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GIURISPRUDENZA IN TEMA DI SOCIO TIRANNO E SOCIO SOVRANO

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S S OC O CI IO O T TI IR RA AN N N N O O E E S SO O CI C IO O S SO OV V RA R AN N O O : :

F F A A T T T T I I S S P P E E C C I I E E E E D D E E F F F F E E T T T T I I

P P . . M M C C D D

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Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore

(L. 22.04.1941/n. 633)

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Indice

1 GIURISPRUDENZA IN TEMA DI SOCIO TIRANNO E SOCIO SOVRANO --- 3

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1 Giurisprudenza in tema di socio tiranno e socio sovrano

Trib. Ancona, 10 agosto 2009, in Giur. comm., 2011, II, 633.

L'attività di direzione "tirannica" professionalmente organizzata, in spregio ai principi di corretta gestione imprenditoriale, delle società strumentali eterodirette configura di per sé attività d'impresa ed una conseguente responsabilità, per tutte le obbligazioni delle società dominate e nei confronti di tutti i relativi creditori.

App. Bologna, 23 maggio 2007, in Guida al diritto, 2007, n. 46, 80.

La figura della "holding" è stata tenuta distinta dalla figura del socio tiranno sia sotto il profilo della spendita del nome, essendo evidente che questi non agisce in proprio nome ma unicamente attraverso gli organi societari, sia sotto il profilo dell'autonoma economicità la quale manca proprio a causa della confusione dei patrimoni normalmente perpetrata dal socio tiranno.

Anche la persona fisica può essere qualificata come "holding" e può, in quanto tale, essere dichiarata fallita, ma è necessario che abbia agito in proprio nome, perseguito un autonomo scopo economico e che versi in stato d'insolvenza. L'inammissibile coinvolgimento della società interponente nella situazione di insolvenza della società interposta, per l'autonomia della "holding", soggetto giuridico distinto dalla società fiancheggiata, impedisce ai creditori di quest'ultima di insinuarsi efficacemente al passivo del fallimento della società di fatto (ossia dell'impresa "a latere", potendo essere ammessi al passivo di questa soltanto i creditori nei confronti dei quali la società di fatto o i singoli soci in proprio hanno assunto obbligazioni.

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4 di 74 Cass., sez. un., 29 novembre 2006, n. 25275

È configurabile una holding di tipo personale allorquando una persona fisica, che sia a capo di più società di capitali in veste di titolare di quote o partecipazioni azionarie, svolga professionalmente, con stabile organizzazione, l'indirizzo, il controllo ed il coordinamento delle società medesime, non limitandosi, così, al mero esercizio dei poteri inerenti alla qualità di socio. A tal fine è necessario che la suddetta attività, di sola gestione del gruppo (cosiddetta holding pura), ovvero anche di natura ausiliaria o finanziaria (cosiddetta holding operativa), si esplichi in atti, anche negoziali, posti in essere in nome proprio, fonte, quindi, di responsabilità diretta del loro autore, e presenti altresì obiettiva attitudine a perseguire utili risultati economici, per il gruppo e le sue componenti, causalmente ricollegabili all'attività medesima. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto che la corte territoriale avesse correttamente applicato il principio di cui in massima riconoscendo, in controversia per differenze retributive per lo svolgimento di mansioni dirigenziali, la legittimazione passiva del datore di lavoro, convenuto in un giudizio in proprio e quale rappresentante delle società che ad esso facevano capo e che egli sostanzialmente controllava influenzandone le decisioni e le scelte gestionali).

Trib. Monza, 31 marzo 2005, in Giur. merito, 2005, 2067.

Va esclusa la possibilità di applicare le previsioni di responsabilità illimitata previste per il socio unico anche al c.d. socio "sovrano" o "tiranno" - e cioè al socio che, pur non essendo titolare dell'intero capitale sociale, sia in grado di influenzare in modo sicuro e determinante le decisioni dei soci di minoranza, di fatto negando a questi ultimi alcuna autonomia - dovendosi per contro opinare che le disposizioni in materia siano di stretta applicazione, con esclusione quindi di ogni estensione

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di tipo analogico, salvo, naturalmente, il caso che la presenza di una quota di minoranza derivi da una intestazione fittizia o simulata.

La circostanza che un socio disponga, direttamente e/o indirettamente dell'intero capitale sociale di una società di capitali, non comporta la confusione del patrimonio personale del primo con quello della seconda, e perciò i creditori dell'uno, pur se socio sovrano o tiranno, non possono aggredire i beni dell'altra, sottraendoli alla loro primaria funzione, di garanzia dell'adempimento delle obbligazioni sociali. Invece, proprio per rafforzare questa funzione, a norma dell'art. 2497 comma 2, c.c., nella formulazione previgente a quella introdotta dall'art. 7 d.l. 3 marzo 1993 n. 88, nel caso di insolvenza di una s.r.l., per le obbligazioni sorte nel periodo in cui le quote sociali siano appartenute ad un solo socio, questi ne rispondeva illimitatamente con il suo patrimonio.

Corte Conti, 5 maggio 2004, n. 152, in Riv. Corte Conti, 2004, n. 3, 67.

Nel caso in cui la società concessionaria, ai cui comportamenti siano ricondotti ingiusti danni subiti dall'ente concessionario, sia - di fatto - gestita dal socio di riferimento, che in tal modo viene a collocarsi come "socio-tiranno" rispetto alla gestione della società stessa, la legittimazione passiva va correttamente ravvisata in capo a detto socio unitamente alla società concessionaria in questione.

Trib. Brescia, 4 febbraio 2004, in Dir. prat. soc., 2004, nn. 14/15, 76.

Mentre va esclusa la fallibilità del semplice "socio tiranno" di società di capitali, deve ritenersi assoggettabile a fallimento colui che, per l'attività svolta, realizzata attraverso una propria organizzazione di mezzi e finalizzata ad un proprio scopo di lucro, risulti titolare di un'autonoma impresa commerciale a mezzo della quale lo stesso, di fatto, ponga in essere un disegno imprenditoriale di controllo e di direzione di società di capitali, sia pure non formalmente al

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medesimo facente capo, volto al perseguimento di un risultato economico ulteriore e distinto da quello della società stessa.

Cass., 13 marzo 2003, n. 3724

È configurabile una holding di tipo personale, costituente impresa commerciale suscettibile di fallimento, per essere fonte di responsabilità diretta dell'imprenditore, quando si sia in presenza di una persona fisica che agisca in nome proprio, per il perseguimento di un risultato economico, ottenuto attraverso l'attività svolta, professionalmente, con l'organizzazione e il coordinamento dei fattori produttivi, relativi al proprio gruppo di imprese.

Ai fini della qualificazione di un "holding" personale quale impresa commerciale, come tale soggetta al fallimento, occorre che l'attività si esplichi in atti, anche negoziali, posti in essere in nome proprio, quindi fonte di responsabilità diretta del loro autore, e presenti altresì obiettiva attitudine a perseguire utili risultati economici per il gruppo e le sue componenti; e occorre che l'attività sia professionale, cioè posta in essere in maniera abituale e non occasionale, attraverso un'organizzazione d'impresa.

Cass., 9 agosto 2002, n. 12113

In ipotesi di holding di tipo personale, cioè di persona fisica che sia a capo di più società di capitali in veste di titolare di quote o partecipazioni azionarie e svolga professionalmente, con stabile organizzazione, l'indirizzo, il controllo e il coordinamento delle società medesime (non limitandosi così al mero esercizio dei poteri inerenti alla qualità di socio), la configurabilità di un'autonoma impresa, come tale assoggettabile a fallimento, postula che la suddetta attività, sia essa di sola gestione del gruppo (cosiddetta holding pura), ovvero anche di natura ausiliaria o finanziaria (cosiddetta holding operativa), si esplichi in atti, anche negoziali, posti in essere in nome proprio,

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quindi fonte di responsabilità diretta del loro autore, e presenti altresì obiettiva attitudine a perseguire utili risultati economici, per il gruppo o le sue componenti, causalmente ricollegabili all'attività medesima.

