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Le manifestazioni artistiche nel territorio del Tadrart Acacus

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Academic year: 2021

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Le manifestazioni artistiche nel territorio del Tadrart

Acacus

Per un viaggiatore attento alle proprie emozioni il primo incontro con i graffiti e le pitture che si trovano in quest’area, sicuramente così come di fronte a quelli di numerosissimi altri luoghi al mondo, non può non suscitare un senso profondo di meraviglia e rispetto, subito seguito dal desiderio di sedersi a terra per contemplarli a lungo e da un pensiero per coloro che in passato li hanno tracciati con così grande cura. Come scrive Emmanuel Anati “questi segni sono la quintessenza di qualcosa che non si riesce a definire coscientemente, ma che è profondamente dentro di noi; essi trasmettono un potente segnale provocando in noi un’immediata risposta emotiva, senza che si riesca a spiegarne il perché” (Anati, 1988).

Tuttavia tutti gli studiosi che si sono occupati delle manifestazioni artistiche risalenti ai tempi più remoti, in seguito a questa iniziale fase “contemplativa” delle opere d’arte e delle sensazioni che esse suscitano nell’osservatore, hanno cominciato ad interrogarsi sul momento e sulle motivazioni della loro genesi, essendo stata quasi concordemente eliminata fin dall’inizio del dibattito l’ipotesi dell’“arte per l’arte” (Lupacciolu, 1992). Ciò non toglie però, come sottolinea il maggior conoscitore della produzione artistica di questa zona, il già citato Fabrizio Mori, che queste opere non siano prive di qualità estetiche al di là della loro funzionalità, che egli identifica nella presa di coscienza degli uomini dei vantaggi pratici legati alla coesione sociale all’interno dei gruppi che ne godevano; solo all’interno di una comunità ben organizzata infatti è possibile che ciascun membro di essa riconosca una determinata associazione di figure e simboli, indice di uno stesso modo di pensare e di esprimersi. Proprio in quanto non appartenenti alle comunità che hanno dato vita, nel tempo, a queste opere, noi siamo automaticamente esclusi da una loro profonda comprensione, siamo privi di un codice di decifrazione, di una chiave interpretativa; possiamo solo dunque limitarci all’elaborazione di ipotesi semplici e soggettive nei riguardi di quanto è stato raffigurato, evitando giudizi in riferimento ad una loro eventuale produzione all’interno di un contesto “magico-religioso”.

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verrebbe proprio dal fatto che “in continenti diversi, in un lasso di tempo che va dai 40000 ai 10000 anni da oggi, popolazioni differenti hanno dato luogo a medesime manifestazioni artistiche, con risultati diversi ma con matrici culturali assai simili fra loro, proprio come ad indicare una serie di trasformazioni biologiche e culturali che, in analoghe condizioni ambientali, hanno raggiunto un uguale livello di consapevolezza, un’uguale urgenza interiore e un’uguale serie di bisogni che, nel dipingere la roccia, o nell’inciderla, devono aver trovato soddisfacimento e realizzazione”. Non si può infatti ignorare il fatto che le manifestazioni artistiche qui prese in considerazione appaiono fra le tracce umane rinvenute nell’area all’improvviso, nel momento di passaggio fra la fine del Pleistocene e l’inizio dell’Olocene, presentandosi però già così straordinariamente compiute nel loro aspetto, da doverle considerare come il punto di arrivo di un lungo processo preparatorio, che non ha lasciato tracce visibili, probabilmente a causa dell’utilizzo di materiali deperibili come supporto. Quindi la scelta stessa di incidere o dipingere la roccia, da sempre elemento presente nel paesaggio, è indice di una nuova consapevolezza; non solo a partire da questo momento quanto viene “fissato” su un materiale così duraturo avrà la possibilità di sopravvivere all’inesorabile scorrere del tempo, ma anche di divenire più reale, in quanto la visibilità è un elemento fondamentale per la materializzazione e diffusione delle idee, comprese quelle trascendenti e astratte (Mori, 2000).

