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Rappresentare l irrappresentabile La Grande Guerra e la crisi dell esperienza a cura di Pierandrea Amato, Sandro Gorgone e Gianluca Miglino.

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Ricerche

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Rappresentare l’irrappresentabile La Grande Guerra

e la crisi dell’esperienza a cura di Pierandrea Amato ,

Sandro Gorgone e Gianluca Miglino

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© 2017 by Marsilio Editori® s.p.a. in Venezia Prima edizione: 2017

ISBN 978-88-317-2913-0 www.marsilioeditori.it

Realizzazione editoriale: Cicero, Venezia In copertina:

Claude Monet (1840-1926), Ninfee, Parigi, Musée Marmottan Monet, uig/Archivi Alinari.

Mentre a pochi chilometri di distanza infuria la battaglia dei materiali della Grande Guerra, nel suo atelier di Giverny Claude Monet continua a dipingere ossessivamente i suoi motivi: ninfee, roseti, salici, il ponte giapponese. Nell’apparente ripetizione di queste figure, in realtà, il pittore continua senza sosta a fronteggiare, con i suoi quadri, la prepotenza violenta dei materiali, riposizionando completamente e fragorosamente

lo sguardo e con ciò tentando di resistere a una logica puramente rappresentativa della guerra. In particolare, in questo quadro del 1917 Monet sembra consegnare all’apparente elegia del suo giardino la tensione tra i rapporti di forze della guerra di posizione contrapponendo

due blocchi obliqui di figure divisi da una no man’s land.

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INDICE

Introduzione

1. filosofia

Vita e filosofia della crisi. Simmel e la guerra di Sandro Gorgone

Ereignis ed Erlebnis. Heidegger, 1919 di Pierandrea Amato

Ernst Jünger e la guerra come esperienza interiore di Caterina Resta

Perché è grande la Grande Guerra?

La guerra come questione filosofica di Petar Bojanić

ii. storia

Guerra mondiale, differenza e ripetizione di Alain Brossat

Catturare la guerra: fotografi dilettanti sul fronte occidentale di Stefan Goebel

Guerra, Stato nazionale, dispositivo fotografico di Francesco Faeta

Evento versus rappresentazione.

Lo strano caso dell’Italia in guerra di Francesca Canale Cama

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17

45

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141

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La Germania dopo la prima guerra mondiale e l’Olocausto di Anton Friedrich Koch

iii. cinema

Morire per finta dal vero di Giuseppe Ghigi

Eroi per caso: La grande guerra di Monicelli di Roberto De Gaetano

Nossignore. La Grande Guerra come teatro di insubordinazione

di Leonardo Gandini

Il fantasma di Hölderlin e il destino dell’Europa.

Lubitsch, Ozon e la Grande Guerra di Alessia Cervini

iv. letteratura e linguistica

Esserci stato. Esperienza, testimonianza, racconto nella guerra del Novecento

di Giancarlo Alfano

Figure dell’irrappresentabile fra scrittura letteraria e diari di guerra

di Giorgio Forni

Pensare la fine: da Svevo a Wonder Woman.

Qualche osservazione sulla letteratura sotto le bombe di Luca Salza

Spitzer, o i paradossi del linguaggio. Dalle lettere dei soldati all’Italienische Umgangssprache: il contributo della Grande Guerra alla codificazione dell’italiano popolare unitario di Fabio Rossi

La Grande Guerra di Joyce di Enrico Terrinoni

indice 187

207

243

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269

299

317

341

371

391

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indice

Un-picture this: propaganda e irrappresentabilità nei poster della Grande Guerra

di Mariavita Cambria Proust, 1916

di Brigitte Mahuzier

Gli ultimi giorni dell’umanità: dramma per «un teatro di Marte»

di Gabriella d’Onghia

Raccontare l’impossibile. Su alcuni romanzi di guerra tedeschi degli anni venti

di Gianluca Miglino

gli autori 405

423

445

463

497

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1. la grandezza della grande guerra

È opportuno sottolineare sin da subito le difficoltà che si riscontrano affrontando un argomento come quello che verrà sviluppato in questo saggio. Generalmente, risulta infatti complesso discutere scrupolosamente del tema della guerra, nonché dire qualcosa di nuovo su di essa; queste difficoltà si moltiplicano quando si affronta la questione della Grande Guerra.

Ci sono alcune ragioni sufficientemente chiare del perché la guerra che, un centinaio di anni fa, segnò cinque anni drammatici, e che interessò soprattutto, ma non solamente, il territorio europeo, fu grande. Questa guerra, e le molte guerre al suo interno che essa conobbe, fu effettivamente molto più

«grande» di qualunque guerra precedente, per tutta una serie di ragioni: fu combattuta su un territorio enorme; i numeri che statisticamente la rappresentano sono significativi (il numero di partecipanti, vittime, stati coinvolti, la distruzione, i costi ecc.);

sia la cessazione del conflitto che la stipula della pace furono operazioni molto complesse. Tuttavia, vi è forse un’ulteriore ragione, più profonda, per la quale questa guerra fu grande:

essa preannunciava nuove e terribili guerre, alcune delle quali petar bojanić

PERCHÉ È GRANDE LA GRANDE GUERRA?

