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P IV E 0, 1972-1975

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PARTE IV

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CAPITOLO VI

«L’ULTIMO DEGLI ANTICHI»: PETROLIO/VAS

«L’ultimo degli antichi» è definizione di Emanuele Trevi, riferita ovviamente al nostro e tratta dal romanzo-saggio Qualcosa di scritto (2012): un’opera senza dubbio eccentrica rispetto alle altre fonti secondarie consultate, ma doppiamente consona per terminare il lungo itinerario nel classicismo pasoliniano; consona sia perché incrocia letteratura e scienza come fa – con impegno maggiore1 – Petrolio/Vas, sia perché la

definizione di Trevi, ai miei occhi, richiama quella che lo stesso Pasolini diede di Luciano di Samosata: l’ultimo grande autore incontrato in oltre quarant’anni di letture greco-latine e subito assurto a modello satirico – pressoché ignorato nella letteratura critica (Trevi compreso2)! Il poeta rilesse, apprezzò, citò e imitò il «classico più

classico» di tutti, postremo erede dell’Atene di V secolo finito «in un vicolo cieco della storia»3, proprio nell’ultimo anno di vita, cioè tra l’autunno del 1974 e il successivo: quando il cantiere del romanzo era aperto già da qualche anno e Luciano fu quindi incluso giusto in tempo per arricchire un repertorio erudito già ricchissimo. Un incontro analogo era appunto avvenuto solo alcuni mesi prima, sempre in quell’anno di svolta per lo sviluppo di Petrolio/Vas che è il 19744: protagonista invece di Luciano Antropologia religiosa di Alfonso Maria Di Nola, un libro che non verte solo sul mondo

antico ma di cui Pasolini, fin dalla recensione uscita in settembre sul Tempo, focalizzò temi connessi alla religione dei Greci e dei Romani5; e che, soprattutto, il romanzo-saggio di Trevi (seguito da De Laude) ci ha rivelato indispensabile alla comprensione di numerose pagine dell’ultimo grande opus – e poiché cita molti dei compagni di lettura pasoliniani incontrati fin qui Antropologia religiosa costituisce persino una sorta di saggio-summa di tutti i libri/maestri che io per primo ho provato a raccogliere, somma simmetrica a quella dell’ultima opera in oggetto6. Qualcosa di scritto ci ha indicato che  

1 Lo riconosce lo stesso T

REVI 2012, p. 188.

2 Conto Trevi fra i critici di Pasolini perché, anche grazie ai fortunati incontri raccontati in Qualcosa di scritto

(Laura Betti, Walter Siti, Massimo Fusillo), dimostra una conoscenza dell’autore più approfondita di alcuni critici stricto sensu. Nico Naldini è stato il primo (e quasi unico) a indicare l’importanza di Luciano: cfr. BENEDETTI

-GRIGNANI 1995, p. 153.

3 P

ASOLINI 1999a, pp. 2185, 2187; ma vd. infra, sottopar. 6.2.2.

4 Cfr. D

E LAUDE 2015, p. 59.

5 «Io però aggiungerei altre due caratteristiche al metodo storico-antropologico di Di Nola: due caratteristiche

tecniche: primo, la presenza della ‹filologia› e in specie della ‹filologia classica› (cosa a cui i testi dei grandi storici della religione, non ci hanno certo abituati, quasi che le ‹lingue› non esistessero, e, in specie, non esistessero le ‹lingue morte› con tutta l’infinità di problemi interpretativi implicati). [...] Certo, io, nonché non essere uno specialista, son un ben povero e saltuario lettore di opere di storia delle religioni: tuttavia due argomenti come quello del rapporto tra ‹oscenità› e ‹riso›, o quello della ‹demitizzazione› operata dai primitivi sui propri miti nei riti d’iniziazione, li avevo visti finora appena accennati» (PASOLINI 1999a, p. 2135).

6 Nel primo capitolo di Antropologia religiosa (intitolato Riso e oscenità) sono citati Gallavotti, Freud, De

Martino, Frazer, Eliade. Aggiungo però che solo un anno prima, come risulta da PASOLINI 1999a, p. 1887, il nostro

aveva letto pure I primi filosofi. Studi sulla società greca antica (1955): saggio che Thomson aveva ricavato da una

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Petrolio/Vas non è soltanto un’opera allegorica sul sesso e sul potere, come Salò, bensì

per giunta la «cronaca di una iniziazione» che il poeta sperimentò sul proprio corpo7: un’iniziazione alla violenza sessuale, alla gioia del comprare corpi da cui essere posseduti dopo l’infelicità infinita del possedere corpi senz’anima; non però una mera iniziazione sadomasochistica, ma in quanto costellata di riferimenti al rituale eleusino desunti dal primo capitolo di Antropologia religiosa (a partire dall’Appunto 51. Primo

momento basilare del poema) un’esperienza finalizzata a una nuova, più complessa

‘visione’ dell’esistenza: fondata sulla relatività dei ruoli/generi sessuali e su una filosofia politica disincantata e radicale, che non contempla più adorabili innocenti. È in tal senso che Trevi definisce Pasolini «l’ultimo degli antichi»: in quanto ultimo iniziato ai sacri misteri di Eleusi; io invece cercherò di provare che lo è inoltre quale continuatore di Luciano. Più delle analogie segnalate da Lago, Fusillo e De Laude fra

Petrolio/Vas e il Satyricon (e la menippea)8, o più delle citazioni epiche e tragiche programmate in diversi appunti (da Omero a Virgilio passando per Eschilo e Apollonio Rodio), sono fondamentali altri due paradigmi antichi: il riso osceno e risolutore di crisi indagato con estrema chiarezza da Di Nola e il riso cinico di Diogene-Luciano; sia perché hanno posto radici più profonde in un’opera tanto complessa su cui c’è ancora molto da riflettere e scrivere, a cominciare dall’annunciata riedizione a cura di Siti e De Laude, sia perché tale profondità si lega all’ultima grande metamorfosi del classicismo – e, più in generale, del corpus – pasoliniano: quella da corpus a corpo; cioè l’estremo rifiuto dell’astrazione letteraria, tanto estremo che, per citare Trevi, Petrolio/Vas è «come una macchia calda di sperma spruzzata sulla faccia del mondo»9, sia che si tratti di quella emessa da un moderno iniziato ai misteri sia del seme di un neo filosofo cinico, erede dell’anaideia antica.

Vediamo prima, brevemente, il riso osceno indagato da Di Nola: perché, malgrado Trevi e De Laude ne abbiano già indicato assai bene l’importanza, qualche dettaglio è tuttora rimasto inosservato; e infine, più dettagliatamente, quello mordace e disincantato nato durante la rilettura dei dialoghi lucianei.

6.1. Decentrare il classico (II): sesso e antropologia

Riferimenti ai misteri eleusini ricorrono frequenti nella seconda parte del romanzo10: a volte cursori, il brano che ne attesta invece la maggiore concentrazione e risulterebbe  

costola di Eschilo e Atene (i presupposti economici della tragedia greca) e dedicato alla nascita della schiavitù in relazione all’origine della scienza. Sia il libro di Di Nola sia quello di Thomson sono tuttora presenti in quello che rimane oggi della biblioteca privata di Pasolini: cfr. CHIARCOSSI-ZABAGLI 2017, pp. 267, 274.

7 Cfr. e.g. T

REVI 2012, pp. 35, 119, 183.

8 Su Lago cfr. supra, par. 2.1; anche se questi è l’autore dello studio più esteso sulle tangenze fra Petronio e

Petrolio/Vas meritano attenzione pure FUSILLO 2003a e DE LAUDE 2015, pp. 31-32, 52-53.

9 T

REVI 2012, p. 193.

