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Alla nuova conferenza di 81 partiti comuni
sti e operai svoltasi nella capitale sovietica dal 10 novembre al 3 dicembre 1960, si comincia
va a delineare il contrasto tra il partito comuni
sta sovietico e quello cinese che in seguito avreb
be assunto toni molto aspri. I cinesi accusavano sia il partito italiano che quello jugoslavo di re
visionismo.
La pacificazione definitiva tra i due partiti ve
niva suggellata nel corso di un incontro tra To
gliatti e Tito avvenuto a Belgrado nel gennaio 1964, pochi mesi prima della morte di Togliat
ti. Nel corso dell’incontro venivano esaminati tutti i temi intemazionali. Poco dopo, in un ar
ticolo pubblicato su “Rinascita”, Togliatti espri
meva un giudizio assai severo sulla condanna del Cominform del 1948, giudicata “un errore
gravissimo indice di superficialità burocrati
ca”.Con l’intervento sovietico che nel 1968 stroncava la “primavera” di Praga iniziava il di
stacco tra il Pei e il Pcus, distacco lento e con
traddittorio. Come valuta giustamente l’autore, se tale distacco fosse avvenuto all ’ indomani del
la morte di Togliatti (21 agosto 1964) sarebbe stata percorribile la strada di un comuniSmo de
mocratico, della quale l’esperimento di Dubcek era stato pilota.
Unico neo di un’opera precisa e documenta
ta, che tra l’altro ha il merito di mettere a fuoco un argomento fin qui appena sfiorato, è la man
canza di una cronologia, necessaria anche per il fatto che talvolta nel testo viene omessa la data di determinati avvenimenti.
Franco Pedone
Berlinguer e il comuniSmo italiano
Fabio Vander
La recente, quasi contemporanea pubblicazione di due monografie dedicate a Enrico Berlinguer, segna un ritorno di attenzione sul dirigente co
munista e sulla “fine del comuniSmo”, come re
cita il titolo del libro di Silvio Pons (Berlinguer e la fine del comuniSmo, Torino, Einaudi, 2006, pp. XXVL265, euro 24). Il saggio di Francesco Barbagallo (Enrico Berlinguer, Roma, Carocci, 2006, pp. 558, euro 18,50) è più direttamente una biografia, espressamente politica, un testo poco incisivo nella prima parte (fino alla fine degli anni sessanta) e che solo dopo l’assunzio
ne della segreteria da parte di Berlinguer acqui
sta ritmo; mentre quello di Pons ha il difetto di
‘esorcizzare’ nella dimensione estera e dei rap
porti con il Pcus l’intera vicenda del comuni
Smo italiano fino appunto alla sua fine.
Va detto che entrambi i testi lavorano su una messe notevole, talvolta eccessiva, di documenti inediti, tratti dall’archivio del Pei e, soprattutto nel caso di Pons, da quelli moscoviti divenuti accessibili negli ultimi anni. La storia della sto
riografia è ricca di ‘svolte’ filologiche in cui la scoperta di fonti inedite non ha dato luogo a ope
re all’altezza; in cui cioè l’occasione filologica non è stata sfruttata per un autentico salto di qua
lità nella ricerca storica.
Le due opere in questione ricostruiscono fe
delmente, ognuna a suo modo e nel suo ambito, le res gestae, ma non convincono come impianto complessivo; lasciano insomma intatta l’antica diffidenza storicista verso il momento erudito e il culto ingenuo del fatto, dietro i quali si cela
no per lo più problemi di struttura e d’impianto complessivo. In questo senso le due opere in questione dicono molto anche sullo stato attua
le delle scienze storiche e sulla missione dello storico.
Per chiarezza diciamo subito la nostra: di un personaggio totus politicus come Enrico Ber
linguer non si può non discutere con espresso riferimento alla sua attività politica, meglio (per
ché di politica si occupano i due autori), è ne
cessario individuare preliminarmente il cuore
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culturale, la natura profonda di una strategia che per tanti versi coincide con la storia del comu
niSmo italiano del secondo dopoguerra. Oltre i fatti, il senso di una storia.
Quando Silvio Pons, alla fine del suo lavoro, scrive che la strategia berlingueriana, fino al
l’ultimo, fino al “cieco duello ingaggiato con Craxi”, “nasceva dalla fonte più importante del
la costituzione materiale del comuniSmo italia
no, la dimensione intemazionale” (Berlinguer, cit., p. 246), noi non siamo d’accordo. Siamo convinti al contrario che il vero pilastro del co
muniSmo italiano, ciò che rende intelligibile l’in
tera sua parabola, fino al 1989 e anzi fino ai suoi tristi eredi di oggi, sia costituito dalla dimen
sione interna.
È in questa dimensione che si svolge l’es
senziale: una concezione della democrazia e del socialismo come convergenza di tutte le forze democratiche, popolari, antifasciste e di sinistra.
E questo dalla “svolta di Salerno” del 1944 al
“compromesso storico” di Berlinguer (per non dire dell’oggi).
