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Lo Sciopero del pubblico impiego del 9

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Academic year: 2022

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P E R I O D I C O D E L L ’ A R E A ‘ D E M O C R A Z I A E L A V O R O ’ C G I L

Anno XXI n. 22 | 8 dicembre 2020 Reg. Trib. di Roma n. 73/2000 del 16/02/2000 - dir. resp. Antonio Morandi

L

o Sciopero del pubblico impiego del 9 di dicembre ha un carattere del tutto inedito rispetto alle vertenze degli ul- timi anni: si incroceranno le braccia per interessi che riguardano il paese intero, per la difesa dei servizi pubblici, per il rilancio del Servizio sanitario nazionale, per garantire una piena realizzazione dei diritti di cittadinanza che lo Stato ricono- sce attraverso l’erogazione di prestazioni pubbliche.

I Contratti, scaduti oramai da due anni, riguardano centinaia di migliaia di lavoratrici e lavoratori che sono stati im- pegnati nella frontiera che ha cercato e cerca ancora in questi giorni di arginare la violenza dirompente di questa pandemia, non solo all’interno di servizi essenziali

come gli ospedali, le scuole dell’infanzia, la sicurezza ed il soccorso, i presidi dei servizi sociali o nell’assistenza agli anziani e a tutti gli utenti con necessità urgenti, quanto nelle varie propaggini delle am- ministrazioni pubbliche che non hanno lasciato isolati i cittadini del paese.

C’è quindi una rivendicazione per il riconoscimento di aumenti salariali, che determinerebbero un rilancio dei consu- mi e dei parametri economici, ma vi è al- tresì la richiesta di un piano straordinario di assunzioni in un settore con un’età me- dia del personale oramai eccessivamente elevata.

Il paese ha bisogno di creare lavoro di qualità ed ha bisogno di investire in nuo- ve professionalità che proprio in questo

periodo servirebbero per progettare, co- ordinare e realizzare la pianificazione ri- chiesta dalla stessa Unione Europea al fine di destinare le ingenti risorse del Recovery Fund.

Inoltre, c’è la necessità di evidenziare il tema della sicurezza e della salute nei luo- ghi di lavoro, proprio in un periodo in cui il saldo delle lavoratrici e dei lavoratori pubblici scomparsi per l’avvenuto conta- gio nei luoghi di lavoro è alto ed inaccet- tabile.

Per quanto riguarda il Sindacato, in- fine, è in gioco l’esercizio pieno del ruo- lo della rappresentanza che fino ad oggi stenta a concretizzarsi e non solo per la categoria del lavoro pubblico.

Proprio durante le emergenze, i Go- verni responsabili chiedono la comparte- cipazione dei soggetti che rappresentano il mondo del lavoro e in maniera particolare di chi tutela la parte debole nel lavoro: le lavoratrici ed i lavoratori.

Per questo motivo, anche per l’atteg- giamento incomprensibilmente negativo ed offensivo del Governo nei confronti di chi lavora nei pubblici servizi, occorre scioperare ed occorre rilanciare un’azione a difesa dei servizi pubblici.

Adriano Sgrò Coordinatore nazionale

‘Democrazia e Lavoro’ CGIL

LA MOBILITAZIONE VALE DA MONITO ANCHE PER IL GOVERNO, OFFENSIVO VERSO CHI OPERA NEL PUBBLICO

UNO SCIOPERO , tante ragioni

Rilancio del Servizio sanitario nazionale,

rivendicazione di un piano di assunzioni e di aumenti salariali, piena realizzazione dei diritti di cittadinanza:

non si tratta soltanto di rinnovare un contratto

scaduto da due anni, bensì di difendere i servizi

pubblici nel loro complesso

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SPECIALE SANITÀ

E

ra il 19 ottobre, finivo un turno di notte e, avviandomi verso gli spogliatoi, in- contrai una collega che mi chiese quan- do saremmo tornati Centro Covid. “No dai, siamo al 10% dei dati di occupazione letti rispetto a quanto è accaduto a marzo...”:

così risposi.

E giunse sera. Intorno alle 19, sul grup- po whatsapp di reparto, la coordinatrice scrisse: “Da giovedì siamo di nuovo Covid”.

Così è ricominciata.

Il Covid è tornato, reparto per reparto:

ogni giorno, appena arrivati in ospedale e prima di prendere servizio, abbiamo ripreso le lunghe procedure di vestizione, chiudendo- ci in quei gusci, che speri ti proteggano ma intanto ti torturano. Per poi subito entrare in un mondo tutto diverso: le visiere si appanna- no, lo sguardo si annebbia, i suoni risultano attutiti, tutti noi operiamo dentro i “gusci” e, a volte, nemmeno si riescono a riconoscere persone con cui lavori da vent’anni.

Se ti muovi veloce respiri male e allora cerchi di rallentare. La pipì, la pipì, la pipì...

un mantra nella testa. Poi hai sete e la bocca si secca, sogni l’acqua ma l’acqua ti ricorda la pipì. I lacci della maschera fanno male, la fascia della visiera stringe. Il disagio fisico è la condizione permanente. Le mani si muo- vono lentamente, coperte da più guanti, nel tentativo di non far volare tutto.

Ti guardi intorno e in tutti gli occhi che ti circondano in reparto leggi le stesse paure e gli stessi problemi.

Eppure non è come in primavera... Al- lora c’era sì l’angoscia, ma era presente an- che la motivazione, ossia la convinzione di dover salvare vite sfortunate colpite da una malattia subdola. Ora, invece, all’angoscia si somma la rabbia.

Da maggio ad ottobre hanno riaperto i confini e le scuole, liberalizzato la circola- zione, riportato al 100% l’occupazione dei mezzi pubblici, aperto ogni esercizio, pure le discoteche, interrotto qualunque control- lo sul territorio. Non si sono fermati finché non hanno rivisto la tragedia incombere.

Da maggio ad ottobre non hanno pre- parato gli alberghi per accogliere i positivi da isolare, non hanno rafforzato il territo- rio, mentre hanno spostato personale da- gli ospedali alla fiera per aprire posti letto, chiudendone altri.

Da maggio a ottobre tutti al mare, sulle

“passeggiate”, agli aperitivi, alle movide, in discoteca... già ad agosto la seconda ondata stava ripartendo ma nessuno rinunciava a qualcosa.