10 Per una discussione generale cfr. T

REVI 2012, pp. 119-202; per una sintesi cfr. DE LAUDE 2015, pp. 37-49. Una

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di ardua (piena) comprensione senza una indagine sulle fonti è l’Appunto 74. Ultimo

sprazzo della Visione, seguito da Glossa, cioè l’appunto che conclude uno dei cicli

narrativi più importanti dell’opera: le Visioni de Il Merda (Appunti 70-74a). Come ho appena ricordato, la metamorfosi sessuale sperimentata dal secondo dei due protagonisti (Carlo di Tetis) non è fine a se stessa, prelude anzi a una esperienza mistica, a una rivelazione della realtà. Divenuto donna e provata l’infinita gioia del nuovo sesso – lo racconta l’appunto più famoso: Il pratone della Casilina –, in una notte d’inverno «del ’73 o del ’74» Carla vede sbalzare gli inferi in superficie; benché lei si trovi a passeggiare nei pressi del Colosseo, la Visione si concentra su una via della Roma popolare, tra il centro storico e le borgate periferiche (via di Torpignattara), e si configura come un’ibridazione tra l’Inferno dantesco, un film apocalittico pari a Salò e un mistero pagano. Salita su un dolly trainato da tre dèi innominati, la protagonista ha una rivelazione che incrocia simultaneamente la Roma degli anni ’60 con quella di dieci anni dopo; si tratta, dunque, di un viaggio-allegoria lungo quella stessa mutazione antropologica italiana esposta nei coevi articoli di giornale e qui incarnata da un borgataro soprannominato il Merda: bruttezza indesiderabile, assoluta, senza più alcun residuo dell’umanità che Pasolini aveva invece scorto e cantato fin dal 1950, prima in versi e in prosa, infine attraverso il «Mangiarealtà» (ossia la cinepresa). Alla fine della lunghissima carrellata sul Merda il dolly spicca il volo e la Visione assume una nuova forma, esplicitamente erotizzata e misterica: dalla prospettiva aerea, mentre gli dèi ‘ridacchiano’, i campanili del centro storico di Roma appaiono a Carla come «cazzi», le piazze come «fiche» e le cupole come «seni», ma da tale selva di simboli carnali emerge alla fine una gigantesca croce uncinata, emblema del fascismo dei consumi – che tramite l’omologazione aveva distrutto tanto la bellezza quanto la vita della gioventù. Dopo questo «gran finale», comico e inquietante, la protagonista rincasa; non però nella vecchia abitazione del Parioli, bensì in una casa affittata proprio nel quartiere oggetto della Visione precedente: il Quadraro. Qui Carla scopre un enorme tabernacolo ligneo su podio in laterizio; e, al suo interno, un simulacro di tumo o di nefro, su piedistallo di nefro, iscritto: vi è ritratto un mostro muliebre e la scritta recita: «Ho eretto questa statua per ridere»11. Grazie a Trevi sappiamo che Pasolini ha modellato la descrizione sulla statuina di Baubo da Priene riprodotta sulla coperta di Antropologia

religiosa12; e inoltre che la Glossa (l’Appunto 74a) aggiunta dal poeta per rendere il «Mysterion» meno criptico trae spunto dal primo capitolo del libro: la mostruosità oscena rimanda senza dubbio a un personaggio centrale del rito demetrico, cioè alla protagonista dell’intervento osceno, risolutore della crisi della Madre in lutto (Baubo  

11 PASOLINI 1998c, p. 1637.

12 «Dire che rappresentasse una donna, sarebbe inesatto, benché questa fosse la prima impressione. Si trattava

infatti piuttosto di un mostro muliebre, consistente in due gambe piuttosto tozze, su cui era incastrata, al posto dell’inguine – tanto che il taglio della vulva coincideva col taglio del mento – una grossa testa di donna. I capelli erano acconciati come quelli delle contadine, ma nei giorni di festa: due cerchi (di metallo o di stoffa, non si poteva distinguere) li stringevano: per cui una parte incoronava la fronte, una parte formava una specie di crocchia in mezzo alla testa. Questo mostro muliebre, tuttavia, reggeva con la mano destra, un lungo bastone, della sua stessa altezza: e questo bastone era senza possibilità di dubbio, un lungo e nodoso membro virile» (PASOLINI 1998c, pp. 1636-1637).

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che compie l’anasyrma, il gesto di sollevare la veste ed esibire i genitali); eppure, come vedremo fra un attimo, la statua non allude alla sola Baubo. Per prima cosa è importante aggiungere che di siffatto rituale il nostro ha preferito seguire non la versione attica, letterariamente attestata dall’inno omerico a Demetra, bensì quella orfico-alessandrina, testimoniata da fonti più tarde: a Iambe ha anteposto Baubo perché soltanto quest’ultima suscitava il riso di Demetra con l’esibizione del proprio corpo (e, per giunta, corpo ambiguo, dimorfico!); sembra che la prima si limitasse invece a motteggiare la dea – il che, beninteso, non esclude la presenza di simboli osceni nel culto eleusino13. Tale scelta non mira esclusivamente a sintetizzare l’allegoria delle

Visioni de Il Merda (e di tutto il seguito dell’opera), ma come suggerisce Pasolini

medesimo lega inoltre a filo doppio i due paradigmi di nudità antica seguiti nell’ultimo anno di vita:

Questa iscrizione [...] A) prevede o prefigura un atto ‘mistico’ che accadrà alla fine di questo romanzo: e si tratterà di un atto risolutore, vitale, pienamente positivo e orgiastico: esso ristabilirà la serenità della vita e la ripresa del corso della storia; B) si pone addirittura come epigrafe di tutta intera la presente opera (‘monumentum’ per eccellenza): ma il suo senso è in tal caso diametralmente opposto a quello qui sopra accennato: esso è infatti irridente, corrosivo, delusorio [...]14.

Nel riso osceno evocato dall’iscrizione si celano sia il riso rituale del culto demetrico, legato al côté sessuale di Petrolio/Vas, sia l’irrisione satirica, cinico-lucianea, connessa di converso con il côté politico; e tra le due, suggerisce l’autore, è la seconda quella preminente. Tale duplicità si spiega non solo con la contemporaneità delle due letture (Di Nola, intendo, e Luciano) e con l’ambivalenza tematica dell’intero

Petrolio/Vas, ma anche con un dettaglio inosservato fino a oggi: ossia che nemmeno

l’iscrizione è inventata da Pasolini; mentre la statua è esemplata su un reperto microasiatico, l’epigrafe è tratta da un monumento che appartiene a un’area vicino-orientale ancora più periferica di Priene, l’Assiria: «una statua di donna nuda che fu fatta erigere da Assurbekala (1087-1070 a.C.) con l’iscrizione nella quale il re dichiarava: ‹Ho eretto questa statua per ridere (o perché si rida)›»15. Questa interpolazione fra mondo greco e orientale non ci deve sorprendere perché è conforme all’eclettismo dell’autore: già in Edipo re la corona turrita di Laio e di Edipo era esemplata su modelli assiri e in alcuni fotogrammi di Medea appariva, dietro a Pelia, re di Iolco, persino una copia della Stele di Hammurabi; tale mixis è importante perché, come nei film, fa slittare il passato storico verso una soglia temporale vieppiù remota, ‘mitica’, e verso gli orizzonti della barbarie16; eppure assume qui un ulteriore rilievo   13 Cfr. D I NOLA 1984, pp. 19-53. 14 P ASOLINI 1998c, p.1638. 15 D I NOLA 1974, p. 79.

16 Nella stessa direzione va il dettaglio materiale del legno di cui è fatto il tabernacolo: perché in una prosa di

pochi anni anteriore, stesa a seguito delle riprese per Appunti per un’Orestiade africana (In Africa tra figli obbedienti e ragazzi moderni), contro lo squallore dei nuovi giovani africani (antesignani del Merda) erano decantati gli  

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dato che alla nudità mostruosa, al dimorfismo, aggiunge quella ordinaria, allusiva al corpo dello scrittore: in altre parole, alla nudità del Pasolini personaggio, sdoppiato nei due metamorfici protagonisti di Petrolio/Vas, si sovrappone quella dell’autore, implicita nel paradigma cinico-lucianeo che il nostro evoca subito dopo il ciclo de Il Merda (nell’Appunto 84. Il gioco17) ed esplicita nelle foto di Dino Pedriali, scattate come corredo fotografico dell’opera e con ogni probabilità incluse dalla prossima edizione a cura di Siti e De Laude18. In sostanza, l’epigrafe che chiude la prima grande Visione del «poema» commenta tanto la statua del Pasolini cinico quanto il simulacro-allegoria dell’opera; ed è un’epigrafe assira “come” «Sarracino» è l’ultimo grande classico.

6.2. Ridere di tutto: il cinismo di Luciano ’o Sarracino 6.2.1. Tra satira, performance cinica e poesia

«Il successo è l’altra faccia della persecuzione»: è con questo celebre (e sofferto) ossimoro che un Pasolini un po’ stizzito e stanco replica a Biagi nella puntata di Terza B

facciamo l’appello che più volte ho avuto l’occasione di ricordare19. Dopo una lunga serie di domande di vario tema alle quali l’intervistato risponde con disincanto e in più, talvolta, un’elusività provocatoria (ma sempre pacata), scaturisce improvvisa poco oltre la metà del registrato una tensione ben maggiore: alla iterata sfiducia del poeta sia negli atteggiamenti e negli ideali delle società neocapitalista e comunista (il tarlo del futuro, lo sviluppo, il sogno della rivoluzione) sia nei personali (la lotta alle prevenzioni sul sesso, all’apatia borghese, all’ipocrisia sociale)20, Biagi oppone il ricordo che quell’Italia tanto criticata in verità gli «ha dato tutto: [...] il successo, la notorietà internazionale», al che l’intervistato annuisce ma del pari ribatte affermando la totale vacuità del successo («Il successo non è niente. Il successo non è niente. Che cos’è il successo?»), e sèguita con la frase citata in incipit di paragrafo. Da codesto primo scontro nasce un dibattito ancora più acceso, che si rivela letale per il nostro: perché Pasolini adduce a esempio di bruttura associata al suo nome proprio l’occasione della rimpatriata, cioè la «posizione» televisiva, che avrebbe potuto alienare il rendez-vous se i convenuti, privilegiati per sensibilità e cultura, non fossero riusciti «ad andare al di là  

«stupendi idoli di legno, rivestiti di fibre; d’una bellezza che sconvolge – pensando che tali idoli dovevano essere identici, per esempio, a quelli del Lazio prima dell’arrivo di Enea, mi sono sentito pazzescamente gli occhi inondati di lacrime» (PASOLINI 1998c, p. 2006).