Questo è il vero filo rosso che lega l’intera storia del comuniSmo italiano dalla liberazione in poi.
Tutto il resto è comprensibile solo avendo chiaro e fermo questo riguardo. Anche le posi
zioni di politica estera, anche il “legame di fer
ro” con l’Urss che Pons conferma essere restato tale, con gli ovvi aggiornamenti, fino all’ultimo giorno di Berlinguer. Infatti proprio la struttura
le “doppiezza” del Pei fra opzione democratica e persistente legame con la potenza che era il ne
mico strategico dell’occidente, giustifica la co
stante ricerca di legittimazione non tanto sul pia
no costituzionale (il che era acquisito dopo rap
porto del Pei alla liberazione dal nazifascismo e alla stesura della Costituzione), quanto su quel
lo direttamente politico; ora proprio questo ren
deva indispensabile un’opera indefessa tesa alla ricomposizione di quella “unità tripartita” nata con la Resistenza e durata fino al 1947. Tutte le scelte politiche del Pei nei decenni del dopoguerra ed entro queste il ruolo di Berlinguer si spiega
no convenientemente solo in questa prospettiva.
Vedere solo il momento ‘internazionalista’, considerarlo pienamente esaustivo, come capi
ta a Pons, significa assumere un punto di vista riduttivo, in ultima istanza foriero di equivoci (per esempio Pons riduce tutto all ’ incapacità del Pei di rompere con Mosca e di aderire sic et sim- pliciter alla socialdemocrazia: Berlinguer, cit., p. 11, p. 23, p. 70, p. 250, p. 254).
La vera critica, che non può non esser radi
cale, del Pei e di Berlinguer, deve a nostro avvi
so essere un’ altra, a partire da un altro e più com
prensivo paradigma. Solo così si può dar conto non solo della vicenda del partito di Berlinguer, ma anche della sinistra italiana o meglio della nostra intera democrazia (e storia politica na
zionale, addirittura a partire dal Risorgimento).
C’è per esempio un passo del libro di Barba- gallo che svela tutta la sua importanza solo se si assume il punto di vista che noi suggeriamo. Si tratta del luogo in cui ricostruisce il celebre e importante carteggio fra Giorgio Amendola e Norberto Bobbio della fine del 1964. Bobbio ri
teneva che fosse maturo un “partito unico” del
la sinistra, ovviamente su basi socialdemocrati
che; il dirigente comunista si diceva d’accordo con l’unificazione fra comunisti e socialisti, al
trettanto ovviamente non su basi socialdemo
cratiche, ma ricercando una “terza via” al tem
po stesso democratica e rivoluzionaria.
Questo in pubblico. Nella direzione del Pei Amendola diceva però altro, cioè “insisteva sul
l’attualità del partito unico, anche per opporsi all’unificazione socialdemocratica tra Saragat e Nenni e all ’ alternativa laica” (E B arbagallo, En
rico Berlinguer, cit., p. 63).
Ecco il punto decisivo: i dirigenti comunisti mai ragionavano in termini di alternativa, mai di unità delle sinistre; per loro l’unità a sinistra, quando la perseguirono, fu sempre dettata da ra
gioni contingenti se non strumentali, quali ap
punto evitare l’incontro Nenni-Saragat e, ancor peggio (per loro), l’“altemativa laica”.
La vicenda dell’elezione di Saragat alla pre
sidenza della Repubblica, avvenuta a fine di
cembre 1964, è un’ulteriore conferma di quan
to andiamo dicendo. Vero che i comunisti lo vo-
tarano, fecero parte della maggioranza presi
denziale, un fatto nuovo e significativo nella sto
ria politica d’Italia; ma non nascosero mai che la loro preferenza era un’altra: quella per Fan- fani, considerato meno atlantista e più riforma
tore. Di nuovo: no all’unità delle sinistre, sì al dialogo con i cattolici. Ed era la posizione di In- grao e Terracini, ma anche di Longo e Berlin
guer. Alicata lo disse chiaramente: “abbiamo sempre considerato il nome di Saragat il peg
giore, per la sua posizione politica (un atlantico puro) e perché non ci permette di compiere quel
la operazione politica verso la sinistra cattolica che volevamo realizzare” (cit. in F. Barbagallo, Enrico Berlinguer, cit., p. 64).
Come si vede, il filosovietismo c’era, qui nel
la forma di un antiatlantismo pregiudiziale, ma prenderlo per servilismo di gente pagata da Mo
sca, non capire il nesso con una strategia che ve
niva da lontano e che era profondamente inner
vata alla vicenda della nostra democrazia, si
gnifica votarsi a non capire.