Il tentativo di stabilire il momento iniziale di apparizione del fenomeno artistico, già causa di lunghe controversie, è stato immediatamente seguito dalla nascita di ulteriori dibattiti a proposito di una necessaria e inevitabile suddivisione in fasi e sottofasi del lungo periodo di esistenza delle manifestazioni considerate. Ad essa si è potuti giungere attraverso un’analisi multidisciplinare, prendendo quindi in considerazione sia osservazioni riguardanti le raffigurazioni stesse (soggetto, stile, tecnica, sovrapposizioni, materiale colorante e patina), sia alcune datazioni assolute provenienti dagli scavi condotti, sia infine mediante procedimenti fisico-chimici in corso di elaborazione, tramite i quali datare direttamente le opere rupestri attraverso l’analisi di patine e pigmenti. I risultati ottenuti risultano chiaramente schematici e assai semplificati, e inoltre le varie fasi individuate non possono essere considerate tappe evolutive di un’unica cultura, dal momento che, come sarà possibile vedere nel corso della trattazione, ciascuna possiede una propria specificità espressiva ed una propria struttura simbolica, tali da risultare emanazioni di sistemi culturali profondamente differenti (Lupacciolu, 1992).

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Dal momento che, fra gli esperti in materia che si sono occupati del problema, solo Mori ha elaborato un sistema di datazione specifico per la zona del Tadrart Acacus, basato su una prolungata osservazione ed un’intima e diretta conoscenza di pitture e graffiti, su esso, presentato di seguito, verranno condotte tutte le considerazioni e riflessioni a questo proposito.

Proposta di cronologia (Mori, 2000)

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Lo stile

In base all’osservazione della tabella è possibile notare come la suddivisione in fasi si basi principalmente sulla diversità dei soggetti rappresentati e dello stile, nel quale si fondono, secondo l’autore, tre elementi fondamentali, e cioè la manualità del singolo artista, la cultura della società a cui egli appartiene, e soprattutto il forte influsso del clima sul territorio: la condanna definitiva dell’arte in quest’area avviene infatti in seguito alla crescente desertificazione.

La prima fase individuata è denominata “della grande fauna selvaggia” per la presenza di figure isolate di animali selvatici (con prevalenza nella rappresentazione del

Bubalus antiquus, da cui il nome alternativo di questa fase), di grandi dimensioni e per lo più graffite, solo raramente accompagnate da rappresentazioni di individui antropomorfi caratterizzati da attributi animaleschi e caratteri sessuali accentuati; in queste più antiche opere dunque il mondo animale sembrerebbe a prima vista dominante rispetto alla figura umana, decisamente secondaria, anche se forse il fatto che l’uomo sia già in grado di descriverla nei minimi particolari potrebbe essere un indizio per comprendere quanto egli se ne senta ormai decisamente distaccato.

Nella successiva fase “delle Teste Rotonde” infatti sono le raffigurazioni dipinte di esseri antropomorfi a prevalere; al di là di qualunque interpretazione “superumana” attribuibile a queste figure, così ieratiche e distanti nella loro totale privazione di caratteri fisionomici e di legami con contesti riconducibili ad attività quotidiane, è ben rilevabile quindi una netta presa di coscienza del valore dell’uomo e della sua supremazia.

Scene di vita quotidiana irrompono invece con forza nella fase denominata “pastorale”, nella quale è preponderante la raffigurazione, graffita o dipinta, di grandi mandrie di bovini domestici, riconoscibili in quanto tali grazie alla pezzatura del mantello, guidati da pastori. Saldare questa fase, in cui evidentemente è avvenuto il passaggio da un tipo di economia basata su caccia e raccolta ad un sistema maggiormente “organizzato”, cioè imperniato su un allevamento a carattere intensivo, ad una cronologia assoluta (non riferita quindi ad un “prima” o un “dopo”, ma legata al nostro sistema di suddivisione del tempo in anni calendariali), si è rivelato maggiormente problematico rispetto a tutte le altre fasi; questa attribuzione infatti entra nel vivo di un complesso dibattito sul fenomeno della “neolitizzazione” della zona, argomento che verrà approfondito in seguito.

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Con la successiva fase “del cavallo”, caratterizzata per l’appunto da raffigurazioni di cavalli, isolati o trainanti carri leggeri, talvolta in associazione con figure umane assai schematiche dalla testa ridotta ad un sottile “bastoncino” (secondo il cosiddetto stile “bitriangolare”), si passa decisamente all’epoca protostorica; questa affermazione è sostenuta sia dal fatto che a proposito dei loro autori, probabili antenati del popolo dei Garamanti, citati da Erodoto, abbiamo notizie, seppur scarne, da fonti egiziane, greche e romane, sia poiché sappiamo con una certa sicurezza che il cavallo domestico venne introdotto in Egitto intorno al 1500 a.C.