LA GUERRA COME QUESTIONE FILOSOFICA*

* Traduzione dall’inglese di Ernesto Sferrazza Papa.

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petar bojanić

ebbero luogo all’epoca, altre che durano ancora, e alcune che stanno per cominciare.

La guerra o le guerre che ebbero luogo in quel periodo, un centinaio di anni fa, abolirono le precedenti forme di guerra e inaugurarono una nuova era di guerre (certamente non ancora terminata; l’ex presidente degli Stati Uniti d’America, Barack Obama, in occasione della consegna del premio Nobel per la pace, annunciò durante il suo discorso una nuova era di guerre).

Questo è il motivo per cui questa guerra è, ed è chiamata, Grande Guerra 1. La guerra – non solo specificamente questa, ma la «guerra in quanto tale» (in effetti, quando pensiamo alla

«guerra in quanto tale», non pensiamo alla guerra di Troia o alle guerre napoleoniche, bensì proprio alla Grande Guerra) – è diventata una nostra esperienza, un’esperienza comune a tutte le generazioni che vissero da quel momento in avanti, e che vivranno in futuro. Nessuno, negli ultimi cento anni, è stato esentato, in un modo o in un altro, dall’esperienza della Grande Guerra (o dalla «guerra in quanto tale»). Essa ci ha insegnato con chiarezza cosa un uomo è in grado di fare a un altro uomo.

O meglio: essa ci ha insegnato cosa un gruppo più o meno ampio di persone è in grado di fare insieme e con disciplina.

Non è tuttavia ancora chiaro – e qui incontriamo il problema di cosa ha davvero rappresentato un evento così scandaloso e catastrofico come la Grande Guerra – come sia stato possibile per migliaia e migliaia di soldati e di individui integrare, in un paio di anni e in maniera così radicale e definitiva, le proprie vite con questo terribile sintagma: Grande Guerra.

Tuttavia, sono consapevole che la filosofia è caratterizzata da un interrogarsi isterico e dalla ricerca continua di risposte che sono sempre discutibili e carenti (la filosofia è infatti da questo punto di vista una specie di trauma, perché rifiuta o ritiene difficile accettare il mondo o ciò che accade, e da questo

1 Possiamo definire un fenomeno con il termine di «evento» se esso interrompe lo scorrere ordinario del tempo, se porta con sé le caratteristiche del «trauma», se coinvolge un numero considerevole di individui e se determina tutto ciò che avviene da quel momento in avanti.

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perché è «grande» la grande guerra?

derivano le numerose domande intorno al «perché», le tante esitazioni e la consapevolezza di una così grande ignoranza).

Non possiamo dunque essere sicuri che il destino dei soldati che morirono (accade di nuovo oggi, ad esempio, al confine fra Austria e Italia) sia o sarà mai comprensibile. Io stesso, nonostante la mia vita sia stata deformata da storie di guerra e violenza (ho vissuto nei Balcani al tempo delle più recenti guerre, ho scritto una tesi di dottorato sul tema dell’istituzione della filosofia nel suo nesso con la guerra, ho pubblicato molto sul problema della violenza e del messianesimo) non sono affatto sicuro di aver compreso del tutto cosa sia accaduto un centinaio di anni fa e perché.

Un modo per comprendere la questione del perché la Grande Guerra sia «grande» è metterla in connessione con il fervente e rapido entusiasmo con il quale nel primo anno, o comunque all’inizio della prima guerra mondiale, vennero prodotti discorsi volti a giustificare la violenza e l’uso della forza.

La guerra fu così imponente e divenne così estesa soprattutto perché argomenti eccellenti per la sua accettazione furono elaborati con incredibile e disarmante sollecitudine. Essa fu ingegnosamente celebrata e fondata nelle più svariate tradizioni, culture e nazioni di quel tempo. Oltre a ciò, deve essere preso in seria considerazione il generale consenso proveniente da tutte le parti in gioco nel conflitto a proposito del diritto alla guerra e dell’efficacia dell’uso della forza.

Tuttavia, la mia intenzione non è spiegare perché conflitto, violenza, antagonismo o guerra siano decisivi per fondare l’istituzione della filosofia in quanto tale (ho scritto altrove su questo), né tantomeno sostenere che altri che non siano stati filosofi non abbiano costruito e proposto argomenti a favore della guerra e della giustificazione della violenza, ossia dello scaturire della guerra. Questo ultimo punto viene solitamente inteso in modo troppo banale, giacché è relativamente facile mostrare che i filosofi si sono sempre sforzati di guidare capi e sovrani, hanno sempre tentato di migliorare il mondo e la realtà realizzando le loro idee e i loro ideali, e hanno fatto tutto ciò frettolosamente e con impazienza. Dopotutto la guerra – e qui emerge il suo nesso con la filosofia – presuppone sempre la

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petar bojanić

possibilità di un intervento il più rapido possibile per modificare la realtà.

Un paio di proposizioni preliminari potrebbero mostrare come numerosi filosofi del tempo furono de facto responsabili della straordinaria importanza che la guerra ebbe, mostrando così il significato autentico del «grande» della Grande Guerra.

