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8. Le Erinni e il mondo magico.

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Academic year: 2021

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8.

Le Erinni e il mondo magico.

In questo capitolo vorrei esplorare il rapporto tra la dimensione magica e le Erinni.

Evidentemente si tratta di un legame molto articolato che non ho la pretesa di esaurire, poiché ha richiami e agganci di notevole ampiezza che dalle opere letterarie approdano alla psicologia collettiva, e spiegare tali processi in una cultura antica si rivela un percorso sufficientemente complesso che per gran parte si aggira attorno al terreno dell’ipotesi.

Mi interessa cercare di cogliere il rapporto tra mondo magico ed Erinni all’interno della rappresentazione tragica in modo da esplorare i nessi che le associano all’immaginario magico, ricostruendo così un altro segmento della personalità molteplice delle dee.

Il primo stasimo delle Eu. è l’unico caso in cui le Erinni in tragedia operano in una dimensione magica. Ma vediamo innanzitutto come Eschilo costruisce la prima parte della tragedia che chiude la trilogia fino al “canto che lega” e dunque al rivelarsi del potere magico delle Erinni.

Vale la pena notare che all’inizio delle Eu. l’autore pone un articolato lavoro di scavo nella direzione di una realtà alternativa che si colloca a un livello più profondo della normale percezione.

Fin dalla comparsa sulla scena della Pizia assistiamo all’evocazione di creature appartenenti alla sfera ctonia e primitiva (si pensi al suo tentativo di descrivere le Erinni e all’apparizione del favsma). Ma nel prologo stesso pronunciato dalla sacerdotessa, dove Eschilo ha condensato diversi richiami mitologici che coinvolgono la sua stessa produzione letteraria, viene rappresentata un’atmosfera che dalla descrizione di Delfi, si spinge, risalendo le vie del mito, in un tempo indefinito. Dalla concretezza dei richiami, in questo caso al paesaggio, che si rivelano altrettante tappe fondamentali nei pellegrinaggi terreni degli dei, il poeta vi costruisce attorno un’idea di realtà che si spinge oltre la nostra percezione e acquista un significato più profondo.

Questa sorta di “geografia mantica” intreccia, sovrapponendoli, i piani dello spazio e del tempo. Non a caso il prologo si apre con l’iterazione di prw§ton, usato come avverbio nel primo verso, e come prefisso dell’epiteto della Terra, che è prwtovmantin, “la prima ad aver divinato”, nel secondo. E subito dopo si parla del seggio profetico, il mantei§on, su cui si avvicendano Themi e Febe, figlia della Terra che in questo caso è indicata col nome di Ctw§n, che indica il suolo dalla superficie in giù.

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Dunque, un riferimento a un tempo arcaico che coincide con l’operare degli dei, un tempo che esce da se stesso e si lega all’azione dei poteri mantici, evocati insieme a una dimensione ctonia che si associa a una realtà primitiva e fuori controllo. E su questi tre binari scorrono tutte le altre immagini che rafforzano la sacralità magica dell’oracolo delfico: gli Ateniesi, detti figli di Efesto, poiché Erittonio, il loro re, aveva fatto inviare un corteo che aprisse la strada ad Apollo per i luoghi inospitali che portavano al Parnaso; la descrizione della grotta Coricia in prossimità della vetta del monte consacrata alle ninfe; Bromio-Dioniso signore della contrada, la cui presenza comporta anche un richiamo alla trilogia eschilea delle Baccanti.219

Ancora una volta l’inizio della tragedia segna l’introduzione dello spettatore ai temi che saranno oggetto di riflessione nella vicenda rappresentata. Ma nel caso delle Eu. si tratta di articolare il passaggio in una dimensione soprannaturale che è preparatoria alla presenza delle Erinni. E questo senso del prodigioso, legato all’arte divinatoria che si svolge sul Parnaso e allo stato di possessione in cui la Pizia compie le sue funzioni, si sintonizza con l’atmosfera che il poeta intende recuperare all’inizio della tragedia.220

Anche il pezzo legato al manifestarsi del favsma procede in questo senso, mettendo lo spettatore in contatto con un livello più profondo della realtà, e nel discorso di Clitemnestra non manca il riferimento esplicito a una ritualità notturna (vv. 106-109) all’interno della quale si evocano le Erinni.