Cass., 16 novembre 2000, n. 14870.

La circostanza che un socio disponga, direttamente e/o indirettamente - nella specie attraverso un'"Anstalt" dal medesimo fondata dell'intero capitale sociale di una società di capitale, non comporta la confusione del patrimonio personale del primo con quello della seconda, e perciò i creditori dell'uno, pur se socio sovrano o tiranno, non possono aggredire i beni dell'altra, sottraendoli alla loro primaria funzione di garanzia dell'adempimento delle obbligazioni sociali.

Invece, proprio per rafforzare questa funzione, a norma dell'art. 2497, comma 2, c.c., nella formulazione previgente a quella introdotta dall'art. 7 d.lg. 3 marzo 1993 n. 88, nel caso di insolvenza di una società a responsabilità limitata, per le obbligazioni sorte nel periodo in cui le quote sociali siano appartenute ad un solo socio, questi ne rispondeva illimitatamente con il suo patrimonio.

Cass., 25 gennaio 2000, n. 804.

Gli istituti dell'autonomia patrimoniale e della distinta personalità giuridica della società di capitali (nella specie, società per azioni) rispetto ai soci comportano la esclusione della riferibilità a costoro del patrimonio, (ivi compresi i titoli azionari di altre società), intestato alla prima, anche nella ipotesi in cui uno dei soci, possa essere considerato (eventualmente attraverso un'anstalt a lui facente capo la quale risulti intestataria della quasi totalità del capitale della società) il socio di larga maggioranza. Tali conclusioni si impongono ancora a più forte ragione quando manchi la dimostrazione della sussistenza di comportamenti suscettibili di essere qualificati come abuso della

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personalità giuridica (configurabile con riguardo alla natura fittizia o fraudolenta delle partecipazioni di minoranza, e ravvisabile allorché alla forma societaria corrisponda una gestione individuale, che rende ipotizzabili la responsabilità illimitata del socio "tiranno" con il proprio patrimonio, nonché forme di responsabilità civile e penale), manifestandosi in tale ipotesi la esigenza di tutela delle partecipazioni di minoranza non fittizie o fraudolente.

Trib. Messina, 8 aprile 1999, in Vita not., 1999, 860.

La confusione dei patrimoni dei soci e delle società di capitali da questi partecipate e lo svolgimento da parte dei soci di un'autonoma attività di coordinamento, direzione e finanziamento delle stesse società, denunziano l'esistenza di una "holding" capogruppo avente ad oggetto principale il controllo tirannico delle partecipate e, inoltre, lo svolgimento di un'attività ausiliaria, ai sensi dell'art. 2195 n. 2 e 5 c.c., realizzata mediante la costituzione di sinergie finanziarie e specifici atti di finanziamento, la quale possiede autonomi caratteri di imprenditorialità.

Cass., 16 gennaio 1999, n. 405

Nell'ipotesi in cui la dichiarazione di fallimento abbia avuto come presupposto un dibattito sulla qualità di "socio tiranno", viola il principio del rispetto del contraddittorio, stabilito nell'art. 15 l. fall., la sentenza emessa all'esito del giudizio di opposizione con la quale venga riconosciuta al fallito la qualità di imprenditore individuale secondo lo schema della holding personale.

App. Catania, 18 gennaio 1997, in Dir. fall., 1997, II, 415.

Se il travalicamento delle forme societarie avvenga non in relazione a singole società, prescindendo da ogni rapporto con le altre società facenti parte del medesimo gruppo, ma con interventi e modalità tra loro coordinati, in attuazione di un progetto che coinvolge le varie società

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del gruppo, non si è in presenza semplicemente di un socio tiranno, ma si dà luogo ad una "holding"

personale, sia pure anch'essa tirannica. In tal caso deve estendersi al soggetto titolare della

"holding" personale la procedura di amministrazione straordinaria alla quale sono sottoposte le società del gruppo.

Qualora il travalicamento delle forme societarie avvenga non in relazione alla gestione di singole società prescindendo da ogni rapporto con le altre società facenti parte del medesimo gruppo, ma con interventi e modalità tra loro coordinati in attuazione di un progetto che coinvolge le varie società del gruppo, non si è in presenza semplicemente di un socio tiranno, ma si attua, nei fatti, un governo (eventualmente anche tirannico) dell'intero gruppo dandosi luogo ad una holding personale (sia pure anch'essa tirannica).

Trib. Spoleto, 28 gennaio 1994, in Società, 1994, 946.

È escluso che il socio tiranno o sovrano sia soggetto alla illimitata responsabilità per le obbligazioni prevista dall'art. 2362 per l'unico azionista e che quindi gli sia applicabile l'art. 147 l.

fall.

Trib. Tortona, 11 marzo 1993, in Dir. fall., 1995, II, 746.

L'estensione del fallimento di una società di capitali non può essere pronunciata a carico dell'amministratore di fatto, nè a carico del socio "sovrano" o "tiranno".

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10 di 74 Cass., 26 febbraio 1990, n. 1439.

In ipotesi di holding di tipo personale, cioè di persona fisica, che sia a capo di più società di capitali in veste di titolare di quote o partecipazioni azionarie, e che svolga professionalmente, con stabile organizzazione, l'indirizzo, il controllo ed il coordinamento delle società medesime (non limitandosi così al mero esercizio dei poteri inerenti alla qualità di socio), la configurabilità di un'autonoma impresa, come tale assoggettabile a fallimento, postula che la suddetta attività, sia essa di sola gestione del gruppo (cosiddetta holding pura), ovvero pure di natura ausiliaria o finanziaria (cosiddetta holding operativa), si esplichi in atti, anche negoziali, posti in essere in nome proprio, quindi fonte di responsabilità diretta del loro autore, e presenti altresì obiettiva attitudine a perseguire utili risultati economici, per il gruppo o le sue componenti, causalmente ricollegabili all'attività medesima.

Trib. Genova, 12 febbraio 1986, in Giur. comm., 1987, II, 148.

Non è assoggettabile a fallimento il socio sovrano di società di capitali dichiarata fallita, e neppure il socio tiranno che usi la società come mero strumento di una sua attività economica personale fruendo del beneficio della responsabilità limitata.

Trib. Roma, 2 agosto, 1983, in Dir. fall., 1984, II, 303.

Non può essere dichiarato il fallimento personale del "dominus" di società di capitali (sovrano o tiranno) quando non risulti una sua impresa gestita in autonomia, sia pure fiancheggiatrice delle società asservite.

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Per la dichiarazione di fallimento del "tiranno" di una società di capitali (socio o non socio, occulto o meno), occorre che l'insieme degli atti giuridici da lui posti in essere sia riferibile ad un'autonoma gestione imprenditoriale, fiancheggiatrice della società o delle società "asservite", e non soltanto che gli abusi e il deviamento dell'attività sociale siano mezzi impiegati al raggiungimento dei fini personali del "dominus".

Trib. Roma, 3 luglio 1982, in Fallimento, 1983, 152.

Il socio, anche quando disponga dell'assoluto controllo di una società di capitali (c.d. socio sovrano) ovvero utilizzi l'ente predetto come cosa propria ed infranga sistematicamente le regole che presiedono all'organizzazione ed al funzionamento della società sino al punto da superare la distinzione tra patrimonio personale e patrimonio sociale e da determinare l'amministrazione (c.d.

socio tiranno) non è assoggettabile in proprio al fallimento. Il socio c.d. tiranno non è assoggettabile a fallimento come tale, ma soltanto quando risulti che sia titolare di una propria impresa diversa da quella societaria con la quale eserciti autonomamente e professionalmente un'attività economica, avvalendosi di una distinta organizzazione ed assumendo direttamente i rischi connaturati a detta attività.