17 Cfr. infra, sottopar. 6.2.2.

18 Ho appreso la notizia dell’integrazione fotografica nella tavola rotonda conclusiva della seconda puntata del

convegno Petrolio 25 anni dopo. (Bio)politica, eros e verità nell’ultimo romanzo di Pier Paolo Pasolini, organizzata da Carla Benedetti presso la Scuola Normale Superiore di Pisa (9-10 novembre 2017): tra gli altri sono intervenuti proprio Walter Siti (via Skype) e Silvia De Laude. Sulle fotografie cfr. infra, sottopar. 6.2.3.  

19 Cfr. supra, par. 0.1 e sottopar. 4.2.2.

20 Cito solo i due passi più disforici: «La parola speranza è cancellata completamente dal mio vocabolario. [...]

Non ho più quelle speranze che sono alibi, ecco!». Ho ricavato entrambe le citazioni, come la precedente e le successive, dalla registrazione dell’intervista integrale ritrasmessa su RaiStoria il 5 marzo 2012: vd. supra, n. 55 (cap. 0).

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dei microfoni e del video», e così introduce un tema che un’efficace satira off-air avrebbe evitato: la satira della televisione italiana. E tale critica è per giunta radicale perché ne morde il carattere più specifico, ne morde l’osso: contesta la televisione italiana «in sé», quale «medium di massa» alienante e autoritario. L’occasione in realtà non consente all’intervistato una disamina accurata: trova solo il tempo di insistere sull’alienazione e sulla natura antidemocratica del mezzo televisivo; non riesce a metterlo a nudo con lo stesso acume provato su pagina scritta, prima negli articoli pubblicati sul Tempo (1968-69) e più tardi in quelli del Corriere (1973-75) e in

Petrolio/Vas21. Se altrove aveva ben chiarito che la televisione italiana pareva abbassarsi e asservirsi alla massa dei telespettatori, sembrava cioè instaurare con essi un dialogo alla pari mentre in realtà ne serbava e alimentava la penuria culturale e, per siffatto tramite, li asserviva al potere politico ed economico22; e se aveva ricordato che una televisione di tal fatta non era solo un ‘mezzo’ ma pure una ‘fucina’ d’incultura, e proprio per questa ragione un’arma potentissima del «nuovo potere» e «potere essa stessa»23, di fronte a Biagi l’idea del “medium” di massa non viene discussa a dovere, la

televisione è anzi interpretata quale mero diaframma nemico della parrhesia e di un vero confronto democratico e che si palesa perciò, al di là dell’inautenticità manifesta e della spettacolarizzazione, come ‘mezzo’ prevaricatore: nell’intervista cioè si limita a dichiarare la distorsione del canale, non approfondisce quella del messaggio (quest’ultimo tema sarà messo a frutto specialmente sulle pagine del Corriere). Emerge comunque netta, e dalla puntata di Terza B facciamo l’appello e dall’opera pubblicistica, la connessione fra televisione italiana, governo e potere neocapitalistico, ricorrente nell’ultimo Pasolini: dai menzionati articoli alle opere artistico-letterarie, da

L’histoire du soldat (1973) fino a Salò e Petrolio/Vas. Sia chiaro però che la sua satira

non è del tutto originale né tanto meno «profetica»24; Pasolini ripropone idee già

sviluppate dalla Scuola di Francoforte e se in Italia è ricordato più di Adorno lo dobbiamo al fatto che le ha esposte sia off-air sia dalle pagine del Corriere e che, più a valle, è divenuto un’icona pop (alla quale si lega lo stereotipo del profeta)25. Oltre ai  

21 Il Tempo pubblicò Giornalisti, opinionisti e Tv (28.12.1968) e Canzonissima (con rossore) (1.11.1969), mentre

sul Corriere apparvero: Sfida ai dirigenti della televisione (9.12.1973), riedito in Scritti corsari (1975) con il titolo di Acculturazione e acculturazione; Due modeste proposte per eliminare la criminalità in Italia (18.10.1975) e Le mie proposte su scuola e Tv (29.10.1975), ripubblicati invece in Lettere luterane (1976). Pasolini criticò la televisione italiana anche in altri scritti giornalistici, sia cursoriamente in altre pagine del Corriere sia su testate meno note (Paese Sera e la rivista Leggere), nonché nella produzione artistico-letteraria (oltre che in Petrolio/Vas in Salò); ma una delle satire più violente e dissacranti è contenuta negli appunti – copiosi e in realtà così formalizzati da costituire un testo quasi compiuto – predisposti per una discussione pubblica intorno al film televisivo Francesco di Assisi di Liliana Cavani (1966) e pubblicati da Siti e De Laude nel 1999 con il titolo Contro la televisione (vd. infra, sottopar. 6.2.3). Di recente è stata organizzata una serie di conferenze e di eventi sul tema, interessante più per i materiali messi in gioco (FELICE 2011, pp. 167-252) che per le prospettive critiche.

22 Vd. PASOLINI 1999b, pp. 1164-1167, ossia Giornalisti, opinionisti e Tv, il testo che affronta il tema televisivo

in modo più analitico di qualunque altro scritto giornalistico (pasoliniano).

23 P

ASOLINI 1999b, pp. 292-293.

24 M

ANZOLI 2011, pp. 21-22.

25 Per una critica generale dei mass media, televisione compresa, cfr. A

DORNO-HORKHEIMER 1966, pp. 130-180;

più specifico è invece ADORNO 1969 (cfr. specialmente pp. 384-385). Horkheimer e soprattutto Adorno sono stati i primi critici radicali della televisione quale elemento di spicco dell’industria culturale e del potere neocapitalistico; ne ha recepito le intuizioni anche Herbert Marcuse, che ha approfondito l’idea del totalitarismo alla base delle

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modi, l’eccezionalità di tale critica risiede nel coraggio di esercitarla in televisione: animo che tuttavia dalla prospettiva specifica della satira pare piuttosto imprudenza; e infatti durante l’intervista il poeta infrange un altro principio satirico di vitale importanza come quello della continenza verbale: non si limita ad affermare ripetutamente la mancanza di una parola franca e democratica ma aggiunge che «il parlare dal video è parlare sempre ex cathedra», e fa uso ulteriore di intensivi (quali il citato avverbio «sempre» o l’aggettivo «ogni») che enfatizzando il discorso in modo soverchio distorcono la giusta intuizione originaria26. Tale lessico iperbolico non è specifico del confronto con Biagi ma ricorre anche negli articoli menzionati: è cifra poetica e contraddistingue questa satira specifica così come molte altre. Naturalmente è lessico in contraddizione tanto con il dato biografico quanto con lo sguardo critico-razionale di Pasolini: questi non rifiuta in modo aprioristico la televisione e la frequenta anzi come ospite, collaboratore e spettatore (ancorché, in tutti e tre i casi, non di consueto); e precisa più volte di non essere critico nei confronti della televisione tout

court ma di quella italiana in particolare e di concepire comunque la possibilità di una

televisione ‘altra’27. Però – già lo sappiamo – la contraddizione è così radicata in Pasolini da costituire carattere precipuo della sua opera e perciò, malgrado le sue puntualizzazioni, risulta spesso difficile distinguere tra la televisione italiana e la televisione, così come tra il neocapitalismo italiano e il neocapitalismo, etc.

