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Capitolo III L’episodio dei galeotti

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Academic year: 2021

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Capitolo III

L’episodio dei galeotti

In questo capitolo verrà analizzato l’episodio dei galeotti, a partire da una breve introduzione sull’amministrazione della giustizia nella Spagna di allora, per poi passare all’analisi dei segmenti narrativi che si collegano alle tre forme di giustizia riscontrate nel capitolo precedente.

All’epoca di Cervantes reati di modesta rilevanza sotto il profilo criminale erano puniti con pene severissime, sproporzionate. Assai diffusa era la condanna al remo sulle navi del Sovrano. Non erano estranee a detta condanna le indebite pressioni del potere regio sui giudici per finalità di ordine politico, economico e militare. Le navi della flotta reale avevano infatti bisogno di valide braccia da destinare ai remi, e la principale fonte di approvvigionamento erano i tribunali, sui quali la Marina del Re faceva grande affidamento. Secondo Rodríguez Marín, a causa del forte deficit di nuovi galeotti, dopo la battaglia di Lepanto Filippo II dava una ricompensa di ‹‹dos ducados a cada alguacil que

prendiere a algún delincuente que sea condenado a galeras››1

.

Se prendiamo in considerazione il nostro oggetto di studio, l’episodio dei galeotti per l’appunto, le risposte di quest’ultimi alle domande di don Quijote delineano un quadro dei procedimenti giudiziari del tempo. Così il suo intervento nella liberazione dei galeotti mette in luce la posizione critica dell’autore nei confronti dei tribunali dell’epoca, e in particolare delle pene inflitte ai condannati.

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L’episodio è narrato nel capitolo XXII della Parte I. Don Quijote e Sancho si imbattono in un corteo formato da una dozzina di galeotti incatenati come grani di un rosario e condotti alle galere da quattro guardie, due a piedi e due a cavallo. Nonostante lo scudiero gli spieghi che si tratta di “forzati” condotti a scontare la pena stabilita dalla legge e dalla giustizia del re, Don Quijote ritiene suo dovere intervenire in loro difesa. Ciò con le buone o con le cattive, essendo suo preciso compito di cavaliere, voluto dal cielo, quello di aiutare gli oppressi e chiunque sia costretto con la forza a fare qualcosa contro la propria volontà.

Avvicinandosi al gruppo, ottiene dalle guardie il permesso di interrogare uno per uno i galeotti per conoscere la causa della loro sventura. Essi gli raccontano uno dopo l’altro, in modo pittoresco e con il gergo ad essi familiare, la propria storia giudiziaria.

Il primo gli dice di trovarsi in quella situazione per aver rubato una cesta di biancheria, di essere stato colto in flagrante per cui la tortura non aveva avuto luogo e di esser stato condannato a cento staffilate e tre anni di galera.

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Il secondo è un ladruncolo di bestiame che, per aver confessato sotto tortura, «le condenaron por seis años a galeras, amén de doscientos

azotes que ya lleva en las espaldas [...]»2.

Al terzo, che narra di essere stato condannato a cinque anni per non aver potuto disporre di dieci ducati, Don Quijote, impietosito, ne offre venti, ma poi scopre che quel denaro doveva servire per ungere il notaio e il procuratore.

Il quarto, un uomo dall’ aspetto venerando, con una barba bianca che gli scende più giù del petto, ha subito la gogna per lenocinio e stregoneria. E una condanna a cinque anni nelle galere.

Il quinto galeotto dice di aver messo su famiglia con quattro donne diverse, di cui due erano sue cugine. Precisa di non aver avuto i soldi per poter corrompere i giudici e di essere stato condannato per le sue colpe a sei anni.