A fine agosto facevamo tamponi a chi rientrava dall’estero e già cominciavamo

ad avere paura. Ora, forse, l’incremento dei nuovi positivi sta rallentando, comunque con centinaia di morti al giorno, che ormai appaiono normali; ma tutti pensano a Nata- le, a Capodanno, a sciare.

“Le mascherine servono a farci tacere!

Ci vogliono rinchiudere! Ci privano della libertà!”. Queste le frasi folli che sentiamo.

Ciò che ci chiediamo è se queste persone meritino il nostro impegno e il nostro sacri- ficio. Perché, vedete, noi non siamo più liberi nemmeno di bere o fare la pipì.

Quanto sta accadendo non è altro che il segno di una civiltà decadente, fragile, ripie- gata su se stessa, che non ricorda più che ha vissuto due guerre mondiali, che ha sofferto l’epidemia di spagnola, la crisi del ’29; non ricorda ch ha ricostruito l’Italia, chi ci ha donato la nostra Costituzione. Questa gene-

razione è figlia del neoliberismo, del prevale- re delle libertà personali sulle istanze sociali.

Mentre coloro che hanno ricostruito allora, coloro che hanno messo a rischio la loro vita per il bene collettivo, se ne vanno, soli, negli ospedali, in silenzio… preoccupati di non disturbare.

Noi non combattiamo il Covid-19; noi combattiamo la decadenza di una civiltà che ha sacrificato il bene comune sull’altare del- le libertà personali e dell’arricchimento di pochi.

E la domanda continua a rimbalzare nella testa: chi merita ciò che facciamo? Poi mi rispondo: IO! Io merito di rimanere me stessa, di non perdermi in questo mare.

Silvia Baccalini Infermiera, RSA CGIL e RLS Istituto Auxologico Italiano, Milano

LA TESTIMONIANZA DI SILVIA, DELEGATA FP-CGIL, DALLA “FRONTIERA” DELL’ISTITUTO AUXOLOGICO DI MILANO

“Io, infermiera, vi racconto

COME È TORNATO IL COVID”

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SPECIALE SANITÀ

I

l momento che stiamo attraversando, tut- ti noi, è più che difficile. Gli ultimi dieci mesi ci stanno mettendo alla prova: la pandemia sta lasciando molte ferite alla no- stra società e sta cambiando profondamente i nostri ritmi di vita; la scuola, lo sport, il lavoro e il modo di vivere non saranno più gli stessi.

E’ un momento molto triste, perché stiamo perdendo vite umane e un’intera generazione appare decimata: questo virus vigliacco ci sta portando via nonni, padri, amici, colleghi.

In tutto questo non bisogna abbattersi.

Ognuno di noi deve continuare a fare il pro- prio lavoro e svolgere il proprio dovere: in ogni posto di lavoro, in ogni famiglia, in ogni dove bisogna resistere, resistere, resistere.

Noi, come lavoratori della sanità, e come delegati sindacali aziendali, sentiamo doppiamente questa responsabilità, in pri- mo luogo verso i pazienti che soffrono e che hanno bisogno di un aiuto continuo; aiuto fondamentale in questo momento di isola- mento forzato, dove noi spesso siamo l’uni- co tramite col mondo esterno. Ma sentiamo la responsabilità anche verso i colleghi che, facendo il proprio lavoro, in questo momen- to rischiano la propria vita.

Ricordiamo qui i lavoratori che hanno perso la vita facendo il loro dovere nei con- fronti della società: medici, infermieri, ope- ratori socio-sanitari.

Il lavoro nel settore sanitario, negli ulti- mi anni, e specialmente negli ultimi mesi, è diventato un calvario.

Dal 2008, anno della crisi finanziaria, ci sono stati:

– Tagli dei fondi per la sanità dal governo alle Regioni.

– Il mancato rimpiazzo del personale che lasciava per godere della giusta pensione di anzianità

– L’aumento dell’età media dei dipendenti in servizio.

– Il blocco dei concorsi pubblici.

– Il lungo periodo di mancato adegua- mento salariale, arrivato solo nel dicem- bre del 2017.

– Il tentativo di distruzione degli elementi fondanti della nostra sanità pubblica e gratuita.

In tutto questo, in diverse regioni, han- no aumentato e agevolato la partecipazione dei privati nella sanità convenzionata. Ciò è avvenuto soprattutto in Lombardia ed è una delle ragioni del fallimento della sanità Lombarda durante la pandemia. I soggetti privati sono per definizione degli approfit- tatori (speculatori). Non foss’altro perché

le entrate che hanno guadagnato dai fondi pubblici e dal lavoro instancabile dei lavo- ratori non sono stati reinvestiti.

Basta ricordare che il CCNL della Sanità Privata non è stato rinnovato dal 2007. E in questo lungo periodo di 14 anni, non è stato riconosciuto il valore del lavoro svolto da tutti i lavoratori del settore, così come non sono stati riconosciuti il loro impegno e la loro professionalità.

Nonostante le difficoltà economiche, i lavoratori non sono mai venuti meno ai loro doveri: con insistenza e continuità hanno ri- vendicato i propri diritti. In più è più riprese hanno chiesto il rinnovo del CCNL come elemento importante (fondamentale) della valorizzazione del loro lavoro.

In tutta risposta, i datori di lavoro han- no tentato in ogni modo di farli desistere dal loro obbiettivo.

Molte aziende del settore privato hanno cambiato CCNL; il cambiamento consiste- va nell’inquadramento dei lavoratori in con- tratti con meno diritti (meno ferie, minor salario, etc) e maggior numero di ore lavo- rate, senza nessun adeguamento economico.

Tutto ciò è avvenuto con la partecipazione e il benestare di pseudo sindacati, creati ad hoc per lo scopo.

Ricordiamo che, nel 2008, i lavorato- ri che facevano riferimento al CCNL della Sanità privata erano 175.000. Nel 2020, al rinnovo di tale contratto, i lavoratori inte- ressati sono “solo” 100.000. Ossia, in circa 12 anni abbiamo perso 75.000 di loro, in- quadrati con altri contratti al ribasso.

In poche parole, hanno fatto quello che hanno voluto. Ciò che ha voluto, ha fatto e continua a fare anche la Fondazione Don Gnocchi che, dopo anni durante i quali non è stato garantito alcun rinnovo economico e normativo, chiede dei sacrifici dai lavoratori.