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONI UNITE CIVILI

(Cass. Civ., sez. un., 29 novembre 2006, n. 25275)

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARBONE Vincenzo - Presidente Aggiunto - Dott. CORONA Rafaele - Presidente di Sezione - Dott. GRAZIADEI Giulio - Consigliere -

Dott. VIDIRI Guido - Rel. Consigliere - Dott. SETTIMJ Giovanni - Consigliere - Dott. BONOMO Massimo - Consigliere - Dott. FORTE Fabrizio - Consigliere - Dott. LA TERZA Maura - Consigliere - Dott. AMOROSO Giovanni - Consigliere - ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

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IANFOLLA 14 S.R.L. IN LIQUIDAZIONE (già S.P.A. G.A.P.), MARAOLO HOLDING S.R.L. IN LIQUIDAZIONE (già MARAOLO HOLDIN S.P.A.), in persona dei rispettivi Liquidatori pro-tempore, M.M., tutti elettivamente domiciliati in ROMA, PIAZZA GENTILE DA FABRIANO 3, presso lo studio dell'avvocato Petracca Nicola, che li rappresenta e difende

unitamente all'avvocato PIACCI BRUNO, giusta delega a margine del ricorso;

- ricorrenti - contro;

R.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA BRUXELLES 59, presso lo studio dell'avvocato GIORGIO Robiony, che lorappresenta e difende, giusta delega a margine del controricorso;

- controricorrente -

avverso la sentenza n. 2153/03 della Corte d'Appello di NAPOLI, depositata il 23/07/03;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 16/11/06 dal Consigliere Dott.

VIDIRI Guido; uditi gli avvocati Nicola Petracca, Giorgio Robiony; udito il P.M. in persona dell'Avvocato Generale Dott. IANNELLI Domenico che ha concluso per il rigetto del primo e secondo motivo del ricorso, rimessione per il I resto ad una sezione semplice.

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14 di 74 SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso depositato in data 23 dicembre 1999, R.M. esponeva che dal 1967 aveva iniziato a lavorare per conto di M.M., all'epoca amministratore unico della società in nome collettivo

"Carrano di A.C. e M.M.". Aveva svolto mansioni dirigenziali dapprima in un esercizio di Roma, poi in Firenze e poi a New York, curando l'apertura di 24 nuovi punti di vendita negli Stati Uniti.

Lo sviluppo della rete commerciale negli Stati Uniti e la diffusione del marchio "Maraolo" gli erano stati affidati personalmente da M.M., presidente e legale rappresentante della s.p.a. Gap, proprietaria del 90% delle quote azionarie di diverse società via via costituite. Le funzioni dirigenziali delle attività commerciali di tutte le aziende collegate al gruppo erano state svolte sempre secondo gli obiettivi e le direttive impartite dal M. e per le attività espletate gli erano stati corrisposti gli stipendi direttamente negli Stati Uniti. Dopo avere dedotto ancora che era stato licenziato con lettera del 10 marzo 1998, a firma del M., e dopo avere evidenziato l'esistenza di un collegamento societario tra le società americane e quelle italiane, che ne faceva un unico centro di imputazione giuridica, riferiva che aveva lavorato alle strette dipendenze gerarchiche di M.M. in proprio, della s.r.l. GAP e della s.p.a. Maraolo Holding, che conveniva quindi in giudizio affinché fossero condannati a corrispondere ad esso ricorrente la somma indicata a titolo di differenze retributive spettanti per il rapporto di lavoro subordinato di carattere dirigenziale.

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Dopo la costituzione dei convenuti il giudice adito dichiarava il difetto di giurisdizione del giudice, ordinario ed, a seguito di gravame del R., la Corte d'appello di Napoli con sentenza del 28 luglio 2003, in parziale riforma dell'impugnata sentenza, dichiarava la giurisdizione del giudice ordinario italiano e rimetteva le parti al primo giudice. Nel pervenire a tale conclusione il giudice d'appello osservava - per la parte che ancora interessa in questa sede - che dal contenuto del ricorso di primo grado nonché dalle relate di notifica di detto ricorso emergeva chiaramente che il R. aveva inteso convenire in giudizio M.M., innanzitutto in proprio ed a titolo personale, e poi come rappresentante delle società s.r.l. (già s.p.a.) G.A.P. e s.p.a. Maraolo Holding, e risultava altresì evidente che i soggetti convenuti in giudizio erano l'uno una persona fisica, cittadino italiano residente in Italia ( M.M.) e le altre, tutte persone giuridiche, e più precisamente società costituite ed aventi sede legale in Italia.

Ne conseguiva che, alla stregua del disposto della L. n. 218 del 1995, art. 3, non poteva dubitarsi della giurisdizione del giudice italiano.

Avverso tale sentenza la s.r.l. Ianfolla in liquidazione (già s.p.a. G.A.P.), la s.r.l. Maraolo Holding in liquidazione e M.M. propongono ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi.

Resiste con controricorso R.M.

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16 di 74 MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo e quarto motivo i ricorrenti denunziano erronea pronunzia sulla sussistenza della giurisdizione del giudice italiano in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 1, nonché violazione e falsa applicazione della L. 31 maggio 1995, n. 218, artt. 3 e 5, e comunque omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine ad un punto decisivo della controversia. In particolare denunziano che la Corte d'appello di Napoli ha fondato il proprio convincimento sul mero dato del domicilio dei convenuti omettendo di considerare che risultava per ammissione dello stesso ricorrente, nonché in via documentale, che il rapporto di lavoro - e cioè il motivo per il quale veniva investita la giurisdizione italiana - era sempre intercorso con società americane, aventi tutte le sedi all'estero e che provvedevano anche a corrispondere al R. le retribuzioni oltre a garantire allo stesso tutte le assicurazioni sociali e sanitarie. Precisano ancora i ricorrenti che sia la Maraolo Holding s.p.a. che la G.A.P. s.p.a. non erano affatto proprietarie di parte del pacchetto azionario delle società americane, come risultava dai bilanci delle stesse, e per di più il R. aveva svolto la sua prevalente attività lavorativa negli Stati Uniti per cui per l'art. 5 n. 1 della convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968, come modificato dalla convenzione di San Sebastian del 26 maggio 1989, doveva riconoscersi la giurisdizione del giudice americano in luogo di quello italiano. Ma anche a volere considerare i fatti nuovi, evidenziati inammissibilmente nell'atto di gravame, non per questo poteva riconoscersi la giurisdizione del giudice italiano non valendo in contrario addurre che il R. aveva prestato una fideiussione a favore di società italiane atteso che il prestare garanzie personali fideiussorie o immobiliari da parte di soci e/o di terzi non trasforma questi in imprenditori e per di più solidalmente responsabili con tutto il patrimonio personale degli eventuali debiti di una società di capitali. Né valeva di certo per il riconoscimento della giurisdizione italiana fare riferimento alla partecipazione che il signor M. aveva in società americane.

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Con il secondo motivo i ricorrenti addebitano alla impugnata sentenza di avere violato il disposto dell'art. 100 e ss. c.p.c. nonché omessa e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, assumendo al riguardo che il M. erroneamente era stato evocato in giudizio in quanto era stato citato in proprio sebbene non sussistesse alcun rapporto di lavoro tra esso M. e il R.. Per di più non era giuridicamente configurabile una (pretesa) "holding di fatto" tra una persona fisica e due persone giuridiche, di cui la medesima persona fisica risultava socio, sicché doveva considerarsi errato convenire in giudizio quale imprenditore holding lo stesso M..

Con il terzo motivo i ricorrenti lamentano violazione e falsa applicazione degli artt.