I fatti degli anni successivi sono altrettante conferme. Così nel 1966, dopo il combattuto XI Congresso del Pei e in presenza del compiersi dell’“unificazione ‘socialdemocratica’”, i co
munisti non mancarono di ribadire la loro idio
sincrasia per la prospettiva dell ’ alternativa. Ber
linguer, detto che l’unificazione fra socialisti e social democratici era esiziale e lamentata l’a
desione dei lombardiani a questa prospettiva, sosteneva che “si rendeva necessaria una ripre
sa dell’iniziativa politica del Pei, con una rin
novata attenzione verso i cattolici, anche per
ché gli pareva di vedere un particolare disegno di Nenni e di Saragat orientato alla costruzione di un sistema politico bipolare, tendente a ‘ob
bligare il Pei, a lungo andare, ad appoggiare il nuovo partito [Psu] nella lotta tra due blocchi’, uno più conservatore e uno più avanzato” (F.
Barbagallo, Enrico Berlinguer, cit., p. 81 ). L’op
posizione al Psu non era dunque affatto ideolo
gica, ma politica, di una politica discutibile quanto si vuole, ma peculiare del comuniSmo italiano: contraria a un “sistema politico bipo
lare” e attenta ai cattolici in funzione di con
trapposizione all’alternativa fra conservatori e progressisti.
Anche qui: l’opposizione al centro-sinistra e all’unificazione socialista la si capisce solo se si assume con convinzione un punto di vista par
ticolare, quello per cui il Pei del dopo-Togliatti rimane integralmente togliattiano, dove Berlin
guer (che alla fine degli anni sessanta è vicese
gretario, ma segretario di fatto data la malattia di Longo) è il garante di questa continuità gran
de-unitaria e antialtemativa.
L’esplodere del Sessantotto che per i comu
nisti significa innanzitutto il trauma dell’inva
sione sovietica della Cecoslovacchia e delle cre
scenti contestazioni da parte di movimenti di estrema sinistra, rende Berlinguer consapevole che si deve abbandonare la “visione ristretta del movimento comunista nel senso dei soli partiti comunisti”, aprirsi dunque al nuovo e al diver
so; ma questo significava, come Berlinguer dis
se nel 1969 alla Conferenza mondiale dei parti
ti comunisti a Mosca, promuovere “ogni possi
bile intesa, anche parziale con altre forze de
mocratiche, con forze socialiste, socialdemo
cratiche e cattoliche” (F. Barbagallo, Enrico Ber
linguer, cit., p. 115). Persino nel cuore del Crem
lino Berlinguer reiterava l’antica strategia to- gliattiana dell’unità delle grandi componenti sto
riche della democrazia italiana: comunisti, so
cialisti, cattolici.
Del resto il fatto che anche la situazione inter
na italiana fosse grave, dal punto di vista econo
mico e politico (con la crisi ormai evidente del centro-sinistra) e soprattutto con lo scatenarsi del
la strategia della tensione, spinse vieppiù Berlin
guer a precisare una politica fondata “sull’intesa di tutte le forze di sinistra, laiche e cattoliche”.
Naturalmente non era facile, perché il pae
se all’inizio degli anni settanta, nonostante la forza del movimento studentesco e sindacale, era percorso da un moto di reazione (si pensi alla “maggioranza silenziosa”, oltre allo stra
gismo di destra) che investiva la De, impe
dendo tra l’altro a Moro di contrastare l’ele
zione a presidente della Repubblica di Gio
vanni Leone (eletto anche con i voti dei fasci
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sti). Questo rendeva evidente ai comunisti che non si poteva puntare a spaccare la De propo
nendo una generica politica di unità democra
tica (cfr. F. Barbagallo, Enrico Berlinguer, cit., pp. 161-162). Ci voleva dell’altro. Qualcosa di più impegnativo. Il “compromesso storico”
nacque in questa temperie ed entro questi li
miti ristretti (in primis la forza e coesione di fondo della De).
Il 1972 fu un anno difficile. Ci furono le pri
me elezioni anticipate della storia repubblicana, i primi attentati delle Brigate rosse, la morte di Feltrinelli mentre preparava un attentato (peral
tro destinato a colpire il congresso del Pei). Ber
linguer al congresso si domanda: “Collaborare o non con la De? Quale De?”. Domande retori
che che, dopo il buon risultato elettorale della De alle elezioni anticipate, lasciavano il Pei nel
la necessità di precisare la sua strategia.
Ci furono anche novità in politica estera, co
me ricorda Pons. La possibilità di una nuova “di
stensione” (che pareva confermata dall’accordo Salt I sugli armamenti nucleari), spinse Berlin
guer a superare la rigida teoria dei “due campi”
e a porre, al congresso del 1972 (quello nel qua
le fir eletto segretario), “la sordina sulla tradi
zionale richiesta di una fuoriuscita dell ’ Italia dal
la Nato” (S. Pons, Berlinguer, cit., p. 22). Eppu
re, aggiunge Pons, “non era ancora una svolta po
litica”. Ma non lo era, secondo Pons, sul piano intemazionale, nel senso che continua a rimpro
verare al Pei il fatto di non aver sviluppato “un progetto volto a superare i confini tra comunisti e socialdemocratici” (in primis la Spd); per noi invece la svolta non ci fu (né poteva esserci da
ta la costituzione ideologica del comuniSmo ita
liano) innanzitutto sul piano interno.