I lavoratori sentendosi parte della Fon- dazione, hanno accettato per un periodo

limitato di dare giornate di lavoro non re- tribuite, per contribuire a sanare il bilancio che, a detta dei vertici, navigava in cattive acque. Per anni hanno svolto, con alto senso di responsabilità, giornate di lavoro non ri- conosciute economicamente, con il solo sco- po di aiutare la Fondazione ad uscire dalle difficoltà e ritornare a rispettare il CCNL della sanità privata.

Tutto ciò è stato un inganno. Tutto ciò è stato una presa in giro dei lavoratori e una mancanza di rispetto per la loro professio- nalità e la loro fatica. Alla fine del percor- so, hanno cambiato il contratto, facendoli lavorare di più. Il contratto in questione è il CCNL ARIS RSA CDR, che tra l’altro la CGIL non ha mai firmato.

Ma al peggio non c’è mai fine... Uno dei centri maggiori della Fondazione, il Santa Maria Nascente di Milano, che è anche un centro IRCCS, si ritrova ora diviso al suo interno: la maggioranza, circa 270 operato- ri, mantiene il contratto Sanità privata; alla parte restante del personale CORE (111 la- voratori) viene applicato il contratto ARIS RSA. Un ulteriore sopruso nei confronti di lavoratori che hanno dato tutto.

Il lavoro dei dipendenti del centro si svolge in un ambiente comune, intreccia- to nelle competenze. Durante i mesi della pandemia, soprattutto nella prima fase, ma ancora adesso, i lavoratori non sono venuti meno ai loro doveri: non si sono mai tira- ti indietro e hanno continuato ad assistere i pazienti ricoverati; si sono trovati insieme in prima linea per affrontare l’emergenza.

Qualcuno ha anche perso la vita e altri han- no rischiato di perderla.

In tutto questo, chiediamo con forza di riavere per tutti il nostro contratto sanitario e i nostri diritti.

Ribadiamo la richiesta di essere di nuo- vo inquadrati con il contratto con la quale siamo stati assunti: il CCNL della sanità privata.

Fatti simili a quelli appena descritti stan- no avvenendo, nell’ultimo anno, anche alla Fondazione la Nostra Famiglia: in modo unilaterale, hanno deciso di cambiare anche il loro CCNL. Una decisione che ci trova contrari e solidali con i lavoratori di quella realtà, ricordando ciò che è avvenuto alla Fondazione Don Gnocchi.

Facciamo in modo che non si ripeta una brutta storia già vista; facciamo in modo che quei 111 lavoratori del centro Santa Maria Nascente ritornino al contratto di apparte- nenza, quello della sanità privata.

Altin Leka Rsa Fondazione Don Gnocchi, Milano

NONOSTANTE IL PLAUSO IN TEMPI DI COVID, I LAVORATORI DEL SETTORE ASPETTANO IL RINNOVO CONTRATTUALE DAL 2007

QUEI DIRITTI VIOLATI

NELLA SANITÀ PRIVATA

(4)

L’

epidemia in corso, con le sue tragiche conseguenze, ha messo in evidenza, se mai ce ne fosse bisogno, le criticità del Sistema Sanitario Nazionale pubblico nazio- nale, frutto soprattutto dei tagli decennali, operati dai diversi governi che si sono suc- ceduti, ma anche di una responsabilizzazione regionale (con l’80% della spesa media re- gionale destinata alla sanità), che, oltre ad in- centivare una vasta corruzione, ha creato 21 sistemi diversi; sistemi che, nella loro maggio- ranza, non assicurano l’erogazione dei Livelli Essenziali di Assistenza, costituzionalmente garantiti, e hanno messo continuamente i ba- stoni fra le ruote alle decisioni governative.

Lo smantellamento della sanità pubblica è stato operato in favore dei privati, anche dove non era necessario, favorendoli con convenzioni in cui paga il pubblico, a piè di lista, le scelte dei privati. Oltretutto anche la sanità pubblica viene gestita sulla base di criteri privatistici, legati non alle necessità di cura ma ai criteri di pareggio del bilancio.

In particolare la Lombardia ha realizza- to un sistema strettamente ospedalocentrico, demolendo i distretti e i presidi territoriali, riducendo la possibilità di intervento dei me- dici di base. È un modello molto più costoso, sia in termini economici che di salute, perché è incentrato sulla cura e non sulla prevenzio- ne delle malattie. Per cui è scomparsa o s’è enormemente ridotta la prevenzione, e con essa la medicina di comunità, quella dell’am- biente e del lavoro, i consultori familiari, l’ac- compagnamento terapeutico e l’assistenza domiciliare. E la scomparsa dei filtri territo- riali, che assicurano una cura a bassa intensi- tà e l’accompagnamento terapeutico, scarica in modo indiscriminato tutta la domanda sul vertice, ossia sull’ospedale, determinando, in situazioni epidemiche, il suo collasso e una crisi sanitaria che investe sia i contagiati che gli altri utenti delle terapie intensive (come gli affetti da tumori o malattie cardiache), cau- sandone spesso la morte.

Tra il 2010 e il 2019 il SSN ha perso 45.000 posti letto e 43.386 dipendenti, di cui 7.625 medici e 12.566 infermieri. Completa- no il quadro la chiusura di diversi reparti e/o

ospedali pubblici (dati Fondazione GIMBE).

Esiste una gravissima carenza di medici di base e di infermieri, che lascia scoperte cen- tinaia di migliaia di persone.

Questo è il frutto del mancato finan- ziamento al SSN accumulato da parte dello Stato dei 37 miliardi preventivati in questo decennio. Va anche sottolineato che, su 150 miliardi annui spesi per la sanità, ben 37 mi- liardi sono andati alla sanità privata.

E pensare che l’Italia, con la Riforma Sanitaria istituita nel 1978, aveva creato un Sistema Sanitario a carattere pubblico ed uni- versale, portando l’Italia ad essere nei primi posti al mondo come “speranza di vita”. Ed è proprio questo retroterra culturale della sani- tà pubblica che ha permesso al SSN di regge- re, anche se a fatica, nell’affrontare la nuova

epidemia. A differenza della sanità privata, che ha avuto un ruolo insignificante nell’af- frontare la drammaticità della Covid. Para- dossalmente è proprio dove la sanità privata è più sviluppata, come in Lombardia, che si è manifestata maggiormente l’incapacità di dare risposte all’emergenza, complice anche la frammentazione del servizio sanitario re- gionale e non solo.

La vicenda Covid ha quindi messo in luce le rilevanti distorsioni dell’attuale SSN, da noi denunciate da anni, anche con diverse iniziative di mobilitazione.