345, 433 e 437 c.c., nonché difetto di motivazione assumendo che nel decidere la controversia il giudice d'appello si era basato su fatti non allegati e su documenti non esibiti in primo grado modificando quindi gli elementi costitutivi della sua domanda.

I motivi del ricorso, da esaminarsi congiuntamente, per comportare la soluzione di problematiche giuridiche tra loro strettamente connesse, vanno rigettati perché privi di fondamento.

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Va premesso che questa Corte ha più volte statuito che è configurabile - contrariamente a quanto sostenuto dagli attuali ricorrenti - una c.d. "holding" di tipo personale allorquando una persona fisica, che sia a capo di più società di capitali in veste di titolare di quote o partecipazioni azionarie, svolga professionalmente, con stabile organizzazione l'indirizzo, il controllo ed il coordinamento delle società medesime (non limitandosi così al mero esercizio dei poteri inerenti alla qualità di. socio). A tal fine è necessario che la suddetta attività, sia essa di sola gestione del gruppo (cosiddetta holding pura) ovvero pure di natura ausiliaria o finanziaria (cosiddetta holding operativa), si esplichi in atti, anche negoziali, posti in essere in nome proprio (e, quindi, fonte di responsabilità diretta del loro autore), e presenti altresì obiettiva attitudine a proseguire utili, risultati economici, per il gruppo e le sue componenti, causalmente ricollegabili all'attività medesima (cfr. in tali sensi in motivazione: Cass. 9 agosto 2002 n. 12113, cui adde, negli stessi termini, Cass. 26 febbraio 1990 n. 1439, e più di recente, Cass. 13 marzo 2003 n. 3724).

Di tali principi ha finito per fare applicazione la impugnata sentenza che infatti - sulla base di esaurienti accertamenti di fatto, di una attenta valutazione delle risultanze processuali e di una motivazione congrua è del tutto corretta sul piano logico-giuridico, e, pertanto, non contestabile in questa sede di legittimità - ha rimarcato come il M. sia stato convenuto in giudizio, in proprio quale effettivo datore di lavoro del R., nonché quale rappresentante delle società che ad esso facevano capo e che esso sostanzialmente controllava influenzandone le decisioni e le scelte gestionali.

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Corollario di quanto ora esposto è il riconoscimento della legittimazione passiva del M., così come deciso nella impugnata sentenza, ed ancora la devoluzione della controversia all'autorità giudiziaria italiana, con conseguente rimessione delle parti al primo giudice ai sensi dell'art. 353 c.p.c. Ed invero la L. n. 218 del 1995, art. 3, comma 1, dispone che "La giurisdizione italiana sussiste quando il convenuto è domiciliato o residente in Italia o vi ha un rappresentante che sia autorizzato a stare in giudizio a norma dell'art. 77 c.p.c. e negli altri, casi in cui è prevista dalla legge".

A tale riguardo va richiamato l'indirizzo giurisprudenziale secondo cui, ai sensi della L. 31 maggio 1995, n. 218, art. 3, comma 1, un momento di collegamento idoneo a radicare la giurisdizione italiana sussiste quando, come visto, il convenuto è domiciliato nel territorio dello Stato italiano, dovendosi intendere la nozione di domicilio alla stregua dell'art. 43 c.c. cioè il luogo nel quale il convenuto ha la sede dei suoi affari ed interessi (cfr. in tali sensi: Cass., Sez. Un., 27 maggio 1999 n. 309), e dovendosi presumere, in conformità a quanto di regola avviene, che il soggetto stabilisce la sede principale dei suoi affari ed interessi nel medesimo luogo in cui abitualmente dimora (cfr. in questi termini in motivazione: Cass., Sez. Un., 11 febbraio 2003 n.

2060).

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Si è così recepito il principio, enunciato dall'art. 2 della convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968, ratificata in Italia con la L. 21 giugno 1971, n. 804, secondo cui "le persone aventi il domicilio nel territorio di uno Stato contraente sono convenute, a prescindere dalla loro nazionalità, davanti agli organi giurisdizionali dello Stato", e - abbandonandosi invece il criterio generale, già desumibile dall'abrogato art. 4 c.p.c., la cui rubrica recitava "giurisdizione rispetto allo, straniero", e che soltanto in riferimento allo straniero, e non al cittadino italiano, individuava nei nn. 1 a 4 criteri atti a radicare la giurisdizione del giudice italiano - si è, quindi, data rilevanza nel vigente sistema italiano del diritto internazionale privato, quale criterio generale di radicamento della competenza giurisdizionale del giudice italiano, al solo dato oggettivo del domicilio o della residenza del convenuto in Italia, senza che possa farsi distinzione tra convenuto italiano o straniero (cfr. in tali sensi in motivazione: Cass., Sez. Un., 11 febbraio 2003 n. 2060 cit.).

La sentenza impugnata non merita, quindi, censura per avere correttamente applicato la L. n.

218 del 1995, art. 3, e ritenuto la giurisdizione del giudice italiano sul presupposto della accertata circostanza che il M. aveva la residenza ed il centro dei propri affari in Italia e che inoltre le società convenute in giudizio avevano la propria sede anche esse in Italia ed erano rappresentate dal suddetto M..

(21)

Né per andare in contrario avviso vale il riferimento operato dai ricorrenti all'art. 5, n. 1, della Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968, richiamata dalla L. n. 218 del 1995, art. 3, in quanto - al di là della di per sé decisiva osservazione che l'applicazione di detta normativa si fonda su presupposti fattuali diversi da quelli riscontrabili nella presente controversia in cui il domicilio del convenuto M. in Italia determina, come si è detto, il radicamento della giurisdizione in questo Stato - va al riguardo evidenziato come anche la richiamata normativa, unitamente al disposto dell'art. 19 del Regolamento CE 44/2001, contempli la possibilità che nelle controversie di lavoro - qualora il lavoratore non svolga od abbia svolto abitualmente la propria attività in un solo paese - venga riconosciuta la giurisdizione del giudice dal luogo "in cui è o era situata la sede dell'attività presso la quale è stato assunto" (così art. 19, n. 2, lettera b, del Regolamento cit.). Il che nel caso di specie a fronte di quanto può evincersi dalle risultanze processuali e di quanto accertato in fatto dal giudice d'appello - secondo cui il R., avente in Italia il proprio centro di affari, iniziò nel 1967 proprio in Italia a lavorare per conto di M.M., all'epoca amministratore unico di una società in nome collettivo, prestando la propria attività dapprima in Roma e Firenze e di poi a New York - avrebbe dovuto indurre i ricorrenti che hanno eccepito il difetto di giurisdizione del giudice italiano a provare i dati fattuali, ed in particolar modo le modalità del rapporto lavorativo, che rendevano nel caso in oggetto inapplicabile la normativa da essi ritenuta applicabile alla fattispecie in oggetto. Ed invece i ricorrenti per supportare la sollevata eccezione si sono fondati su circostanze - dipendenza del R. da società americane aventi sede negli Stati Uniti, insussistenza di un rapporto lavorativo tra lo stesso R. ed il M., ecc. - che non hanno trovato alcun riscontro in sede istruttoria.