Berlinguer infatti una volta di più restò fer
mo allo schema togliattiano del rapporto con i cattolici (F. Barbagallo, Enrico Berlinguer, cit., p. 164), sia pur scontando una situazione di dif
ficoltà. Difficoltà che cercò di superare co
gliendo l’occasione del golpe fascista in Cile.
Era la prova, secondo la più che discutibile tesi berlingueriana, che l’unità delle sinistre al mo
do di Allende non metteva al riparo dai rischi
reazionari, anzi li enfatizzava con esiti appunto golpisti.
E questa lettura, a conferma di un vizio di fon
do del comuniSmo italiano nel suo insieme, spin
se non solo Berlinguer, con i suoi famosi artico
li sul Cile, ma anche per esempio Pajetta, Napo
litano o Galluzzi a porre con forza la necessità di un “compromesso” con la De (cfr. F. Barbagal
lo, Enrico Berlinguer, cit., p. 183). Dopo di che appare del tutto ovvio che Berlinguer nei suoi ar
ticoli di lancio del “compromesso storico” si ri
facesse alla “linea togliattiana, dalla svolta di Sa
lerno del 1944 al X congresso del 1962” (p. 186);
del resto Berlinguer lo disse espressamente al mo
mento dell’astensione sul governo Andreotti nel 1976: “Noi concretizziamo la formula di Togliatti (1963): ‘il PCI deve entrare in un’area di gover
no’” (p. 275; ma cfr. anche p. 289).
Ma importa approfondire, più di quanto non facciaBarbagallo, il modo in cui Berlinguer giu
stificava le sue aperture alla De. Sosteneva che il paese richiedeva profonde riforme sociali ed economiche, per questo occorreva collaborare con i ceti medi e i loro partiti, in primis appun
to la De. Considerare questo partito un elemen
to conservatore, sorta di realtà “astorica e me
tafisica”, era un errore, secondo lo sconcertan
te sofisma berlingueriano. Semmai era vero il contrario: proprio perché la De era un corposo fenomeno storico, rappresentante di una molte
plicità di ceti e di interessi, non poteva e non do
veva essere protagonista di una politica che ve
desse protagoniste le sinistre.
“Metafisica”, cioè esiziale, era la concezio
ne berlingueriana della politica e dei processi di democratizzazione (visto che puntava all’ac
cordo con l’avversario, invece di una sana com
petizione fra alternative).
La percezione della gravità di questa conce
zione della democrazia e del ruolo della sinistra in essa, mi sembra francamente assente nei li
bri in questione. E questo indebolisce l’asse er
meneutico intorno al quale ciascuno dei due si struttura.
Così quando Barbagallo riprende la critica di Gramsci a un vecchio massimalista che aveva
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sostenuto: “Noi non saremo mai un partito di go
verno”, mentre per Gramsci il movimento ope
raio deve avere 1’“ambizione” di guidare il pae
se, e quando Barbagallo attribuisce a Berlinguer la stessa ambizione, per cui il “compromesso sto
rico” sarebbe stato il modo migliore “di puntare al governo e di non limitarsi a una opposizione perenne” (F. Barbagallo, Enrico Berlinguer, cit., p. 197), obiettiamo che non siamo d’accordo. C’è infatti modo e modo di andare al governo.
Per questo è indispensabile avere una chiara idea della questione della democrazia in Italia.
Solo così si riesce a cogliere il limite vero, di fondo, della strategia del “compromesso stori
co”. Essa infatti, presupponendo la convergen
za di alternativi, quali il Pei e la De, favoriva un approccio distorto al problema del governo da parte del movimento operaio, un modo che non serviva né ad esso, né alla democrazia italiana (che infatti rimase “imperfetta”, anzi l’imperfe
zione raggiunse il suo culmine).
In questo quadro divengono meglio intelli
gibili gli stessi documenti prodotti da Barba- gallo. Che ricorda per esempio come nel 1975, al potente segretario dell’Emilia Vincenzo Ga
ietti che gli faceva notare che “col compromes
so storico ‘verrebbe a cadere ogni opposizio
ne’” (F. Barbagallo, Enrico Berlinguer, cit., p.
223), Berlinguer, con argomento tipico del ba
gaglio culturale di Franco Rodano (vero ispira
tore della strategia del compromesso storico),
“replicò secco: ‘si potrebbe rispondere che ce ne sarebbe anche troppa’”. Appaiono qui in tut
ta la loro evidenza i limiti della concezione co
munista della democrazia, per cui l’alternativa non necessitava della rotation in office di mag
gioranza e opposizione, una progressista e l’al
tra conservatrice, bastava che un’unica mag
gioranza mettesse insieme tutti i democratici, poi l’opposizione si sarebbe creata spontanea
mente, al di fuori del parlamento, costituita da tutti coloro che erano contrari a una politica di riforme. In pratica, invece di una maggioranza legittima e di una legittima opposizione, Ber
linguer arruolava nella maggioranza ‘virtuosa’
tutti i democratici (appunto dal Partito comuni
sta alla Democrazia cristiana), mentre all’op
posizione sarebbero rimasti tutti gli interessi conservatori e reazionari. In questo modo però l’antico vizio dell’impossibilità di una alter
nanza fra forze costituzionali e forze antisiste
ma (quali i comunisti per decenni furono con
siderati), non era superato (né minimamente av
viato a superamento) nell’ipotesi del compro
messo storico, perché i comunisti sicuramente evolvevano democraticamente al governo del paese, ma l’opposizione non era a sua volta de
mocratica (visto che tutti i democratici erano in maggioranza), ma era rappresentata da forze reazionarie se non eversive.