Di conseguenza va sin da ora ripensato un nuovo modello di Sanità, Nazionale e Pubblico fondato sulle esigenze di salute e non su quelle di bilancio n sintesi occorre:

Occorre dunque garantire un adeguato finanziamento pubblico in linea con i Paesi più avanzati dell’OCSE. I dati aggiornati a luglio 2019 (OCSE) dimostrano che l’Ita- lia si attesta sotto la media OCSE, sia per la spesa sanitaria pro-capite complessiva, sia per quella pubblica pro-capite. Bisogna dotare gli ospedali e i presidi sanitari di per- sonale adeguato, aumentare i posti letto in linea con i paesi più avanzati dell’Ocse (8 per 1000 abitanti, contro i 3,2 in Italia, i 5,0 della media europea); di conseguenza,

IL CASO LOMBARDO: DEMOLITI I DISTRETTI TERRITORIALI, È STATO VARATO IL MODELLO OSPEDALOCENTRICO

SANITÀ, dallo smantellamento del Pubblico alla pandemia

Ventuno sistemi regionali diversi si sono sostituiti alla visione d’insieme. E i risultati di una politica miope e schiacciata sul Privato sono sotto gli occhi di tutti

SPECIALE SANITÀ

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i posti letto di terapia intensiva vanno programmati in base alle possibili esigenze straordinarie (vedi Covid).

Occorre infine garantire la copertura delle necessità di medici e infermieri che, se hanno svolto in questa pandemia un ruolo che non ha bisogno di essere commentato, sono tuttavia numericamente largamente insufficienti. Per il futuro, se non si mette rimedio, potrebbe esserci un’emergenza di grandi dimensioni. Nel 2011 lasceranno il SSN circa 23 mila medici, un quarto del to- tale oggi in servizio, anche per l’uscita age- volata con quota 100. Il punto più dolente però riguarda i medici di famiglia (altra figu- ra di estrema importanza per i cittadini), il cui numero, già molto carente, si ridurrà di 15 mila unità nei prossimi 5 anni, con pre- visioni di mancata copertura per 14 milio- ni di italiani. Si tratta di una vera e propria bomba sociale, con dei paradossi all’italia- na: attualmente circa 8.000 neolaureati non possono esercitare la professione per proble- mi burocratici e di ingorghi nelle scuole di specializzazione e oltretutto i bandi vengono effettuati per incarichi temporanei che impe- discono la copertura delle spese di impianto.

Se dobbiamo ripensare un diverso e migliore sistema sanitario, la prevenzione dentro e fuori i luoghi di lavoro (qualcuno ricorda gli SMAL?) deve diventare un asse portante di una sanità più efficace a misu- ra della persona. Va quindi ridimensionata l’enfasi sui grandi ospedali a discapito della medicina territoriale. Occorre invece un siste- ma sociosanitario che presenti una stretta in- tegrazione tra ospedali, presidi socio-sanitari e medicina territoriale, per garantire la pre- venzione e la cura delle persone, con un’as- sistenza domiciliare nel contempo sanitaria e sociale, anche psichiatrica - cambiando com- pletamente le RSA per i pazienti che non pos- sono essere assistiti a casa - accompagnata da urgenti assunzioni di medici di base.

Un’altra prospettiva legata alla medici- na territoriale sono le “Case della Salute”, prendendo ad esempio le migliori esperienze europee (in Italia ci risultano esperienze po- sitive in Toscana ed in Emilia Romagna). Va anche sottolineato che, pur in un sistema sa- nitario con copertura universale come il no- stro, rimangono ancora forti diseguaglianze:

le persone con livelli più bassi d’istruzione, di qualifiche e di reddito si ammalano di più e muoiono prima. Un’assistenza sociale e sa- nitaria uguale per tutti ridurrebbe di molto i costi della sanità pubblica.

Occorre evitare gli ospedali misti, che accolgono sia pazienti Covid che gli altri,

creando invece un doppio binario del tutto separato. Il tema di anziani ed RSA merite- rebbe un capitolo a parte, dopo la strage di anziani ricoverati nelle RSA, a causa delle scelte scellerate della Regione Lombardia e non solo. Avremo modo di approfondire in seguito. Vogliamo citare invece due paragra- fi del manifesto lanciato dal “Coordinamen- to Nazionale per il Diritto alla salute”, nato nell’era pandemica da decine di associazioni su proposta di Medicina Democratica (“La salute non è una merce, la sanità non è un’a- zienda”) che, come Democrazia e Lavoro, condividiamo. Proposte che colgono a fon- do il problema.

“La popolazione anziana è generalmente affetta da pluripatologie che devono essere seguite dal medico di base e da altri specialisti per favorire il massimo mantenimento di una discreta condizione di benessere psicofisico e, se possibile, di autonomia”.

“Il bisogno primario di ciascun in indivi- duo è quello di poter vivere in salute nel pro- prio contesto familiare e ambientale. Deve essere garantito questo diritto mettendo in campo azioni sanitarie e sociali finalizzate a curare le persone a casa, anche quando sono sole, malate e non autosufficienti, attivando l’ospedalizzazione a domicilio”.

Da anni lo Spi e la Cgil chiedono con forza ai vari governi bipartisan una Legge Nazionale per la non Autosufficienza, che darebbe voce ai 3 milioni di persone non più autosufficienti con cronicità sempre più gravi e ai 10 milioni di familiari che li assistono.

Una Legge Quadro Nazionale che fissi e fi- nanzi nuovi criteri di assistenza (Lea) non è più rimandabile, anche perché la demogra- fia del nostro paese allargherà ulteriormente il fenomeno della popolazione anziana, che ammonta attualmente a circa 1/3 del paese.

In un riordino organico ed efficace per ri-

definire la sanità pubblica vanno riconsidera- te e riviste storture che ci trasciniamo da anni ed in qualche caso riguardano anche noi.

Come già detto, la pandemia ha dimo- strato che senza una centralità di direzione nazionale non si è in grado di rispondere adeguatamente alle emergenze e occorre ripristinare una gestione nazionale della sa- nità, capace di assicurare a tutti uno stesso trattamento, in qualsiasi regione, evitando le bizzarrie dei cosiddetti “governatori”, rivedendo il Titolo V della Costituzione, ri- formato dal Governo D’Alema nel 2001, che ha dimostrato di essere del tutto inadeguato nell’attuale situazione. Il che vuol dire che, se andasse in porto l’Autonomia differenziata, chiesta da Lombardia, Veneto ed Emilia Ro- magna, sommandola ai poteri che dà il Titolo V attuale della Costituzione in tema di Sani- tà, ciò costituirebbe un affossamento definiti- vo del Sistema Sanitario Pubblico Nazionale, universale e solidaristico. Va perciò respinto con forza ogni tentativo di introdurre nuove Autonomie (anche mascherate).