(22)

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(L. 22.04.1941/n. 633)

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Da quanto sinora detto emerge l'infondatezza anche delle censure secondo cui la sentenza impugnata si basa su fatti non allegati e su documenti non esibiti in primo grado sì da modificare gli elementi costitutivi della originaria domanda. E che tali censure non possano trovare ingresso scaturisce anche dalla violazione del principio dell'autosufficienza del ricorso per cassazione, che - come in giurisprudenza è stato più volte ribadito - va inteso in senso rigoroso perché la sua osservanza è richiesta, oltre che per consentire al giudice di legittimità di verificare la sussistenza di una eventuale carenza di motivazione, anche per consentirgli di verificare il vizio di violazione di legge sicché non solo nel rito del lavoro, caratterizzato dalla presenza di termini perentori e decadenziali - ma anche in quello ordinario cadenzato pur esso su adempimenti volti ad accelerare il processo in attuazione del principio costituzionale della sua "ragionevole durata" - il ricorrente che censuri la violazione o falsa applicazione di norme di diritto, quali quelle processuali, deve indicare anche gli elementi fattuali in concreto condizionanti gli ambiti di operatività della dedotta violazione (cfr. tra le tante da ultimo: Cass. 28 luglio 2005 n. 15910).

Ricorrono giusti motivi, stante la natura della controversia e delle questioni trattate, per compensare interamente tra le parti le spese del presente giudizio di cassazione.

(23)

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE I CIVILE

(Cass. Civ., 26 febbraio 1990, n. 1439)

Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati Dott. Renato GRANATA - Presidente " Giuseppe CATURANI - Consigliere " Renato SGROI - Consigliere

" Alfredo ROCCHI - Correl. e Coest.

" Giancarlo BIBOLINI - Correl. e Coest.

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da C. G. elett.te dom.to in Roma, via Cicerone 60 c-o l'avv. Cesare Previti che lo rapp.ta e difende con l'avv. Claudio di Pietropaolo giusta procura speciale in atti

Ricorrente contro

FALL. della Soc. di fatto tra G. C., F.B. C. nonché dei predetti e di C. B. C., in proprio e in persona del Curatore Dott. P. elett.te dom.to in Largo Generale Gonzaga 2 c-o l'avv.

Ludovico Pazzaglia che lo rapp.ta e difende giusta decreto autorizzativo del Giudice delegato Controricorrente

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(L. 22.04.1941/n. 633)

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ISTITUTO DI CREDITO delle CASSE DI RISPARMIO ITALIANE - I.C.C.R.I. - in persona del suo Pres. e legale rapp.te elett.te dom.to in Roma via Federico Confalonieri 5 c-o l'avv.

Luigi Manzi che lo rapp.ta e difende con l'avv. Giorgio Oppo giusta procura speciale in atti Controricorrente

e nei confronti di

C. B. F. e FALLIMENTO C. G.

Intimato nel secondo ricorso n. 9835-88 F. B. C. elett.te dom.to in Roma P.zza Madonna del Cenacolo 14 c-o l'avv. Lucio V. Moscarini che lo rapp.ta e difende giusta delega in atti

Ricorrente contro

FALL. SOC. di fatto tra G. C., F. B. C., nonché dei predetti e di C. B. C., in proprio, in persona del Curatore dott. P. M. elett.te dom.to in Roma Largo Generale Gonzaga 2 c-o l'avv. Ludovico Pazzaglia che lo rapp.ta e difende giusta delega in atti

Controricorrente

ISTITUTO DI CREDITO DELLE CASSE DI RISPARMIO ITALIANE - I.C.C.R.I. - in persona del suo Pres. elett.te dom.to in Roma Via Federico Confalonieri 5 c-o l'avv.

Luigi Manzi che lo rapp.ta e difende con l'avv. Giorgio Oppo giusta procura speciale in atti Controricorrente

e nei confronti di C. G. Intimato

(25)

avverso la sentenza della Corte di Appello di Roma del 17.4-27.10.1987; Udita la rel. svolta dai Cons. Alfredo Rocchi e Giancarlo Bibolini; Udito per il ric. C. G. l'avv. di Pietropaolo; Udito per il controric. fall. Soc. C. G. e C. F. l'avv. Pazzaglia; Uditi per il controric.

I.C.C.R.I. gli avv.ti Oppo e Manzi; Udito per il ric. F. B. C. l'avv. Moscarini; Udito per il controric. Fallimento di B. C. F. nonché della Soc. di fatto tra C. G. C. B. F. e C. C. B. gli avv.ti Oppo e Manzi; Udito il P.M. Dr. Renato Golia che ha concluso per il rigetto di entrambi i ricorsi.

Fatto

Svolgimento del processo

Il Tribunale di Roma (che già nel novembre 1979 era stato investito delle procedure per la dichiarazione di fallimento di 19 società di capitali facenti capo ai fratelli G., F. e C. C., e che dette società aveva dichiarato fallire), iniziava d'ufficio un procedimento per la dichiarazione di fallimento dei tre fratelli in proprio, dichiarazione che avveniva con sentenza in data 15 marzo 1980. In particolare il Tribunale, puntualizzando le situazione che saranno oggetto di controversia nelle successive fasi e gradi del procedimento, evidenziava, in rito, l'avvenuto rispetto del principio del contraddittorio, in quanto gli interessati, dopo una prima comunicazione dei giudici cui era stata assegnata l'istruzione, erano stati convocati in camera di consiglio con biglietto di cancelleria, sia nella veste di soci di una ipotizzata società di fatto tra di loro, sia a titolo personale.

(26)

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(L. 22.04.1941/n. 633)

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Nel merito, il Tribunale riteneva che ciascuno dei tre fratelli fosse imprenditore commerciale a titolo individuale, in quanto titolare di un'impresa edilizia, ed inoltre quale holding individuale, esercitando un'attività di finanziamento, di gestione e di amministrazione di un patrimonio costituito dalle società di capitali da ciascuno controllate, mediante una vera e propria osmosi di capitali formalmente intestati alle varie società partecipate, ma sostanzialmente concentrati in una sola mano per ciascun gruppo: il Tribunale affermava che ciascuna di tali imprese "pur non avendone la forma tradizionale, abbia operato alla stregua di una vera e propria holding, che di fatto ha amministrato le società di cui possedeva l'intero capitale sociale".

Infine il Tribunale riteneva che i fratelli C. avessero gestito e finanziato nel modo già delineato "diverse imprese societarie, che formalmente a ciascuno di essi facevano capo, in società di fatto tra di loro".

Di conseguenza, con la citata sentenza, i tre fratelli G. C., F. B. C. e C. C., venivano dichiarati personalmente falliti quali soci della individuata società di fatto ed inoltre in proprio, quali imprenditori individuali.

(27)

Tralasciando la posizione del sig. C. C., la cui vicenda processuale non è giunta in questa fase di giudizio, si rileva che con atto di citazione notificato il 27 marzo 1982 i signori G. C. e F. B.

C. avevano proposto opposizione alla sentenza di fallimento, di cui chiedevano la dichiarazione di nullità e la revoca assumendo, in rito, che non era stato loro garantito adeguato esercizio del diritto di difesa e, nel merito, che non esistevano imprese edilizie di cui ciascuno di essi fosse titolare; che l'attività di gestione, di finanziamento, e di amministrazione del loro rispettivo patrimonio non poteva considerarsi attività di impresa commerciale, sia se svolta individualmente, sia in comune;

che nei confronti della ipotetica società di fatto non era neppure ipotizzabile uno stato di insolvenza ed infine che, seppure un'insolvenza fosse stato evidenziata in una fase della vicenda, essa doveva ritenersi esclusa dalla sopravvenuta conclusione con lo I.C.C.R.I. di un pactum de non petendo, sicché il fallimento doveva essere escluso o, in alternativa, doveva esserne attribuita la responsabilità al medesimo I.C.C.R.I..

Il dibattito processuale si svolgeva in contraddittorio del fallimento costituito e dell'intervenuto I.C.C.R.I.

Il Tribunale di Roma, definendo il grado con sentenza 3 luglio 1982 n. 7469, escludeva che il sig. F. C. avesse mai esercitato a titolo individuale attività di costruttore edile, mentre relativamente al sig. G. C., che era stato iscritto alla C.C.I.A. come costruttore edile, riteneva ricorrere la condizione ostativa all'apertura della procedura concorsuale prevista dall'art. 10 L.F.