L’ultimo degli interrogati è incatenato più degli altri perché si tratta del famoso criminale Ginés de Pasamonte, condannato a dieci anni

di galera: secondo una delle guardie: ‹‹es como una muerte civil››3. Al

termine dei colloqui don Quijote emette la sua sentenza di giudice-cavaliere errante:

«De todo cuanto me habéis dicho, hermanos carísimos, he sacado en limpio que, aunque os han castigado por vuestras culpas, las penas que vais a padecer no os dan mucho gusto y que vais a ellas muy de mala gana y muy contra vuestra voluntad, y que podría ser

2 Quijote, I, XXII, pag. 201 3

‹‹La muerte civil comportaba la pérdida de todos los derechos; además diez anos de galeras equivalían prácticamente a una pena de muerte››. Quijote, I, XXII , pag. 205, edizione a cura di F.Rico.

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que el poco ánimo que aquel tuvo en el tormento, la falta de dineros deste, el poco favor del otro y, finalmente, el torcido juicio del juez, hubiese sido causa de vuestra perdición y de no haber salido con la justicia que de vuestra parte teníades»4.

Notiamo come Cervantes metta in evidenza i caratteri più cupi della giustizia del tempo, quali la tortura, la corruzione, l’abuso di potere dei giudici. Certamente, come ha osservato Américo Castro, l’amara esperienza giudiziaria vissuta da Cervantes stesso, ha orientato

decisamente la sua critica dell’amministrazione della giustizia5

.

Castro osserva come quei ricordi personali affiorino anche in altre opere, inducendo Cervantes stesso a ripetuti riferimenti alla corruzione imperante. Così Preciosa, nella Gitanilla, consiglia in questo modo un soldato povero: ‹‹Coheche v.m., senor tiniente, coheche y tendrá dineros,

y no haga usos nuevos, que morirá de hambre››6. Nella Ilustre fregona,

l’autore, afferma esplicitamente: ‹‹Cuántos pobretes están mascando barro no más de por la cólera de un juez absoluto, de un corregidor, o

mal informado o bien apasionado!››7.

Si tratta quindi di una giustizia corruttibile, amministrata da giudici del tutto inaffidabili, che stanno dalla parte dei potenti, come il ‘ricco’ di Quintanar introdotto nel capitolo precedente.

Come abbiamo accennato all’inizio del capitolo, la legge prevedeva delle pene, che potevano includere percosse, abusi d’ogni genere, lunghi anni al remo sulle galere ecc. Anche la pratica della

4 Ibidem, pag. 207 5 A. Castro, pag. 207 6 Ibidem. 7 Ibidem.

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tortura per estorcere le confessioni a coloro che avevano la sfortuna di

cadere nelle mani della giustizia, forzandoli a cantar en el ansia8,

secondo la pregnante espressione usata dal galeotto, faceva parte delle pene disumane che venivano applicate.

È interessante come i galeotti siano convinti che le loro colpe dovevano essere punite, e non contestino la justicia del Rey. Questo atteggiamento ricorda l’episodio di Andrés, in cui il ragazzino mostra rassegnazione alla sua condizione di servo umiliato e percosso.

In questa pagina non c’è solo la critica della giustizia reale, è possibile infatti individuarvi, con una certa chiarezza, un riferimento più alto a quella evangelica.

In base a questa, secondo don Quijote, le umiliazioni e vessazioni inflitte ai galeotti da altri uomini sono intollerabili.

«Me parece duro caso hacer esclavos a los que Dios y naturaleza hizo libres[...] Allá se lo haya cada uno con su pecado; Dios hay en el cielo, que no se descuida de castigar al malo ni de premiar al bueno y no es bien que los hombres honrados sean verdugos de los otros hombres,

no yéndoles nada en ello»9 dice Don Quijote.

Il cavaliere errante si appella, quindi, ad una giustizia divina superiore secondo la quale gli uomini non possono imporre la loro al prossimo, giacchè non è lecito ad un uomo essere il giustiziere di un altro uomo. La punizione per le colpe commesse infatti compete a Dio, e nessun altro può assumersi questo compito. Le parole di don Quijote alludono, inoltre, alla parabola evangelica del grano e della zizzania

8 Quijote, I, XXII, pag. 201 9 Ibidem, pag. 207

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(Vangelo secondo Matteo 13,24-30)10. Il grano e la zizzania, cioè il bene

e il male, crescono insieme in un intreccio che non spetta all’uomo districare. Lo farà il Signore al suo tempo.