Chiediamo anche l’eliminazione del- le prestazioni cosiddette “Intramoenia” in Ospedale a pagamento, con tariffa ridotta o smart, onde evitare attese interminabili. Oltre il danno (paghi un diritto che hai) la beffa (stesso ospedale, stesso medico).

In materia di welfare aziendale è neces- sario invertire la rotta intrapresa dalle OOSS su questa materia, comprese le diverse forme di sanità integrativa, perché toglie risorse al SSN (calcolate attorno al 7%), toglie sol- di al fisco con le detassazioni ed infine, ma non certo per importanza, crea disparità tra i lavoratori. Sempre nello stesso tema, vanno tolte le agevolazioni fiscali per spese sanitarie veicolate da fondi sanitari e assicurativi.

Domenico Bonometti Direttivo Regionale Spi-CGIL Lombardia

SPECIALE SANITÀ

Progetto Lavoro

Periodico dell’Area ‘Democrazia e Lavoro’ Cgil Collettivo redazionale

Bahram Asghari, Gloria Baldoni, Antonio Morandi, Nicola Nicolosi, Gianni Paoletti, Paolo Repetto (Coordinatore), Fulvio Rubino, Adriano Sgrò

Notizie, articoli e iniziative vanno inviati alla seguente e-mail:

democrazialavoro@cgil.it

Allo stesso indirizzo è possibile indicare gli indirizzi e i recapiti ai quali si desidera venga inviata la newsletter.

https://www.facebook.

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@Pro_Lavoro_Cgil

(6)

1. NAZIONALIZZAZIONE DEL SERVIZIO SAN- ITARIO. In Germania (stato federale) questo avviene già. In Italia il gover- no non si è avvalso dell’art 120 della Costituzione che vale in caso di emer- genza epidemica. Bisogna modificare la riforma del Titolo V almeno per quanto riguarda intanto l’aspetto sanitario, sia nelle emergenze che nella uniformità dei LEA, per evitare di avere 21 servizi sanitari diversi.

2. FINANZIAMENTO DEL SSN. La CGIL nel documento del 10 ottobre ha richiesto di svincolare l’attuale budget (115 mi- liardi) dal PIL, cosa che rischierebbe un ulteriore definanziamento. Già ora la spesa sanitaria pubblica corrispondente al 6.5% del PIL è insufficiente secondo gli standard internazionali ed europei (che vantano percentuali più alte).

3. Finanziamento specifico e rafforzamen- to delle STRUTTURE SANITARIE TERRITO- RIALI, sia di prevenzione primaria come i Dipartimenti di Igiene e Prevenzione, sia di prevenzione secondaria come i Distretti Territoriali e Consultori (e in epoca Covid come USCA)

4. RIORIENTAMENTO DELLE AZIENDE SANI- TARIE. Bisogna ridefinire quali sono gli obiettivi di queste istituzioni introdot- te nel ’92-‘93 con i governi Amato e Ciampi (e il consenso di tutte le forze politiche). In particolare bisogna smet- terla di premiare i direttori generali per aver il mero raggiungimento del pareg- gio di bilancio e invece valutarli per il conseguimento di obiettivi di salute:

ad esempio il piano vaccinazioni, o il tracciamento e la terapia domiciliare del Covid, obiettivi finora ampiamente falliti (e non solo in Lombardia) 5. Ampliare, anche con la messa a dispo-

sizione di strutture, di apparecchiature per diagnosi di prossimità e personale tecnico-infermieristico le AGGREGAZIO- NI TERRITORIALI DEI MEDICI DI MEDICINA GENERALE (dalle Unità di Continuità Assistenziale fino alle Case della Salute) 6. Introdurre l’obiettivo della dipendenza

diretta dei MMG E PDF, finora liberi pro- fessionisti convenzionati con il Sistema Sanitario Nazionale. Bisogna insistere su questo punto, proponendo un per- corso graduale che parta dai nuovi in- gressi.

7. Fermare l’espansione nefasta del cosid- detto “secondo pilastro” costituto dalla sanità integrativa e assicurativa. Dob- biamo come CGIL dire un forte NO AL WELFARE CONTRATTUALE SANITARIO, che da un lato impoverisce la retribuzione salariale e dall’altro erode risorse fi-

nanziarie dirette e indirette al SSN. In diversi contratti nazionali si sono intro- dotte prestazioni non complementari ma sostitutive e competitive con quelle offerte dal servizio pubblico. E’un gra- ve errore proseguire su questa strada.

8. Abolire (o rimodulare) IL NUMERO CHI- USO sia per l’accesso ai Corsi di Laurea di Medicina (e per le altre professioni sanitarie), sia per l’accesso alle Speciali- tà. Nonostante per il Covid siano state finanziate 14.455 borse (5.679 in più dell’anno precedente) sono stati esclusi 9.301 neolaureati-medici che non po- tranno accedere alla scuola di specia- lizzazione e non potranno lavorare in corsia.

9. Il corso di Laurea in Medicina e Chi- rurgia deve essere ABILITANTE PER LA

PROFESSIONE DEL MEDICO di medicina generale (medico di famiglia), magari con una riduzione della durata didat- tica e con la trasformazione dell’ultimo anno in tirocinio abilitante per la “pri- mary care”.

10. Consolidare il personale sanitario pubblico. AGIRE SUL CCNL. No ai bo- nus-covid, sì ad un adeguamento re- tributivo che superi il misero 3,5 % dell’ultimo contratto nazionale. Retri- buire gli straordinari. Defiscalizzare gli arretrati. Sostituire tempestivamente le maternità. No definitivo al blocco del turnover: ad ogni cessazione fare una nuova assunzione. Attivare i concorsi per i precari e per le assunzioni tempo- ranee Covid.

Pierpaolo Brovedani

SINDACATO E SANITÀ:

dieci obiettivi per il cambiamento

SPECIALE SANITÀ

E’ in corso di svolgimento l’XI edizione delle Setti- mane della Sicurezza.

