1. Biocenosi: l'animalone che è lo scill'e cariddi
Il centro del racconto che si dipana in Horcynus Orca è senza dubbio lo scill'e cariddi1, con le sue storie e gli usi che accomunano i suoi abitanti; si tratta di uno spazio fondamentale non solo perché sfondo della vicenda raccontata, ma soprattutto per il complesso di valori etico-simbolici che il romanzo vi attribuisce.2 Il significato e i modi in cui questo spazio si mostra, di conseguenza, sono stati sottolineati da molti interventi critici che non hanno mancato di indicare come lo scill'e cariddi venga a più riprese presentato da D'Arrigo come un grande essere vivente, un “animalone”:
['Ndrja] sentì sulla faccia una leggerezza d'aria, l'oscurità davanti sgombra di case, e il respiro del grande animalone gli soffiò all'orecchio e gli girò intorno come un filo sottile, in giri e giri di fili di bava che si pietrificava, come filamenti di una conchiglia che andavano e venivano con gli echi della sua animazione misteriosa e immensa. Se lo immaginò così, lo scill'e cariddi, con una sensazione fisica strana di disorientamento, come non lo ricordasse più come e dove era o come non fosse più, a causa di qualche nuovo, nuovo e ogni volta sempre peggio, terremoto, o più precisamente terremaremoto, dove e come lui lo ricordava, un animalone sgomentevole che col suo squasso di respiro occupava ogni tenebra, passaggio, apertura o spiraglio tra lì e l'isola.3
oppure
1
L'indicazione del luogo con la lettera minuscola, frequentissima nel romanzo, potrebbe servire, secondo Beniamino Fioriglio, “per indicare un luogo comune, familiare quasi, spogliato della sua identità geografica nazionale”; nell'incertezza dell'interpretazione lascio anch'io le iniziali minuscole, appoggiandomi una volta di più alle scelte di D'Arrigo. Cfr. B. Fioriglio, Dialetto e metafore marine nel romanzo “Horcynus Orca” di Stefano D'Arrigo, in I dialetti del mare. Atti del Convegno Internazionale in onore di M. Cortellazzo, Chioggia, Settembre 1996, Unipress, Padova, 1997: pp. 386-399.
2 Cfr. anche N. D'Agostino che parla di un “omphalos” art. cit.: pp. 44-8.
3 HO p. 148. Qui lo scill'e cariddi è visto dalla Calabria, precisamente dal Paese
Lo scill'e cariddi respirava ancora sonnoso sonnoso e infantino, fra delicate sfumature di colori: chi l'avrebbe detto che là nel profondo lo bazzicava un orcaferone?4
Lo scill'e cariddi è costituito innanzitutto dal mare, presenza costante che può essere descritta anche come una grande divinità umanizzata che amministra la vita dei pescatori, per esempio nelle parole dell'Acitana, madre di 'Ndrja:
«Non gli mostrate sprezzo [al mare], per carità, Granvisire. Fatelo per amor mio, non schifatelo così azzardosamente, ché potrebbe farci pentire... »
E il Granvisire:
«Ma come? Dovrei usargli riguardo, per giunta, a quel lazzariatore delle nostre carni? […] forse lo riguarda la carestia dello scill'e cariddi? È talmente grande, lui, che nemmeno gli va il pensiero allo scill'e cariddi... »
E l'Acitana:
«Vi fa tornare, Granvisire, questo so, di questo non mi scordo. Sinché vi consente di tornare, sinché vi rivedo, bello vivo, che mi tornate in grazia sua, Granvisire, ve lo giuro, anche faglio, agli occhi miei mi sembra che pescaste tutti i pesci del mare. Per farvi una idea, Granvisire, vi dico questo: se il mare fosse un mendico spiaggiante, piagato, coperto di croste, infetto e puzzolente, e un giorno mi comparisse qua davanti sotto queste apparenze, io lo farei accomodare sopra sedia e cuscino, gli laverei i piedi e quell'acqua che mi servì per lavarglieli, me la berrei sorso a sorso in faccia a lui, senza mostrargli schifo o disgusto, un sorso per ogni volta che vi fece tornare, un sorso per ogni volta che vi farà tornare. Questo farei, Granvisire, se il mare mi comparisse in persona qua davanti. Perché vi fece tornare finora, perché vi faccia, sempre, vi faccia, Granvisire...».5
Il mare regola la vita e la morte dei pescatori secondo un ritmo che è quello del suo respiro, dell'andamento regolare delle onde e i due ritmi si assomigliano fino a sovrapporsi:
4 Ivi p. 883. Ma cfr. anche pp. 83-4 in cui si insiste sulla capacità maturata da
'Ndrja di riconoscere quel mare e di allisciarne il pelo.