Allo stesso modo l’ultima fase, detta “del cammello”, appartiene ormai ad un’epoca pienamente storica: le condizioni di degrado ambientale e di spopolamento riflettono infatti bene quelle attuali, nelle quali il cammello è l’unico animale in grado di sopravvivere. Il decadimento ambientale è rispecchiato da un’equivalente decadenza stilistica e da una perdita di contenuti (Mori, 2000; Lupacciolu, 1992).

La tecnica

Un’analisi approfondita delle diverse tecniche, graffito e pittura, utilizzate per la realizzazione delle manifestazioni artistiche prese in considerazione, ha chiaramente contribuito a questa suddivisione del fenomeno in fasi e sottofasi nel corso del tempo; in base a questa considerazione è necessaria quindi un’analisi maggiormente approfondita delle due tecniche utilizzate.

I graffiti

La superficie rocciosa dapprima veniva incisa con una punta aguzza in selce, quarzite, o altra pietra dura tramite un’azione di sfregamento o, per lo più, di martellamento, in quanto la punta vera e propria sembrerebbe essere stata usata come scalpello, quindi percossa mediante un’altra pietra dura o legno resistente, e in seguito il solco così ottenuto era sottoposto ad una levigatura più o meno accurata per mezzo dello sfregamento di una certa quantità di sabbia.

Per un inquadramento il più possibile valido del graffito che l’osservatore si trova davanti è necessaria un’attenzione particolare ai seguenti elementi.

La qualità dell’esecuzione occupa solitamente un posto preminente all’interno di questo elenco, in quanto indicatore importante dal quale desumere la fase di appartenenza: generalmente infatti nelle fasi più antiche l’incisione si presenta vigorosa e ben definita e la levigatura accurata, in modo da cancellare quasi totalmente le tracce

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del martellamento iniziale, mentre nelle fasi finali esse al contrario risultano molto poco rifinite, quasi esclusivamente abbozzate.

La patina risulta essere un altro elemento di importanza niente affatto trascurabile, anche se non del tutto affidabile; essa, nota anche con il nome di “vernis du desert”, consiste in un annerimento delle superfici rocciose prevalentemente arenacee (quelle calcaree risultano infatti troppo instabili per supportare questa alterazione), in strati di spessore variabile da pochi microns al centimetro, a causa di un’alta concentrazione di idrossidi di ferro e manganese e di un calo degli alcalino terrosi rispetto alla composizione della roccia sulla quale si sviluppa. Per lungo tempo si è pensato che la sua formazione fosse causata da sali essudati dalla roccia, mentre studi più recenti la considerano il prodotto di accumulo di particelle argillose e sali trasportati dal vento, oltre che da processi biologici messi in atto da batteri manganesefissatori, osservabili sulla superficie delle patine stesse. Sia in base alla presenza di questi ultimi, sia per il colore nero della vernis, se ne può dedurre la formazione in condizioni di moderata umidità (infatti se l’umidità fosse stata maggiore i batteri avrebbero lasciato il posto a licheni e la patina sarebbe stata distrutta dall’alterazione delle superfici, se fosse stata minore i batteri non avrebbero potuto sopravvivere e le patine sarebbero risultate rosse per l’alta concentrazione di ferro piuttosto che di manganese), momento che gli studiosi fanno risalire all’optimum postglaciale, quando l’area appariva coperta da una savana arborata. Generalmente quindi, quanto più grande risulterà essere la differenza fra il colore della roccia di supporto e quello del solco ottenuto con l’incisione, tanto più recente sarà da considerare il graffito, in quanto non esposto da tempo sufficiente per aver sviluppato questa tipica colorazione nerastra, pur se occorre tener presente che molti altri fattori, quali la costituzione della roccia stessa, la sua ubicazione e inclinazione, potrebbero aver causato differenze di colore della roccia, al di là di valide motivazioni cronologiche (Cremaschi, 1992). Di notevole importanza è poi naturalmente il soggetto raffigurato, generalmente esseri animali appartenenti alle più svariate specie e razze.

Bovide Auis

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I bovidi selvatici sono fra i più rappresentati e, grazie alla precisione dei dettagli forniti dagli artisti, è stato possibile riconoscerne tre varietà: il Bubalus antiquus, dalle maestose corna rivolte verso l’alto, il bufalo africano Syncerus caffer, dal corpo massiccio e rappresentato con le corna all’indietro e il muso rivolto verso l’alto, e l’imponente Bos primigenius, con le caratteristiche corna “a tenaglia” che gli si incrociano davanti agli occhi.