In programma dal 30 novembre al 13 dicembre 2020, le Settimane della Sicurezza sono organiz- zate da Sicurezza e Lavoro, in collaborazione con Cgil, Cisl, Uil, Regione Piemonte, Città Metropolitana di Torino, Cit- tà di Torino - Circoscrizione 1, Cit Turin Lde, Agenzia Piemonte Lavoro APL, Ce.Se.Di. e altri enti.

Per partecipare alla conferenza stampa è necessario avere in- stallato Zoom e colle- garsi qui: https://zoom.

us/j/96293826663 Agli incontri interven- gono rappresentanti di Sicurezza e Lavoro, del- le tre sigle sindacali, delle istituzioni e degli altri enti coinvolti, oltre ai familiari delle

sette vittime del rogo alla Thyssen di Torino, ancora in attesa di una piena giustizia.

Le Settimane della Sicurezza sono state organiz- zate in occasione dell’anniversario della tragedia

alle Acciaierie ThyssenKrupp del 6 dicembre 2007, in cui morirono sette operai

(Giuseppe Demasi, Angelo Lau- rino, Rocco Marzo, Rosario

Rodinò, Bruno Santino, Antonio Schiavone e Ro-

berto Scola), per pro- muovere – insieme a

Istituzioni, sindacati, imprese, associa- zioni, familiari delle vittime, lavoratori, lavoratrici, studenti, studentesse e cittadi- ni – la cultura della sa- lute, della sicurezza, dei diritti e della prevenzione, in particolare tra i giovani, sul lavoro e a scuola.

FINO AL 13 DICEMBRE L’UNDICESIMA EDIZIONE

DELLE SETTIMANE DELLA SICUREZZA

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ATTUALITÀ

S

e ne è andata a 96 anni la “compa- gna Bruna”, Lidia Menapace, morta all’ospedale san Maurizio di Bolzano dove era stata ricoverata qualche giorno fa per il Covid-19.

Un lutto che colpisce non solo la sini- stra italiana ed europea, ma l’intera collet- tività nella quale ha operato con l’esempio del suo vivere, la lotta nella resistenza, gli anni della ricostruzione, le battaglie per il lavoro, il suo impegno come donna e per le emancipazioni civili.

Era nata a Novara nel 1924: ex senatri- ce, partigiana, una vita costellata da tante battaglie, l’impegno civile e politico, dalle staffette partigiane all’elezione nel Consi- glio provinciale dell’Alto Adige - Sudtirol (la prima donna ad entrarci), passando per il femminismo ed il pacifismo, quindi eletta alla Regione Lazio per la sinistra indipen- dente.

All’inizio degli anni Sessanta insegna all’Università Cattolica del Sacro Cuore a Milano con l’incarico di lettrice di lingua italiana e metodologia degli studi lettera- ri, incarico che durante il Sessantotto non le viene rinnovato dopo la pubblicazione di un documento intitolato Per una scelta marxista. Esce dalla Democrazia Cristiana, simpatizza per il Partito Comunista e nel 1969 lavora con i fondatori de Il Manife- sto. Nel 2006, alle elezioni politiche, viene eletta al Senato nelle liste di Rifondazione comunista.

L’Alto Adige, quotidiano della sua ter- ra di adozione (a Bolzano ci arriva anche per amore, sposa nel 1951 Nene Mena- pace, medico, e dopo qualche anno Lidia è insegnante al liceo scientifico ed al clas- sico), così la ricorda: “Ribellarsi è un ver- bo che sta bene su Lidia. Da antifascista, da cattolica, da comunista. Soprattutto da femminista: «Noi donne che ci ribelliamo, trasgrediamo, usciamo dalle case, parliamo tra di noi, ci organizziamo. La nostra poli- tica è liberazione»”.

È rimasta fino all’ultimo, prima del ri- covero, tra i libri della sua sterminata bi- blioteca, immersa nei divani della casa di Corso Libertà. Intorno, un dolore compo- sto e quieto. Prima a scuola Lidia Mena- pace, prima all’università, una delle prime staffette combattenti nel ‘43. Eletta in Pro- vincia, nel ‘64 e prima ad entrare in giunta provinciale, da assessora al sociale e sanità, e vicepresidente con Magnago. Era demo- cristiana allora. Terminerà la legislatura nel gruppo misto perché il vento del ‘68 non poteva lasciare, per lei, le cose come sta- vano.

Esce dalla Dc “per non far violenza alla mia coscienza”. E poi Pci, il “Manifesto”, il

Pdup, Rifondazione, il femminismo. Sem- pre in cerca di nuovi orizzonti di libertà ma pronta a pagarne il prezzo. Ma l’altro fiume in piena che la accoglie e ne forma la poe- tica umana oltreché politica più insistita, è il femminismo. Una adesione colta e nello stesso tempo istintiva, meditata ma inevita- bile, quasi biologica. Di carattere. Nel 1972 pubblica un libro, “Per un movimento poli- tico di liberazione delle donne”: un manife- sto esistenziale. Combatte per la legge 194 sull’aborto, entra nel comitato per i diritti civili delle prostitute. È un percorso di una coerenza geometrica. Già durante la guerra e nella Resistenza, infatti, Lidia era entrata a far parte dei “gruppi di difesa della don- na”, poi nel secondo dopoguerra, l’Udi e i movimentati congressi degli anni Ottanta.

Poi il pacifismo. Altra scelta che si innesta in quella femminista.

A Bolzano, negli ultimi tempi, raccoglie nel suo salotto un piccolo cenacolo fatto anche di giovani e sta sempre vicina all’An- pi. Ha vissuto così le passioni della politica di oggi, con gli stessi occhi accesi. Ai gio- vani Menapace raccontava la Resistenza, la sua giovinezza sotto i bombardamenti, le fughe in bicicletta, la paura di incontrare lungo la strada i nazifascisti, i messaggi in codice imparati a memoria, i libri studiati al lume di candela durante il coprifuoco.

Ne scrisse un libro, “Io, partigiana”, che ha presentato fino all’ultimo nelle scuole, dovunque la invitassero. Su e giù dal treno, partendo da Bolzano, la città dove Lidia la

combattente ha sempre vissuto e dove di- venne, nel 1964, la prima donna eletta nel consiglio provinciale e poi anche, nella stes- sa legislatura, la prima assessora (alla Sa- nità). Nel 1969 venne cooptata nel primo nucleo dei fondatori de il manifesto.