Una guerra è piccola, o breve, o inesistente, se i filosofi non si interessano ad essa; filosofi (o i teorici che filosofarono, ossia che assunsero coerentemente determinate posizioni a partire dalle loro premesse) di orientamenti fra loro molto diversi argomentarono in favore della guerra attraverso modalità pressoché identiche. In questo senso, l’origine dell’entusiasmo e l’abilità nel giustificare la guerra e la violenza risiedono soprattutto nell’impegno dei filosofi di un centinaio di anni fa (questo è il profilo di quelle etiche della guerra elaborate nel gennaio del 1915 da Bertrand Russell 2, le quali risultano di grande attualità se consideriamo gli argomenti decisivi, sviluppati negli ultimi cinquant’anni, per la legittimazione dell’uso della violenza). Inoltre, bisogna insistere su un aspetto ancora più importante: la Grande Guerra non implica semplicemente un grande pericolo, un grande rischio, o una grande vittoria, ma anche e soprattutto l’introduzione di un paradigma di distruzione totale, di una guerra che sconquassa, distrugge e comporta danni di proporzioni catastrofiche.

Possiamo allora trovare già nei testi di filosofi dall’inizio del xx secolo, l’origine delle contemporanee guerre di annientamento, delle guerre per la costruzione di stati religiosi, o ancora l’idea di brutali guerre contro il terrorismo e il male assoluto. In essi, infatti, incontriamo la giustificazione di concezioni massimaliste di distruzione o di creazione di un nuovo mondo, nonché l’idea, a esse collegata, di una pace ex nihilo.

2 Cfr. B. Russell, The Ethics of War, in «The International Journal of Ethics», xxv, n. 2, 1915, pp. 127-142.

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perché è «grande» la grande guerra?

2. produrre la grandezza: tre stereotipi

Prima di tentare una classificazione di alcuni «stereotipi militaristi» di filosofi che scrissero sulla guerra in quel periodo, rendendola grande, è bene ricordare alcuni nomi fra quelli di coloro che esplicitamente scrissero di guerra, giustificarono la guerra, ne furono coinvolti, «produssero» in un certo senso la guerra (ad esempio pubblicando brevi testi su commissione, tenendo discorsi e lezioni pubbliche, seminari universitari ecc. 3): Bergson, Natorp, Husserl, Rosenzweig, Bauch, Gomperz, Scheler, Simmel, Jerusalem, Cohen, Haeckel, Wundt, Misch, von Gierke. A partire dalle sollecitazioni di questo breve elenco, vorrei distinguere due tipi di testi: al primo appartengono testi che trattano esplicitamente il tema del rapporto tra i filosofi, o la filosofia, e la guerra (Mauthner, Kraus, Radbruch 4); il secondo tipo è composto da testi che tematizzano la relazione tra la violenza, o la forza e la legge 5.

3 Non faccio riferimento a filosofi che presero attivamente parte alla guerra e vi morirono, come ad esempio il brillante allievo di Husserl, Adolf Reinach.

4 Nel 1914 Fritz Mauthner scrive Die Philosophie und der Krieg, in «Berliner Tageblatt», n. 517, 1914, nel quale è presentato il celebre argomento per cui l’attuale filosofia dovrebbe rimanere in silenzio di fronte alle questioni poste dall’epistemologia, e fino a quando la sicurezza della vita delle persone non sarà assicurata, nessun individuo potrà ritornare alla filosofia della pace. Nel 1918 Oskar Kraus pubblica un libro intitolato Der Krieg, die Friedensfrage und die Philosophen, Prag, Dt. Verein zur Verbreitung Gemeinnütziger Kenntnisse, e Gustav Radbruch scrive Zur Philosophie des Krieges, in «Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik», n. 44, 1917/18, pp.

139-160. Peter Hoeres scrive sulla «guerra dei filosofi inglesi e tedeschi» in Krieg der Philosophen. Die deutsche und die britische Philosophie im Ersten Weltkrieg, Paderborn, Ferdinand Schöningh, 2004.

5 Una miriade di giuristi e filosofi ha scritto pamphlet, più o meno brevi, sui rapporti fra diritto e violenza (o forza). Un certo Jacques Flach nel suo Le droit de la force et la force de droit, Paris, Sirey, 1915, scrive a proposito della «deviazione dal diritto in Germania» (la déviation de la justice) che ebbe inizio con Bismarck, per il quale la «forza precede il diritto» (la force prime le droit; Macht geht über Recht oder vor Recht). Flach ricostruisce un proverbio tedesco sul diritto del più forte di sottomettere il più debole, ovvero sulla precedenza della violenza sul diritto. Il proverbio è il seguente: Eine Hand voll Gewalt ist besser als ein Sack voll Recht (Meglio una manciata di violenza che una borsa piena di diritto). La violenza rende il diritto stabile e incrollabile, istituzionale.