Numerose anche le rappresentazioni di elefanti, le grandi orecchie e la lunga proboscide, solitamente colti in posizione di marcia.

Anche le antilopi, animali con un’alta adattabilità a condizioni ambientali particolarmente aride, e i rinoceronti, maggiormente presenti invece in habitat umidi, sono ben rappresentati nei graffiti.

Giraffe e struzzi solitamente appaiono in gruppo e in movimento; questi ultimi sono i soli rappresentanti dell’avifauna ad essere presi in considerazione per la raffigurazione.

Elefante Teshuinat Rinoceronte Auis Antilope Auis Gruppo di giraffe Eminina Struzzi Auis

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Gli esseri umani vengono raffigurati raramente, quasi mai con caratteristiche pienamente antropomorfe, e inoltre in contesti estranei ad attività legate alla vita quotidiana; è questo il caso dei graffiti di Ti-n-Lalan, con scene erotiche in cui compaiono esseri teriomorfi maschili (dal corpo umano e dalla testa animale) rappresentati nell’atto amoroso o con gli organi sessuali in evidenza, insieme ad esseri femminili denominati “femmes ouvertes” per la posizione divaricata delle gambe, spesso accompagnata da una profonda incisione nell’area genitale.

Ciò vale anche per Uadi Imha e In Taharin, siti in cui compaiono invece figure umane di tipo ittiomorfo (con sembianze che ricordano la forma di un pesce), considerate un unicum in tutta l’arte rupestre sahariana e scoperte da Mori durante la missione di ricerca del 1966; egli le descrive, al di là di piccole varianti, come “incisioni fusiformi [...] costituite da due solchi di varia profondità, paralleli e verticali, riuniti all’estremità superiore a formare un angolo acuto [...], con patina scurissima, in tutto simile a quella della parete rocciosa” (Castelli Gattinara, 1998; Mori, 1967; 2000).

L’importanza del soggetto naturalmente aumenta se considerato nell’insieme di tutte le sue variabili, e cioè le dimensioni, l’impostazione della figura e le eventuali sovrapposizioni.

E’ abbastanza evidente, per esempio, che nelle fasi più arcaiche siano decisamente comuni le raffigurazioni di grandi dimensioni (anche 2 o 3 m), così come l’uso morbido della linea e una certa sensibilità prospettica, ottenuta mediante una sapiente sovrapposizione dei diversi piani, sembrano essere tipici di un momento più avanzato. I numerosi casi di incisioni praticate su graffiti precedenti, infine, forniscono sicuramente informazioni utili per stabilire, nel caso specifico, una datazione relativa a proposito dei vari momenti in cui le immagini sono state tracciate, costituendo però nello stesso tempo un enigma per gli studiosi: appare infatti incomprensibile il motivo Scena erotica

Ti-n-Lalan

Ittiomorfi, Imha (Mori, 2000)

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per cui numerosi ripari dalle pareti levigate non rechino traccia di raffigurazioni, che appaiono invece spesso concentrate, e talvolta per l’appunto inestricabilmente sovrapposte, su quelle di altri (Mori, 2000).

Le pitture

Dopo aver individuato la porzione di superficie più liscia dell’intera parete rocciosa, preferibilmente all’interno di un riparo, l’artista si preoccupava, nella maggior parte delle volte, di stendervi sopra una base composta da una soluzione gessosa (come rivelano analisi su microsezioni di roccia) prima di procedere alla realizzazione dell’opera.

Le sostanze coloranti utilizzate erano ottenute mediante la polverizzazione di porzioni di pigmenti naturali, come dimostrano i ritrovamenti di macine, macinelli e altri oggetti litici levigati recanti tracce di colore (Garcea, 1996). Le terre colorate, chiamate comunemente ocre (ematite, limonite, goethite) offrono una vasta gamma di colori con sfumature dal giallo, al rosso, al bruno; esse risultano essere le più utilizzate, probabilmente a causa della loro maggior facilità di reperimento sul territorio. Il bianco è ottenuto da essudazioni calcaree o gessose della roccia e, se in un primo momento, l’uso limitato alle sole immagini di antropomorfi (sotto forma di reticoli o puntini sul contorno della figura o di rivestimento totale) sembra sottintendere attributi “superumani” o “non vitali” (corpi cioè ormai privi del flusso sanguigno), in fasi più avanzate esso diviene molto più comune, in particolar modo nella raffigurazione dei mantelli pezzati degli animali domestici.