Femminista da sempre, teoria solida e anche ironia. Per i suoi 90 anni così spiega- va la sua formazione di donna libera: “Mia madre insegnò a noi due figlie un suo codi- ce etico. Ci diceva: ‘Siate indipendenti eco- nomicamente e poi fate quello che volete, il marito lo tenete o lo mollate o ve ne trovate un altro. L’importante è che non dobbiate chiedergli i soldi per le calze’”.

A ricordare Lidia Menapace è anche il Presidente della Repubblica, Sergio Matta- rella, che in un messaggio all’ANPI scrive:

“Scompare con Lidia Brisca Menapace una figura particolarmente intensa di intellet- tuale e dirigente politica espressione del di- battito autentico che ha attraversato il No- vecento. Lidia Menapace è stata fortemente impegnata sui temi della pace - ha aggiun- to il Capo dello Stato - con la convinzio- ne permanente delle donne contro tutte le guerre. I valori che ha coltivato e ricercato nella sua vita - antifascismo, libertà, demo- crazia, pace, uguaglianza - sono quelli fatti propri dalla Costituzione italiana e costi- tuiscono un insegnamento per le giovani generazioni”.

Infine, il Segretario generale della Cgil Landini: “A nome di tutta la Cgil e mio personale esprimo profondo cordoglio per la scomparsa di Lidia Menapace, parte della nostra storia per il contributo che ha sempre voluto dare alla lotta per l’emanci- pazione e la libertà’ del mondo del lavoro”.

Antonio Morandi

ADDIO A LIDIA MENAPACE

PARTIGIANA, FEMMINISTA, PACIFISTA E VOCE LIBERA: AVEVA 96 ANNI

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ra il 2013 e il 2015, 10 milioni e 300 mila persone nel mondo hanno firmato un appello che chiedeva la libertà per Abdullah Öcalan e per i prigionieri politi- ci in Turchia, e affermava che “la libertà di Öcalan sarà una pietra miliare per la demo- cratizzazione della Turchia e per la pace in Kurdistan”.

Dopo oltre 5 anni, Öcalan è ancora se- gregato nel carcere di massima sicurezza di Imrali. Nel 2015, il Presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha interrotto anni di dialogo con Abdullah Öcalan e con il PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) e ha lanciato un’escalation violenta di aggressione contro il popolo curdo in Turchia, Iraq e Siria. In mesi recenti, Erdoğan ha portato la guerra non solo contro i curdi ma contro tutti i paesi confinanti della Turchia, inclusi Libia e Na- gorno-Karabakh/Artsakh. A Cipro e in Gre- cia, nel Mediterraneo orientale, ha alimenta- to pesanti tensioni.

Nel frattempo, i popoli del nord-est della Siria, ispirati dal pensiero di Öcalan, hanno trasformato la loro terra in un grande ba- stione di coesistenza pacifica e di democrazia – a dispetto dei costanti e continui attacchi militari turchi. La perdurante incarcerazione di Öcalan e l’isolamento disumano al quale resta soggetto, la repressione massiccia nelle regioni curde della Turchia e gli attacchi al nord-est della Siria sono tutti aspetti dello stesso approccio utilizzato dallo stato turco:

attaccare le forze democratiche, in partico- lar modo i curdi, con tutti i mezzi possibili, continuando a finanziare e armare le milizie fondamentaliste dell’ISIS, che costituiscono un fattore di insicurezza a livello planetario,

come dimostrato i recenti attacchi in Francia e in Austria.

Sfortunatamente le istituzioni internazio- nali non hanno dato una risposta adeguata a una situazione che si sta deteriorando – e il Consiglio d’Europa, insieme alla Corte Euro- pea per i Diritti Umani e al Comitato contro la Tortura non hanno saputo garantire nem- meno i più basilari diritti umani ad Abdullah Öcalan che è il simbolo più importante della lotta contro la repressione della libertà e della democrazia in Turchia ed è l’unica speranza per una risoluzione pacifica ai conflitti in Medio Oriente. Questo rende la sua liber- tà un passo fondamentale per tutte le genti che amano la pace. Questo è il motivo per cui diciamo: il tempo è arrivato: libertà per Abdullah Öcalan!

Vi chiediamo di sostenerci con la vostra firma e di unirvi alla lotta per la libertà, la democrazia e la pace per i curdi e per tutti i popoli del Medio Oriente. Tra i primi fir- matari dell’appello nel 1999 abbiamo avuto personalità quali Dario Fo, Angela Davis, Noam Chomsky, Danielle Mitterrand, Ram- sey Clark, Alice Walker, Gianna Nannini, Ge- raldine Chaplin e molti e molte altri.

Occorre mobilitarci nuovamente - sta- volta dobbiamo ottenere la scarcerazione di Öcalan!

Vi chiediamo di portare questo messag- gio ai vostri consigli comunali, assemblee, sindacati, organizzazioni di comunità, partiti – per chiedere loro unirsi al coro mondiale di voci per la libertà di Öcalan!

Per aderire: libertaperocalan@gmail.com COMITATO “IL TEMPO È ARRIVATO:

LIBERTÀ PER ÖCALAN”

Giovanni Russo Spena, Docente universitario Laura Schrader, Scrittrice e Saggista Laura Corradi, Prof. Università Calabria Silvana Barbieri, Ass. Culturale Punto rosso Luigi Lucchi, Sindaco di Berceto

Eleonora De Majo, Assessore Cultura a comune di Napoli

Gian Luigi Deiana, Prof.

Simonetta Crisci, Avv.

Arturo Salerni, Avv.

Giovanni Motta, Avv.

Laura Quagliuolo, CISDA

Roberto Mapelli, Ass. Culturale Punto rosso Rino Malinconico, Scrittore e filosofo Federico Venturini, Delegazione pace per Imrali Hazal Koyuncuer, Sindacalista

Antonio Ruggieri, Giornalista, direttore della rivista ‘’il bene comune’’

Andrea Cegna, Giornalista Yilmaz Orkan , UIKI-ONLUS

Adriano Sgrò, Coordinatore nazionale Democrazia e Lavoro CGIL

APPELLO INTERNAZIONALE PER LA LIBERAZIONE DEL LEADER CURDO, IN CARCERE DA OLTRE 5 ANNI: L’ADESIONE DI D&L

“LIBERTÀ per Abdullah Öcalan”

MONDO

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APPROFONDIMENTI

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ell’affrontare la crisi economica e fi- nanziaria provocata dal blocco pande- mico, finora ha prevalso la logica del garantire liquidità al sistema, un intervento pubblico che non ha come scopo quello di una presenza diretta nell’economia attraver- so l’uso della spesa pubblica. Occorrerebbe un cambio di paradigma.