[mentre 'Ndrja si addormentava] gli risorgeva all'orecchio il rumore magno del mare. Gli pareva allora di lasciare per sempre il mondo bombardato dalla dolcezza di quel rombo che saliva alla 'Ricchia sino a sotto il suo materasso steso fra le sedie, sino oltre il tramezzo, sotto il letto dell'Acitana e di Caitanello: gli pareva anche che madre e padre e figlio, con tutte le loro grandi pene e tutte le loro piccole illusioni, scomparissero a poco a poco, rapiti in quella eco dolce e tremenda che andava e veniva, su e giù, si alzava ai lati del letto, ai piedi, alla testa, li chiudeva, li isolava, su e giù, ora era una culla, ora era una bara, ora il rombo soffocato, abissale della loro vita, ora il silenzio fragoroso, assordante della loro morte6.
Come il mare, anche il sole e la luna regolano la vita dei pescatori, che riconoscono i loro movimenti come quelli di un qualsiasi conoscente
Luigi Orioles ancora scuroscuro […] faceva premura ai pellisquadre, dandogli la posizione del sole con la luna: allestitevi, giovanotti, ché va salendo sopra all'Aspromonte quel malandrinone, e sta nottambula vagabonda si pigliò di pallore a sentirlo dall'Antinnammare e subito si alzò le vesti per scapparsene più lesta7
In tempo di guerra, però, il mare per i pescatori non è più vita, ma solo un simbolo di morte: la morte dei cadaveri che le onde portano in braccio ma anche quella causata dall'assenza di barche e pesci e dalla parallela eccedenza di fere, i malefici delfini. Il romanzo inizia mentre 'Ndrja, reduce sbandato, è in Calabria alla ricerca di una barca per passare lo stretto: a causa della guerra, però, tutte le barche sono state affondate, ed è come se fosse stata sepolta nel fondo dello Stretto qualsiasi speranza di vita per i pellisquadre;
Ci voleva coraggio a parlare di barca a chi gli pareva che gli fosse morto anche il mare: il mare che gli strisciava lì allato, come un cagnone sciampagnino in apparenza, ma di fatto come un cagnone bastonato, vecchio piagato, rifiatante di
6 Ivi p. 470. 7 Ivi pp. 532-3.
morte, che gli sbavava dietro passopasso8
In questo brano, in particolare, il senso di morte che spira dal mare è quello che accompagna gli spiaggiatori, figure di mendicanti morti-vivi che si trascinano lungo le spiagge della Sicilia9, ma in tutta la prima parte del libro il cambiamento del mare è un tema fondamentale, che emerge dai colloqui con i personaggi incontrati da 'Ndrja e culmina nel monologo ossessionato di Ciccina Circè10. Possiamo usare come esempio inverso la descrizione idillica della 'Ricchia nella prima alba dopo il ritorno di 'Ndrja, la cui sospesa tranquillità è tale da richiamare imperiosamente alla sua mente il tempo dei giochi con i suoi amici, come se in quelle acque niente fosse cambiato:
Di sopra, dalle case, non veniva ancora segno di vita, e la vallatella di sabbia, brillante di scaglie nere, stava immersa alle sue spalle in una solitudine d'ombre, in un'aria, tenera e molle, di rugiada spruzzata sopra i nascondigli dallo scirocco.11
La spiegazione di questo cambiamento del mare viene data a 'Ndrja solo a metà del romanzo, dal padre Caitanello che gli racconta dei disastrosi effetti della battaglia di Messina nello Stretto:
I pellisquadre vedevano sotto di loro lo Scill'e Cariddi massacrato. Lo vedevano con la sua anima di sale allo scoperto: sui suoi ricci e sulle sue frange ondose, dove non appariva macchiato dalle grandi bolle nerastre e rosseggianti di nafta e sangue che scolavano sulle rive incatramandole in lunghi orli neri, vedevano galleggiare di lassopra come un velo di latte, un quaglio, una patina bianchiccia che né rema calante né rema montante riuscivano a staccare e trascinarsi dietro […]. Quella vista, che per un verso era addolcita e per un altro incrudelita dalla distanza, ai pellisquadre dava come una languidezza mortale: ed era naturale, perché quello, lo scill'e cariddi, per