Un inciso su Rodano a questo punto è d’ob- bligo. Sbaglia Barbagallo a considerarlo “a tor
to” un ispiratore della strategia berlingueriana (cfr. F. Barbagallo, Enrico Berlinguer, cit., p.
296); mentre più nel giusto è Pons che definisce Rodano “uno degli intellettuali più vicini a Ber
linguer” e di cui sottolinea la capacità di appli
care lo schema della grande unità democratica sotteso al “compromesso storico” anche alla di
mensione europea. In pratica secondo Rodano non solo in Italia, ma anche in Europa occorre
va rilanciare “quel processo ampiamente inno
vativo che venne bloccato tra il ’44 e il ’47” (S.
Pons, Berlinguer, cit., p. 44), appunto la to- gliattiana unità antifascista e democratica. Giu
stamente Pons sottolinea i tratti “visionari” di una simile pretesa, cioè dell’illusione catto-co- munista (Rodano, ma anche Tato, primo consi
gliere di Berlinguer) di una “missione univer
salistica” destinata ai comunisti italiani e ulte
riore rispetto all’Urss come alle socialdemocra
zie (cfr. S. Pons, Berlinguer, cit., p. 82).
La storia avrebbe sgombrato queste illusioni, ma non prima che facessero il loro danno. Cer
to il problema storico della democrazia italiana, quello della ‘costituzionalizzazione’ di tutte le forze popolari, non sarebbe stato risolto dal com
promesso storico (dalla strategia e dalla cultura politica che lo sottintendeva), anche se all’ini
zio era forse potuto sembrare così (visto che i
‘reprobi’ comunisti finalmente erano entrati nel
l’area di governo).
Rassegna bibliografica
Ma si deve insistere sul deficit di cultura de
mocratica che si evidenzia in questa fase cru
ciale della vita politica nazionale, a opera di tut
te le forze politiche maggiori, perché la cosa ri
guardava il “compromesso storico”, non più del
la “terza fase” di Moro e delle scelte dei partiti che aderirono all’“unità nazionale”. Dev’esser chiaro che aver ritenuto di unire tutti i demo
cratici in maggioranza, lasciando a forze estra
nee all’area costituzionale e di governo la re
sponsabilità dell’opposizione, ha portato a Ber
lusconi, alla sua maggioranza di pregiudicati, reazionari, fascisti, razzisti, ecc. L’opposizione antisistema di cui Berlinguer pensava ce ne sa
rebbe stata “anche troppa”, dopo Tangentopoli e il passaggio alla “seconda Repubblica”, non si accontentò di fare appunto opposizione, ma salì addirittura al governo del paese, legittimata pro
prio da quei partiti democratici dalla cui crisi pure quel grumo di forze sarebbe derivato. Le conseguenze delle scelte dei secondi anni set
tanta portano dunque all’oggi.
La democrazia italiana è responsabile della sua attuale grave condizione. Aver lasciato l’op
posizione, invece che a forze democratiche in waiting per tornare maggioranza, appunto a un coacervo di interessi antisistema, ha favorito il precipitare della crisi (non la salvezza della de
mocrazia, che i teorici delle Targhe intese’ ave
vano sempre preso a pretesto), aprendo a svi
luppi deteriori.
Senza “compromesso storico”, “terza fase” e
“unità nazionale”, niente Berlusconi.
Ma torniamo a Berlinguer e alla fase in ogni senso cruciale che portò al “governo della non
sfiducia” dopo le politiche del 1976. A opporsi nel Pei a questa scelta furono Pajetta (nel solito modo irruento e non conclusivo), Terracini, Lon- go. Insomma la “vecchia guardia”, quelli che ancora ricordavano per che cosa era nato il Pcd’I (cioè non per fare l’accordo con le classi diri
genti, come invece sempre aveva fatto il rifor
mismo). Pcd’I che non era il Pei (togliattiano).