Come si vede, ridotto all’essenziale, l’episodio mette in luce la logica di Don Quijote. Non è questo l’unico capitolo in cui egli evoca una concezione della giustizia intesa come riflesso umano della misericordia divina.

Così tra i consigli dati a Sancho, che si accinge ad assumere l’ufficio di governatore dell’isola Barataria, alcuni riguarderanno proprio la giustizia e il suo rapporto della stessa con la misericordia.

I seguenti consigli di Quijote raccomandano la compassione e la misericordia nell'amministrazione della giustizia:

«Cuando pudiere y debiere tener lugar la equidad, no cargues todo el rigor de la ley al delincuente, que no es mejor la fama del juez riguroso que la del compasivo. Si acaso doblares la vara de la justicia, no sea con el peso de la dádiva, sino con el de la misericordia»11.

Dalle analisi e dalle considerazioni fin qui esposte, appare chiaro che al centro dell'episodio dei galeotti vi è la contrapposizione tra la giustizia legale umana e la giustizia evangelica e cavalleresca che persegue don Quijote. Egli, infatti, oppone la carità e la misericordia alla

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M. Olivari, Fra trono e opinione, Marsilio,Venezia, 2002, pag. 27

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legalità, e le sue parole lo confermano in modo incisivo ed inequivocabile:

«A los caballeros andantes no les toca ni atañe averiguar si los afligidos, encadenados y opresos que encuentran por los caminos, van de aquella manera o están en aquella angustia por sus culpas o por sus gracias; sólo les toca ayudarles como a menesterosos, poniendo sus ojos en sus penas y no en sus bellaquerías»12.

Non gli passa neppure lontanamente per la testa che i detenuti sono condotti alle galere dall’autorità regia, e che la loro liberazione, per sua mano, costituisce una palese violazione delle leggi dello Stato.

Sancho, al contrario, è cosciente di questo pericolo. Infatti, come si è visto, egli cerca di distogliere don Quijote dall’intervenire a favore dei galeotti, prendendo le difese della Corona.

Su consiglio di Sancho, che teme le reazioni della giustizia in seguito a questa avventura, Don Quijote si inoltrerà nella Sierra Morena. Qui incontra il giovane Cardenio che, impazzito per amore, vaga da sei mesi fra quelle selve. Decide così di imitarlo e di impazzire anch’egli per Dulcinea, sull’esempio degli eroi di cavalleria che più ammira, Amadigi e Orlando. Sancho invece intraprende il viaggio verso il Toboso per consegnare la lettera d’amore a Dulcinea. Arrivato alla locanda, s’imbatte nel parroco e nel barbiere, entrambi amici del cavaliere. Quest’ultimi, dopo aver ascoltato il racconto dello scudiero sulle incredibili avventure di Quijote, decidono di elaborare un piano: il barbiere, vestito da pricipessa, cercherà di convincere don Quijote di

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essere in pericolo e in questo modo indurlo a far ritorno a casa. Infatti don Quijote abbandona la Sierra Morena e viene condotto alla locanda.

Il parroco, venuto a sapere da Sancho della liberazione dei galeotti, si schiera con la società e il sovrano offesi, affermando che don Quijote:

[...] debía de estar fuera de juicio, o debe de ser tan grande bellaco como ellos, o algún hombre sin alma y sin conciencia, pues quiso soltar al lobo entre las ovejas, a la raposa entre las gallinas, a la mosca entre la miel; quiso defraudar la justicia, ir contra su rey y señor natural, pues fue contra sus justos mandamientos; quiso, digo, quitar a las galeras sus pies, poner en alboroto a la Santa Hermandad, que había muchos años que reposaba13.

Egli dunque appoggia pienamente la giustizia reale e condanna duramente don Quijote. Secondo il parroco, la società si deve difendere, ragion per cui è giusto che i delinquenti scontino una pena. Don Quijote, invece, considera contro natura tenere una persona prigioniera.