8 Ivi p. 86.
9 Per un'analisi dettagliata del personaggio dello spiaggiatore cfr. E. Giordano,
Femmine folli, cit.: pp. 205-223.
10 Cfr. HO pp. 344-359 e sgg.
loro era l'essere più smisuratamente vivo che conoscessero, e se era morto lui, come poteva essere ancora vivo chi fu sempre e solo un proforma di vivo, chi campò sempre selle sue mollichelle di vita? loro insomma, come potevano campare loro, minutaglie di quella vita all'ingrosso? che campavano a fare più?
Ma non era morto e glielo comprovavano le fere […]12
Possiamo notare che, se nei brani precedenti il mare veniva rappresentato come un grosso animale o una presenza divina, qui invece assomiglia vagamente ad un essere umano, richiama quasi i colori di un corpo colpito dalla peste: nero e rosso sangue su un biancore mortale13.
Già nelle parole dello spiaggiatore, all'inizio del libro, era stata preparata un'immagine simile:
Lo scill'e cariddi rossiava ancora di sangue o fiammeggiava avvampato di nafta, qua e là appariva ancora, con le onde bianche come lenzuoli, tutto impallidito, sfaccìato di morti (…): ogni nuova onda che arrivava di mare aperto, da Malta o dalle Isole, pareva pigliarsi di spavento, e allora s'agitava, s'ingolfava, si ritraeva, scappava come una ninfa impressionata14.
Nel confronto fra i brani risalta l'assenza del nero, colore simbolo della peste: infatti all'altezza dell'incontro con lo spiaggiatore il tema dello stravolgimento e della “malattia” dello scill'e cariddi non è ancora stato approfondito del tutto.
Per scill'e cariddi non si può intendere soltanto il mare: sebbene la distesa d'acqua con i suoi movimenti e i suoi colori ne siano l'elemento
12 Ivi p. 499.
13 Potremmo anzi localizzare un'allusione alla peste manzoniana, confermata da
una piccola concordanza: il “languor mortale” che offusca la bellezza della madre di Cecilia (p. 747) assomiglia alla “languidezza mortale” che prende i pellisquadre guardando il mare dall'alto. Ma il contesto di uno e dell'altro romanzo non sembrano dare adito che a questa vaga rassomiglianza; cfr. A. Manzoni, I promessi sposi, a cura di R. Luperini e D. Brogi, Einaudi Scuola, Milano, 1999.
cardine, di esso fanno parte anche la striscia di costa che lo stringe, i pesci e gli altri animali del mare, gli esseri umani che fra terra e mare si muovono e perfino lo scirocco nelle sue diverse varietà che segna il passare delle stagioni. Con le parole di Marabini lo scill'e cariddi è “una specie di spirito delle cose e dei luoghi”, “tutto ciò che appartiene alla natura del luogo, insomma, alla sua vita fisica, alla sua personalità”15. Lo spirito del luogo sembra però realizzarsi, in questa lettura critica così vicina all'uscita del libro, in una “suggestione statica”, uno “spirito immobile e continuamente incombente” che bloccherebbe ogni tentativo di 'Ndrja di ribellione contro lo status quo; e se è innegabile che questo senso di impotenza sia chiaramente percepibile in tutto il romanzo, questa parte dell'interpretazione non mi trova d'accordo – così come non mi sembra che l'elemento unificante del duemari sia, come sosteneva Pontiggia16, la metamorfosi che sconvolge il paesaggio e intacca la coscienza dei pescatori: la guerra.