In ogni caso l’invettiva antitelevisiva colpì il destinatario nel segno: a monte i vertici della Rai – e quindi il governo – e a valle Biagi, che replicò spronando invano Pasolini a una parrhesia di cui avrebbe avuto invero, contrariamente alle lamentele, piena facoltà. La trafittura dei tre bersagli ebbe esito negativo sulla satira, anche se ne confermava la parziale fondatezza, perché la puntata, registrata il 29 maggio 1971, fu trasmessa sul programma nazionale solo il 3 novembre 1975, un giorno dopo l’assassinio. In quell’occasione Biagi introdusse la vecchia intervista adducendo subito il motivo della mancata messa in onda: una norma interna alla Rai «stabiliva che non potevano comparire sui teleschermi coloro che erano soggetti a un’azione giudiziaria»28 e il poeta, che tra il marzo e l’aprile del 1971 era stato il direttore responsabile di Lotta continua, risultava allora imputato presso il Tribunale di Torino per istigazione di militari a  

democrazie contemporanee (la televisione sarebbe una delle loro forme di controllo e repressione): cfr. MARCUSE

1967, pp. 26-32, 254-255. Dalla teoria critica neomarxista, discussa vivacemente pure in Italia fra gli anni ’50 e ’60 (cfr. ATTAL 2013, pp. 411-437), Pasolini ereditò in particolare tre tesi (in realtà più di tre, ma qui interessano solo

quelle applicabili al caso della tv): che la cosiddetta cultura di massa non sia frutto di una spontanea scelta dal basso, ma preordinata dal vertice del potere neocapitalistico; che la televisione, così come gli altri mass media, sia al contempo canale e messaggio; e che tramite i livelli latenti di tali messaggi i detentori del potere siano in grado di manipolare e modificare l’antropologia degli individui. Va precisato che Pasolini assimila il pensiero francofortese in modo personale e con libertà: per esempio dalle pagine di Nuovi Argomenti (aprile-giugno 1968) ebbe modo di contestare lo stesso Marcuse per il suo eccesso di fiducia nella contestazione giovanile (vd. PASOLINI 1999b, pp.

156-158).

26 È sufficiente notare che non sono cattedratiche le parole di Pasolini a Biagi, e che lo stesso intervistato –

durante la puntata così come in occasioni scritte – ammette la possibilità di eccezioni alla regola.

27 Vd. P

ASOLINI 1999b, p. 515.

28 Stavolta trascrivo dall’introduzione di Biagi, assente nella messa in onda di Restauro; per la quale cfr.:

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disobbedire alle leggi e per propaganda antinazionale e presso quello di Siena per istigazione a delinquere e apologia di reato; ma le parole del giornalista paiono solo un eufemistico pretesto perché all’epoca della registrazione il nostro subiva ormai da molti anni un accanimento giudiziario e mediatico potentissimo, sia contro la persona sia contro le opere, per corruzione di minori, oscenità, tentata rapina a mano armata, vilipendio alla religione di stato, diffamazione a mezzo stampa, incauto affidamento, invasione di edificio e altri capi d’imputazione29. Di tanta «persecuzione» il 29 maggio chiese delucidazioni l’intervistatore stesso, pertanto, se questi era del pari consapevole dei continui processi a carico dell’ospite e del provvedimento interno, perché realizzare una puntata destinata ab ovo alla censura totale? O forse la norma fu creata ad hoc dopo una supervisione del materiale registrato e imposta al giornalista? Anche se i dettagli della vicenda non sono stati mai resi noti, essa in realtà non sorprende chi conosce la storia della Rai ed è proprio alla luce di quest’ultima che sembra plausibile ricondurre il provvedimento ricordato da Biagi a una disposizione censoria mirata. Dagli anni del codice Guala, cioè fin dalla nascita (1954), la Rai ebbe un assetto così rigido e antidemocratico che per ogni trasmissione era previsto un vaglio morale (e governativo) atto a verificare il rispetto delle norme di autodisciplina da parte dei suoi autori e attori, e un controllo pressante continuò a essere esercitato anche dopo il piccolo rinnovamento ascrivibile alla direzione generale di Ettore Bernabei (1961-1974), voluta dal Presidente del Consiglio Amintore Fanfani; Bernabei fu soprannominato il supercensore perché sperimentò altre forme di controllo, non meno efficaci di quelle concordate con Pio XII dal primo amministratore delegato della Rai, Filiberto Guala (pure lui fanfaniano): i programmi che risultavano sgraditi benché ligi all’autoregolamentazione interna erano trasmessi in orari di minore audience, in concorrenza con altri di ben maggiore richiamo o venivano lasciati in magazzino e finanche perduti30. Andò incontro a un destino simile

allo smarrimento un’altra intervista corsara, Italiani oggi, trasmessa il 19 ottobre 1974  

29 Per la storia processuale di Pasolini cfr. CASTALDO 2008, pp. 65-218, che è la tesi vincitrice del XXV Premio

internazionale per tesi di laurea e di dottorato riguardanti l’opera e la vita di Pier Paolo Pasolini (2009); la tesi però non si limita a riferire il curriculum dell’imputato – manca ancora uno studio tecnico e approfondito sul tema perché Castaldo descrive nel dettaglio “solo” i due processi più esemplari (quelli contro Ragazzi di vita e La ricotta) –, bensì ne indaga soprattutto le ripercussioni sull’opera artistico-letteraria. Per un bilancio sintetico cfr. CASTALDO 2009. Sulla parallela persecuzione mediatica (e fisica) cfr. GRATTAROLA 2005, pp. 17-320. I processi a carico del

poeta-cineasta sono spesso ricordati anche in sede divulgativa: al centro del documentario Pier Paolo Pasolini. Il santo infame di Daniele Ongaro (sceneggiatura) e Graziano Conversano (regia), trasmesso il 3 novembre 2015 su RaiStoria nella rubrica Italiani di Paolo Mieli e reperibile al link: <https://www.youtube.com/watch?v=N1npSUcVx-0> (10.10.2018), sono menzionati pure da mostre di vario tema dedicate a Pasolini, da ultime Pasolini Roma (Palazzo delle Esposizioni di Roma, 15 aprile-20 luglio 2014) e più cursoriamente Pasolini a Matera. Il Vangelo secondo Matteo 50 anni dopo (Palazzo Lanfranchi di Matera, 21 luglio 2014-25 gennaio 2015). Va precisato che un tema di così grande portata è spesso svolto in termini agiografici: CASTALDO 2009, p. 238 puntualizza che dalla documentazione raccolta nel Centro Studi Archivio Pier Paolo Pasolini presso la Cineteca di Bologna risultano “solo” trentuno procedimenti legali a carico del poeta, ma di frequente sono aumentati al numero sacralizzante di trentatré (in bocca all’attrice e amica Laura Betti, nella mostra Pasolini Roma, nell’introduzione di Mieli al documentario sullodato, in molta letteratura critica, nelle fonti web, etc.). Poiché i processi s’intrecciano alle insinuazioni mediatiche, alle censure, ai sequestri di alcuni film e a numerose denunce senza seguito processuale (è il caso di Mamma Roma, soprattutto de Il Decameron, che da solo ne subì molte decine, e de Il Fiore delle Mille e una notte), è difficile riportarne il numero esatto; data questa complessità, per scongiurare il rischio di ‘dare i numeri’, è bene fare come Castaldo: dedicarsi a ricerche d’archivio e fondarsi sui documenti.

30 Cfr. G

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sul programma nazionale nella rubrica del tg Controcampo (a cura di Giuseppe Giacovazzo); analoga per radicalità di critica a quella condotta da Biagi tre anni prima, dopo la messa in onda finì in magazzino e andò quasi interamente perduta: alcuni frammenti furono ritrasmessi sullo stesso canale pochi giorni dopo l’assassinio, l’8 novembre 1975, all’interno di una puntata di Controcampo intitolata Pasolini, la

provocazione, ma se queste poche sequenze si conservano ancora presso gli archivi Rai,

non più l’intervista intera, di cui sopravvive la mera traccia sonora registrata in privato da Laura Betti, oggi custodita presso il Centro Studi Archivio Pier Paolo Pasolini di Bologna31. Nel 1974 anche il programma di Anna Zanoli Io e... dedicò una puntata a Pasolini: il 7 febbraio la Rai trasmise regolarmente sul secondo canale, e senza smarrimenti postumi, il folgorante documentario Pasolini e... “la forma della città” di Paolo Brunatto, sebbene fosse tanto critico nel finale quanto Italiani oggi e lo scontro con Biagi. Anche se la messa in onda di tale cortometraggio e di Italiani oggi pare inconciliabile con l’interdetto subìto dalla puntata di Terza B facciamo l’appello 32, invero il confronto fra i tre documenti chiarisce bene le ragioni della censura inflitta all’ultimo e della trasmissibilità garantita agli altri due: se tutti e tre condividono una condanna radicale del neocapitalismo italiano, solo nell’intervista condotta da Biagi c’è pure una satira della televisione! Dunque, per quanto sia difficile spiegare nei dettagli evenemenziali l’interdizione subita da quest’ultima33, una cosa però risulta chiara: a chi studia la vita e l’opera di Pasolini e conosce inoltre le strategie della satira34, la mancata messa in onda dell’intervista del 29 maggio 1971 appare imputabile all’incauta e ardimentosa critica di Pasolini più che alle vicende giudiziarie ricordate dal giornalista; e sembra che la puntata sia potuta andare in onda dopo l’assassinio solo in parte grazie alla neonata riforma della Rai, che fra le altre innovazioni aveva esteso il controllo del sistema radiotelevisivo dal governo al parlamento e consentito così un piccolo spiraglio di democrazia35, ma anzitutto perché tale trasmissione a caldo e l’introduzione di Biagi  

31 L’intervista è stata ricostruita dalla cineteca bolognese montando sulla traccia sonora le fotografie dei diversi

ospiti scattate in studio – salvo, beninteso, che nelle poche sequenze di cui sopravvivono l’audio e il video –; cfr. LEPRI 2011, pp. 187-188.