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Per meglio comprendere la pertinenza di questi riferimenti con il contesto che abbiamo definito, vale la pena ricordare che: Erittonio era strettamente collegato con la natura ctonia (il mito, seppure vi siano versioni differenti, ci racconta del suo aspetto di serpente); la grotta Coricia (Kwruki;ı pevtra) evoca pure la sfera delle potenze ctonie, in quanto le grotte erano considerate i luoghi di accesso all’ al di là, abitati da creature legate al mondo divino e demoniaco. La figura di Dioniso, quale signore del paesaggio, evoca pure il potere vivificante che è nella natura e rimanda quindi alla dimensione ctonia e all’origine delle forze soprannaturali. E il dato che si riferisce alla morte di Penteo introduce il motivo della fine violenta di un empio, la cui azione ricade pesantemente sulla sorte del gevnoı. Un tema che sta al centro dell’Orestea e che nelle Eu. riceve nuovo impulso attraverso la riflessione sulla giustizia e la riabilitazione di Oreste. E c’è anche un richiamo all’ambito sacro cerimoniale: il corteo che ha scortato Apollo ai tempi di Erittonio e che si ripete ogni due anni in occasione delle feste Pitiche (e attraverso questo dato lo spazio civico di Atene si lega alla dimensione cultuale di Delfi e si crea un nesso che in qualche modo prepara al cambio di scena che si avrà nel corso della tragedia, dall’interno del tempio di Delfi a quello di Atena); le cerimonie in onore di Dioniso che consistevano in feste notturne celebrate sul Parnaso, anche queste ogni due anni. Il riferimento ai luoghi e alle divinità suscitava negli spettatori i nessi di una memoria religiosa che costituiva un elemento fondamentale nell’orientamento del loro immaginario: tra l’altro la dimensione sacra-cerimoniale è uno dei quadri in cui si svolge la rappresentazione a cui Eschilo da vita nelle Eu., tanto più che il rispetto dei principi religiosi viene richiamato nel corso di tutto il confronto con le Erinni e la loro integrazione nella comunità avviene proprio attraverso il coinvolgimento in una ricorrenza sacra.

220

Il prologo si conclude con l’augurio che la Pizia fa a se stessa perché gli dei le concedano un ingresso propizio. Pare che l’arte mantica comportasse dei rischi anche se quello della possessione è un tema controverso. Plutarco riporta la storia della morte di una sacerdotessa delfica vittima di spiriti malefici. Per questi aspetti dell’arte divinatoria si veda Dodds, il quale ipotizza per la Pizia lo stato di possessione, o.c., pp. 91-92, cap. 3, I divini doni della pazzia.

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Il personaggio di Clitemnestra, anche sotto le spoglie di fantasma, manifesta immediatamente un’incredibile vivacità. Nel successivo scambio di battute con le Erinni, anche per il fatto che le dee sono immerse nel dormiveglia per cui essa ha gioco facile a imporsi, Clitemnestra agisce in un condizione di concretezza pari agli altri personaggi. Il suo provenire dalla dimensione onirica è prontamente rovesciato di segno cosicché sono le Erinni ad apparire prigioniere del sonno e immobilizzate da questa condizione, mentre Clitemnestra ne risulta assolutamente svincolata.

La stessa chiusa con l’esortazione a tornare rivolta alle dee, rafforzata dall’uso di kalei§n alla fine dell’ultimo verso, rimanda all’idea di suscitare la presenza di qualcosa che si pone fuori della realtà. Che lo spettro di Clitemnestra approdi sulla scena senza che il poeta si serva di nessuna procedura particolare, come invece ad esempio era avvenuto per Dario nei Pers. ed Agamennone nelle Ch., è dovuto al fatto che siamo in presenza di un trapasso per così dire naturale entro una dimensione demoniaca che è condivisa da Clitemnestra e le Erinni a cui si rivolge. Si tratta di personaggi contigui. La manifestazione di questa alterità nei confronti del mondo umano e divino entro la quale operano le dee è un concetto che torna ad essere sviluppato nel primo stasimo a proposito del fatto che le Erinni hanno una sorte assegnata che attribuisce loro i compiti punitivi e che allo stesso tempo le obbliga a star lontane dalla riunione degli dei e dalla partecipazione ai banchetti (Eu. 349-352). Qui la separatezza delle Erinni dalla compagnia divina e umana si riflette ancora una volta anche sul loro aspetto: si dice infatti che non indossano candidi pepli, “palleuvkwn pevplwn” (l’aggettivo pavlleukoı, indica un bianco purissimo). L’immagine del banchetto rimanda peraltro al kw§moı evocato da Cassandra nell’A.: una scena di particolare orrore soprattutto per il dato delle libagioni di sangue che contraddistinguono le Erinni. Tra l’altro l’elemento del cibo cruento torna più volte a definire la natura delle dee: nella sezione iniziale delle Eu. esse si mettono sulle tracce di Oreste attraverso il fiuto del suo sangue. Vanno a tentoni all’interno del tempio di Atena e prima che alla vista lo cercano attraverso l’odore. Così per tutto il pezzo lirico che va dai vv. 254 a 275, che è una specie di preludio all’ossessione cantata nel primo stasimo, insistono sull’immagine del rosso libame che Oreste ha da offrire loro. Il suo sangue sarà un’atroce bevanda che da nutrimento, “boska;n feroivman pwvmatoı duspovtou” (266). E nei versi che introducono l’inno che lega torna la descrizione di Oreste come pastura di dèmoni, “bovskhma daimovnwn”, e vittima con cui si banchetta, e i verbi impiegati al v. 305

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sono daivnumi, che indica il celebrare banchetti, e sfageivı, da sfavzw, che si riferisce al sacrificio rituale e il cui senso è rafforzato dalla posizione enfatica a fine verso.

La natura incoercibile delle Erinni e il suo approdo nel mondo magico attraverso il primo stasimo passa anche per la precisione dei riferimenti cultuali che rafforzano i caratteri sconvolgenti della loro epifania.