Nel luogo particolare dello scill'e cariddi gioca ovviamente un ruolo centrale il mare, punto di contatto di tutti gli elementi di questo microcosmo ma anche forza motrice che li coinvolge in un ciclo eterno e regolare. Né la guerra né i maremoti possono disturbare veramente l'arrivo dello scirocco nelle sue diverse varietà e le migrazioni dei pescispada che si presentano regolari ogni anno e ogni anno vedono pellisquadre e fere “abitué” contendersi le “belle carni” mentre le specie più piccole (sarde, falchi, cacciaventi, pescatori femminoti...)
15 C. Marabini, cit.: pp. 55-58.
16 Cfr. l'Introduzione all'edizione del 1992 di Horcynus Orca, ora in Un eroe
sopravvivono con le briciole della battaglia, anche le fere sono una parte ineliminabile dello scill'e cariddi:
quando quella bella razza d'infami ladrazze e schiattacuori, per una qualsiasi causa, sempre però momentanea, non si vedevano pomponelliare, sopra, sotto, fuori, sentro, per lo scill'e cariddi, sembrava allora, parola d'onore, che il panorama non fosse al completo, si aveva come l'impressione d'un senso di vita non interamente pieno.17
Così lo scill'e cariddi si presenta come un ecosistema unitario in cui l'umanità non è che una componente del tutto, elemento non fondamentale né dominante: “minutaglie di una vita all'ingrosso” che combattono per la propria sopravvivenza. Come dice don Luigi Orioles a 'Ndrja:
«[noi pellisquadre] siamo gente che lotta la vita col più barbaro nemico che esista, il mare, nemmeno a dirlo, gente che giorno per giorno battaglia, si duella, si collutta corpo a corpo con questo barbaro nemico, che tutto, in tutta la sua pericolosità, non si conosce mai per potersi parare d'ogni sua mossa, e semmai si arriva a conoscerlo tutto è a prezzo della stessa vita.»18
Lo scill'e cariddi si presenta come un complesso, come uno spazio in cui la convivenza delle diverse specie è dettata dalla necessità e segue la regola della reciproca sopportazione: si potrebbe definire come una biocenosi, ovvero, secondo la definizione del Grande Dizionario della Lingua Italiana una “associazione di animali che vivono in un ambiente determinato (nel terriccio, sotto le foglie cadute, tra i muschi)”19; preferisco questo termine all'alternativo “ecosistema”, cioè “l'insieme degli animali e dei vegetali di un'area e l'ambiente fisico-chimico che li
17 HO p. 810. 18 Ivi p. 821.
19 Grande Dizionario della Lingua Italiana a cura di S. Battaglia, Torino, UTET,
circonda”20 perché il primo comporta una sfumatura di più stretta localizzazione nello spazio e mi pare indicare più chiaramente l'insieme dei rapporti e delle relazioni fra i comportamenti dei vari esseri viventi; inoltre nell'idea di “associazione” risiede forse anche l'idea di una cooperazione ai fini di un disegno comune (la sopravvivenza, ovviamente), idea che può essere applicata con qualche cautela anche agli abitanti dello scill'e cariddi. Nemmeno il concetto di “microcosmo”21 mi sembra che possa andare bene, perché porta con sé il riferimento a una realtà più grande che funge da modello22 oppure una (seppur vaga) idea di ordine23: in entrambi i casi non mi sembra applicabile allo scill'e cariddi.