32 A siffatta incompatibilità se ne aggiunge una vieppiù sorprendente: l’imputato e intrasmissibile Pasolini

ricomparve in televisione, nella rubrica Tuttilibri, già il 26 giugno 1971, cioè nella stessa estate in cui, secondo la programmazione antecedente la censura, sarebbe dovuta andare in onda l’intervista registrata il 29 maggio. Per un elenco completo degli interventi televisivi di Pasolini cfr. CHIESI-COLUSSI-GRESLERI 2011; segnalo però che i tre autori hanno desunto la notizia di quest’ultima trasmissione dall’unica fonte disponibile, un inventario delle apparizioni televisive di Pasolini curato dalla stessa Rai: nessuna copia della puntata si conserva nel Centro Studi Archivio Pier Paolo Pasolini, che più di qualsiasi altra istituzione ricerca e archivia tali materiali e nella fattispecie ha contribuito al convegno Pasolini e la televisione; il direttore medesimo, e coautore del sullodato scritto, suggerisce di accogliere la notizia con cautela, almeno fino a che la registrazione della puntata non riemerga dagli archivi Rai.

33 Nel 1972 lo scrittore Franco Antonicelli, allora senatore della Sinistra Indipendente e membro della

commissione parlamentare per la vigilanza sulle radiodiffusioni, chiese ragguagli al Ministro delle poste e delle telecomunicazioni Giacinto Bosco con un’interrogazione apposita, ma ricevette la stessa pretestuosa motivazione addotta da Biagi: «Si fa presente che la RAI, ciò facendo, si è uniformata alla prassi costantemente [!] osservata di evitare presentazioni sul video di persone nei confronti delle quali sia in corso un procedimento da parte dell’autorità giudiziaria» (BOSCO 1972).

34 Non riesco a non pensare a L

UC. Alex. 55-56, all’emblematico morso alla mano di Alessandro di Abonutico che costa al personaggio Luciano di Samosata il rischio di essere ucciso.

35 Cfr. G

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si iscrivono appieno in quella santificazione post-sacrificale iniziata il 2 novembre e tuttora sopravvivente36.

Ho scelto di cominciare il paragrafo da Terza B facciamo l’appello e di accennare ad alcuni dati storico-biografici perché essi contengono in nuce il paradigma satirico-lucianeo di Petrolio/Vas; non solo per sottrarre il sullodato ossimoro alla (s)fortuna incontrata sui motori di ricerca, che lo rendono oggi agli occhi dei più e delle più una

sententia ben congegnata e seducente, da poète maudit. Io stesso all’inizio non ho

trascritto la colonna dialogo alla lettera; se di converso la trascrizione fosse stata diplomatica avrebbe riportato le seguenti esitazioni e correzioni da parte dell’intervistato: «Il successo è... è una forma... è l’altra faccia del... della persecuzione, non so come dire». Sono imperfezioni autentiche, segno e prova che, malgrado le dichiarazioni di superiorità alle critiche mossegli37, Pasolini era rimasto molto ferito dalla trentina di procedimenti legali subiti (ai quali vanno aggiunti i processi pubblico-mediatici, senza dubbio peggiori per quanto concerne l’esito38); e costituiscono quindi un monito per quest’ultimo capitolo. Anche se Petrolio/Vas attesta una strenua ricerca di ‘leggerezza’, l’esercizio critico-satirico coronato da tale romanzo mantiene un fondo dolente, tragico, e poiché appassionato e mal sofferente la persecuzione subita esso talvolta è carente di quella piena lucidità e di quel distacco necessari a una satira perfetta. Ma Pasolini è poeta ‘impuro’ e Petrolio/Vas opera programmaticamente impura, contaminatoria, e quindi illeggibile sotto la sola lente interpretativa della satira39; inoltre, nonostante il nostro abbia sperimentato nell’ultimo lustro uno sguardo

 

36 Sulla spartizione delle reliquie pasoliniane hanno scritto in molti; su tutti valga S

ITI 2015, p. 236.

Nell’introduzione alla messa in onda del 3 novembre Biagi è visibilmente commosso e in parte sembra parlare con sincerità, tuttavia le sue parole risultano infelici per bilancio complessivo e dettagli: cioè per la volontà di non associare l’assassinio di Pasolini alla guerra civile degli anni ’70 e per la superficialità dell’idea connessa, tutt’oggi molto diffusa, della morte scritta dallo stesso autore; per la banale e falsa retorica del genio poetico riconosciuto allora universalmente e del parallelo rimpianto globale per la sua morte; per il tipico fraintendimento della poesia Il PCI ai giovani!; per alcune considerazioni sull’animo più profondo di Pasolini: l’innocenza, la semplicità – valutazioni non facili, che solo i più intimi avrebbero potuto tentare. Alcuni fraintendimenti sono comprensibili alla luce del depistaggio, che un giorno dopo la morte non era così evidente come lo è oggi, e al giornalista vanno comunque riconosciute alcune intuizioni giuste (su tutte la capacità di autocritica dell’ultimo Pasolini), ma il suo discorso rimane troppo segnato dall’ignoranza e da una retorica falsa. Una buona sintesi sull’assassinio è in LUCARELLI 2015, pp. 56-207.

37 «[E. B.] Come ci si sente ad essere tanto spesso contestati? [P.P.P.] Mah, le cose non arrivano molto in realtà.

Perché... chi lavora è impegnato nel suo lavoro, poi i discorsi degli altri li fanno fra di loro: in parte arrivano, in parte no; non sono abbonato a L’Eco della Stampa, quindi non leggo mai niente di quel che si dice di me. Evito di ascoltare discorsi fatui, ogni tanto mi arrivano delle cose, ma insomma non me ne occupo molto».

38 Nessun processo portò a una condanna definitiva di Pasolini, cioè al terzo grado di giudizio; invece la

persecuzione mediatica e sociale sopravvive tutt’oggi (spesso sotto forma di santificazione).

39 Impurità è categoria critica coniata sulla base di un lessico pasoliniano che gravita intorno all’aggettivo

‘impuro’ e che ricorre fin dai primi testi ma assume negli ultimi un forte valore programmatico travalicante le originarie implicazioni decadentistiche: nel rispetto di quest’ultima accezione essa indica una commistione fra vita e letteratura tutta peculiare dell’opera di Pasolini. L’idea è stata lanciata da Carla Benedetti in un bel saggio che contrappone la poetica di Calvino a quella dell’ultimo Pasolini: mentre la prima è giocata sulla più perfetta astrazione letteraria e appare come un sorprendente castello di carte, la seconda è dominata da un’originalissima contaminazione fra codici artistico-letterari ed esperienze vitali e si presenta come un’opera-corpo; in altre parole, se Calvino innova la tradizione letteraria dal suo interno, il poeta lo fa sperimentando strade in parte nuove, come la letteratura performativa, ‘pantomimica’, e quell’incrocio di generi, idee e arti che solo uno scrittore proteiforme come Pasolini poteva incrociare: cfr. BENEDETTI 1998, pp. 9-60, 137-187. FUSILLO 2007, pp. 69-70 ha collegato la tensione

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cinico-straniante, permane pure nel testo-summa lo sguardo lirico del primo Pasolini. Per siffatte ragioni non deve stupire se la reinvenzione lucianea di Petrolio/Vas non rispetta appieno il modello: il dato biografico, l’impurità e il contrasto fra tensioni illuministiche e romantiche sono anzi tre elementi peculiari della satira che mi avvio a discutere; vanno tenuti a mente e valorizzati in quanto compartecipi della fisionomia di «Luciano ’o Sarracino».