Riteneva, peraltro, sussistente sia la qualifica di imprenditore commerciale individuale di ciascuno in relazione alla diversa attività ascritta, qualificata come holding personale ed individuante singole imprese individuali "a latere" con funzioni ausiliarie delle imprese sociali regolari ex art. 2195 c.c., sia la società di fatto limitatamente ai due fratelli ora in esame, sia infine lo stato di insolvenza che legittimava la dichiarazione di fallimento vuoi dei singoli sig.ri C., vuoi della individuata società di fatto tra di loro, con il conseguente rigetto dell'opposizione.

(28)

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(L. 22.04.1941/n. 633)

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Avverso detta sentenza proponevano appello i signori G. C. e F. B. C., i quali chiedevano dichiararsi la nullità, o la revoca, della sentenza dichiarativa di fallimento della società di fatto nonché di quello personale di ciascuno degli appellanti, con la condanna dello I.C.C.R.I., quale interveniente temeraria, il tutto allo stato degli atti o, in subordine ed occorrendo, previo espletamento dell'interrogatorio formale del curatore e del legale rappresentante dello I.C.C.R.I. o, in ulteriore subordine ed all'esito, per l'ipotesi che i fatti non fossero dimostrati, previa ammissione di prova testimoniale sui capitoli che erano dedotti in sede di conclusioni e riportati nell'epigrafe della sentenza della Corte di Appello.

La trattazione avveniva ancora in contraddittorio del fallimento, che chiedeva il rigetto dell'appello, nonché dello I.C.C.R.I. il quale, chiedendo il rigetto degli appelli e comunque di ogni domanda di merito ed istruttoria, in subordine deduceva capitoli di prova orale.

La Corte di Appello di Roma, con sentenza n. 3074 in data 27-10-87 rigettava le impugnazioni.

In particolare, e preliminarmente, la Corte di Roma riteneva che nella fase dell'istruttoria prefallimentare, non vi fosse stata violazione del diritto di difesa dei signori C., in quanto la difesa può intendersi assicurata quando l'imprenditore sia posto in grado di conoscere i fatti che potrebbero sostanziare i presupposti richiesti dalla legge per la dichiarazione di fallimento, fatti che costituiscono, però, anche l'oggetto ed il limite del contraddittorio, da cui è esclusa la valutazione del loro significato giuridico, riservata al momento della decisione e spettante direttamente al giudice; poneva, anche, in rilievo che l'appellante aveva dimostrato di avere compreso quale era la direzione dell'indagine preliminare fatta, volta che con memoria 13 marzo 1980 aveva contrastato l'esistenza di elementi rilevatori dell'impresa individuale con scopi di finanziamento e di intermediazione.

(29)

L'analisi della Corte di Appello era, inoltre, portata sulla contestata esistenza di imprese individuali, nella titolarità dei signori G. e F. C. e con riferimento alla posizione da ciascuno di loro assunta in relazione ai gruppi di società di capitali che ad essi facevano capo, evidenziando:

I) l'esistenza di organizzazioni personali del tutto indipendenti dagli apparati amministrativi e produttivi delle società di capitali, organizzazione che, sul piano strutturale, traevano la loro autonomia dall'appartenenza esclusiva ai singoli falliti dei fattori materiali e dalla dipendenza diretta dagli stessi del personale con mansioni amministrative e tecniche, a nulla rilevando che alcuni dei dipendenti e tecnici fossero registrati sui libri paga delle singole società di ciascun gruppo, in quanto essi erano stati assunti personalmente dai singoli appellanti ed utilizzate nell'ambito della struttura organizzativa individuale.

II) Veniva individuata ed elencata tutta una serie di attività esercitate dai singoli soci (elencazione a pag 41,43,45), della sentenza, attività per le quali era esclusa la fattispecie del socio tiranno. In particolare, individuando il socio tiranno nel comportamento abnorme del socio il quale, detenendo la totalità o la maggioranza di azioni o quote, ed agendo a mezzo degli organi sociali da lui assoggettati, utilizzi l'attività di detti organi per il compimento di atti e di negozi estranei all'oggetto sociale o agli scopi fissati dall'atto costitutivo della società, ma diretti a soddisfare esigenze personali del socio, veniva ritenuto che tali caratteristiche non fossero riscontrabili nella condotta dei C., la cui attività doveva trovare collocazione al di fuori ed al di sopra delle società controllate.

III) Veniva individuata la professionalità di detta attività nel fatto che essa era stata svolta stabilmente ed in modo continuativo, nell'arco di numerosi anni e con il sostegno degli apparati organizzativi appositamente creati.

(30)

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(L. 22.04.1941/n. 633)

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IV) Veniva evidenziato che i falliti avevano sempre ammesso di avere agito in prima persona, spendendo i loro nomi con professionisti, fornitori, banche, proprietari di aree fabbricabili, di avere concluso tutti i contratti e di avere fatto comparire le società come parti solo in sede di formalizzazione dei negozi; di avere provveduto di persona al pagamento dei corrispettivi dovuti in forza dei contratti stipulati.

V ) La Corte di Roma riteneva, quindi, che le singole attività dei C. costituivano attuazione di un disegno imprenditoriale di controllo e di governo delle società, che prescindeva dal vantaggio della singola impresa isolatamente considerata, avendo di mira il soddisfacimento della più complessa esigenza di coordinamento tecnico finanziario e della guida del gruppo, nonchè la produzione di servizi collaterali al finanziamento.

VI ) La Corte citata individuava, ancora, il fine di lucro nel fatto che i C., avvalendosi dei mezzi finanziari ottenuti con l'esercizio dell'attività economica di intermediazione nella circolazione dei capitali, incrementarono il loro patrimonio creando imprese in forma societaria produttrici di beni, e quindi di ricchezza, delle quali si assicurarono sostanzialmente l'esclusiva proprietà attribuendosi la posizione di socio unico o maggioritario.

VII) La Corte di merito evidenziava, infine, che i fratelli C. avevano beneficiato dei frutti prodotti dalle somme concesse a mutuo alle società del sistema creditizio e versate nei depositi personali in c-c, interessi notoriamente corrisposti dalle banche e della cui utilizzazione ai fini delle singole società la prova doveva essere data dai C., ed inoltre avevano beneficiato di fondi, per notevolissimi importi, per i quali la prova della destinazione a finanziamenti sociali non era stata reperita dal curatore.

In ordine alla individuata società di fatto, la Corte di Roma richiamava il principio della sufficienza, al fine, dell'apparenza della società e della sua esteriorizzazione, in conseguenza di un comportamento dei soggetti idoneo ad ingenerare nei terzi l'opinione che essi agiscano come soci.

(31)

Detta esteriorizzazione era individuata in una serie di atti, concernenti i finanziamenti di società di capitali di cui entrambi essi erano soci, e nei quali essi si erano presentati ai terzi finanziatori con lettere intestate "G. e F. C. costruzioni edilizie", spendendo così la loro qualità di soci.

Sul piano sostanziale, e richiamando emergenze testimoniali, si evidenziava come dal 1974, in coincidenza delle richieste congiunte di finanziamento, i due fratelli C. avevano deciso ed attuato iniziative edilizie comuni provvedendo insieme a trattare con il sistema creditizio per la concessione di finanziamenti, ad acquistare le aree fabbricabili, a costituire società a base paritaria, a consentirne il funzionamento mediante apporti consistenti nell'impiego della struttura aziendale delle imprese individuali dei falliti per fare fronte alle esigenze costruttive delle imprese comuni.