Procediamo quindi nell’analisi, in questo inizio di tragedia, dell’ingresso graduale in una condizione alternativa alla realtà espressa dalle Erinni. C’è innanzitutto un complesso lavoro sulla parola che, prima di approdare all’uso magico del “canto che lega”, si fa veicolo della dimensione paurosa che introduce sulla scena le Erinni dormienti. E ciò avviene sia sul piano sintattico sia su quello morfologico: il linguaggio subisce una trasformazione fino a diventare uno strumento disarticolato in bocca alle dee.

La parodo delle Eu., anche se è improprio definirla così visto che le dee sono già presenti in scena, si svolge attraverso una serie di suoni che cercano di riprodurre una sorta di primitivismo linguistico, un “pre-linguaggio” che ben si lega alla natura delle Erinni e a ciò che viene rappresentato: le Erinni stanno dormendo e lo stato di torpore impedisce loro di esprimersi chiaramente.221

Questi suoni a partire dal v. 118 sono definiti come mugmovı (mugolio) ed wjgmovı (gemito). Al v.129, l’indicazione di scena dice “mugmo;ı diplou§ı ojxuvı” (mugolio acuto per due volte) a cui segue la prima frase articolata dalle Erinni dall’inizio della tragedia: “labe; labe; labe; labev: fravzou” (Prendi, prendi, prendi, prendi: sta’ attento), che tuttavia è ancora un non-sense e si pone di là dalla formulazione di un vero e proprio linguaggio.

Che il mugolio delle Erinni venga a rappresentare qualcosa di più profondo di un semplice tratto descrittivo di superficie, lo si nota subito nel momento in cui Clitemnestra, al primo mormorare delle dee, che così rispondono alla sua chiamata dal sogno, usa il verbo muvzein che per l’appunto deriva dal sostantivo indicante il loro mormorio. Essa stabilisce così, a inizio di verso, uno stretto collegamento

221

L’introduzione di questi suoni avviene per mezzo di parepigrafaiv, indicazioni di regia probabilmente del poeta stesso. Si tratta fra l’altro di un procedimento assai raro in tragedia ma ciò non ci autorizza ad espungere le didascalie sceniche.

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con quanto ha appena udito. L’intreccio tra onomatopea e fonosimbolismo nel dialogo tra le Erinni e Clitemnestra è rivelatore della particolarità dei personaggi presenti in scena.222

Se consideriamo la parodo, ovvero quando le Erinni si alzano dai seggi subito dopo il rimprovero di Clitemnestra, per quanto non si tratti più di mugolii o gemiti, la parola risulta in ogni caso inserita in un gioco di ripetizioni che a livello fonico rimanda alle strutture di una sorta di proto-lingua e ai moduli dei riti funebri, in cui la manifestazione del dolore si basa sull’iterazione dei fonemi. E a questo potere straordinariamente evocativo della parola che può influenzare gli avvenimenti e su cui il poeta insiste nel corso di tutta la tragedia (si pensi all’uso della sticomitia da parte delle Erinni, un modulo che consente di rilasciare una forte carica di aggressività) accenna anche Apollo nel prologo. C’è qui un riferimento alla capacità di azione della parola e alla fascinazione magica che è in grado di esprimere. Nel suo intervento, che segue immediatamente allo spavento della Pizia, Apollo informa Oreste dell’istituzione ad Atene del processo e dice che in quell’occasione, attraverso parole che danno incantamento, troverà i mezzi per liberarlo del tutto dagli affanni. Ora, queste qelkthrivouı muvqouı (vv. 81-82), parole o discorsi che incantano, (qelkthvrioı, è ciò che affascina e che mitiga) si pongono come argine all’azione delle Erinni. Qui il valore magico della parola è di senso oppositivo rispetto a quello evocato dalle dee nell’inno attraverso cui esse cercano di imporsi, legando Oreste alla loro ossessione.223

Veniamo quindi al primo stasimo, intonato dalle Erinni dopo il primo cambio di scena. Si tratta della famosa “binding song” (uJvmnoı devsmioı) attraverso cui le dee fanno l’incantesimo a Oreste, nella quale vi è un uso fortemente evocativo della parola come strumento magico. Tra l’altro, lo scolio al

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E’ quanto ci segnalano anche gli scoli tricliniani. Lo scolio al v. 118 ci dice: ajpo; tou§ mugmou§ to; muvzein parhvgagen. ejvoike de; eij§nai oJ mugmo;ı kai; mwgmo;ı ajphvchmav ti tw§n uJpnouvntwn, “dal mugolio ha fatto derivare il mugolare. Il mugolio [mwgmovı forse come forma alternativa a mugmovı o perché lo associa ad wjgmovı] sembra essere un qualche verso dissonante di chi sta dormendo” ; e a 124: wjvzeiı: wJvsper para; to; aij; aijavzein givnetai, ouJvtw kai; para; to; wj; wjvzein, “come da aijv viene il verbo del mugolio, così anche da wjv viene il verbo del gemere” (Scholia

graeca in Aeschylum quae exstant omnia, edidit Ole Smith, Teubner, 1976). Il verbo muvzein viene tra l’altro ripreso al v. 189 delle Eu., quando Apollo si rivolge alle Erinni invitandole ad andare là dove si praticano punizioni particolarmente crudeli, quali la mutilazione dei corpi. In particolare si evoca il lamento di chi si trova ad essere impalato: muvzousin oijktismo;n polu;n/ uJpo; rJacin pagevnteı, “mugghiano con prolungato lamento i condannati sui pali”. Tutto il passo tra l’altro si regge sull’uso di termini molto rari indicanti la presenza di un contesto che i Greci dovevano sentire lontano da loro. E infatti evidentemente Eschilo guarda al mondo abitato da popoli non greci, per sottolineare ancora una volta l’alterità delle Erinni, facendole risaltare sullo sfondo di un contesto distante nello spazio e per la cultura che esprime, così da sfuggire alle norme codificate dalla società greca.