Si viene dunque a delineare una contesa tra giustizia regia e Vangelo: alla prima si contrappongono il precetto evangelico della carità cristiana e l'obbligo morale di compiere opere di misericordia.

Don Quijote, da parte sua, crede che la realizzazione della giustizia sia un suo dovere perchè solo i cavalieri erranti, e non certo l’organizzazione giudiziaria dello Stato, sono in grado di assicurarla.

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In tutto l’episodio dei galeotti affiora dunque il giudizio assai critico di Cervantes sugli apparati giudiziari del suo tempo, prudentemente veicolato dalle parole del cavaliere: un folle che, proprio perché privo di senno, può costruire una sua personale visione della giustizia senza timore di essere preso sul serio.

Da quanto detto finora appare chiaro che la giustizia pensata da Don Quijote non si basa sulla coercizione, ma sulla libertà. Significativo della passione con cui questa viene difesa dal nostro eroe è il suo netto rifiuto della liceità dell’uso della forza contro altri uomini. Un riferimento utile per chiarire la portata di queste considerazioni può essere rintracciato nella scena iniziale del capitolo. Quando Sancho

descrive la catena di galeotti come gente forzada del rey14, il cavaliere,

sorpreso dal contrasto della scena con l’ideale che persegue, esclama: Cómo gente forzada? [...] ¿Es posible que el rey haga fuerza a ninguna gente?15

Egli, infatti, considera moralmente illecito tenere una persona prigioniera, priva della libertà. In questo senso, non riesce a spiegarsi come sia possibile che qualcuno usi questa violenza contro un suo simile, tanto più se il violento è il re.

Anche in questo caso dunque Don Quijote vuole difendere la libertà. Ma questa sua libertà è socialmente assurda e pericolosa, come lo sviluppo stesso del racconto potrebbe suggerire.

14 Quijote, I, XXII, pag. 199 15 Ibidem. Corsivo mio.

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Come abbiamo visto, la pretesa di Quijote di attuare la giustizia, e l’autorità che egli si attribuisce nel decidere di mettere in libertà dei delinquenti, i quali sono stati già processati e condannati dai tribunali regi, vengono contestati dal parroco, in questo caso rappresentante della società offesa.

Secondo il parroco è evidente che liberare dei delinquenti costituisce una minaccia e non solo per il re, ma anche per la società. La libertà che si arroga don Quijote e in cui lui crede è dunque socialmente pericolosa.

C’è però da considerare che la società non è un blocco indistinto come sembra voler far credere il parroco, ci sono i ricchi e i poveri. E non a caso i galeotti a cui don Quijote ha dato la libertà sono tutti poveri. I galeotti, anche se non innocenti, scontavano l’onere di una miseria comune. Questa è la valenza sociale della libertà secondo il cavaliere errante.

Américo Castro commenta l’episodio dei galeotti segnalando tre

‘errori morali’16

. Il primo riguarda le pene ‘arbitrarie’ e quindi ingiuste: «La sociedad y la justicia no debieron moralmente imponer aquellos castigos, juzgados arbitrarios por Don Quijote y por Cervantes», scrive lo studioso. Infatti un giudice che condanna sulla base di una prova ottenuta sotto tortura non commette tanto un errore, quanto un'ingiustizia.

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Gli altri due errori però riguardano il comportamento di don Quijote. Infatti «Los guardas están obligados, por su función, a no soltar

a los galeotes»17, ma don Quijote, per seguire i sui principi, ignora

questo indiscutibile dato di fatto. Infine, il terzo errore, e il più folle, «su libertador quiere que vayan con las cadenas a hacer pleitesía a

Dulcinea»18. Ma egli pagherà

cara questa fedeltà alle norme

della cavalleria: dovrà

soffrire maltrattamenti e

spogliazioni, perché i galeotti liberati da lui si ribellano, sdegnosamente irritati, alla

sua assurda imposizione

cavalleresca di portare le loro catene a Dulcinea.