Dell’intervista restano da osservare alcuni particolari che uno sguardo attento non può trascurare. Anzitutto che Pasolini non veste il solito abito formale e questa scelta è tanto più icastica quanto più è ‘diversa’: i cinque compagni, il professor Gallavotti e Biagi sono tutti incravattati. Da alcuni anni il poeta aveva molto diminuito l’uso della giacca e cravatta a favore di vestiti più giovanili e sovversivi, che ne esibissero il corpo asciutto e allenato e temperassero così l’invecchiamento; senza dubbio l’abito informale indossato durante l’intervista non riesce ad ammaliare con la stessa forza delle camicette di jeans o a colori oggi testimoniate dal suo enorme corpus fotografico, ma la sahariana e la camicia sbottonata, in cotone grosso e operato, si accompagnano a una postura scomposta e a una gestualità seduttiva che venano la sua figura di un erotismo sbarazzino non lontano da quello del Pasolini in uniforme calcistica o in calzoncini e canottiera sul set de Il Fiore delle Mille e una notte (1974)40. E se in aggiunta si notano la tendenza a eludere, a troncare o ad avversare numerose domande di Biagi e la disillusione provocatoria di alcune risposte,allora il paradigma cinico pare calzante 41.  

40 È possibile rintracciare questa evoluzione ‘estetica’ nell’antologia P

ASOLINI 2015, il cui maggior merito è

proprio il ricco apparato fotografico.

41 Segue una trascrizione diplomatica, che preserva errori di vario tipo (logici, grammaticali, fonetici),

sospensioni e troncamenti: «[E. B.] Quali sono le illusioni che lo studente Pasolini ha perduto? [P. P. P.] Mah, nessuno. [E.B.] Lei non... [P.P.P.] Assolutamente nessuna de... [E. B.] De-de-dei sogni di allora, delle cose d’allora...? [P. P. P.] Mah [E. B./P. P. P., simultaneamente] Le pare che la vita abbia.../La domanda... [P. P. P.]...la domanda mi sorprende perché... proprio la mia vita è caratteristizzata dal fatto di non aver perso nessuna illusione [E. B.] Lei non si è mai sentito, per esempio, vittima dell’ingiustizia? [P. P. P.] Sì ma son eran son casi personali che non v- non ho mai voluto generalizzare [...] [E. B.] Da giovane lei era triste? [P. P. P., rivolto ai compagni e al professore] Ero triste? [al che rispondono tutti negativamente] [...] [E. B.] Mi pare che lei non creda più ai partiti. Che cosa ha da proporre in cambio? [P. P. P.] No, perché se lei mi dice che non credo più ai partiti mi dà del qualunquista ed io invece non sono qualunquista. Ho un certo... sì, tendo più verso una forma anarchica che verso una forma, che verso una scelta ideologica di qualche partito, questo sì, ma non è che non creda ai partiti, ecco. [...] [E. B.] Lei si batte contro l’ipocrisia: sempre. Quali sono i tabù che vuole distruggere: le prevenzioni sul sesso, lo sfuggire alle realtà più crude, la mancanza di sincerità nei rapporti sociali? [P. P. P.] Mah, questo l’ho detto fino dieci anni fa, adesso non dico più queste cose perché non ci credo. Come le ripeto, la parola speranza è cancellata completamente dal mio vocabolario. Quindi... continuo a lottare per verità parziali momento per momento, ora per ora, mese per mese, ma non mi pongo programmi a lunga scadenza perché non ci credo più [E. B.] Lei non ha speranze? [P. P. P.] No [E. B.] Vive giorno per giorno? [P. P. P.] Vivo giorno per giorno, sì! Non ho più quelle, quelle speranze che sono alibi, ecco! [segue immediatamente lo scontro ricordato all’inizio del paragrafo, dalla vacuità del successo alla critica della televisione] [...] [E. B.] Il vangelo la consola? [P. P. P.] Mi consola? [E. B.] Sì [P. P. P.] Mah, non cerco consolazioni. Cerco umanamente ogni tanto qualche piccola gioia qualche piccola soddisfazione ma... le consolazioni proprio... sono sempre retoriche... insincere, irreali [E. B.] Mah, non so... [P. P. P.]Ah, lei dice il vangelo... [E. B.] Sì [P. P. P.] ...il vangelo... [E. B.] Sì [P. P. P.] ...di Cristo? [E. B.] Sì [E. B./P. P. P.,simultaneamente] Non mi pare.../No. Allora... [P. P. P.] ...in questo caso escludo totalmente la parola consolazione! [E. B.] Che cos’è per lei? Un testo... [P. P. P.] Per me il vangelo è una grandissima opera intellettuale... una grandissima opera di pensiero... che non consola, che-che-che riempie, che integra, che rigenera – non so come dire – che-che-che mette in moto i propri piaceri, ma la consolazione è proprio... Che-che farsene della consolazione? La consolazione è una parola come speranza! [E. B.] Quali sono i suoi nemici? [P. P. P.] Mah, non lo so. Non li conto. Non... Sì, sento ogni tanto delle ondate di-di inimicizia... delle volte inesplicabile, che... Non ho voglia di occuparmene molto [...] [E. B.] Lei ha detto che invecchiando si diventa allegri. Perché? [P. P. P.] Perché si ha meno futuro, e quindi meno speranze: e questo dà un

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Come ho già ricordato42, l’eccezionalità di Pasolini interroga e travalica i confini tradizionali della letteratura a tal punto che, per citare Siti, la sua opera «sta stretta» nelle oltre quindicimila pagine dei Meridiani, è possibile aggiungere ai dieci volumi cartacei le pellicole dei film, i disegni e le pitture, le interviste televisive, le conferenze, le fotografie, i cammei contenuti in lungometraggi altrui (e propri), le azioni performative (come Intellettuale dell’amico Fabio Mauri)43; mi sembra dunque giusto attribuire un significato filosofico-poetico al codice cinesico, ‘estetico’ e verbale del Pasolini intervistato da Biagi e ricollegarlo alla coeva produzione meno convenzionale: letteraria e persino umanistica per certi versi, ma in grande fermento: ossia a

Petrolio/Vas, cominciato meno di un anno dopo la registrazione negli studi Rai. Il

poeta-cane che dichiara di vivere alla giornata, di essere più allegro perché più vicino alla morte e polemizza sia con il corpo sia con la parola contro il successo letterario ed economico, contro la televisione e la società dello spettacolo, contro gli ideali neocapitalistici e comunisti e finanche contro se medesimo, non è molto dissimile dall’autore del non-romanzo44.

Ricordo infine che al Liceo Galvani, anno scolastico 1936-1937, erano stati adottati i dialoghi di Luciano per consolidare le basi linguistico-grammaticali degli alunni di V D: l’antologia Cristofari, che consta di venti testi tratti in numero maggiore dai dialoghi infernali (!) e minore da quelli marini e celesti, rappresenta con tutta probabilità il primo incontro di Pasolini con il Samosatense; come già dissi, né al ginnasio né in I e II C deve esservi stata l’occasione per discuterne lo spessore filosofico-letterario, ma non passi inosservato che l’edizione scolastica curata da Carlo Brighenti riserva maggiori cure proprio ai dialoghi in cui figurano i cinici Menippo e Diogene e che, ancorché scelta da Borgatti al fine del mero esercizio metafrastico raccomandato dai programmi ministeriali, essa dà molto spazio al quadro storico-culturale in cui il “Saraceno” operò e alla corrosività «spietata» della sua satira45. Comunque sia, tra 1974 e 1975 il cerchio si chiude: il nostro rilegge e recensisce con passione i dialoghi lucianei pubblicati nei  

grande sollievo!». In aggiunta a questo elenco di risposte ostili, amare e sbrigative andrebbe considerata la modulazione vocale di Pasolini, stanca e stizzita anche in altri passi dell’intervista, e notate inoltre le interiezioni ‘mah’ (di estenuazione più che di aporia), ‘ecco’ (di cipiglio) e ‘insomma’ (d’impazienza), ovunque diffusissime nel discorso di Pasolini. Infine va precisato che a tali momenti cinico-disforici si alternano altri di natura più partecipata e gaia da parte del poeta (specialmente quando Biagi passa dal dialogo alla conversazione, cioè quando smette di centrare il discorso su Pasolini, introduce argomenti comuni a tutti i convenuti e allarga il confronto).

42 Cfr. supra, parr. 1.4 e 1.5; cap. 2; par. 3.2; cap. 6, n. 39. 43 Cfr. S

ITI 2015, p. 235.

44 Ovviamente la possibilità di interpretare l’intervista alla stregua di un’azione performativa non va presa alla

lettera. Il nostro non è Vito Acconci; anche se ha cercato un’infrazione del gioco letterario così estrema che alcuni critici e poeti, autoeletti a interpreti veri della vera poesia, lo hanno espulso dalla partita, Pasolini rimane in primis poeta, qualsiasi sconfinamento artistico-letterario abbia sperimentato. Quando negli ultimi anni accentuò la contaminazione fra i codici e l’intersezione fra corpo e testo, “si limitò” a orientare la poesia in direzione del performativo, non se ne allontanò per fare body-art o altre forme di performance: così come qualche anno prima non aveva abbandonato la poesia per la regia cinematografica – alla quale in realtà si potrebbe persino dire che non arrivò mai dato che, a parte le lacune tecniche (ammesse da lui medesimo: cfr. PASOLINI 2015, p. 35), concepiva il cinema

come un’esperienza più poetico-filosofica che filmica.