In La force et le droit (Paris, Felix Alcan, 1917), Raul Antony elabora una formula (la formule) che offre tre possibilità: «la force fait, crée ou est le droit» (la forza fa, crea o è il diritto). Tutti questi testi sono, in un modo o nell’altro, un’introduzione allo studio di

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petar bojanić

Al fine di meglio districare i nodi che il tema della Grande Guerra stringe, è necessario interrogarsi su come si componga l’aggettivo «grande», come possa essere diviso e articolato in modelli differenti, in modo tale da renderne il significato più facilmente esplicabile e comprensibile. Questa peculiare articolazione si risolve, in fondo, nella questione su come la Grande Guerra sia diventata effettivamente «grande». Lo stesso sintagma Grande Guerra contiene, come vedremo, ragionamenti e argomenti stratificati e articolati, diligentemente prodotti alla vigilia della guerra, o comunque messi in campo appena dato il via alla macchina bellica: ricostruire tale articolazione e mostrare gli strati di questo aggettivo permette di affrontare più consapevolmente la questione filosofica della grandezza della Grande Guerra.

Il primo argomento sistematicamente tematizzato nei discorsi intorno alla guerra è la vittoria. Una grande vittoria segue solo da una grande guerra. Nella sua tesi di dottorato, dedicata a Otto von Gierke, Erich Kaufmann, un pensatore appartenente al primo gruppo di teorici precedentemente individuato, tematizza la guerra vittoriosa in opposizione a Stammler, e dunque a Kant, affermando che è la norma giuridica fondamentale a determinare l’esistenza di uno stato giuridicamente ordinato 6. Non è difficile cogliere per quale motivo la vittoria in guerra sia uno dei temi fondamentali di molti di questi testi: essa è ciò che inizialmente muove le nazioni a prendere parte alla guerra, giacché più di ogni altra cosa è la vittoria che le conferma e le costituisce 7.

Erich Brodmann, Recht und Gewalt, Berlin & Leipzig, De Gruyter, 1921, così come al famoso testo di Walter Benjamin dello stesso anno.

6 «L’ideale sociale non è quello di una comunità di persone libere di desiderare, dotate di una volontà libera. L’ideale sociale è piuttosto quello di una guerra vittoriosa:

una guerra vittoriosa come mezzo definitivo per i fini più elevati» (E. Kaufmann, Das Wesen des Völkerrechts und die clausula rebus sic stantibus, Tübingen, Verlag Aalen, 1911, p. 146 e p. 153).

7 «All’inizio della guerra ogni nazione, sotto l’influenza di ciò che viene chiamato patriottismo, crede che la propria vittoria sia certa e di grande importanza per l’umanità.

L’encomiabilità di questa credenza è divenuta una massima comunemente accettata:

anche mentre la guerra è effettivamente in corso si pensa che sia naturale e giusto che un cittadino di una nazione nemica debba considerare con fiducia la vittoria del proprio schieramento come altamente desiderabile» (Russell, The Ethics of War, cit., p. 130).

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perché è «grande» la grande guerra?

La vittoria del più forte – o dei più forti, Sieg des Stärkeren – ci introduce al secondo grande tema, quello della lotta per la sopravvivenza: lotta per la sopravvivenza della nazione, lotta per la sopravvivenza del migliore, del più adatto. In La guerra e la lotta per l’esistenza (Der Krieg und der Kampf ums Dasein), Bruno Bauch formula esplicitamente il principio generale della lotta per la sopravvivenza in quanto rivendicazione della sopravvivenza del migliore e di vittoria del più forte 8. Vittoria che, come già sottolineato in precedenza, è anche la condizione per la sopravvivenza della nazione in quanto tale 9.

Il terzo tema fondamentale è la mobilitazione generale. Fra gli altri luoghi, essa viene dettagliatamente discussa e tematizzata nelle lettere di Husserl a suo fratello Heinrich e ai suoi figli (uno dei quali, Wolfgang, morì nei pressi di Verdun l’8 marzo 1916, nella «battaglia del popolo tedesco per difendere il diritto dei popoli a combattere», come ebbe a dire lo stesso Husserl 10):

La mobilitazione si è compiuta in maniera ammirevole: riempie il cuore di gioia vedere queste fitte ed eleganti truppe. Tutto ciò che qui si realizza – lo spirito di sacrificio da parte di tutti i ceti della popolazione, questa fiducia, questa salda volontà di vincere o morire – tutto ciò è senza paragoni. Questa Germania è invincibile! 11

8 «Il principio generale della lotta per l’esistenza richiede la sopravvivenza di coloro che sono più adattati e la vittoria dei più forti» (B. Bauch, Der Krieg und der Kampf ums Dasein, in «Preußische Jahrbücher», clxii, n. 2, 1915, pp. 193-199, qui p. 194).

9 Allo scoppio della guerra Bauch tenne una lezione a Jena, in seguito pubblicata nella forma di un pamphlet autonomo: B. Bauch, Vom Begriff der Nation. Ein Kapitel zur Geschichtsphilosophie, in «Kant-Studien», xxi, 1916, pp. 139-162.

10 E. Husserl, lettera del 2 giugno 1915: «[…] il popolo tedesco si trovava nella più giusta di tutte le battaglie che un popolo abbia mai dovuto combattere».