In relazione allo stato di insolvenza, la Corte di merito, rigettando l'appello, rilevava:

A) che alla data del fallimento personale, i C. erano debitori inadempienti, non solo per ingenti somme verso le banche, ma anche di modesti importi verso lo ENEL, la SIP, i dipendenti ed i fornitori;

B) l'irrilevanza, ai fini dell'insolvenza, delle eccedenze patrimoniali dell'attivo sul passivo;

C) l'irrilevanza dell'incidenza del patrimonio delle società controllate, vertendosi, nella specie, nella situazione di fallimento delle imprese individuali e della società di fatto indicata;

D) l'ininfluenza della questione attinente al "pactum de non petendo" o "pactum minus solvatur".

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Di fronte alla tesi degli appellanti che attribuivano alla operatività di detti patti la funzione di fare venire meno lo stato di insolvenza, in quanto lo I.C.C.R.I. si sarebbe impegnato a finanziare ulteriormente le società per consentire loro di terminare le costruzioni incompiute, di completare il ciclo economico e, inoltre, a fornire i mezzi per tacitare gli altri creditori, la Corte di Appello evidenziava che il patto non era idoneo ad escludere l'insolvenza per la mancata partecipazione dell'intero ceto creditorio (Fisco, Enel, Sip, dipendenti, fornitori), il cui consenso era indispensabile per fare venire meno del tutto il presupposto oggettivo del fallimento, manifestato dall'esistenza di debiti scaduti ed insoluti.

Di fronte alla deduzione dell'inoperatività del patto per inadempimento dello I.C.C.R.I., la Corte di merito evidenziava l'irrilevanza, ai fini dell'insolvenza fallimentare, dell'individuazione delle cause estranee (eventuale inadempienza di terzo) in ipotesi determinatrici dell'insolvenza stessa.

In ordine alle prove orali richieste, la Corte di Roma rilevava, ancora, l'estrema genericità della articolazione dei capitoli sull'accordo, in relazione al tempo di durata del patto ed all'eventuale sua scadenza al momento della dichiarazione di fallimento, nonché l'incertezza dei soggetti che avrebbero manifestato il consenso delle banche.

Avverso la sentenza proponevano ricorso per cassazione il sig. G. C., il quale deduceva cinque motivi, ed il sig. F. B. C., deducendo quattro motivi, integrati da successive memorie e , per quanto attiene F. B. C., anche da note di udienza.

Si costituivano con controricorsi, integrati da memorie, l'amministrazione fallimentare e lo I.C.C.R.I.

Diritto

Motivi della decisione

(33)

Preliminarmente occorre disporre la riunione del ricorso n. 9835-88 a quello n. 9442-88, in quanto entrambi proposti avverso l'unica sentenza n. 3074-87 della Corte d'Appello di Roma.

Si da inoltre atto che il Presidente, con provvedimento 23-10-1989, ha affidato la stesura della motivazione della presente sentenza congiuntamente ai correlatori consiglieri Alfredo Rocchi e Gian Carlo Bibolini.

Con il primo motivo del ricorso n. 9442-88, il sig. G. C., denunciando la nullità della sentenza dichiarativa del fallimento per violazione degli artt. 147, secondo comma e 151 L.F., in relazione all'art. 24 Cost., nonché all'art. 156 c.p.c. e in riferimento all'art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c., censura la sentenza impugnata per avere escluso la configurabilità della lesione del proprio diritto di difesa, nella fase prefallimentare, con riguardo alle contestazioni relative alle attività collaterali di impresa ascritte ad esso ricorrente, sia in prorio che come socio di fatto del fratello F. B. C..

In particolare il ricorrente deduce che la mancata contestazione di fattispecie quali riguardanti le imprese collaterali individuali non aventi per oggetto attività edilizia e la omologa società di fatto collaterale, la cui esistenza sarebbe stata configurata soltanto in sede di sentenza dichiarativa di fallimento, rappresenta un'aperta e palese violazione del diritto di difesa per imperfetta formazione del contraddittorio, sui punti indicati, in sede prefallimentare.

Le dette fattispecie, invero, secondo l'assunto, costituirebbero non già una diversa valutazione dei fatti contestati, ma vere e proprie ipotesi nuove, escluse dalla doverosa contestazione agli interessati nelle fase preliminare e, in ordine alle quali, appunto, la difesa di esso ricorrente, nella predetta fase, non avrebbe potuto esplicarsi.

Il motivo è infondato.

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Va premesso che il principio del contraddittorio, nella prima fase della procedura fallimentare diretta all'accertamento della sussistenza o meno delle condizioni per la dichiarazione di fallimento, deve ritenersi ispirato, in sintonia con la sentenza della Corte Costituzionale n. 141- 70, all'esigenza che il debitore, già nella prima fase processuale in camera di consiglio, sia informati dell'iniziativa in corso e delle circostanze idonee a sostanziare i presupposti di legge per la dichiarazione di fallimento e possa, così, contrastare, anche nei confronti dei creditori istanti, con deduzioni di fatto e con argomentazioni tecnico-giuridiche, e con l'eventuale ausilio dei difensori, la propria assoggettabilità all'esecuzione fallimentare.

Il rispetto del contraddittorio nella fase prefallimentare deve, peraltro, essere inquadrato e contenuto nella normativa dei procedimenti sommari e nell'ambito delle finalità di urgenza e tempestività cui è informata la disciplina della dichiarazione di fallimento.

Ciò posto, rilevasi come nella specie i fatti idonei a sostanziare i presupposti richiesti dalla legge per la dichiarazione di fallimento sono stati, in ogni loro concreta dimensione e storica rilevanza, ampiamente contestati agli interessati, così da far ritenere che l'intera materia del contendere - espressa nella situazioni soggettive ed oggettive rilevanti ai fini della pronuncia - è stata offerta al contraddittorio delle parti, che risulta perciò esteso a tutto il campo di indagine e di giudizio e a tutto il relativo materiale, probatorio, con la conseguente piena attuazione, al riguardo, del diritto di difesa, nei termini enunciati.

D'altronde, l'esercizio di un'impresa, individuale e sociale, collaterale all'attività delle società controllate dal ricorrente appartiene alla qualificazione dei fatti e non ad una loro diversa dimensione o configurazione reale e risulta emergere dalle stesse dichiarazioni della parte, rese nel corso del contraddittorio prefallimentare ad interpretazione dell'intera ed articolata vicenda proposta al giudizio del Tribunale.

(35)

Con il secondo motivo di ricorso proposto da G. C. ed il primo motivo di F. B. C., si deduce la violazione degli artt. 3 c.p.p., 178, 189 276-4 comma, 352, 191 e ss e 356 c.p.c.; 174, 260 c.p.c. e 79 e 119 disp. att. c.p.c., in relazione all'art. 360 n. 3, 4 e 5 c.p.c., per inosservanza delle norme in materia di pregiudizialità di accertamenti giurisdizionali ed in tema di istruzione della causa, nonché di formazione della sentenza; difetto di motivazione su un punto decisivo della controversia.

I ricorsi sul punto attengono ad una situazione di natura squisitamente processuale e ad una vicenda verificatasi dopo l'udienza di discussione della causa in grado di appello.

La causa, infatti, era stata ritenuta per la discussione all'udienza collegiale del 10-4-1987, era stata decisa nella camera di consiglio del 17-4-1987 (tale è la data apparente sulla sentenza) e la sentenza stessa era stata depositata il 27-10-1987.

Con istanza diretta al Presidente della seconda sezione civile in data posteriore al 17-4-1987 e con successive istanze in data 14 settembre e 8 ottobre 1987 dirette al Collegio, gli allora appellanti chiedevano che fosse rimessa sul ruolo la causa riguardante il fallimento personale dei fratelli G. e F. C. per consentire il deposito della sentenza 14-9-1987 della Corte di Cassazione con la quale, cassando senza rinvio la ordinanza 27-12-1986 della sezione istruttoria penale della Corte di Appello, era stata data conferma alla sentenza del Giudice Istruttore Penale del Tribunale di Roma il quale aveva dichiarato l'improcedibilità nei confronti dei due fratelli C. perché i fatti accertati non costituivano il reato di bancarotta fraudolenta contestato (la formula verrà mutata, secondo le affermazioni dei ricorrenti, dalla Corte di Cassazione nell'insussistenza del fatto).