223

Su Eu. 81 si veda il commento di A. H. SOMMERSTEIN, Eumenides, p. 97. Cf. l’espressione usata da Clitemnestra per accogliere l’arrivo di Oreste alla reggia (Ch. 670), anche qui con riferimento agli affanni, povnwn=Eu. 83.

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v.303 spiega il canto come un qualcosa a cui non è possibile replicare: scholia e.g.S Aesch. Eu. 303: oujk ajpokrivnh°: hj; ajnti; tou§ oujde; ajntifwnhvseiı moi, ajlla; sou§ boulomevnou lalei§n to; fqevgma deqhvsetai.

“Non rispondi?: in alternativa, tu non mi risponderai più, ma se desideri parlare la tua voce sarà legata” .

L’impiego del ritornello per i primi due efimni e, all’interno di questi, l’utilizzo della paratassi, cioè la descrizione per accumulazione che fa a meno dell’articolazione sintattica, confermano le intenzioni del poeta di creare una Ur-Wahrnehmung, un’atmosfera attraverso cui manifestare la profonda complessità della percezione.

Questo l’efimnio dello stasimo:

ejpi; de; tw§° tequmevnw° tovde mevloı, parakopav, paraforav frenodalhvı, uJvmnoı ejx jErinuvwn devsmioı frenw§n, ajfovr- miktoı, aujona; brotoi§ı

E tra l’altro il ritornello, oltre a chiamare in causa lo stato di follia, cui dedicheremo il prossimo capitolo, per descrivere l’ossessione prodotta dalle Erinni, ha agganci precisi con il terzo stasimo dell’A.

Innanzitutto il canto è definito fin dall’inizio stugerovı, un elemento che richiama le connotazioni negative del canto che il Coro dell’A. sente volteggiare sul suo cuore, e che nella strofa successiva si precisa come qrh§noı, lamento funebre. E nel ritornello questo dato è ripreso attraverso l’espressione “inno d’Erinni / che gli animi incatena” che rimanda al qrh§noı delle Erinni nell’A. Si tratta inoltre di un canto ajfovrmiktoı, “senza cetra”, come nello stasimo dell’A. si diceva che era “ajvneu luvraı”. Inoltre anche qui tutto quello che si ha sentore provenga dalle Erinni è descritto attraverso l’uso della negazione. Si nega una realtà che non si conosce e che suscita sorpresa e sgomento. Di un inno cantato dalle Erinni aveva parlato Cassandra (A. 1190-1192), sentendo la loro presenza nella casa degli Atridi

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(duvspempoı era detta la brigata delle dee e il loro inno è rivolto ad Ate che tutto genera, uJvmnou§si d j uJmnon dwvmasin proshvmenai/ prwvtarcon ajvthn). Nelle Eu. il canto ossessivo trova concreta rappresentazione sulla scena per bocca delle Erinni. Qui sono le dee stesse che descrivono gli effetti della loro presenza. E nel refrain non manca l’iterazione fonica, in particolare per i primi tre versi, con la ripetizione dei fonemi /t/, /th/, e /p/ e che si ritrova anche nell’ultima coppia strofica, dove si insiste sull’uso del prefisso dus-.224 Un modulo che, lo abbiamo già rilevato anche a proposito della parodo, caratterizza i rituali funebri.225

E sul canto del primo stasimo si sofferma anche Sewell-Rutter. In particolare lo studioso cerca di individuare un rapporto con i moduli della defixio, un tema su cui torneremo più avanti attraverso il confronto con documenti del tardo ellenismo. La defixio infatti è una delle forme principi attraverso cui si manifesta l’azione dei poteri magici, indirizzandoli a un oggetto e a uno scopo preciso. Egli sostiene che gli elementi magici specifici delle defixiones vengono riprodotti soltanto in un luogo della tragedia, e precisamente in questo primo stasimo delle Eu. ma non manca di rilevare delle differenze