Ma sentiamo le parole di Longo in una deli
cata riunione della Direzione del luglio 1976; per lui “un governo monocolore De non rappresen
ta niente di nuovo, né il programma del gover
no giustifica un’astensione, quindi bisognereb
be votargli contro. ‘Astenersi vuol dire votare per e questa svolta non sarebbe comprensibile né per il partito né per gli elettori [...] L’astensione sarebbe una svolta che ci avvierebbe sulla stra
da di successive e più gravi concessioni, di ce
dimenti, di rinunce’” (F. Barbagallo, Enrico Ber
linguer, cit., p. 275). Così parlava un vecchio
“settario”. Una lezione di democrazia (astenersi è votare “per”, favorendo la confusione), oltre che una ineccepibile previsione: 1 ) gli elettori ef
fettivamente non capirono e scoppiò presto un moto di protesta, fra i lavoratori (contestazioni alla linea di Lama) e fra i giovani (il “movimento del ’77”); 2) quella scelta aprì a “concessioni”,
“cedimenti”, “rinunce” che Longo neanche im
maginava.
Fu una crisi terminale quella. Per il Partito comunista e per la Repubblica nata dalla Resi
stenza. Quello che seguì e fino a oggi, ripeto, fu conseguenza diretta.
Del resto Barbagallo fa bene a ricordare che la scelta del “governo delle astensioni” non fu da parte del Pei solo dettata da ragioni contin
genti, cioè dalla necessità di affrontare una si
tuazione del paese difficile dal punto di vista economico, sociale e della tenuta democratica;
ma era la variante tattica di una precisa opzio
ne strategica. Infatti in una Direzione del mag
gio 1977 Natta (ma “Berlinguer si dichiarava subito d’accordo”) confermava “il giudizio po
sitivo sulla fase caratterizzata dall’astensione, che non era stata dettata solo dalla necessità e dal senso di responsabilità verso il paese, era in
vece ‘una scelta politica, capace di aprire nuo
ve situazioni’” (F. Barbagallo, Enrico Berlin
guer, cit., p. 304). Appunto non una scelta ne
cessitata (come in seguito si disse per giustifi
care il fallimento), ma convinta: la “non sfidu
cia” come porta stretta che avrebbe aperto al compiuto accesso nell’“area di governo” (sem
pre insieme alla De).
L’analisi di Pons della situazione creatasi do
po le elezioni del 1976 è riduttiva (come per lo più gli capita quando si occupa di politica in
tema invece che intemazionale). Dello stallo strategico creatosi con i “due vincitori” (come disse Moro), cioè fra Pei e De, entrambi pre
miati dagli elettori, Pons dice solo che dette luo
go al “governo delle astensioni” formato da An- dreotti. Salvo aggiungere che il Pei non aveva
“un programma di governo”, ma un “sensibile consenso elettorale” dovuto per lo più alla tem
pra “etica” di Berlinguer (Cfr. S. Pons, Berlin
guer, cit., p. 93). Ora, a parte che un “sensibile consenso elettorale” come quello raggiunto dal Pei nel 1976 non si ottiene senza un program
ma politico, senza una strategia, né solo in virtù del fascino di un uomo come Berlinguer, il ri
duzionismo propriamente consiste nell’incapa
cità di cogliere la portata della linea del com
promesso storico, il suo nesso con la tradizione togliattiana, le aporie che ingenerava in presenza di un risultato della De medesimamente positi
vo. Di nuovo solo se si assume un particolare punto di vista, una certa lettura della storia po
litica nazionale, si può rettamente intendere il senso della parabola di Berlinguer (come di Mo
ro) e porre nella giusta prospettiva problemi, personaggi e fasi politiche.
In ogni caso fra 1977 e 1978 la situazione si fece sempre più difficile. Per il Pei e la demo
crazia italiana. Natta non poteva non constatare che “al governo non ci voleva nessuno”; morti poi gli uomini più aperti al coinvolgimento del Pei, Moro e La Malfa (a inizio 1979), stante l’op
posizione per motivi diversi ma convergenti di Usa e Urss, Berlinguer realizza che deve sgan
ciarsi da questo esperimento. Del resto anche i rapporti a sinistra si erano deteriorati: i giovani ormai, dopo il ’77 e con la sanguinosa coda del terrorismo, erano irrecuperabili a un rapporto positivo, il sindacato era indebolito, soprattutto i socialisti avevano scelto con Craxi (già duran
te il sequestro Moro) un’altra strada.
All’inizio del 1979 Berlinguer dichiara fini
ta l’esperienza della “solidarietà nazionale”; ma aggiungendo subito che la presa di distanze era tattica: “Non c’è dubbio che non vi è da parte mia e della direzione una volontà di cambia
mento della nostra strategia politica” (F. Barba-
gallo, Enrico Berlinguer, cit., p. 344). Dunque il “disimpegno” dalla maggioranza (in cui i co
munisti erano entrati in occasione del rapimen
to Moro) non importava cambiamento di “stra
tegia”. Del resto neanche dopo la pesante scon
fitta alle elezioni politiche anticipate della pri
mavera 1979 Berlinguer cambia opinione, con
tinua a ripetere che l’obiettivo resta “un gover
no di unità nazionale” e polemizza con chi “ten
de a rovesciare la nostra strategia di unità de
mocratica larga, per andare ad una strategia di alternativa di sinistra” (F. Barbagallo, Enrico Berlinguer, cit., p. 352).