La biocenosi del Duemari sembra un luogo “tutto pieno”, non dissimile da come appare il mondo nella produzione di Carlo Emilio Gadda24: nello scrittore milanese, però, lo spazio è riempito dalla percezione dei minimi esseri viventi e delle forze biologiche, chimiche e fisiche che muovono il cosmo, mentre qui, per esempio, “verme di terra” è uno dei peggiori insulti e non si fa nessun accenno alla nobiltà del suo lavoro, alle grandiose o minuscole forze con cui questo si combina
20 Ivi, Supplemento 2004. 21 Ivi, X, Mee-Moti.
22 Cfr ivi: “Luogo, città, regione, centro abitato, gruppo sociale, nucleo familiare,
ambiente per lo più con interessi e orizzonti limitati o particolari che riflettono le caratteristiche fisiche, climatiche o sociali, morali e culturali dello stato o dell'organismo più vasto a cui appartengono o, anche, del mondo intero”.
23 Cfr. ivi: “Parte minima, ma completa e organica, di una totalità; unità singola”. 24 Mi riferisco alle considerazioni di Carla Benedetti in Lombrichi, batteri e
uomini, in “Il primo amore”, n. 2 “Il dolore animale”, ottobre 2007: pp. 123-135 e i n La storia naturale in Gadda, in “Italies Narrative”, No 7, ed. Marie-Hélène Caspar, Université Paris X – Nanterre, 1995: pp. 71-89.
modificando il mondo. Non mi sembra che per Horcynus Orca si possa parlare di un fondale astratto, irrelato con gli eventi e i personaggi, ma nemmeno di un fondale tutto-pieno di natura, mancano soprattutto le riflessioni di origine scientifica tese a ripercorrere la storia degli oggetti, che mi sembrano figlie naturali della nostra era tecnologica; questo è più chiaro confrontando, per esempio, la cascata dei gioielli rubati in Quer pasticciaccio brutto di via Merulana (e le riflessioni che ne scaturiscono a proposito della loro origine nei meandri della terra) rispetto a quello che Caitanello pensa e prova nei confronti del pugnaletto marocchino di cui si arma per combattere contro le fere: anche quello è una sorta di gioiello di famiglia, che stimola il ricordo quasi fiabesco di come il nonno di 'Ndrja, Andrea, se lo fosse guadagnato facendo da mozzo su una nave mercantile25. Se nel primo caso i gioielli hanno una propria storia autonoma e misteriosa alle spalle, i n Horcynus Orca questa storia ha importanza da quando e in quanto si intreccia con lo scill'e cariddi e i suoi abitanti, si perde nelle lontananze favolose dei ricordi.
Che il primo romanzo di D'Arrigo faccia riferimento a un'era diversa dalla nostra moderna non emerge in modo evidente dall'esempio che ho appena fatto, mentre mi sembra che risulti palese se si prende in considerazione il rapporto che le comunità umane instaurano con gli animali in quanto esseri viventi. In questo senso appare forse più chiaro perché abbia scelto di parlare di biocenosi: l'insieme dei rapporti paritari fra gli esseri viventi costituisce una parte importantissima dell'immagine che viene al lettore da questo romanzo, una parte fondamentale dell'idea
di scill'e cariddi che D'Arrigo vuole comunicare.
Questo rapporto alla pari è lontanissimo dal nostro atteggiamento verso la natura ma resta quasi sempre implicito; già Angelo Romanò notava che “ogni cosa, non l'uomo, è misura di tutte le cose”:
tutto ciò che accade è rifranto e ripercosso per ogni dove, sulle altre figure, sugli animali, sul cielo e sul mare.26
Inoltre, accostando alcuni piccoli indizi possiamo leggere chiaramente quel “sentimento di comunione con l'animale” che appartiene alle popolazioni che devono la loro sopravvivenza alla fauna:
«Noi sappiamo ciò che fanno gli animali, quali siano i bisogni del castoro, dell'orso, del salmone e delle altre creature, perché, una volta, gli uomini si sposavano con loro e quindi hanno ricevuto questo sapere dalle loro spose animali […]». Si ha qui una bella espressione di quel sentimento di comunione con l'animale che si ritrova in tante società umane in cui la caccia è rimasta un mezzo primario di sussistenza e in cui persistono comportamenti biocenotici ritualizzati che si traducono in pratiche intese a permettere il mantenimento e la riproduzione della selvaggina della zoocenosi. Del resto l'eccesso di caccia e di pesca (overhunting, overfishing) non sono forse «malattie della civiltà»?27
Proprio in tema di predazione possiamo notare questo scontro fra due diversi concetti della natura: i pellisquadre, infatti, non usano i sistemi di pesca consigliati dai “riattieri” provenienti dalle città in virtù, mi pare, di un rispetto profondo e non razionale della natura, quindi rifiutano senza spiegazioni la distruzione provocata dalle “bomboatte” cioè:
boatte di pomodori, che i lazzaroni […] usavano per bombardare a mare, massacrando pesci, uova e lattume di pesci, senza salvare nemmeno la madre28.
