un’immagine incisa alla base del sigillo è documentato in Egitto e in Palestina in età persiana e potrebbe costituire “the sealing-type commonly used on documents belonging to the Persian administration in Phoenicia”970. La comparsa dello scarabeo in Siria e Palestina è un fenomeno tutt’altro che religioso: il suo avvento nel IX secolo971 è strettamente legato alla applicazione della scrittura alfabetica al papiro come supporto972, il quale una volta arrotolato veniva avvolto da un filo cui veniva apposta una cretula d’argilla di piccole

964 Feghali Gorton 1996, p. 185. 965 V. supra.

966 Acquaro 1994; Acquaro 1995a. La menzione di Salinas 1883 in Hölbl 1986, vol. 2, p. 106, nota 1, potrebbe essere passata in osservata per la inaccessibilità dell’opera e per il richiamo in nota, sino all’osservazione di Acquaro.

967 Redissi 1991b (studio preliminare); Redissi 1999. 968 Vercoutter 1945, pp. 257-263; Vercoutter 1952.

969 Salinas 1883; Salinas 1898. Vanno aggiunte per completezza anche un’impronta su peso da telaio da Mozia (Spanò Giammellaro 2000, p. 1381, tav. IX) e due bullae cipriote rinvenute nel deposito votivo di Kition, datato ad un periodo compreso tra 600 e 450 a.C.: Kition II 1976, pp. 114-116, nota 1 (cui si rimanda per una lista di referenze bibliografiche inerenti rinvenimenti in ambiente levantino). Da contesto funerario provengono tre cretule della tomba 76 di Rachgoun (Vuillemot 1955, p. 36 e 56) e due di una tomba Cartaginese nel settore di Santa Monica (Delattre A.L., (1905). La nécropole des Rabs, Prêtres et Prêtresses

de Carthage, Deuxième année de fouilles. Parigi, p. 10, cit. in Vercoutter 1952, p. 39, nota 2).

970 Culican 1968, pp. 57-58. 971 Matthiae 1997, p. 246. 972 Ciafaloni 1995a, p. 501.

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dimensioni, e rese presto desueti i sigilli cilindrici che richiedevano di essere applicati su superfici più ampie973.

Benché il gruppo selinuntino non possa godere, a causa delle circostanze di rinvenimento, di dati stratigrafici né contestuali precisi974 l’analisi stilistica non contraddice una datazione dei motivi ad un ampio arco cronologico: tra fine VI e IV secolo975. I motivi rappresentati sono per la maggior parte di ispirazione greca, fatto comprensibile in un insediamento di fondazione ellenica, e per la restante di ispirazione egittizzante come consueto nella glittica punica976. Questa circostanza, per altro analoga alla stessa presenza di motivi di diversa origine nella glittica “greco-fenicia”, ha portato A. M. Bisi, sulla scorta di una proposta interpretativa delle cretule cretesi del II millennio, ad interpretare i due diversi stili come indicatori della lingua usata nel testo sigillato. In altre parole secondo l’autrice sigilli con impronta di stile grecizzante avrebbero sigillato testi scritti in greco, quelli in stile egittizzante testi scritti in fenicio977. La scomparsa della studiosa siciliana è una delle cause del mancato approfondimento di questa linea di ricerca, sebbene a prima vista la proposta appaia di difficile verificabilità. Infatti gli scarabei, se utilizzati con questa finalità, rivelerebbero la diffusione in tutto il mondo punico del bilinguismo greco-fenicio, non altrimenti dimostrabile.

Più semplicemente, seguendo l’Acquaro, possiamo intendere i motivi alla base degli scarabei come “figurazioni che dovrebbero trovare […] una lettura più squisitamente disegnativa e in sé conchiusa, meno debitrice di complesse rappresentatività mitiche e testuali”978. Un fenomeno che si rende quindi precursore, senza soluzione di continuità, della sfragistica romana. A verifica di tale approccio possiamo suggerire la mancata coincidenza tematico-iconografica con una categoria come quella degli amuleti indiscutibilmente carica di significato magico-religioso.

973 Questi tuttavia rimarranno in uso in Mesopotamia per tutta l’età achemenide, rivelandosi lo strumento di sigillatura ufficiale dell’impero, in contrasto con quanto supposto dal Culican (v. supra): Matthiae 1997, pp. 261-263.

974 È nota la provenienza come dai dintorni del tempio C: Bisi 1986, p. 299.

975 Acquaro 1994, p. 4. La datazione non si accorda con le distruzioni della città avvenute nel 409 a.C. ad opera dei cartaginesi e nel 249 a.C. ad opera di Siracusa, per cui l’incendio dell’archivio sarebbe potuto avvenire per cause non militari o militari non tramandate dalle fonti.

976 E. Acquaro propone confronti iconografici fra le cretule e gli scarabei sardi: Acquaro 1994, pp. 2-4; i motivi grecizzanti non sono tuttora stati fatti oggetto di indagine approfondita.