11 E. Husserl, lettera a Clotilde e Heinrich Husserl, Göttingen, 17 agosto 1914 (E. Husserl, Briefwechsel, Dordrecht, Kluwer Academie Publishers, 1994, vol.

9, p. 289). Husserl aggiunge che 1.300.000 volontari si erano fino a quel momento arruolati. In una lettera ad Heinrich di nove giorni prima Husserl parla con entusiasmo dell’efficienza della mobilitazione, dello spirito di patriottismo e della prontezza per il puro sacrificio. «La nostra vittoria – scrive – è assolutamente certa; proprio come nel 1813-14, nessuna potenza al mondo può opporre resistenza a questo spirito, alla forza di questa volontà». Husserl conclude la lettera con un monito a tutti quanti di rimanere in posizione, rinunciando a qualunque spazio di vita privata. Sette mesi dopo, il 16 marzo 1915, scrivendo ai suoi genitori, Wolfgang si esprimeva nel modo seguente:

«Dovrebbe interessare molto a papà conoscere l’operazione così da vicino, da dietro il

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petar bojanić

Questi tre modelli di stereotipi filosofici rappresentano una vera e propria introduzione a quello finale e definitivo, che concerne la giustificazione della forza bruta e della distruzione totale. È proprio quest’ultimo modello che per il nostro discorso risulta il più interessante e proficuo, giacché traghetta con maggior chiarezza il discorso verso le attuali guerre.

Tralasciando il dichiarato impulso messianico e la venuta, l’arrivare della pace, l’epilogo deve sempre essere la vittoria della civilizzazione sul barbarismo, la distruzione definitiva del nemico ingiusto (un termine che, prima che da Kant, viene da Gentili e poi da Vattel). Solo mediante l’articolazione di questi temi, di queste prospettive, può formarsi il «grande» della Grande Guerra.

3. il nemico, il pacifista, l’ebreo

Non disponiamo di testimonianze incontrovertibili che il trattamento riservato all’avversario, al nemico, durante questi pochi anni di guerra, fosse sempre coerente con il mito della Grande Guerra come dell’ultima guerra combattuta in maniera onorevole. Nei testi dei filosofi, quantunque provenienti da diverse nazioni, troviamo un odio crudele e viscerale, una totale intolleranza non solamente per i soldati degli eserciti avversari – o anche per i civili –, ma in generale per gli altri popoli. Nel corso della tematizzazione della questione della guerra, una tale de-umanizzazione del nemico venne prodotta dai filosofi tedeschi, ad esempio, introducendo un’immaginaria vocazione della Germania ad essere l’ultimo bastione della cultura e dell’Europa 12. Di contro Russell, discutendo delle «guerre di

fronte, e specialmente ascoltare il tuono della nostra artiglieria pesante, che non è molto distante da qui».

12 Nel pamphlet Krieg und Kultur (inizialmente una lezione tenuta da Otto von Gierke a Berlino il 18 settembre 1914), pubblicato per la prima volta nella nota collezione «Deutsche Reden in schwerer Zeit» (Berlin, Carl Hermanns Verlag, 1914), von Gierke sostiene che il vantaggio decisivo della Germania rispetto ai suoi più grandi

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perché è «grande» la grande guerra?

colonizzazione», parla delle fantasie inglesi sulla distruzione della Germania:

Quando questa guerra ebbe inizio, molte persone in Inghilterra immaginarono che se gli alleati fossero usciti vincitori, la Germania avrebbe smesso di esistere: la Germania doveva essere «distrutta»

o «fatta a pezzi», e dal momento che queste frasi suonavano vigorose e confortanti, le persone non riuscirono a vedere che erano completamente prive di significato. Ci sono circa settanta milioni di tedeschi; con grande fortuna saremmo riusciti, in una guerra di successo, a ucciderne circa due milioni. Poi sarebbero rimasti ancora sessantotto milioni di tedeschi, e in alcuni anni la perdita dovuta alla guerra sarebbe stata compensata. La Germania non è semplicemente uno Stato, ma una nazione, tenuta insieme da un linguaggio comune, tradizioni comuni, ideali comuni. Indipendentemente dal risultato della guerra, quando essa sarà terminata questa nazione continuerà ad esistere, e la sua forza non potrà essere per sempre compromessa. Ma, per quello che riguarda la guerra, l’immaginario è ancora dominato da Omero e dal Vecchio Testamento 13.

Tuttavia, non possiamo fare a meno di constatare che queste altro non sono che le fantasie di Russell – il suo realismo cosmetico, superficiale, naif – riguardanti la mostruosa grandezza e l’assoluta indistruttibilità del nemico. Esse, peraltro, non contribuirono in alcun modo a ridurre la violenza inglese e l’odio nei confronti del nemico, né tantomeno a introdurre un’etica che avrebbe espulso la guerra dal palcoscenico del mondo, riducendola a un qualcosa di completamente immorale e inaccettabile. Le figure del nemico così descritte sono infatti perfettamente complementari con un altro modello che fece la Grande Guerra realmente grande, ovvero la tematizzazione del pacifismo. Il pacifismo – la cui isteria e falsità consistono nella sua radicalità, ossia nel massimizzare la resistenza alla guerra e, in questo modo, nel non fare altro che preservarla e

nemici e popoli (sono i popoli a rappresentare il nemico) consista nella cultura, la quale determina la sua forza e la futura vittoria (cfr. ibid., pp. 18 ss.).