26 A. Romanò, art. cit.: p. 97.
27 J. Barrau, Animale in Enciclopedia, Einaudi, Torino, 1977: pp. 576-589, in cui si
cita un'intervista agli indiani Carrier.
28 HO p. 869. Le bomboatte sono considerate “malazioni” come togliere il pane
Oppure, se interpreto bene, il cacciatore Saverio Gullì dice che non osa sparare alle quaglie posate ma solo a quelle in volo affinché “come un bengala”29 siano di avvertimento per tutte le altre, che possano scappare. Ma anche il diverso atteggiamento nei confronti della natura dell'Eccellenza fascista e del signor Monanin nei due “casobelli” del delfino contro fera, di cui parleremo più avanti, implica un rapporto diverso, un desiderio di appropriazione che risulta incomprensibile agli occhi degli abitanti dello stretto. L'antropocentrismo, a cui la nostra crescente dominazione sulla natura ci ha portato, in questo romanzo non c'è, o si mostra in minima parte, attribuito a personaggi che appartengono a una sfera negativa.
Nello scill'e cariddi la potenza misteriosa della natura viene chiamata in causa in una posizione di potere assoluto, cioè di fronte alle popolazioni che da lei dipendono e che non possono opporvisi; il mare è l'elemento che meglio rappresenta questa dipendenza impotente anche attraverso i suoi animali enigmatici, quasi invisibili e invincibili dall'uomo privato della barca. Gli esseri umani che abitano lo Stretto, infatti, modificano in minima parte il paesaggio che li circonda, subiscono le avversità del clima e le angherie del destino con un'impotenza e una rassegnazione non dissimile da quella degli altri animali, solamente marcate da una minore incoscienza; di fronte a eventi straordinari, a guerre o maremoti, si ritirano sulle montagne come i pesci sul fondale e aspettano tempi migliori, quindi ritornano alle loro case, riparano ai danni più grossi e ricominciano, faticosamente, a vivere;
questa concezione del mondo fa sì che lo sguardo con cui si rivolgono agli altri esseri umani, estranei allo scill'e cariddi, sia lo stesso che userebbero per ignote specie animali: curiosità e spontanea diffidenza.
Il fatto che queste popolazioni sembrino crescere in un tempo “vicino alle epoche del sacro e della poesia”30 non significa che le genti dello Stretto siano rappresentate come esseri primitivi o assimilati al mondo dell'istintualità31: l'uso della parola o, meglio, del logos all'interno della comunità è evidente e coinvolge non solo questioni di stretta necessità ma anche discussioni più sottili, quasi filosofiche, come quella fra il signor Cama e don Mimì sulla natura delle sirene oppure i “pro e contro” che la presenza dell'orca stimola fra il Delegato di Spiaggia e don Luigi Orioles32. Si può citare anche la separazione radicale fra il principio del “vistocogliocchi” come base per una valutazione positiva della realtà e il “sentitodire”, forma di conoscenza fallace: possiamo far risalire senza fatica quest'opposizione agli albori della storiografia greca nella distinzione che fa Erodoto fra !"#$%&!, ovvero ciò che è stato visto con i propri occhi, e '($) cioè le notizie desunte dai racconti ascoltati.
È uno strano e nuovo tipo di società sopravvissuta quella che ci troviamo di fronte, un gruppo sociale che proviene da un mondo arcaico e combatte la sua ultima battaglia con la modernità, l'ultimo scontro con il mondo della “cultura”33.