45 Cfr. supra, sottoparr. 0.1.1 e 0.1.2. Sulla sensibilità storico-letteraria di Brighenti per il cinismo lucianeo cfr.

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Millenni einaudiani46, cita quelli dei morti all’interno di Petrolio/Vas dando al riporto un valore programmatico che si ripercuote sull’intera opera e, sia pure in modo incommensurabile, nomina Diogene e Menippo anche in una lettera aperta all’amico Moravia sul tema dell’aborto, pubblicata sul Corriere il 30 gennaio 1975 e riedita negli

Scritti corsari47. Insomma: letture, interpretazioni, citazioni e riscritture ai più estremi margini del presente itinerario; le date appena rimembrate (1937, 1975) sono il segno più tangibile di tale marginalità, eppure, come non si dà quadro senza cornice48, così anche riletture collaterali possono lumeggiare l’universo poetico dell’ultimo Pasolini (e di Pasolini tout court). Ci sono classici che assimilò con maggiore frequenza rispetto al Samosatense (i tragici sopra tutti), ma benché Luciano conti meno occorrenze e non sia mai stato annoverato fra gli autori della prima gioventù49, la lettura fatta nell’ultimo

inverno di vita fu profonda, coinvolgente; e il segno ‘evidente’ di tanta passione si coglie nella recensione L’amara ironia di Luciano prima che Roma morisse più che in

Petrolio/Vas: poiché si tratta di un saggio critico, manca il complesso e disorientante

schermo inventivo-letterario del romanzo e il poeta vi scrive con maggiore esplicitezza. È da qui che bisogna ripartire.

6.2.2. Dalla recensione lucianea all’Appunto 84: mordere personaggi da

«rotocalco»

Oltre a dedicare alla traduzione di Luigi Settembrini osservazioni tanto empatiche quanto compilatorie50, Pasolini discute la figura complessiva di Luciano e mette al centro dello scritto la sua marginalità storica; con grande commozione ma del pari esercitando un pensiero più critico dello scrittore che aveva introdotto l’edizione einaudiana (Leonardo Sciascia), il recensore traccia una descrizione del Samosatense che tiene conto del suo milieu culturale e non di meno insiste con pathos sulla condizione liminare di cui Luciano non poteva essere storicamente consapevole: cioè di ultimo classico prima della ‘barbarie’ cristiana. Il testo si apre all’insegna del declino e della soglia: «Alla fine del secondo secolo dopo Cristo, Luciano [...] si trovava in un  

46 Cioè S

ETTEMBRINI 1974. La recensione fu pubblicata sul Tempo il 13 dicembre 1974 e riedita nella raccolta

postuma Descrizioni di descrizioni (1979); ora è in PASOLINI 1999a, pp. 2185-2190.

47 Vd. P

ASOLINI 1999b, p. 384. Mentre nella recensione e in Petrolio/Vas Pasolini assimila profondamente il cinismo lucianeo, nella lettera se ne distanzia perché lo attribuisce all’amico abortista – ma nella declinazione comune e impropria di ‘pragmatismo’ –; a parte questo rifiuto (e fraintendimento) la differenza sta nei numeri della ricezione: nell’articolo è solo un accenno, fulmineo e per giunta parentetico.

48 Cfr. B

URCKHARDT 1990, p. 411 e SABATELLI 1992, p. 9.

49 Come Dostoevskij, Shakespeare, Freud, Coleridge, etc. Pasolini ne ricorda alcuni proprio al termine della

puntata di Terza B facciamo l’appello, quando la regia proietta alcune riprese di Bologna e Biagi gli chiede di commentarle dichiarando i ricordi che esse gli ispirano; come appare il portico della Morte con la libreria Nanni Pasolini dichiara subito che «è il più bel ricordo di Bologna» e alla domanda: «Cosa le ricorda questa...?» risponde: «A me il portico della Morte mi ricorda L’idiota di Dostoevskij, mi ricorda il Macbeth di Shakespeare, mi ricorda, insomma, tutti i miei primi libri: a quindic’anni ho cominciato lì io a comprare libri ed è stato bellissimo... perché non si legge mai più in tutta la vita con la gioia con cui si leggeva allora».

50 C

ONDELLO 2014, p. 42 parla invece di «acutezza» pasoliniana; non si è accorto che le riflessioni di PASOLINI

1999a, p. 2188 non sono tutte di prima mano, ma in parte risalgono alla nota critica introduttiva del Millennio recensito (cfr. SETTEMBRINI 1974, p. xx).

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vicolo cieco della storia, e della storia letteraria. In fondo ad esso c’era il buio del tempo che non conta: il buio degli Inferi»51; segue la menzione della nuova cultura e religione, ed è alla luce di quest’ultima che viene letto l’autore recensito e si rende possibile un

transfert nel «ragazzo povero che era riuscito faticosamente a studiare ad Antiochia [...]

provenendo dalla campagna siriana»52. «Povero» e «campagna» appartengono appieno alla poetica di Pasolini e non rispecchiano la realtà storica filologicamente ricostruibile, perché se è vero che Samosata risultava periferica rispetto alla capitale siriaca Antiochia essa era però una città monumentale, capoluogo della Commagene, non un villaggio, e inoltre perché pare che Luciano non provenisse da una famiglia contadina; più problematica è invece la questione della povertà: menzionata in Somn. 1 (Τοῖς πλείστοις οὖν ἔδοξεν [...] τὰ δ᾿ ἡµέτερα µικρά τε εἶναι καὶ ταχεῖάν τινα τὴν ἐπικουρίαν ἀπαιτεῖν), potrebbe essere vera, ma costituire viceversa il topos dell’indigenza autoriale, comune in un’epoca di grande mobilità sociale come quella vissuta da Luciano e sfruttato appunto da numerosi esponenti della seconda sofistica; e risulta problematica anche perché nello stesso testo greco è sfuggente, essendo presentata come una percezione degli amici del padre (ἔδοξεν) piuttosto che un dato di fatto. Comunque sia, se il poeta si è lasciato sedurre dalla lettura del Samosatense così da assimilarlo e in parte trasformarlo, lo dobbiamo a una tanto profonda quanto contraddittoria attenzione per il cristianesimo: anche se nel caso specifico essa non è autogena e anzi nasce dall’interpretazione – apprezzata e al contempo contraddetta – dello scrittore siciliano (Luciano e le fedi), il quale intravedeva fra il retore e la nuova religione più contatti di quanti invece ne sogliono ammettere filologi e filologhe53, il dato storico del cristianesimo permette al nostro di valutare meglio, in un’ottica personale e lirica (!), i riletti dialoghi di Luciano. A un poeta che professava di vivere alla giornata, come un «cane»54, e che aveva perduto del tutto ogni illusione, tanto politica (nella borghesia

dapprima e poi nel comunismo) quanto religiosa (cioè in un cristianesimo non confessionale), il «‹differente› senso della morte»55 insito nel testo antico gli apparve come una rivelazione e un’occasione di superamento delle proprie macerie ideologiche e spirituali; se negli anni ’60 qualche frustulo di prospettiva futura era sopravvissuto per merito di alcune innovazioni storiche (come il papato di Giovanni XXIII), dell’amore per Ninetto Davoli e della gioiosa scoperta del Terzo mondo, negli anni ’70 Pasolini perde di converso ogni amore, il sesso mercenario diventa sempre più difficile ed è solo nel cinismo menippeo che trova un’alternativa filosofica, un possibile lenimento alle proprie ferite – pure a quelle autoinflitte durante le nuove sperimentazioni sadomasochistiche. Le sullodate affermazioni sulla vacuità del successo e sull’allegria della vecchiaia provano che fin dai primi anni ’70 la filosofia cinica si profilava come   51 P ASOLINI 1999a, p. 2185. 52 P ASOLINI 1999a, p. 2186. 53 Cfr. S ETTEMBRINI 1974, pp. vii-xv.

54 Non solo in televisione, ma anche in versi: «Non c’è cena o pranzo o soddisfazione del mondo, / che valga una

camminata senza fine per le strade povere, / dove bisogna essere disgraziati e forti, fratelli dei cani» (PASOLINI 2003b, p. 119 = Versi del testamento, vv. 44-46).