Nel 1980 le cose sembrano cambiare, ma sem
pre parzialmente. L’anno si apre con il “pream
bolo” di Forlani che chiude ai comunisti e con la sempre maggiore distanza con Craxi; imperver
sano scandali e terrorismo. Il terremoto in Irpi- nia di fine anno, con gli scandalosi ritardi nei soc
corsi, costituisce l’occasione che Berlinguer co
glie al volo per sganciare definitivamente il suo partito e per chiedere per la prima volta un go
verno non a guida De e che abbia anzi il Pei co
me fulcro.
Formule come “alternativa democratica” e
“questione morale” è allora che vengono pro
poste con forza sempre maggiore.
Eppure ancora nella famosa conferenza stam
pa di Vietri sul Mare del novembre 1980, Ber
linguer lancia le nuove parole d’ordine, conti
nua a ripetere che l’obiettivo resta l’unità “del
le masse popolari comuniste, socialiste é catto
liche”. Solo la guida del nuovo governo, parti
colare non secondario, doveva essere diversa, non più democristiana. Era questo sufficiente ad accreditare la tesi di una “svolta” a 360 gradi?
Credo di no.
In ogni caso la proposta berlingueriana scontò non solo limiti propri; come era succes
so per la “terza fase” che costò la vita a Moro, anche, nei primi anni ottanta, lo scatenarsi del terrorismo con assassinii e sequestri, oltre al
l’opera di soggetti golpisti come la loggia mas
sonica P2, determinò l’ulteriore deterioramen
to del quadro politico (si pensi al ruolo dei so
cialisti e di Pannella nel “dialogo” con i terrò-
502
risti) e di conseguenza “l’affossamento defini
tivo della proposta di Berlinguer per l’alterna
tiva democratica guidata dal Pei” (F. Barbagal- lo, Enrico Berlinguer, cit., p. 377).
Tutta la riflessione di Berlinguer nei primi an
ni ottanta, sconta questa situazione di dispera
zione politica: finita una grande politica come il compromesso storico, mancava una riserva, un’alternativa strategica. Il “governo diverso”
era vulnerato dal fatto che De e Psi erano ormai nettamente contrari, lavoravano a un’altra pro
spettiva. Non c ’ erano più interlocutori come Al
do Moro, La Malfa e come d’altro canto Fran
cesco De Martino. L’isolamento era assai mar
cato. Il gioco di sponda con il presidente Perti- ni non poteva bastare.
Di qui la scelta berlingueriana di bypassare i partiti per rivolgersi “soprattutto al paese, alla società”, ovvero agli “onesti e capaci di tutti i partiti”. Molti hanno visto in questa svolta il se
gno di una ricerca nuova, considerando Berlin
guer anticipatore di nuove forme della politica e della democrazia (per esempio puntando sui giovani, sulle donne, aprendo alle tematiche am
bientali, ecc.).
Noi la pensiamo al contrario. La polemica contro i partiti, considerati ormai “degenerati”
e preda di “boss e sottoboss” (F. Barbagallo, Enrico Berlinguer, cit., p. 392), segna un in
controllato scadimento della cultura berlingue
riana nell’antipolitica e nella boria di partito (il Pei ovviamente era l’unico partito non degene
rato e non preda di boss); l’agitazione antipar
titocratica era solo un diversivo dal deficit di strategia inevitabilmente seguito alla crisi di una grande politica quale appunto era stato il com
promesso storico. Pons, qui d’accordo con Bar
bagallo, sostiene giustamente che l’irrigidi
mento eticista di Berlinguer segnava in verità
“una ‘volontaria uscita di scena’ del Pei dal gio
co politico nazionale” (S. Pons, Berlinguer, cit., p. 209; ma cfr. anche p. 250). Una divaricazio
ne di etica e politica che falliva proprio lì dove voleva riuscire, cioè a prefigurare un’alternati
va. Moralismo questo significa: denuncia mo
rale senza (reale) alternativa politica.
Un punto delicato nella nostra storia recente.
Perché questa impotenza politica, questo falli
mento strategico, segnò tanto la “fine del co
muniSmo” italiano (non il 1989, non il “Muro di Berlino”, ecc.), quanto il corto circuito di Tan
gentopoli, con conseguente inevitabile affer
marsi di un senso comune antidemocratico an
cora oggi particolarmente sviluppato.
Berlinguer è sintomo (e agente) di una crisi, non prefiguratore di un suo possibile supera
mento.
Del resto ancora alle amministrative del 1981, quando la De perse e il Pei recuperò rispetto al 1979, Berlinguer tenne una volta di più a preci
sare che occorreva “non scivolare dall’alterna
tiva democratica all’alternativa di sinistra. Dob
biamo mantenere il punto dell’apporto al cam
biamento e all’alternativa di forze cattoliche ed anche democristiane” (F. Barbagallo, Enrico Berlinguer, cit., p. 389).