224

A. LEBECK, o.c, cap. 17, The first Stasimon: The Lot Assigned to Victim and Avenger. Connette il canto che lega delle Erinni nel primo stasimo delle Eu. al modello delle defixiones, riti di maleficio attestati su un lunghissimo arco temporale e che sono divenuti il simbolo stesso della magia. All’interno della sua analisi dell’Orestea, dedica un intero capitolo al primo stasimo delle Eu. e si concentra soprattutto sul concetto di sorte, lavcoı, che è sia quella assegnata alle Erinni in quanto incaricate di attuare la punizione sia quella che spetta al colpevole (il sostantivo infatti deriva da lagcavnw e dunque indica ciò che si ottiene, la parte assegnata in rapporto alle azioni). Questo discorso sul destino, occupa uno spazio importante nello stasimo, tanto più che le Erinni nella prima antistrofe parlano del lavcoı che è stato loro assegnato dalla Moira, creando anche una giustapposizione tra divinità che ne risalta la comune antichità e rimanda a una parte piuttosto remota dell’immaginario greco (ricordiamo i nessi da noi analizzati, presenti nell’Il., tra le Erinni, la Moira e l’ordine di natura). Secondo la Lebeck, la descrizione della legge del destino rafforza lo scopo del canto delle Erinni, che è quello di tessere un incantesimo di paura e follia attorno a Oreste. “The theme of the first ephymnia, that fear by which they [Erinyes] appall the guilty, here returns with dignity increased. By telling of their lavcoı and that of their victim, by describing the law which governs both, they have pursued their victim, by describing the law which governs both, they have pursued their original purpose: to weave a spell of fear and madness round Orestes”.

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Sul divenire inarticolato del linguaggio a causa di un’emozione incontrollata che sovrasta l’utilizzo dei nessi logici si pensi ad es. al grido luttuoso con cui Cassandra fa sentire per la prima volta la sua voce, dopo un lungo silenzio che ha caratterizzato la sua presenza sulla scena (un comportamento di fronte al quale il Coro aveva detto che poteva esserci bisogno per lei di un interprete chiaro, A. 1062 “eJrmhnevwı ejvoiken hJ xevnh torou§ dei§sqai”). Il grido del v.1072, “ojtotototoi§ povpoi da§”, iterato nell’attacco della successiva antistrofe, è rivelatore dell’ansia e del presagio di morte che investe il personaggio (lo stesso grido risuonerà dall’interno della casa in bocca ad Egisto nel momento dell’uccisione, Ch. 869). E c’è un pezzo che somiglia al procedimento deverbalizzante che ho messo in evidenza a proposito del dialogo tra lo spettro di Clitemnestra e le Erinni:

Ka. Feu§ feu§

Co. Tiv tou§t j ejvfeuxaı, eijv ti mh; frenw§n stuvgoı; Cassandra: “Ahi, ahi!”

Coro: “Perché mandi questi gemiti, se non per qualche orrenda visione della tua mente?” (A. vv. 1307-1308).

L’onomatopea viene richiamata al verso successivo dal verbo che ne ripete il suono, quasi che l’interlocutore voglia farsi interprete e riportare all’interno delle regole linguistiche, un’espressione che se ne pone fuori.

Sull’alterità delle Erinni e i moduli magici che si accompagnano alla loro apparizione, V. DI BENEDETTO,

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di grado. Il canto delle Erinni riprodurrebbe non solo il modulo delle defixiones ma specificamente le numerose “binding spells” (lett. incantesimi che legano) volti a invalidare le reazioni di un avversario durante un processo. La binding-song inoltre si accompagna alla musica e alla danza, mentre nella defixio questi elementi vengono meno, sebbene non si debbano escludere aspetti performativi legati alla creazione e all’interramento delle tavolette su cui erano scritte le maledizioni. Infine si sofferma sull’eclettismo e l’accostamento insolito di parole e nomi di divinità che sono aspetti comuni di questi documenti almeno nell’ellenismo e nel tardo ellenismo (sebbene in effetti manchino nel V sec. a.C.). Questa caratteristica risulta assente dallo stasimo. Tuttavia, e qui prendo le distanze da Sewell-Rutter, non si dovrà ignorare il protolinguaggio con cui le Erinni si destano sulla scena (che introduce, lo si è detto, a una dimensione più profonda della realtà e rappresenta un momento estremamente creativo della parola) e l’uso di particolari moduli espressivi all’interno dello stasimo, indirizzati a rafforzare il senso di ossessione.226

La defixio è uno strumento che realizza una progettualità di morte entro il quadro di una operatività magica. Si ricordi inoltre che la “binding song” del primo stasimo raccoglie ed esprime l’incalzante angoscia e tensione i cui indizi sono disseminati per l’intera trilogia. Il “peana dell’Erinni” (A. 645) e il “peana del morto” che Elettra invita il Coro a intonare sulla tomba del padre (Ch. 151 in cui risuona foscamente l’espressione usata dall’araldo nell’A.) viene realmente intonato dalle dee nelle Eu. ed è un elemento degno di nota che, per rappresentare sulla scena la reale manifestazione della carica emotiva disseminata dalle Erinni fino a questo punto, Eschilo scelga i moduli dell’espressione magica. Per concludere questa riflessione sul legame tra Erinni e mondo magico, vorrei ora analizzarla in tre fonti abbastanza lontane nel tempo dalla poesia tragica ma che contengono tutte riferimenti al mondo dei morti e all’immaginario mostruoso e sconvolgente che lo popola.