La ripresa a “V” che tutti sperano, o a “U”

come qualcun altro paventa, o peggio a “L”, lascerebbe immutato il sistema attuale. Proba- bilmente cambieranno alcune forme di lavoro, alcuni settori andranno ridimensionandosi, mentre altri ne rinasceranno (ad esempio il settore sanitario, della cura, della logistica, dei servizi educativi, ecc.). Tutti settori che comun- que necessitano di un’alta intensità di lavoro:

altro che tendenza alla fine del lavoro grazie alle rivoluzioni tecnologiche.

Una cosa che fa riflettere in queste setti- mane è l’uso politico di questa crisi. Si no- terà che la narrazione principale è la stessa che andava in voga durante la guerra (spes- so abbiamo visto che molti paragonano lo stato pandemico alla guerra). Le istituzio- ni ci dicono che esiste un nemico esterno, il virus. Prima erano i tedeschi, o i russi o gli americani, e così via, e pertanto per com- batterlo dobbiamo stare uniti e accettare lo stato di emergenza, non lamentarci dei de- creti emergenziali, del lockdown eccetera.

Il problema che preoccupa maggiormente è che la ripresa avverrà in un contesto di crisi sociale tale che saremo costretti, come ormai da più di 40 anni, ad ingoiare le po-

litiche neoliberiste, perché dobbia- mo sconfiggere il nemico esterno (il virus, la crisi, ecc.). Ricordiamo però che durante la guerra l’im- magine del nemico esterno è parte integrante del modo in cui gli stati capitalistici fanno valere l’interesse di classe dominante come un inte- resse generale. In guerra la difesa della nazione è sempre copertura di ragioni sistemiche della guerra stes- sa e della sua natura imperialistica (Michele Nobile, 2020).

Qui è corretto parlare di intervento del- lo Stato: ma il fatto è che il neoliberismo non è per principio contrario all’intervento statale, tutt’altro. Vedi il disavanzo pubblico da record di Ronald Reagan. Lo fece Oba- ma durante la crisi del 2007, lo faremo an- che noi. Il problema è il controllo sociale sul sistema produttivo e il suo finanziamento. Il soggetto sociale che lo gestisce.

Negli ultimi trent’anni la CGIL ha mo- dificato la sua cultura. Dopo la cancellazio- ne delle componenti partitiche interne ha anche modificato la propria ideologia e ha un po’ seguito le trasformazioni culturali che avvenivano anche nella politica nazio- nale ed europea. È stata messa da parte l’a- nalisi di classe, sostituita da un’analisi dei soggetti produttivi. Le imprese e i lavoratori sono stati messi quasi sullo stesso piano in quanto soggetti fondamentali per lo svilup- po economico ed umano. Il profitto, quale forma monetaria del plusvalore, si è trasfor- mato in remunerazione del capitale investi- to e ha raggiunto una legittimazione etica:

l’imprenditore che si comporta bene con i lavoratori produce profitti “buoni”.

In sintesi, la CGIL si è trasformata, pur avendo alle spalle decenni di lotte e di pen- siero anticapitalistico, in soggetto politico che difende i lavoratori in un capitalismo che può essere buono.

Ci si è ridotti, per tornare al presente, ad abbandonare le lotte e l’ideologia ope- raia per fare proposte di politica economica

compatibili con il sistema produttivo attua- le. È evidente l’approccio economicistico e statalistico.

La crisi pandemica comporta anche una certa critica del neoliberismo senza freni, ma in effetti imporrebbe una radicalizzazio- ne della critica del presente e in particolare una critica radicale dell’economia politica che ci viene propinata - ancora dopo 2 seco- li - come scienza esatta alla quale dobbiamo adeguarci acriticamente, come se il capita- lismo fosse un sistema produttivo naturale e perenne.

Quindi va bene se chiediamo più inter- vento dello Stato, più welfare, più lavoro, meno precarietà e disoccupazione, ma dob- biamo però essere capaci di creare quella co- scienza secondo la quale senza legame con il soggetto sociale lavoro non andiamo da nessuna parte. Ecco perché dobbiamo met- tere al centro il lavoro non come “diritto”, come fattore produttivo destinatario di con- cessioni da parte di chi mantiene i mezzi di produzione, ma come soggetto politico pro- motore di una trasformazione che prenda il controllo sulla moneta e sulla produzione attraverso lo Stato, uno Stato dei lavoratori e non delle classi sfruttatrici.

Occorre spostare quindi l’attenzione dal rapporto ricco-povero a quello capitale-la- voro.

Il capitalismo si evolve sempre anche attraverso il perfezionamento della tecnica produttiva: ciò significa che la parte di la- voro necessario al mantenimento del lavo- ratore sarà sempre più piccola. Con ciò la parte del prodotto sociale che andrà al la- voratore è sempre minore. Contro il calo del salario relativo (ne discute Rosa Luxemburg ad esempio in Introduzione all’economia politica, 1925) i lavoratori non possono far nulla, perché non possono far nulla contro il progresso tecnico. L’azione sindacale per aumentare i salari è quindi importante ma non risolutiva. Per combattere la caduta del salario relativo occorre combattere contro il carattere di merce della forza-lavoro.

Ma Rosa Luxemburg evidenzia anche che l’azione sindacale è importante per evi- tare che la forza-lavoro venga pagata al di sotto del suo valore. Il sindacato quindi gio- ca un ruolo organico ma indispensabile nel

sistema salariale capitalistico.

Occorre, in conclusione, che il sindacato torni ad essere antagoni- sta e non compatibilista, che ritorni alla lotta, abbandonando il ruolo di “consigliere del Principe”, che si faccia promotore sì di un’azione volta a difendere il valore necessa- rio della prestazione lavorativa, ma tenendo presente il carattere di mer- ce del lavoro che scaturisce da un rapporto di sfruttamento impari tra classi in conflitto.

Marco Palazzotto

Sindacato: CAMBIARE O PERIRE

Torni ad essere antagonista e non

compatibilista, torni alla lotta, abbandonando il ruolo di ‘consigliere del Principe’, si faccia

promotore di un’azione volta a difendere il valore

necessario della prestazione lavorativa, tenendo

presente il carattere di merce del lavoro che

scaturisce da un rapporto di sfruttamento

impari tra classi in conflitto

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