L’alternativa convisse sempre in Berlinguer in modo aporetico con la tradizione togliattia- na delle mega-maggioranze costituzionali-de- mocratiche-consiliari. Il che in altre parole si
gnifica che non vi fu alternativa. Alternativa che però non può essere quella che Pons fa coinci
dere con la semplice “socialdemocratizzazio- ne”. Da una parte infatti Pons lamenta che il Partito comunista italiano dopo il “compro
messo storico” non seppe optare per “il model
lo dell’alternanza”, il che è giusto, poi però so
stiene surrettiziamente il “nesso esplicito” fra 1’“alternanza” e il “trasformare il Pei in un par
tito socialdemocratico” (S. Pons, Berlinguer, cit., p. 156). Non c’è nessuna necessità in que
sto. La politica di oggi lo conferma: da una par
te c’è una sorta di alternanza, dall’altra i De
mocratici di sinistra non sono affatto un parti
to socialdemocratico e ancor meno lo sarà il
“Partito democratico”.
Quando la vicenda umana di Berlinguer si conclude, nell’estate 1984, la “terza via” (oltre comuniSmo sovietico e socialdemocrazia) non era decollata, per mancanza di interlocutori in
terni (De e Psi ormai sordi a ogni collaborazio
ne) ma anche intemazionali (dopo lo “strappo”
503
con l’Urss e la contrarietà a ‘socialdemocratiz- zarsi’). Né lo sarebbe più stata negli anni che se
paravano il 1984 dal 1989, anno della “svolta”
della Bolognina e della fine del Pei.
Con il Pds sarebbe stata un’altra storia, e a maggior ragione con i Ds e il “Partito democra
tico”.
Fabio Vander
I consumi nella storia dell’età contemporanea
Davide Baviello
Il volume di Eric J. Hobsbawm, Age ofExtre- mes, fu pubblicato in Italia con il titolo 11 seco
lo breve. Scritto in seguito al crollo del comu
niSmo nell’Est europeo, il libro esaminava il se
colo che stava per finire, segnato da laceranti contrapposizioni dalla prima guerra mondiale fino al termine della guerra fredda. L’opera cu
rata da Stefano Gavazza ed Emanuela Scarpel- lini, Il secolo dei consumi. Dinamiche sociali nell’Europa del Novecento, Roma, Carocci, 2006 (pp. 248, euro 17,10), riflette sulla realtà storica del ventesimo secolo descrivendo il ruo
lo centrale assunto in Occidente dal consumo di massa. Il libro raccoglie sette saggi di diversi autori, i quali hanno utilizzato i molti studi com
piuti sulle caratteristiche e sull’evoluzione del
la moderna società dei consumi. Sebbene nel sottotitolo si parli di “Europa del Novecento”, i riferimenti ad altri contesti geografici e crono
logici sono stati inevitabili. Le analisi tracciate nel libro infatti si soffermano ampiamente sul- l’Ottocento nonché sulla realtà statunitense. Gli Stati Uniti restano il prototipo della società con
sumistica, ma le radici storiche della diffusione dei consumi in senso moderno affondano nel
l’Europa di fine Settecento e dell’ottocento.
Nella Francia di questo periodo emersero sia le prime forme innovative di distribuzione al det
taglio sia le scoperte della psicologia che avreb
bero consentito lo sviluppo delle tecniche di per
suasione pubblicitaria. Ad assistere all’affer
mazione dei consumi di massa è stato comun
que il Novecento, secolo contrassegnato dalla volontà di sfruttare i mezzi di comunicazione per programmare la mente degli individui e do
minare la società riorganizzandola in modo com
pletamente nuovo. Paradossalmente questo ten
tativo di sottomissione della collettività è falli
to nei regimi totalitari, mentre ha trovato un so
stanziale successo nelle democrazie capitalisti- che, in cui le campagne promozionali che ca
ratterizzano il sistema dei consumi di massa agi
scono, come spiega Adam Arvidsson (p. 216),
“su (e non contro) la libertà del singolo, cer7 cando di indirizzarlo nella direzione desidera
ta” dal potere economico.
Il colosso americano della distribuzione al dettaglio, Wal-Mart, oggi occupa il primo posto nella lista delle imprese con maggiore fatturato, ponendosi davanti a giganti industriali come Exxon e General Motors, a dimostrazione della grande importanza acquisita dal commercio al minuto nella società contemporanea. Tuttavia in campo storiografico, sebbene il tema dei con
sumi abbia ricevuto una significativa attenzio
ne da parte degli studiosi, la ricerca sui luoghi di consumo, negozi e altre forme distributive, non è ancora molto avanzata. Emanuela Scar- pellini nel suo saggio (L'utopia del consumo to
tale. L’evoluzione dei luoghi di consumo) passa in rassegna le principali forme di distribuzione al dettaglio dell’età contemporanea, comincian
do dalla descrizione delle piccole botteghe, le quali, all’inizio del Novecento, si presentavano ancora con un aspetto esterno per niente appa
riscente e con ambienti interni che rispecchia
vano la povertà materiale tipica di quell’epoca.
Il cambiamento del commercio al minuto si ac
compagnava alla trasformazione della società.
Una delle prime innovazioni decisive per l’e-