Si tratta di due iscrizioni sepolcrali, l’una proveniente da Paro, l’altra di area calcidese, e di un inno magico. In tutti i testi viene chiamato in causa l’intervento delle Erinni, sebbene, lo si vedrà nell’analisi, con sfumature diverse in ognuno dei tre contesti. L’unico elemento comune è che l’Erinni

226

S.-R., o.c., cap. 3, Curses, pp. 49-77. Lo studioso traccia pure una differenza tra la maledizione e la defixio. Le maledizioni si appoggiano tendenzialmente ai poteri delle divinità olimpie, lavorano coestensivamente ai diritti dell’individuo e sono operative soltanto dove è stata fatta ingiustizia. Esse avrebbero inoltre una natura pubblica in quanto verrebbero pronunciate e talora scritta pubblicamente. L’autore di una defixio non si appella alla giustizia

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può provocare la morte. Soprattutto ciò che vorrei rilevare è la vicinanza o meno coi i toni delle defixiones e dell’incantamento, di segno negativo, che la presenza delle Erinni o la minaccia del loro manifestarsi, è in grado di produrre. E cogliere in che misura fosse considerata la figura delle Erinni nel tardo ellenismo: ridotte alla stessa stregua di altre creature demoniache, senza alcuna caratteristica peculiare, oppure divinità ctonie che conservano intatto il loro potere che continua a conferire loro una centralità vitale nel ruolo di punitrici, in grado di minacciare i vivi. E’ interessante come la figura delle Erinni emerga all’interno di consuetudini magiche e di una ritualità funebre che attestano, nel passare dei secoli, la duratura vitalità di queste figure.

E cominciamo dall’iscrizione di Paro, datata al II sec. d.C. Siamo di fronte a un documento estremamente raffinato e dai toni commossi che descrive la morte di una giovane madre. Responsabile del triste evento sarebbe l’Erinni del parto che ha provocato un’ emorragia (aijmoruvtoio novswi, una “malattia emorragica” è detto nel testo) e ha impedito al bambino di venire alla luce.

Socratea, la donna in questione, imparentata all’aristocrazia di Paro, viene ricordata attraverso l’epigrafe che le dedica il poeta Dioniso, omaggio voluto per lei dallo sposo Parmenione “in ricordo per la bella vita e per coloro che saranno”.

A trent’anni, dopo aver dato due bambini maschi “al padre e amabile compagno di letto”, l’Erinni è venuta a uccidere il terzo figlio e la madre. Colpisce la semplicità e allo stesso tempo il tono accorato con cui l’epigrafe fa arrivare a noi la voce della defunta. Il racconto del triste evento è toccato con grande delicatezza: in appena una frase veniamo informati dell’intervento delle Erinni che si associa all’immagine del bambino rimasto nel ventre materno (“e l’Erinni del piccolo neonato da cui nessuno può difendersi/ mi sciolse la dolce vita con una malattia di sangue:/ né sotto i miei lamenti condussi alla luce il piccolo,/ ma si nasconde nel mio caro ventre tra i trapassati”).

Riportiamo di seguito il testo:

Fravze, tivnoı gonevwı, sevo t jou]noma kai; povsin au]da, kai; crovnon eijpev, guv <gu> nai, kai; povlewı o]qen ei§j.

«Neivkandroı gen[ev]twr, patri;ı Pavroı, ou]noma de; h§jn moi

divina, invoca divinità ctonie e il potere cui fa riferimento è di tipo magico. Le defixiones si esercitano in un ambito circoscritto all’individuo.

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Swkravtea, fqimevnhn Parmenivwn de; ejqeto

suvnl[e] ktroı tuvmbw° me, Cavrin dev moi wjvpase thvnde eujdovxou zwa§ı mnh§ma kai; ejssomevnoiı:

kaiv m kaiv m kaiv m

kaiv m[eeee ] pikra;n nearoi§o brevfouı ajfuvlaktoı jEpikra;n nearoi§o brevfouı ajfuvlaktoı jEpikra;n nearoi§o brevfouı ajfuvlaktoı jEreinu;ıpikra;n nearoi§o brevfouı ajfuvlaktoı jEreinu;ıreinu;ıreinu;ı aiJmoruvtoio novswi terpno;n ejvluse bivon

aiJmoruvtoio novswi terpno;n ejvluse bivon aiJmoruvtoio novswi terpno;n ejvluse bivon aiJmoruvtoio novswi terpno;n ejvluse bivon:

oujvq juJp j ejma§iı wjdei§si to; nhvpion eijı favoı hj§gon, ajll j uJpo; gastri; filai keuvqetai ejm fqimevnoiı: trissa§ı ejk dekavdoı de; pro;ı eJ;x ejtevwn crovnon hj§lqon ajndri; lipou§sa tevknwn ajrsenovpaida gonavn:

dissa; de; patri; lipou§sa kai; iJmertw§i [ s ] unomeuvnwi aujta; uJpo; tritavtwi tovnde levlonca tovpon ».

jAlla; suv, pambasivlha qeav, poluwvnume kouvra, thvnde avjge ejp j eusebevwn cw§ron ejvcousa cerovı. Toi§ı de; parercomevnoisi qeo;ı tevryin tina; dwv°h Eijvpasin caivrein Swkravtean kata; gh§ı.