977 Bisi 1986, p. 302. 978 Acquaro 1995a, p. 186.

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Sebbene il differente supporto imponga di per se ben altre rappresentazioni, con maggiori possibilità narrative negli ovali degli scarabei, quando si presentano figure isolate quasi mai queste propongono divinità frequenti negli amuleti. Divinità tra le più frequenti tra gli amuleti come il pateco non trovano spazio nella glittica se non nelle gemme gnostiche ben più tarde979, e occhi udjat e urei non ricoprono che un ruolo secondario e spesso riempitivo, come sembra logico per la loro natura di simbolo. Le altre divinità come Iside e Horus, fanciullo o ieracocefalo, nonché Bes, trovano nella glittica una frequenza che supera quella negli amuleti, mentre altre come il leone o la sfinge alata possono considerarsi proporzionalmente paritarie, fatto che trova giustificazione nella comune appartenenza alla medesima matrice culturale e iconografica. Si potrebbe anche proporre una diversa attinenza magico-religiosa, nonché un livello più colto, all’origine si intende visto che i destinatari delle due categorie artigianali coincidono, fatto di per se evidente. Tuttavia dal punto di vista iconografico i due tipi di “amuleti” differiscono se si pensa al filone al quale appartengono: gli amuleti punici, egittizzanti e non, sono debitori degli amuleti egizi e dei simboli religiosi e apotropaici fenici980, mentre nella glittica punica, la cui produzione prende avvio alla fine del VI secolo, transitano motivi e iconografie mutuati dagli ovali delle coppe orientalizzanti e dai complementi di arredo in avorio, che a loro volta nel V secolo saranno acquisiti dalla numismatica981. La fonte e il successivo destinatario iconografico sono “civili” per natura, ma mentre le coppe e gli avori sono ornamentali per funzione, le monete sono uno strumento prodotto a scopo amministrativo. Ma quest’ultimo aspetto sarà stato introdotto ex novo in esse o era in parte presente nelle gemme? Ecco qui un altro indizio della funzione amministrativa propria dello scarabeo nella sua eredità lasciata alle monete: dalla metà del V secolo le città della costa fenicia e Cartagine adottano questo importante strumento, assumendo ognuna un motivo che le contraddistingua nel ricco repertorio della glittica, senza limitarsi esclusivamente ad uno solo. Le ragioni di questa selezione non sono evidenti, non si può pensare che questa fosse già realizzata a monte nella glittica e tanto più per il valore comunitario della moneta e individuale del sigillo. Ma se la funzione sigillare

979 In qualche modo rapportabile al pateco è il tema del Pantheos: una figura iconograficamente più assimilabile a Bes o al giovane Horus delle stele con i coccodrilli: SGG 2003, pp. 227-242.

980 Come il simbolo di Tanit e la maschera ghignante etc.

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fosse stata la principale, l’iconografia sarebbe stata unica al punto da poterne garantire l’irripetibilità e appartenenza al solo proprietario? La frequenza di immagini molto vicine tra loro può essere uno dei motivi che hanno fatto dubitare per lungo tempo che gli scarabei potessero assolvere la funzione sigillare, contrariamente a quanto accade nel Vicino Oriente, dove i sigilli cilindrici per la maggiore ampiezza del campo figurativo possono ospitare iconografie e scene di grande varietà, negli scarabei la ristrettezza del campo impone iconografie molto simili tra loro, per di più in certi casi il lapicida non sembra intenzionato a realizzare elementi evidenti di differenziazione982. Così è poco probabile che una uguale iconografia su due scarabei designi due componenti dello stesso gruppo familiare come ha proposto P. Bartoloni per l’età arcaica983. In due diverse tombe a fossa di Monte Sirai, ma di uno stesso agglomerato tombale che potrebbe rappresentare topograficamente rapporti di parentela, furono infatti rinvenuti due scarabei di importazione egiziana con medesima figurazione alla base984. Il carattere di routine, e la provenienza estera, come nota l’autore, attenuano il dato proposto985. L’importazione infatti costituisce un grande ostacolo alla definizione sigillare dello scarabeo: in età arcaica infatti praticamente tutti gli scarabei diffusi nel Mediterraneo occidentale erano di provenienza egiziana, levantina o rodia, per cui nel mondo greco e fenicio-punico il loro utilizzo come sigillo è discutibile: la personale conoscenza della fonte di produzione è il logico presupposto per il suo utilizzo, perché sola poteva fornire la garanzia che il prodotto fosse irripetibile. In età propriamente punica invece botteghe artigianali sono state proposte per i centri di Tharros, Ibiza e Cartagine, fatto che per Sulcis almeno avvicina il centro di produzione e la possibilità per gli acquirenti di conoscere di persona la bottega, ma si potrebbe anche ipotizzare l’esistenza di lapicidi itineranti che realizzavano ad hoc e

ad personam ogni singolo pezzo.

Tuttavia un ulteriore elemento si sottrae all’analisi: la mancanza o almeno la grande scarsità di iscrizioni. Il nome unito al patronimico è il vero strumento per designare l’individuo nel mondo fenicio-punico, come da sempre nel resto del mondo. La sua presenza nei sigilli levantini non fornisce possibilità di dubbio sulla loro

982 Abbiamo notato come il n. 50 del nostro catalogo presenti una figurazione identica ad uno scarabeo ibicenco. 983 Bartoloni 1989, p. 71.

984 Studiati recentemente in Bondì 2000. 985 Bartoloni 1989, p. 72.

Figura

Tabella 8. Scarabei in pietra dura da Sulcis.

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