Il verde è di probabile origine vegetale, di uso raro, e il nero sembra essere stato ricavato da residui carboniosi di materiale organico. Per essere utilizzati tuttavia, i pigmenti, allo stato di polvere incoerente, devono essere mescolati con leganti più o meno resistenti (Mori, 1965; Damiotti, 1992). Questi ultimi, nel caso specifico, appartengono alla categoria dei materiali proteici (colle animali, uovo, caseina, urina) e costituiscono una pellicola trasparente e solida, entro la quale risultano inglobati i grani del pigmento; in base alla viscosità del sistema pigmento/legante, la conservazione nel tempo si rivelerà più o meno duratura (Persia, 1992). Le prove di resistenza hanno mostrato, per esempio, che le pitture dei periodi finali sono molto più sensibili all’acqua rispetto alle precedenti e che, in generale, la materia colorante si presenta con modalità assai differente a seconda delle fasi artistiche (densa e corposa, quasi lucida, nella fase

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leggera e diluita in quelle seguenti). Non è ancora ben chiaro il modo in cui il colore venisse steso sulla roccia, ma si pensa a finissimi pennelli costituiti da peli animali o piume di uccelli (Mori, 1965).

Un esame attento delle sostanze coloranti utilizzate infine, al di là delle considerazioni sopra riportate, può rivelarsi utile per il conseguimento di una datazione assoluta delle varie pitture mediante l’uso della spettrometria di massa con acceleratore (AMS), sistema di datazione basato, come altri metodi più tradizionali, sulla misura della concentrazione di C14 presente nel materiale organico, ma con il vantaggio di richiedere solo microcampioni per l’analisi (Persia, 1992).

Per quel che riguarda i soggetti in campo pittorico, studi approfonditi vertono essenzialmente su due periodi in particolare, e cioè la fase delle Teste Rotonde e quella pastorale, considerate le più espressive e significative.

La prima, le cui manifestazioni si estendono anche nel confinante massiccio del Tassili (le divisioni politiche attuali non hanno certo rispettato le aree di influenza culturale del passato), è stata riferita, in mancanza di evidenze stratigrafiche precise, ad una cultura di tipo prepastorale per l’assenza di rappresentazioni di faune domestiche, pur se occorre essere sempre molto cauti nelle attribuzioni culturali basati sull’assenza di prove (Mori, 1965).

Come già evidenziato in precedenza, di fronte a queste rappresentazioni per lo più antropomorfe, ma prive di riferimenti al quotidiano, il pensiero si volge

immediatamente ad un ambito “extra umano”; la precedente dipendenza metafisica dal mondo animale sembra essere stata quindi abbandonata a favore di questi “esseri sovrannaturali” con sembianze umane, pervasi però da un senso

Antropomorfo Imha

Scena di gruppo, Uan Tamaut (Mori, 2000)

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di mistero e di sacralità a causa della mancanza di tratti fisionomici precisi nella resa approssimativa del volto, sempre coperto da “caschi” rotondi, maschere animali o altri copricapi, in contrasto con una rappresentazione delle vesti e delle decorazioni corporali (tatuaggi e pitture) spesso elaborata fino ai dettagli.

Ad eccezione infatti di Uan Tamaut, raffigurazione unica nel suo genere per la resa perfetta del profilo e armoniosa dei corpi (spesso infatti in questa fase gli arti e altre parti del corpo si presentano volutamente di dimensioni abnormi), risulta assai difficile cogliere elementi che ci siano di aiuto per una pur sommaria interpretazione delle immagini dipinte.