55 P

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una strada potenziale; ed è proprio su di essa che si trovò proiettato definitivamente nell’autunno-inverno 1974-1975 rileggendo Luciano. I dialoghi, sui quali incombe l’ombra cristiana56, additano un diverso modo di intendere la morte, dal quale nasce anche un diverso modo di intendere la vita: una vita pagana, pre-cristiana, sprovvista delle chiusure mentali della teologia cattolica; una vita più spietata, ma più vivida e razionale. Pasolini prova una grande simpatia per Luciano57, e in parte vi si identifica; legge in lui una marginalità che sente, seppure altra, molto vicina a sé. Come Luciano giocava con la letteratura e la cultura ateniese sull’orlo del baratro barbarico-cristiano, così nell’ultima grande opera progettata il poeta ambisce a una sintesi ludica della grande tradizione umanistica che si avvia al tramonto sotto le ombre sinistre di una nuova era indefinibile (se non come «fine culturale del mondo»58). Sa di non essere

lucianeo perché nel leggerlo ha provato una commozione cristiana che al Samosatense era del tutto estranea59, e perché gli manca, oltre alla sua perfetta leggerezza satirica, l’ignoranza di essere in un vicolo cieco60, ma nonostante ciò è attratto nel profondo dal suo involontario nichilismo: «Luciano parla in un modo poetico, senza estetismi, di nulla»61.

È da siffatto appassionato transfert in Luciano che sgorga la vena satirico-irridente di molte pagine di Petrolio/Vas; la recensione è documento utile per capirlo perché descrive, più del testo da recensire, l’appassionata lettura e appropriazione fatta dal nostro. L’unico “capitolo” in cui è fatta una citazione testuale esplicita di Luciano è l’Appunto 84, che si intitola programmaticamente Il gioco sia perché l’intera opera è gioco, ‘ludus’, nella misura in cui non contempla un narratore che racconta una storia bensì un autore che provoca e si diverte a costruire progressivamente il progetto di un romanzo da farsi, sia perché nell’Appunto 84 Pasolini, fingendo di rompere l’inesistente illusione narrativa, fa un bilancio del proprio cammino: dopo la seconda metamorfosi sessuale del secondo Carlo (ossia Carla di Tetis che da donna ritorna masculo), e la subitanea castrazione che ne segue – riferite nell’Appunto 82. Terzo momento basilare

del poema62 –, l’autore dichiara la fine definitiva delle proprie illusioni e la giocosa  

56 «In fondo a quel secolo che non sentiva alcuna soluzione di continuità rispetto al passato [...], e che era chiuso

verso il futuro da una muraglia di sinistra e malinconica ombra, Luciano non poteva che rispecchiare tale mortuaria marginalità storica in cui viveva» (PASOLINI 1999a, p. 2186).

57 «Non desidero altro che altri provino il profondo, leggero, inspiegabile piacere che ho provato io. [...] Non

conosco classico più classico di questo classico seriore» (PASOLINI 1999a, pp. 2185, 2187).

58 «Non so se noi siamo attualmente in un vicolo cieco – come gli uomini colti ateniesi o romani del secondo

secolo – mentre la strada maestra passa altrove: certo è questo: che, se stiamo per essere ‹storicamente superati›, e quindi per perdere la nostra vita come perdita cosmica, ciò non accade attraverso l’avvento di un’altra cultura che noi non sospettiamo: ma accade attraverso una vera e propria fine culturale del mondo» (PASOLINI 1999a, p. 2189).

59 «Il vedere poi ironicamente gli dèi e gli eroi omerici (o anche Alessandro e Annibale) come personaggi, noi

diremmo, da ‹rotocalco›, e il vedere con tanta ‹pietà creaturale›, e quindi con profondo e affettuoso umorismo (equivalente perfetto della loro joie de vivre) i personaggi ‹umili› (cortigiane, marchettari, marinai, caprari), tutto ciò commuove ‹cristianamente› più noi che l’autore: ben superiore a queste forme di commozione» (PASOLINI 1999a, p.

2187).

60 «Luciano è un uomo superficiale che parla senza volerlo della fine del mondo. [...] Ed ecco in conclusione ciò

che incanta nei Dialoghi di Luciano: la sua insondabile profondità di uomo superficiale che parla della ‹fine di qualcosa› ma non lo sa» (PASOLINI 1999a, p. 2188).

61 P

ASOLINI 1999a, p. 2188.

(19)

scoperta del «‘nulla’ sociale»; come Carlo si fa recidere parte del proprio sesso e ne trae una grande liberazione63, così Pasolini affronta con «sensazione esilarante» l’intuizione che la società non meriti sogni e doveri, ma solo una dedizione giocosa, «critica» e insieme «umoristica»64. Nel momento in cui occorre la parola tematica «gioco» viene riportato in nota, nella traduzione di Settembrini, l’incipit del primo dialogo dei morti65; pur non essendo strettamente menippea, questa citazione partecipa alla ludicità letteraria perché dichiara, in modo non convenzionale per un romanzo, la fonte che avrebbe condotto il poeta alla presa di coscienza del nulla sociale: il classico più classico di ogni classico seriore, l’autore che incanta parlando, senza saperlo, della fine del mondo greco-latino. È quindi un gioco letterario e al contempo un’irrisione, perché già sappiamo che nella realtà la riscoperta di Luciano è stata tanto appassionata quanto commovente, non paragonabile a una castrazione gioiosa 66. Ma la vera parola centrale dell’Appunto 84 è «irrisione» (e affini): l’identificazione del mondo sociale con il nulla non porta infatti lo scrittore all’inazione, bensì a una funzione critico-satirica. E di tale satira Pasolini traccia con attenzione, e all’insegna di Luciano, le strategie costitutive:

Chi irride una parte del mondo sociale, mettiamo la borghesia conformista che senza capir nulla passa da una fase all’altra, dalla pace alla guerra, dal benessere alla strage, dalle abitudini all’annientamento totale, non può non irridere assieme anche chi sa questo. L’irrisione non può che riguardare tutta l’intera realtà. [...] Cade però, nell’irrisione, ogni idea precostituita di futuro; anzi, se c’è una cosa che fa sorridere con un maggiore piacere interno è proprio il futuro. L’idea della speranza nel futuro diventa un’idea irresistibilmente comica. La lucidità che ne consegue spoglia il mondo di fascino. Ma il ritorno ad esso è una forma di nuova nascita: l’occhio luccica di ironia nel guardare le cose, gli uomini, i vecchi imbecilli al potere, i giovani che credono di incominciare chissà che (1). La terribile ferita che essi hanno data, si è guarita e rimarginata: ora essi hanno tra loro un nuovo collaboratore ed amico, che si interessa a fondo, con strana lucidità, dei

 

63 «Si riveste e telefona a una clinica poco lontana da casa sua, verso piazzale delle Muse: prende i dovuti accordi

per farsi ricoverare la sera stessa. Non ci sarebbe stato bisogno dell’intervento del primario: un qualsiasi dottore alle prime armi avrebbe potuto bastare: infatti l’operazione a cui Carlo ha deciso di sottoporsi è tra le più antiche e semplici: la castrazione. La libertà vale bene un paio di palle: “La mia vita è soave / oggi, senza perché; / levata s’è da me / non so qual cosa di grave...”» (PASOLINI 1998c, p. 1648). La riuscitissima citazione parodico-menippea dei versi di Gozzano (dai Colloqui: la seconda parte di Una risorta, vv. 5-8), che è strategia ricorrente in Petrolio/Vas ed è tipica altresì di Luciano e altri autori della tradizione satirico-menippea (Petronio), amplifica nel lettore la sensazione di ilarità liberatoria dichiarata dall’autore; per l’uso della citazione in Luciano cfr. FUSILLO 1992, pp. 26-42.

64 Vd. P

ASOLINI 1998c, pp. 1649-1650.

65 «O Menippo, Diogene ti esorta, se hai riso a bastanza delle cose della terra, a venir qui, dove riderai di più

ancora. Costà il riso aveva sempre un certo dubbio, quel tale dubbio: chi sa bene quel che sarà dopo la vita? ma qui non cesserai di ridere di tutto cuore...» (LUC. DMort. 1. 1 = PASOLINI 1998c, p. 1649).

66 È similmente artefatta e giocosa la seconda nota al testo dell’Appunto 84: «È da un’esperienza del genere che è

venuta all’autore l’ispirazione per questo romanzo» (PASOLINI 1998c, p. 1650). Anche questa nota si riferisce all’esilarante scoperta del nulla sociale e non va presa alla lettera: l’ispirazione precedette di gran lunga la rilettura lucianea né Petrolio/Vas è riconducibile soltanto a un progetto satirico; se è vero che il poeta si era avviato sulla strada della disillusione e del cinismo ben prima dell’autunno-inverno 1974-1975, e quindi si potrebbe interpretare la rilettura dei dialoghi come una presa di coscienza di una propria svolta pregressa, in realtà è solo negli ultimi due anni che Pasolini maturò un pensiero del tutto disincantato e cinico dopo aver smesso di credere finanche nell’eros (attivo). In ogni caso è importante che il nostro abbia voluto, a posteriori, porre sotto quell’insegna tutto il progetto di Petrolio/Vas.

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