13 Russell, The Ethics of War, cit., p. 135.

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petar bojanić

ampliarla – è sempre «un apparato necessario alla guerra» 14, un suo equipaggiamento. L’onorevole Bertrand Russell 15, in contrapposizione a Tolstoj o Cristo – le due figure sono sinonimiche per Russell –, tentava di giustificare un radicale pacifismo «reale» mostrando quali guerre sarebbero state potenzialmente giustificabili, e per quale motivo la guerra che stava avendo luogo in quel periodo non appartenesse a tale gruppo. Questa guerra appartiene alla tipologia delle cosiddette

«guerre di prestigio» (il nome è scelto adeguatamente: «Gli uomini desiderano il sentimento del trionfo, e temono il sentimento dell’umiliazione» 16), ed essa non è né può mai essere giustificata. Allo stesso modo, secondo Russell, le «guerre di autodifesa» sono molto raramente giustificate, poiché ogni fazione ritiene di trovarsi nella posizione di chi deve difendersi 17.

14 L’originale contributo di Franz Rosenzweig alla storia della guerra e del pacifismo, nonché la sua proposta per risolvere il «dilemma pacifista», si trova in conclusione della lettera ai suoi genitori del 6 gennaio 1917. Immediatamente dopo l’offerta ufficiale di pace fatta da Guglielmo ii (il 12 dicembre 1916), Rosenzweig scrive che solo in quel momento gli risultò chiaro cosa fosse il pacifismo: «il pacifismo è, infatti – ciò mi è diventato chiaro negli ultimi giorni dal 12 dicembre – un apparato necessario alla guerra. Dunque, la guerra non è condotta per distruggere il nemico – a lungo termine questo si rivelerebbe impossibile – ma per soggiogarlo, per imporgli la propria volontà, per rimpiazzare la sua con la propria. Il vincitore non solo desidera rendere il proprio conquistato un oggetto (perché non può perseverare in ciò), ma piuttosto uno schiavo. Il fine del vincitore non è la distruzione del nemico, ma la stesura delle basi per un nuovo contratto. Ciò però presuppone che nel nemico sia presente un “desiderio di pace” sopito, e che il fine ultimo della guerra consista nel risvegliarlo.

Se questo desiderio di “pace a ogni costo” diventa più forte della capacità di soffrire (l’eroismo), l’ora della pace scatta. Ovviamente tutto ciò si applica a due vincitori e contemporaneamente a nessuno. Oltretutto il pacifismo è vecchio quanto la guerra (ossia è una guerra umana, volta a far schiavi; gli animali conoscono solo una guerra distruttiva, e per questo non sono pacifisti)» (F. Rosenzweig an die Eltern, 6 gennaio 1917, in F. Rosenzweig, Briefe und Tagebücher, in Id., Der Mensch und sein Werk:

Gesammelte Schriften, vol. i, Den Haag, Martinus Nijhoff, 1979, pp. 327-328).

15 Così viene firmato il testo del 15 gennaio 1915 (Russell, The Ethics of War, cit., p. 127).

16 Ibid., p. 140.

17 «Questo tipo di guerra è quasi universalmente accettata come giustificabile, ed è condannata solo da Cristo e Tolstoj. La giustificazione di una guerra di autodifesa è molto conveniente, dal momento che, per quanto ne so, non è mai stata dichiarata una guerra se non per autodifesa. Nella guerra che stiamo trattando, la Serbia si difese dalla brutale aggressione dell’Austro-Ungheria; l’Austro-Ungheria si difese dalle distruttive agitazioni rivoluzionarie che si credeva fossero fomentate dalla Serbia stessa» (Russell,

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perché è «grande» la grande guerra?

Russell ritiene di poter percorrere la strada verso un pacifismo radicale proponendo altri due tipi di guerra: la «guerre di colonizzazione» e le «guerre di principio», che egli considera sovente giustificate.

Tuttavia proprio questa classificazione, utilizzata e am- piamente accettata ora più che mai, sembra aver rimosso l’esigenza di una reale costruzione attenta, meticolosa, ragionata di un’etica della guerra.

Sempre secondo Russell, la ragione principale per cui la guerra cominciata nel 1914 non può essere giustificata è che le guerre che possono essere giustificate sono un affare del passato, e non possono dunque più esserci guerre giustificate.