Tuttavia, nonostante questa indefinitezza, lo studioso Umberto Sansoni è riuscito a trarre alcune interessanti conclusioni sull’arte di questo periodo, tramite accurate e sistematiche analisi condotte con l’ausilio dell’informatica. Innanzi tutto è stato possibile riconoscere ruoli definiti e peculiarità attribuibili al sesso maschile e femminile: su un totale di 2464 figure conosciute, il 49,3% è rappresentato da uomini e solo il 10,2% da donne (il restante 40,5% risulta non ben definibile); questa distinzione si basa principalmente sulle diverse tipologie di copricapi, sulle posizioni occupate dalle figure sessuate nelle scene figurate, nonché naturalmente in base alle caratteristiche fisiche più evidenti (corporatura asciutta, busto di forma trapezoidale e presenza dell’astuccio penico per gli uomini, forme prosperose, pur senza mai rappresentazione degli organi sessuali, per le donne). In secondo luogo i contesti in cui si trovano questi antropomorfi sono stati identificati con processioni, in file o in gruppi, atti di adorazione, danze, quindi sempre comunque con situazioni indecifrabili, ma all’interno di un ipotetico ambito “rituale” non pratico: infatti se armati di arco, non appaiono in scene di caccia, se figurano in imbarcazioni (Uan Muhuggiag) non remano, se vicini a contenitori non svolgono attività definibili; solo con

strumenti musicali sembrano invece suonare.

Di grande complessità si rivela essere anche la rappresentazione del mondo animale: su 630 zoomorfi considerati si distinguono chiaramente 24 specie, naturalmente non tutte presenti con un’identica frequenza; inoltre almeno 9 figure sono fantastiche, altre mostrano alterazione delle membra o strane bardature. Nessuno di essi risulta ferito da armi o in situazioni per noi

Elemento vegetale T-Anshal-t

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comprensibili, ma si presentano isolati o in file, spesso in comunione simbolica con le figure umane: sono indicative a questo proposito anche le molte raffigurazioni di maschere animali, le corna dei caschi, le posizioni nella danza.

Un legame simile, anche se basato su una quantità minore di dati, è evidente con gli elementi vegetali, quali ramoscelli impugnati, “palmette”, funghiformi (Sansoni, 1993; 1996).

Nell’arco di tempo, non breve, in cui queste pitture sono state eseguite, si sono verificati alcuni cambiamenti nella tecnica artistica (pur essendosi comunque mantenuta una certa uniformità stilistica e tematica) in relazione alla naturale trasformazione della società che le ha prodotte; tenendo conto di ciò Mori, riferendosi esclusivamente al corpus pittorico dell’Acacus, ne distingue tre momenti principali. Nella sottofase iniziale vengono privilegiate le figure a solo contorno, raffigurate cioè mediante una linea perimetrale di colore rosso che circoscrive l’area interna del corpo, non dipinta; in un momento successivo invece sembra prevalere la tendenza a realizzare il soggetto riempiendo uniformemente l’intera figura col colore. Infine la sottofase finale si distingue per una notevole cura dei dettagli permessa dall’uso della policromia.

In quest’ultimo periodo pare inizino anche ad apparire le prime raffigurazioni di bovidi semidomestici, pur se risulta assai difficile stabilire i confini, iconograficamente parlando, delle varie fasi, dal momento che la transizione ad una società economicamente più complessa sembra essere stata essa stessa molto lenta e senza rotture improvvise col passato.

La principale caratteristica del seguente mondo pastorale, nel quale per l’appunto è di massima importanza l’attività della pastorizia, ormai ben affermata al di là di tutti i passaggi di preammansimento, addomesticazione ed allevamento, è quella di una stretta attinenza alla realtà, tanto quanto ne era distaccata invece la fase precedente. Il livello stilistico rimane elevato e la perdita di quell’aura di sacralità che aveva caratterizzato la fase delle Teste Rotonde si traduce, per la prima volta, in una rappresentazione pienamente umana dell’individuo, colto nello svolgimento delle proprie mansioni quotidiane. Queste ultime cominciano ad essere descritte con dovizia di particolari, così come avviene per i capi di abbigliamento e i monili, nonché soprattutto per i dettagli che riguardano il corpo e il volto degli esseri raffigurati (Castelli Gattinara, 1998). E così è ora possibile vedere nelle pitture donne dalle lunghe gonne e dalle vesti decorate, adorne di collane e braccialetti (ai polsi, ma anche alle spalle e alle caviglie), e uomini con tuniche al ginocchio e mantello, o talvolta coperti solamente con perizomi di varia