30 N. D'Agostino, art. cit.: p. 30.
31 Per un'interpretazione dell'animalizzazione dei personaggi che si risolve in
questo senso, cfr. C. Terrile, I racconti di Tommaso Landolfi o l'animalità condivisa, “Rivista di letteratura italiana”, anno 2000, n. 1 gen-apr: pp. 51-64.
32 Cfr. C. Marabini, cit.: p. 44.
33 Si potrebbe indagare più a fondo la somiglianza fra questo romanzo e
Benedetti34 sottolinea come nelle opere di Gadda sembrino rincorrersi due voci, l'una egoisticamente concentrata sui mali del suo destino, l'altra tesa a raccontare la complessità e la grandezza della natura, rispetto a cui i piccoli mali dell'uomo non sono niente:
l'osservazione del mondo naturale, della sua complessità di nessi e interrelazioni, insegna all'uomo a percepirsi come parte della vita e del tutto, e a correggere così la sua assurda pretesa di spiegare il mondo a partire dal suo punto di vista, che è inevitabilmente parziale.35
Anche in Gadda la descrizione degli animali e degli altri elementi naturali è realizzata in modo particolareggiato e realistico, talvolta caricandoli “di un senso di misteriosa significazione” fino ad elevarli a simboli; queste descrizioni ricorrono con una frequenza insolita rispetto agli altri scrittori del novecento, soprattutto considerando che anche le creazioni degli uomini, normalmente distinte in quanto opera della cultura, vengono considerate allo stesso modo, “come mirabili elaborati della natura, della natura operosa che è nell'uomo”36.
In D'Arrigo mi sembra di poter trovare una concezione del mondo molto simile, che si differenzia però sotto almeno due punti di vista. Innanzitutto manca la percezione prospettica delle moltitudini degli uomini al lavoro, e con questa l'idea di un intero mondo che si perpetua nei secoli. I n Horcynus Orca viene descritto un angolo particolare del cosmo escludendo dal racconto la storia generale dell'uomo – anche se da questo angolo l'autore può elevarsi a parlare di temi universali come
umana si dibatte fra l'irruenza della modernità e delle forze della natura. Cfr. anche N. D'agostino, art. cit.: p. 29.
34 C. Benedetti, La storia naturale in Gadda, art. cit. 35 Ivi p. 72.
la crescita e l'amore, la morte e la sofferenza. Mentre Gadda esalta la molteplicità di tutto il mondo fenomenico D'Arrigo si concentra sulla complessità di una sua frazione, e per esprimerla cerca una lingua corretta, fedele, unica; in Horcynus Orca l'autore seleziona un piccolo mondo, lo chiude in se stesso e poi lo fa “esplodere”, illuminandone le relazioni interne e la capacità di espansione ma conservandone l'unità e la compattezza. Come per l'autore milanese, inoltre, nella descrizione del mondo rientrano necessariamente anche le opere dell'uomo nella veste delle storie e dei miti che si sono depositati nel luogo in questione, delle lingue che ne sono passate; la tecnologia e le sue produzioni vengono accettate probabilmente come produzioni spontanee della natura dell'uomo, svincolate dalla società cittadina da cui provengono: la città infatti è il luogo da cui provengono tutte i peggiori rappresentanti del genere umano, è uno spazio pieno solo di macerie37.
Mentre le scelte di Gadda sono sostenute dalla sua cultura filosofica, non è ancora ben chiaro quali motivazioni e necessità abbiano portato D'Arrigo alla scrittura di questo romanzo; la mia idea è che per l'autore la scelta di questa particolare frazione dello spazio-tempo abbia implicato l'applicazione di un particolare modo di vedere il mondo; qui tutti gli esseri viventi hanno la stessa importanza, sono fatti della stessa materia e non sono radicalmente diversi dalle divinità, l'ambiente stesso è come un grosso animale e la realtà non è distinta, in fondo, dalle visioni,e dai sogni38.
37 Cfr. Ivi pp. 1222-1223 su Messina, ma una cosa simile è detta anche di Villa
San Giovanni e Reggio Calabria ivi p. 951.
38 Infatti Romanò interpreta tutto il romanzo come un lungo sogno o il delirio di