Per quanto alcune guerre sembrino essere giustificate, in realtà non lo sono affatto. Se le uniche guerre giustificate, come sostiene Russell, sono «guerre di colonizzazione» 18 o «guerre per conto della democrazia» (le quali entrambe appartengono al gruppo delle «guerre di principio») – e mai come oggi queste guerre risultano davvero complementari e pressoché identiche –, allora esse sono diventate un metro di paragone fondamentale e ineludibile. Esse rappresentano, dunque, una grande sfida per l’interpretazione e la giustificazione del massacro che ebbe luogo a partire dal 1914, e che continua in un certo modo a manifestarsi e prodursi ancora oggi. È, insomma, come se fosse il pacifismo stesso a indirizzare e sostenere la teoria della Grande Guerra. La guerra, per essere

The Ethics of War, cit., p. 140). Questi paragoni e analogie sono molto deboli: la difesa (o autodifesa) poteva certo essere un parametro di base nel costituire una «etica della guerra», come effettivamente sarebbe stato nel caso delle teorie della guerra. È interessante come il gruppo di pacifisti radicali intorno a Kurt Hiller – cui più tardi Walter Benjamin avrebbe fieramente reagito nel suo testo sulla violenza – modificarono la giustificazione della violenza in auto-difesa. A eccezione di Kurt Hiller – il cui testo più famoso, Anti-Kain (1919), comincia proprio con il problema che alla violenza sia sempre necessario rispondere esclusivamente con altra violenza, e contiene oltretutto la famosa frase secondo cui nel parlamento dell’umanità il «radicale pacifista» siede ben più vicino alla sinistra dei bolscevichi o del terrore spirituale – i membri più conosciuti di questo gruppo sono Armin Wegner e Rudolf Leonhard.

18 «Con “guerra di colonizzazione” intendo una guerra il cui scopo sia cacciare via un’intera popolazione da un determinato territorio e sostituirla con una popolazione di una razza differente» (Russell, The Ethics of War, cit., p. 134).

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petar bojanić

una Grande Guerra, non può che assomigliare alle guerre del passato.

Un paio di anni dopo, Franz Rosenzweig ripetè la strategia di Russell consistente nel rievocare le grandi e sacre guerre del passato che non si sarebbero mai più ripetute:

E poiché egli possiede appunto il concetto di guerra santa, non può prendere sul serio [ernst nehmen] quelle guerre […]. Sì, l’ebreo è davvero l’unico uomo che, nel mondo cristiano, non può prendere sul serio [nicht ernst nehmen kann] la guerra, e quindi egli è l’unico

«pacifista» autentico [der einzige echte «Pazifist»] 19. […] Il popolo ebraico […] si colloca al di fuori del mondo [steht es ausserhalb der Welt] […] in quanto vive nell’eterna pace, sta al di fuori di una temporalità guerresca [steht es ausserhalb einer kriegerischen Zeitlichkeit] 20.

Il pacifismo di Russell ci conduce così al tema generale del «pacifismo», che Rosenzweig presenta in una forma quasi timorosa, offrendo così al lettore un pacifismo allo stesso tempo autentico e inautentico. Questo pacifismo è in realtà un traghetto che ci porta all’interno del giudaismo, l’ultimo e probabilmente il più importante dei tre stereotipi filosofici che è possibile trovare nel periodo bellico all’inizio del xx secolo.

Anche per quanto riguarda il tema del giudaismo, il punto teorico fondamentale rimane che la Grande Guerra è «grande»

precisamente perché è stata resa tale da filosofi, da grandi filosofi.

Oltre a questo punto già sottolineato più volte, non è affatto peregrino sottolineare che, per molteplici ragioni, la guerra e la violenza erano, e sono ancora, un tema sul quale i filosofi ebrei sembrano detenere una sorta di copyright concettuale.

Non sembra possibile una tematizzazione della violenza e del diritto alla violenza che prescinda da una tematizzazione del giudaismo. Questo è precisamente ciò che Walter Benjamin fa

19 Le virgolette di «Pazifist» sono presenti anche nella prima edizione del libro Der Stern der Erlösung, Frankfurt a. M., Kauffmann Verlag, 1921, p. 416, trad. it. di G.

Bonola, La stella della redenzione, Milano, Vita e Pensiero, 2005.

20 Ibid., p. 368.

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perché è «grande» la grande guerra?

nel saggio Zur Kritik der Gewalt, ed è per questo motivo che risulta più che legittima la celebre definizione che Scholem dà del testo di Benjamin come «puramente ebraico» (ein rein jüdischer Text), come una manifestazione di «nichilismo positivo» o di «nobile e positiva violenza della distruzione» 21. Ovviamente, questa operazione di tematizzazione del nesso fra giudaismo e violenza è molto complessa e problematica, e non è questa la sede per avventurarvisi.

Difendere e argomentare a favore dell’impegno di Rosenzweig all’interno d’una complessa tradizione politica ebraica esige due momenti: in primo luogo, purificare la frase «Der Jude ist der einzige echte “Pazifist”», da un lato, dall’ambiguità legata all’uso delle virgolette per la parola «pacifista», e dall’altro dalla prossimità tra la parola «autentico» e la parola «pacifista» – che conducono a domandarsi se l’ebreo sia veramente il solo, unico, autentico e vero pacifista, oppure se sia il solo, unico, autentico e vero «pacifista» (nel secondo caso, sarebbe il solo e unico vero pseudo-pacifista, o il vero pacifista che non è un pacifista, un «militante pacifista»). Una volta purificata, questa frase ci riconduce alla parola chiave: «der einzige». Solo l’ebreo è il vero pacifista idealista. In questo senso, l’ebreo non è interessato alle guerre puramente politiche, ma solamente a ciò che le segue, alla vera «pace a ogni costo» che le interrompe: Dio (la guerra) che decide della loro fine; il Messia che trasforma le guerre politiche nelle guerre ultime con la proclamazione della pace eterna. In secondo luogo, Rosenzweig conserva, de facto, la distinzione tra guerra di religione e guerra abituale (gewöhnlicher Krieg), ma apre, con molta prudenza, un campo in cui questa distinzione può essere smorzata, attenuata, sfumata. L’esistenza di una Grande Guerra mondiale permette a Rosenzweig di costruire l’idea di guerra/guerre politica/