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Bovidi Uan Amil

lunghezza; particolare interesse viene poi rivolto a pettinature e copricapi, talvolta ornati di piume, mentre risultano scarsissime le indicazioni su sandali o altro tipo di calzature. Le armi non presentano una tipologia chiara (ad esempio regna una certa confusione a livello di armi curve, come bastoni o lance da getto), in alcuni contesti potrebbero essere presenti forse in funzione onorifica. Poco chiari e non numerosi risultano essere anche i riferimenti a strutture abitative, al di là di qualche recinto e di costruzioni non ben identificabili (Gauthier Y. e C., Morel, Tillet, 1996). L’attenzione alla descrizione particolareggiata dei profili, infine, sembra aver condotto gli studiosi a riconoscere la presenza di differenti gruppi etnici all’interno dell’area presa in considerazione, così come in tutto il Sahara centrale: individui dai caratteri europoidi e mediterranei appaiono a fianco dei già presenti gruppi negroidi; in seguito entrambi saranno poi ulteriormente affiancati da gruppi di etnia nilo-camitica, forse in conseguenza di un’accresciuta mobilità che

prende l’avvio proprio durante questo periodo, probabilmente dovuta alla continua ricerca di nuovi pascoli, e testimoniata dai resti di accampamenti stagionali ormai presenti su vasta area (Castelli Gattinara, 1998).

Il riflesso, in campo artistico, di questo

cambiamento nella composizione etnica della popolazione, ha portato Fabrizio Mori ad ipotizzare la presenza di due sottofasi, all’interno della fase pastorale, e cioè un momento più antico, legato alle pitture visibili nel sito di Uan Amil, ed uno più recente, individuabile a Ti-n-Lalan/Ti-n-Anneuin (Mori, 1965).

Il primo riparo citato ospita un’intera parete decorata secondo le caratteristiche più comuni di questa sottofase più arcaica: i Scena di gruppo

Uan Amil

Individui dal copricapo piumato Teshuinat

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tratti mediterranei dei personaggi raffigurati, la tipica acconciatura “a cimiero” (con i capelli raccolti in cima alla testa e modellati, forse con un impasto di henne, in una specie di cresta pendente in avanti), il forte naturalismo e la nitidezza del tratto nella rappresentazione di tutti gli individui ed animali. Nel secondo invece appaiono i pastori per l’appunto definiti di Ti-n-Lalan o di Ti-n-Anneuin, riconoscibili dal forte impianto del corpo e dalla notevole altezza, dal profilo leggermente prognato ricondotto all’etnia nilotica sopra citata, mantello e copricapo ornato da piume (Mori, 2000).

L’ubicazione

La stretta correlazione fra le manifestazioni artistiche e i ripari sulle cui pareti esse hanno preso forma, costituisce, come si è detto in precedenza, un interessante quesito per gli studiosi; soprattutto in seguito a scavi condotti in anni recenti, infatti, è emersa la consapevolezza di volute scelte compiute in passato, differenti a seconda dei periodi e delle comunità che li utilizzarono, in base alle quali alcuni ripari sembrano essere stati adibiti ad uso esclusivamente “domestico”, diversamente da altri anche, o solamente, a carattere “sacrale”. Nonostante la scarsità di dati in nostro possesso, a causa dell’esiguo numero di siti indagati con accuratezza, sembra comunque possibile dire con una certa sicurezza che, soprattutto nelle fasi più antiche, luogo ed opere artistiche risultano strettamente collegate. E’ infatti sufficiente notare, come evidenziato in precedenza, quante decine di ripari, in tutto simili a quelli decorati, e caratterizzati da una maggior levigatezza delle pareti, non riportano traccia di pitture o graffiti, entrambi i quali invece si ritrovano assai spesso sovrapposti più volte su piccole porzioni di roccia all’interno di uno stesso sito; tutto ciò inoltre pare essere valido entro depositi il cui orizzonte non va oltre il IX-X millennio BP, come dimostra il caso di Uan Muhuggiag. Gli scavi condotti in questo sito assai importante, di cui si tratterà in seguito, hanno per l’appunto evidenziato il profondo iato e le differenze esistenti fra il deposito riferibile alla fase delle Teste Rotonde, all’estremità ovest del riparo, privo di resti antropici e in correlazione con pitture, e quello della fase pastorale a est, ricco di resti di frequentazione e presso pareti non decorate. Ciò non significa tuttavia che i cambiamenti susseguitisi nel tempo abbiano automaticamente eliminato del tutto la funzione “mistico-religiosa” del luogo (nel caso specifico, per esempio, lo confermano il ritrovamento di una mummia infantile e di un defunto inumato, rinvenuti rispettivamente nel deposito riferibile alla fase pastorale e nell’area antistante la grotta sotto livelli datati fra 7500 o 7800 anni da oggi) (Mori, 1992; 2000).