Il Presidente della Corte, respingendo l'istanza perché la decisione era già intervenuta e perché comunque il collegio non sarebbe stato ricostituibile a causa del trasferimento del consigliere Paolella, ne disponeva la allegazione agli atti.

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Proposto reclamo al Collegio contro detto provvedimento e ripetuta l'istanza alla Corte di Appello di Roma in via autonoma, la Corte stessa, con ordinanza in data 9.10-23.10.1987, aveva dichiarato inammissibile il reclamo e aveva rigettato l'istanza nel merito sotto il profilo che il Giudice Paolella, essendo stato trasferito dall'ufficio, non poteva più prendere in esame la questione, stante il principio della immutabilità del collegio.

Nella sentenza non vi era menzione di questa collaterale vicenda processuale.

I ricorrenti, in relazione alla vicenda ora indicata, adducevano una serie di argomentazioni, così articolati:

A) la sentenza emessa in sede penale del Giudice Istruttore, una volta acquistata efficacia di giudicato, faceva stato, per cui l'accertamento in fatto compiuto dal giudice penale imponeva alla Corte di Appello civile di prendere atto di quanto accaduto e di trasfonderlo nella sua conoscenza ai fini della decisione.

Sia l'ordinanza del Pretore sia quella del Collegio, erano ritenute illegittime in quanto atti endoprocessuali, intervenuti prima della pubblicazione della sentenza, ed assertivamente si traducevano nella illegittimità della medesima, che alla vicenda ricordata ed ai provvedimenti in quella fase emessi, non fa neppure cenno. Comunque l'ordinanza collegiale che ha risolto uno specifico incidente, in quanto sia ritenuta non endoprocessuale sarebbe comunque impugnabile in via autonoma, per il contenuto sostanzialmente decisorio, ex art. 111 Cost.

B) Si deduce inoltre (a parte il rilievo che la prima istanza sarebbe stata diretta al collegio, per cui erroneamente avrebbe provveduto il presidente), l'erroneità della motivazione dell'ordinanza collegiale nel punto in cui ritenne che il provvedimento, in relazione alla disposta rimessione agli atti, fu emesso dal presidente nell'ambito di un potere amministrativo, anziché giurisdizionale.

(37)

C) Si adduce che, comunque, la pronuncia di inammissibilità del reclamo sarebbe illegittima, sia in relazione alla precedente illegittimità della pronuncia del Presidente, sia perché trattavasi della richiesta di un provvedimento istruttorio, per cui il mezzo tipico di gravame doveva essere il reclamo.

D) Non fondata era dichiarata, infine, la motivazione, sia dell'ordinanza presidenziale, sia di quella del Collegio, e ciò perchè:

1) le parti non volevano un mutamento della decisione, ma la rimessione della causa sul ruolo;

2) non era tecnicamente corretto affermare l'effetto preclusivo della già avvenuta decisione della causa, e ciò perché non vi era stata pubblicazione della sentenza, che sola poteva fare venire a giuridica esistenza il provvedimento;

3) inoltre la tesi della Corte indurrebbe una disparità di trattamento tra le parti, volta che dipenderebbe da una situazione meramente aleatoria il portare a rilevanza processuale nuovi fatti;

4) aberrante sarebbe, poi, la tesi fondamentale espressa nel provvedimento presidenziale e in quello collegiale, secondo cui la decisione in camera di consiglio, seguita dal fatto occasionale della destinazione ad altro ufficio di un membro del collegio, precluderebbe un qualsiasi riesame quand'anche fosse emerso un diverso indirizzo, anche istruttorio, mentre la diversa tesi sostenuta dai ricorrenti consentirebbe il nuovo provvedimento collegiale;

5) in via di subordine, si solleva eccezione di illegittimità costituzionale per violazione degli artt. 3, 24, 101 Cost., in situazione di asserita evidente disparità di trattamento.

Tale essendo la vicenda oggetto del motivo di ricorso in esame, e tenendo conto delle deduzioni dei controricorrenti sul punto, non si ritiene che il dedotto ed articolato motivo possa trovare accoglimento.

(38)

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(L. 22.04.1941/n. 633)

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A parte il rilievo che la sentenza del giudice istruttore penale non aveva, in quanto tale, attitudine a fare stato nel procedimento civile di opposizione alla dichiarazione di fallimento in quanto, priva dell'efficacia del giudicato formale nello stesso nello stesso giudizio in cui era stata emessa, non poteva assumere rilievo il giudicato sostanziale (vedi Cass. 15-1-62 N. 44; 12-5-62 n.

962; 14-11-75 n. 3846; 6-11-76 n. 4053; 15-7-77 n. 3191), nè detta efficacia poteva conferire la pronuncia della Corte di Cassazione in sede penale;

a parte l'ulteriore considerazione che l'insussistenza di fatti penalmente rilevanti sotto il profilo dei reati fallimentari non è di per sè negatoria della sussistenza dei presupposti oggettivi e soggettivi del fallimento;

a parte ciò, si ripete, una serie di questioni introdotte in via di ricorso e di eccezione (la necessità che la pronuncia sull'istanza avvenisse da parte del collegio, anziché del presidente; che nella redazione della sentenza si dovesse tenere conto dell'istanza, la stessa proposizione della questione di costituzionalità; la necessità dell'immediato ricorso avverso il provvedimento del presidente del Tribunale, se ritenuto decisorio, con esclusione della possibilità di reclamo) pongono preliminarmente un problema inerente alla proponibilità dell'istanza diretta dagli attuali ricorrenti prima al presidente della Corte di Appello di Roma, quindi, in via di reclamo e direttamente, alla stessa Corte di Appello.

(39)

Al quesito deve darsi risposta negativa perché con la chiusura dell'udienza di discussione viene precluso, nel nostro sistema processuale, qualsiasi rapporto dialettico tra le parti nel grado e qualsiasi dialogo processuale tra le parti ed il giudicante, sia sotto il profilo delle attività istruttorie volte a portare a conoscenza del giudicante nuove situazioni, sia sotto il profilo della prospettazione di ragioni ed argomentazioni, ancorché volte a sollecitare l'esercizio di poteri di ufficio (p. es. la rimessione in istruttoria per nuove operazioni probatorie nella disponibilità del giudice). A queste conclusioni si perviene sia perché nessuna norma prevede un'attività processuale di alcun genere delle parti oltre l'udienza di discussione, sia perché la stessa struttura del procedimento è contraria ad una protrazione di attività processuale delle parti nei confronti dell'organo giudicante dopo l'assunzione della causa in decisione, ed inoltre perché l'ammettere una ulteriore attività processuale, sia pure per situazioni sopravvenute, sarebbe violatrice del principio del contraddittorio, volta che il giudice dovrebbe provvedere sulla sollecitazione di una parte soltanto e sulla base di nuovi elementi di conoscenza apportati unilateralmente senza contraddittorio (nella specie: l'esistenza della sentenza della Corte di Cassazione), non essendovi mezzo processuale con cui sull'istanza, e prima di provvedere, possano assumersi le deduzioni delle altre parti.

Non è consentito, in definitiva, che un giudice emetta pronuncie, sia pure di carattere procedurale ed interlocutorio e sia pure esercitando un potere discrezionale, sulla base di conoscenze di fatti non ricevute nel procedimento secondo i tempi delle acquisizioni probatorie e delle deduzioni di parte, salvo che si tratti di situazioni sopravvenute di doverosa (per il giudice) conoscibilità (lo jus superveniens).

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