Dionuvsioı Mavgnhı poihth;ı ejvgrayen.227

E’ un ritratto di espressività particolare e insieme soffusa, che coglie il momento della mancata maternità e del venir meno del legame che unisce agli affetti.

C’è allo stesso tempo un’attenzione al dettaglio medico, con l’accenno alla sintomatologia delle doglie e al flusso emorragico, che crea un interessante accostamento con la responsabilità dell’incidente attribuita all’Erinni. E questa Erinni sembra iscriversi all’interno di un insieme di credenze che pone l’attività di dèmoni femminili all’origine della morte dei bambini e delle partorienti.228

Ora, sebbene si possa pensare che l’autore dell’epigrafe abbia presente questo tipo suggestioni, probabilmente legate alla religiosità popolare, e per quanto si possa arrivare anche ad ammettere che egli volontariamente giochi a suscitarne l’eco, direi tuttavia che la divinità appare qui sotto una veste abbastanza generica delle sue funzioni e sia piuttosto un’immagine letteraria, il richiamo da parte di un autore colto di un motivo della tradizione.

227

IG XII, 5, 310. 228

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Perciò non concordo con l’interpretazione della studiosa Sarah Iles Johnston che utilizza questo documento per rafforzare la sua tesi che fa delle Erinni le dee della sterilità, del sentimento frustrato di diventare spose e madri.229

Socratea è una donna sposata e ha già avuto due figli. Quindi l’Erinni non interviene in quanto la sua natura è sterile o perché vive nella condizione di parqevnoı. Né si dice che la dea si manifesti per invidia: l’aggettivo che la qualifica è ajfuvlaktoı, “da cui non ci si difende”, che indica piuttosto ineluttabilità ed è neutrale per ciò che concerne i motivi dell’assalto.

Nel documento di Paro non si tratta di definire uno stato di possessione ad opera della divinità: nell’ambito di una visione tardo ellenistica basata sull’incertezza del vivere e l’ostilità degli dei, l’Erinni è responsabile della malattia e « scioglie la vita » attraverso il flusso emorragico del parto. Si aggiunge quindi un altro elemento all’articolato immaginario di cui le dee fanno parte: l’essere responsabili o l’agire in concomitanza delle affezioni del corpo. E notiamo che emerge un motivo sostanzialmente diverso da quello del diritto violato del genitore che suscita l’intervento della divinità. Qui è il bambino nel grembo materno a volgere l’azione dell’Erinni contro la madre e questa situazione non è certo innescata da un torto subito.

E veniamo all’iscrizione funebre di area calcidese, risalente al III sec. d. C. Parla Amficle, maggiorente della stirpe di Ferecide e probabilmente dotato di incarichi sacri o comunque personaggio particolarmente pio (dice infatti di aver compiuto spesso in vita i bagni lustrali). L’iscrizione ammonisce a non profanare il suo sepolcro, pena l’infermità del corpo, sotto forma di febbre, paralisi, cecità e follia, la dispersione dei beni, la mancanza di discendenti, e la morte con le Erinni come guardiane: ejpiskovpouı de; ejvcoi/ jEreinuvaı:

Ai toni della defixio, segue la bella sorte che spetta a chi vigilerà sulla tomba, il quale avrà per custodi le dee della salute Chàris e Igea.230

Nel tardo ellenismo le Erinni continuano ad essere indicate come le dee della punizione che disfano il patrimonio della casa e gli affetti e custodiscono chi commette empietà e in generale azioni che contravvengono alle norme morali codificate dalla società. E anche in questo caso si vede affiorare il

229

Sulle riflessioni di S. I. JOHNSTON veda quanto ho già scritto al cap. 3 p. 54 n. 99. 230

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nesso tra empietà, malattia, manifestazione delle Erinni che ha la sua controparte in un comportamento corretto che genera prosperità e salute.

Quanto all’ultima delle fonti che vogliamo passare in rassegna, l’Inno 25, datato al III sec. d. C., contenuto nella raccolta dei Papyri graecae magicae, edita da Karl Preisendanz, il testo si sviluppa attorno all’invocazione degli dei che abitano il mondo dei morti e degli ajvwroi, coloro che hanno perso la vita anzitempo. Si tratta di un elenco di epiteti e aggettivi che contribuiscono a creare l’atmosfera di oscurità e paura necessaria al compimento della preghiera.

Chi recita l’inno chiede l’intervento dell’Erinni dei defunti “che sveglia col fuoco”, perché scuota dal sonno la vittima di chi lancia la maledizione. L’inno magico rientra nell’ambito rituale delle defixiones.

Questo il passo che riguarda l’Erinni:

pevmyon d j jErinuvn, jOrgogorgonistrivan, yuca;ı kamovntwn ejxegeivrousan puriv

Il mandante dell’Erinni è una divinità dal nome incomprensibile, jErescigavl Neboutosoualhvq (forse ancora un epiteto di Persefone?) che il verso precedente indica come Borforofovrba kuriva, l’attributo che più sopra è riservato a Persefassa trikavrane, nuciva, borborofovrba, parqevne,/ kleidou§ce, Persevfassa, Tartavrou Korh,/ gorgw§pi, deinhv, puridrakontovzwne pai§.