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In questo stesso sito, così come all’interno di altri ripari con pitture appartenenti alla fase delle Teste Rotonde, sono presenti anche alcune marmitte, e cioè escavazioni emisferiche su superfici rocciose orizzontali, con dimensioni di circa 30-40 cm di diametro per altrettanti di profondità, con imboccatura

perfettamente tonda, dalla quale talvolta partono alcuni canaletti di scolo, più o meno incisi. La loro funzione, per il momento, resta ignota; in base a osservazioni condotte sulla loro ubicazione, esse potrebbero aver avuto un ruolo nella raccolta di acque meteoriche quando allineate all’imboccatura dei ripari, pur se il loro rinvenimento non si è limitato esclusivamente a questo tipo di contesto. Ciò che

confonde maggiormente le idee è inoltre il fatto che, per ora, le analisi condotte non rivelano tracce di elementi organici al loro interno. L’ipotesi proposta da Mori vede l’utilizzo delle marmitte presumibilmente in connessione all’acqua, ma non a scopo pratico di riserva idrica, dal momento che se la loro datazione risultasse davvero essere anteriore all’VIII millennio BP, e cioè nel momento di massima umidità, non avrebbe avuto senso crearle per soli fini di raccolta.

Un’altra manifestazione di “scultura” rupestre, indirettamente legata alle opere d’arte e di difficile interpretazione, può essere individuata in fori praticati a coppie su pareti rocciose in prossimità di ripari decorati; essi risultano divisi da una porzione di roccia, di spessore variabile dai 2 ai 3 cm, separata a sua volta dalla parete di fondo mediante una perforazione che li mette in comunicazione. Ciò che appare maggiormente inspiegabile è la loro dislocazione ad altezze variabili fra 1 e 40 m, sia per quel che riguarda la possibile esecuzione, in quanto le pareti risultano prive di appigli ed è difficile immaginare la presenza di eventuali impalcature lignee, sia soprattutto per la funzione. Nessun elemento è inoltre disponibile per una possibile datazione, al di là del colore della patina, solitamente simile a quello della roccia su cui sono stati ricavati.

Un’ultima particolarità legata a questi fori è il fenomeno della loro diffusione, su pareti di edifici o oggetti d’uso quotidiano, anche in luoghi molto distanti dal Sahara, quali l’isola di Malta, il Messico, la Grecia e il Perù; anche in questi casi, tuttavia, non “Maniglione”

Inferden

Marmitta Inferden

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I problemi e i progetti di conservazione

Considerata la grande antichità delle manifestazioni artistiche prese in considerazione, si comprende la loro resistenza di fronte all’inesorabile scorrere del tempo; tuttavia occorre anche considerare il lento processo di degrado cui esse sono state sottoposte nel corso dei millenni, sia a causa di fenomeni di alterazione naturale, sia, in particolar modo in questi ultimi anni, a causa della frequentazione antropica sempre crescente dell’area che le ospita.

I principali fattori naturali di degrado risultano essere vari. Innanzi tutto le alterazioni repentine della temperatura agiscono provocando crolli, desquamazioni e fessurazioni della parete rocciosa di supporto, già aggredita al suo interno da alterazioni meccaniche dei propri minerali e dalla proliferazione di dannosi micro-organismi (funghi, alghe, licheni e batteri); in secondo luogo non bisogna poi dimenticare la persistente azione solare ed eolica sulle superfici lavorate. L’intervento antropico non risulta del resto meno dannoso: sono evidenti abrasioni ed incisioni intenzionali e l’utilizzo di liquidi vari sulle opere d’arte per ottenere riproduzioni fotografiche migliori.

Date comunque la vastità e la conformazione del territorio, e il numero di opere da proteggere, le soluzioni più immediate sembrano riguardare soprattutto il controllo dei visitatori, possibilmente dichiarando l’intera area parco archeologico nazionale, oltre a piccoli interventi non invasivi sulle opere più rovinate (assorbimento delle efflorescenze di sali minerali e blocco delle alterazioni biodeteriogene con l’uso di bioacidi specifici) (Ponti, 1992a;1992b). Infine è molto importante ricordare il progetto, in via di realizzazione, a cura della Missione di ricerca italo-libica il quale si propone di catalogare ed inventariare tutte le manifestazioni di arte rupestre della zona, mediante la realizzazione di un data-base informatizzato, utilizzabile quindi da tutta la comunità scientifica (Damiotti, 1996).

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