Convinto di essere un eroe liberatore, don Quijote entra dunque in conflitto con la società del tempo. Liberare i prigionieri e ferire le guardie erano, infatti, i delitti più gravi da lui commessi: così facendo egli aveva agito contro la Corona, e per di più in un luogo isolato, in spagnolo despoblado, secondo Echevarría: un lugar que está afuera del alcance de la ley y la justicia. La legge spagnola puniva con particolare severità gli atti illeciti commessi in questi luoghi perché le vittime non

avevano la possibilità di essere difese19.

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Ibidem.

18 Ibidem.

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L’attenzione particolare per i despoblados deriva dall’intento di tutelare la sicurezza delle strade, di cui era incaricata la Corona, e per questo motivo i delitti commessi lungo il loro percorso si consideravano attacchi contro di essa. Così vennero promulgate leggi che divennero più rigide in risposta al crescente banditismo, un fenomeno che minacciava la stabilità del regno. L’incarico di fronteggiarlo era stato affidato alla Hermandad, una polizia la cui giurisdizione non rispettava le frontiere dei singoli distretti, dato che i delinquenti erano soliti rifugiarsi in località diverse da quelle in cui avevano commesso i delitti e dove quindi venivano cercati dalle autorità. Ed è in questo contesto di proliferazione di leggi e di controllo statale che nasce il romanzo di Cervantes.

Come abbiamo già evidenziato, don Quijote non rispetta le leggi vigenti per seguire la propria personale visione della giustizia. Questa visione ideale si ricava con nettezza, a mio avviso, dall’elogio della felice età dell’oro, che don Quijote descrive così: «la justicia se estaba en sus proprios términos, sin que la osasen turbar ni ofender los del favor y

los del interese»20.

In contrasto col desolante panorama di corruzione che lo circonda, don Quijote evoca dunque l’età dell’Oro, un mito in cui il protagonista dichiara di credere nel discorso rivolto ai caprai:

Dichosa edad y siglos dichosos [...] porque entonces los que en ella vivían ignoraban estas dos palabras de tuyo y mío. Eran en aquella santa edad todas las cosas comunes; a nadie le era necesario, para

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alcanzar su ordinario sustento, tomar otro trabajo que alzar la mano y alcanzarle de las robustas encinas, que liberalmente les estaban convidando con su dulce y sazonado fruto. Las claras fuentes y corrientes ríos, en magnífica abundancia, sabrosas y transparentes aguas les ofrecían.21

Tale è l'immagine della società utopica, sognata da don Quijote: una società propria dei tempi felici dell'Età dell'Oro, e che ovviamente non è mai esistita.

Si tratta di una società nella quale, sulla base economico-sociale dell'inesistenza della proprietà privata e della proprietà comune dei beni, regnano nelle relazioni tra gli uomini, la pace e la concordia, così come l'onestà e la giustizia.

Don Quijote non si limita a proclamare la superiorità e la grandezza dei valori dell'Età dell'Oro, ma si propone, durante tutte le sue imprese, di introdurli nella realtà. Metterli in pratica è infatti per Don Quijote un imperativo morale, qualunque siano le conseguenze. Egli non dubita mai, non mette mai in questione né se stesso, né le sue avventure:

«Yo sé quien soy»22, dice con orgoglio. Tuttavia, se don Quijote con le

sue imprese cerca di aiutare i bisognosi, difendere i deboli, punire i malvagi, vediamo che questo generoso comportamento si conclude sempre con un fallimento. La realtà spagnola del tempo non è certo quella dell’età dell’Oro.

21 Ibidem, pag. 97 22 Quijote, I, V, pag. 58

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Per tanto l’ideale di giustizia sostenuto da Quijote appare totalmente irrealizzabile e, se consideriamo la maggior parte degli episodi del romanzo, egli non riesce mai ad ottenere ciò per cui sta lottando. Anche in questo caso abbiamo uno scontro fra la società utopica priva di giudici, di coercizione, di detenuti, di galere del Re, e la realtà segnata invece dalla corruzione, dall’arbitrarietà e dall’iniquità del sistema giudiziario.

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FEDERICA ANGELI Giornalista d’inchiesta e redattrice de “La Repubblica” sotto scorta. Con il coordinamento di

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