politiche che non hanno diritto a concludersi prima d’essere divenute le ultime guerre messianiche. Solo l’ultima guerra può concludersi, e questo avviene quando la volontà di Dio vi mette

21 G. Scholem, Im Gespräch über Walter Benjamin, in «Sinn und Form», n. 4, 2007, pp. 501-502.

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petar bojanić

fine o quando il nemico accetta la pace senza condizioni. È una novità assoluta nella storia del pensiero e della giustificazione della guerra.

Questi tre modelli (o figure) – il nemico, il pacifista, l’ebreo – sono sempre e costantemente intrecciati. L’una rende possibile l’altra, e ciò che risulta particolarmente significativo per la costruzione dell’aggettivo «grande» nel sintagma Grande Guerra è l’introduzione della giustificazione di una grande violenza e di uno spietato uso della forza. La miriade di giustificazioni della guerra e della violenza che vennero espresse un centinaio di anni fa implicano il bisogno di una sorta di grande, rivoluzionaria, divina violenza, che metta fine a ogni cosa e ci conduca verso la pace definitiva e la giustizia assoluta. I germi di ciò che Walter Benjamin scrive più o meno nel 1920 sono già presenti nel testo del 1915 di Erich Unger Der Krieg 22. In realtà, il testo di Unger è una specie di manuale per l’iperbolizzazione della guerra e per la massimizzazione di quello «spirito militarista» che ancora oggi ci appartiene. È dunque proprio ad alcuni passaggi di questo testo che affidiamo la conclusione del presente saggio:

Ma la guerra li ha ridotti in tali frantumi che forse attirerà l’attenzione di qualcuno; poiché è proprio l’essenza dello spirito il ricominciare un milione di volte dai campi di rovine piuttosto che riparare e sviluppare idee usurate. Ti dirò di più! Questa umanità purulenta e corrotta è riuscita a far scoppiare una guerra così enorme – non è stata fatta (e ne è stata mille volte inconsapevole) per altro scopo, lo zar di Russia l’ha scoperta del tutto per caso – ma di fronte ai cumuli di cadaveri dei popoli hanno osato – la misura della mendacità malvagia diviene straordinariamente inquietante – continuare a reclamare questo tipo di umanità e di compostezza: ribellarsi per la cattedrale di Reims, i bombardamenti delle città aperte, i siluri sottomarini contro il

«Lusitania».

Sì, la pace nel mondo verrà dalla più sanguinosa delle vendette reciproche tra popoli antichi, dato che è stato considerato un reato il

22 Il testo di Unger (nella forma di un doppio dialogo tra un soldato in uniforme e un uomo inabile al servizio militare) fu pubblicato nell’agosto del 1915 e nel febbraio del 1916 nel giornale «Der Neue Merkur». La prima parte fu pubblicata nello stesso numero in cui comparve il testo di Benjamin sulla vita studentesca.

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perché è «grande» la grande guerra?

non sterminare i figli del popolo nemico, poiché il popolo intero era un’unità e un nemico –, la pace verrà mille volte di più da questa pura atrocità che da questa filantropia riconoscibile nei sui frutti 23.

La figura di ciò che è vivente nel popolo – quella che abbiamo tentato di delineare – esiste certamente in ogni epoca.

La guerra rende solo la situazione evidente, documentabile, perché solo in essa la tensione individuo-popolo, che esiste anche in altri ambiti, viene portata sino a quel punto finale in cui si dà quel dato di fatto quasi impensabile della soppressione dell’individuo, e perché nessun concetto al mondo potrebbe riuscirci – poiché l’entrata in scena dell’indicibile, la negazione del singolo, di un intero polo dell’umanità, è possibile solo a una condizione: che questo singolo non solo nel concetto, ma anche effettivamente e fisicamente sia identico a una realtà che esiste anche al di fuori di lui, che può permettersi la guerra, perché non muore in essa.

[…] Ma gli spiriti dei popoli europei non si rapportano più l’un l’altro come gli dèi dei Persiani e dei Greci e non si considerano reciprocamente come infidi esseri provenienti da altri mondi. Mi è sempre sembrato inquietante percepire così tanto odio contro i propositi commerciali dei nemici e così poco contro lo spirito [Geistigkeit, spiritualità] nemico 24.

23 E. Unger, Der Krieg, in Id., Vom Expressionismus zum Mythos des Hebräertums:

Schriften 1909 bis 1932, Würzburg, Manfred Voigts, 1992, pp. 54-55.

24 Ibid., p. 60.

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