Evidentemente, anche qui i nomi e in generale le parole tentano di descrivere la dimensione magica in cui vengono pronunciati (tutto l’inno infatti è giocato sulla « creatività magica » della parola). Gli aggettivi sono per lo più costruiti sulla ripetizione sillabica: così anche per le Erinni, la cui caratteristica risulta intraducibile ed è affidata alle capacità evocative dei suoni (qualcosa che sembra aver a che fare con la Gòrgone).231

Lo stato di possessione, si è detto, è qui collegato alla presenza delle Erinni che si fanno intermediarie della volontà di chi le invoca: esse svegliano dal sonno la vittima che diviene preda del tormento dell’autore della preghiera.

231

Hymn. 25, Zauberhymnen dai Kestoiv di Iulius Africanus, Pap. XXIII, III sec. d. C. Papyri graecae magicae, K. PREISENDANZ, vol. II, Teubner, 1974.

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Evidentemente, si tratta di un mondo demoniaco in cui compaiono molte personificazioni di aspetti legati al fato e agli accidenti che portano alla morte, come si vede nell’elenco di divinità che compare all’inizio del testo: Moivraiı, jAnavgkaiı, Baskosuvnaiı, Loimw§°, Fqovnw°,/ fqimevnoiı ajwvroiı, biomovroiı.

In queste tre fonti, all’interno di contesti in cui si intrecciano motivi differenti, vengono evocate le Erinni. Ci troviamo ancora una volta a rilevare la molteplicità delle tradizioni relative a queste dee e alle situazioni cui è associata la loro presenza. Ora, questi testi non ci dicono quale grado di impressione suscitasse realmente la menzione delle Erinni. Ogni fonte va analizzata e va lasciata parlare per le caratteristiche che le sono proprie. Pensiamo all’evocazione del mondo demoniaco nella cosiddetta Nekyomanteia di Luciano di Samosata che raccoglie una serie di luoghi comuni letterari sulle discese agli inferi: il caldeo Mitrobarzane accompagna Menippo nell’aldilà e compie per lui il rito di evocazione dei dèmoni e delle Erinni che poco dopo compaiono accanto al giudice Minosse. Ironia, sicuramente, e gioco letterario. Secondo Dodds, alla fine dell’età imperiale era particolarmente diffusa tra le masse la paura della possessione demoniaca, e parla di un ritorno dell’irrazionale e della vittoria della paura.232 Per quanto concerne la menzione delle Erinni nei documenti più tardi, a me pare che non si possa parlare di semplice richiamo formale alle figure di un mito ormai vuoto di significati. Le forme di una rappresentazione non sono mai neutre e ciò a maggior ragione per delle divinità che sembrano attraversare tutta la cultura greca e che si pongono all’incrocio di una serie di aspetti complessi quali l’idea di colpa, la morte e il destino.

Una complessità che pure il culto doveva aver recepito e riflesso. E si tratta di un immaginario, quello che ruota attorno alle Erinni, che rimane vivo a lungo e altrettanto a lungo mantiene la sua polivalenza. Per quanto riguarda la realtà magica, in termini generali essa ci permette di risalire a una dimensione della vita umana che esprime un elevato livello di drammaticità. Come ha sostenuto Ernesto de Martino, l’uomo è un prodotto storico la cui genesi si situa nell’età magica. La magia testimonia il dramma dell’uomo di fronte alla realtà: nel momento in cui si sente minacciato essa gli consente di servirsi di una serie di tecniche per salvarsi.233

232

E. R. DODDS, o. c., cap. 8, Il timore della libertà, pp. 312-313. A testimoninza delle sue affermazioni cita ad es. le credenze nel potere protettivo degli amuleti, PMG, VII, 311.

233

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Dunque, l’elemento magico è la spia di una crisi e contemporaneamente il tentativo messo in campo per risolverla. Ma questa dimensione magica non si situa in un tempo che si coglie nella lontananza dal presente, come su una linea immaginaria in cui le età della storia si dispongono in successione: il senso del primitivo che la pratica magica porta con sé non rappresenta un semplice movimento all’indietro ma si pone come coordinata che dal profondo è in grado di attrarre nella realtà aspetti che l’uomo è portato a rigettare e di fronte ai quali è impotente.

Quando Eschilo fa parlare le Erinni attraverso mugolii e suoni inarticolati non compie un’operazione coloristica ma vuole creare una suggestione in cui i moduli di una cultura arcaica, la cui temporalità tende a porsi nell’indeterminatezza, si caratterizzano per la loro forza espressiva in modo da accentuare l’alterità in cui si pone l’operare delle Erinni.

Le Erinni, esprimendosi secondo i moduli di una proto-lingua che elude ogni articolazione sintattica, e intonando il canto che lega nel primo stasimo delle Eu., attraverso il quale si manifesta la loro appartenenza a un mondo magico, non ci mettono solo in comunicazione con una dimensione arcaica, primitiva in senso cronologico, ma approfondiscono i livelli non immediatamente osservabili o comprensibili della realtà, rilevando come ciò che si pone in maniera alternativa rispetto ad essa continuamente insidia da vicino quello su cui ci sembra di esercitare il nostro pieno controllo.

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