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20 Considerazioni metodologiche Adriano Ferrari, Manuela Lodesani

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Academic year: 2021

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20 Considerazioni metodologiche

Adriano Ferrari, Manuela Lodesani

Agli importanti miglioramenti compiuti in campo clinico per la prevenzione, la dia- gnosi precoce e quando possibile il trattamento, ancora contenitivo più che emendati- vo, delle lesioni del sistema nervoso centrale (SNC), si stanno affiancando, se pur con una latenza non sempre giustificata, altrettanti progressi nell’ambito della rieducazione del bambino affetto da paralisi cerebrale infantile (PCI). I motivi del ritardo con cui i miglioramenti della clinica si traducono in progressi della fisioterapia e delle discipline ad essa collegate (psicomotricità, terapia occupazionale, logopedia, ortottica) sono da ricercare in due fattori. In parte dipendono dalla scarsa possibilità di contatto fra i due ambienti (ospedaliero e specialistico il primo, con giustificate esigenze di concentra- zione, territoriale e pluralistico il secondo, con evidenti necessità di capillarità e osmo- si verso famiglia, scuola e società) ed in parte derivano dalla difficoltà di aggiornare, se non di stravolgere, tanto i principi e le tecniche (cioè le culture), quanto i servizi e l’or- ganizzazione (cioè le strutture) che fino ad ora hanno progettato ed erogato l’interven- to rieducativo nelle PCI.

La scarsa possibilità di contatto fra ambienti ospedalieri ed ambienti territoriali e di questi ultimi fra di loro ha favorito un approccio metodologico alla PCI molto disomo- geneo. Non solo fra ente ed ente (Azienda Unità Sanitaria Locale AUSL, Istituto di Ri- covero e Cura a Carattere Scientifico IRCCS, Associazione Italiana Assistenza agli Spa- stici AIAS, Fondazioni, Centri convenzionati, ecc.) e fra sedi geografiche diverse di uno stesso ente, ma anche all’interno di una stessa istituzione fisica l’approccio terapeutico alla PCI può risultare molto differente. In alcuni casi si applicano metodi con l’eponimo (Doman, Kabat, Vojta, Bobath, Petô, ecc.) appresi attraverso corsi dedicati o per “pas- sa parola”; in altri casi si combinano vari metodi fra loro all’insegna di un eclettismo che nasconde il più delle volte la mancanza di idee o quanto meno di opinioni; altre vol- te non si applica alcun metodo e si affida tutto l’intervento terapeutico alla sensibilità e alla fantasia del fisioterapista. Qualche volta questa soluzione si rivela vincente perché più adatta ai reali bisogni del singolo soggetto, più frequentemente purtroppo no, per- ché la terapia finisce per essere un’inutile mobilizzazione passiva o al massimo assisti- ta del paziente, reiterata per anni in modo rituale e giustificata unicamente dall’incapa- cità di ognuna della parti in causa (medici, terapisti, genitori) di assumersi la responsa- bilità di smettere.

Nei percorsi terapeutici della PCI possono esserci ricorrenze, ma non ci sono co- stanti: la possibilità di scegliere fra più modalità di approccio può rappresentare una ricchezza, ma è bene tenersi lontani dalle formule prestabilite, dai percorsi obbligati, che irrigidiscono ed impoveriscono la complessità del problema terapeutico e rischia- no di condurre a scelte sbagliate. Esistono in ogni caso dei vincoli al nostro agire tera- peutico: è oggi possibile modificare le componenti periferiche o bottom up (contrattu- re muscolari, retrazioni muscolo-tendinee, deformità scheletriche, ecc.); è possibile

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condizionare le strategie utilizzate dal paziente (coping solutions) attraverso percorsi facilitati e guidati, simulazioni reali o virtuali, esposizione a stimoli significativi e a problemi mirati, ma non è ancora possibile modificare le componenti centrali o top down che presiedono all’organizzazione motoria (vedi cap. 14). Il pattern patologico, le sincinesie, le sinergie, l’ipertonia, ecc., restano elementi non modificabili, a volte ridu- cibili, addomesticabili specie attraverso i farmaci, ma mai annullabili completamente (vedi cap. 6).

Il manifesto per la riabilitazione e le linee guida

In questo panorama, la pubblicazione (2000) di un “Manifesto per la riabilitazione del bambino” ad opera di un gruppo di riabilitatori (medici e fisioterapisti) con interesse alla ricerca clinica e alla metodologia (GIPCI Gruppo Italiano Paralisi Cerebrali Infan- tili) ha fornito un primo importante contributo per definire cosa si debba intendere per riabilitazione all’interno della PCI e cosa vada invece ricondotto agli altri ambiti non meno importanti dell’educazione e dell’assistenza.

La riabilitazione è un processo complesso teso a promuovere nel bambino e nella sua famiglia la migliore qualità di vita possibile. Con azioni dirette e indirette essa si inte- ressa dell’individuo nella sua globalità fisica, mentale, affettiva, comunicativa e relazio- nale (carattere olistico), coinvolgendo il suo contesto familiare, sociale e ambientale (carattere ecologico). La riabilitazione si compone di interventi integrati di rieducazio- ne, educazione e assistenza.

La rieducazione è competenza del personale sanitario e ha per obiettivo lo sviluppo e il miglioramento delle funzioni adattive. Essa rappresenta un processo discontinuo e limitato nel tempo che deve necessariamente concludersi quando, in relazione alle co- noscenze più aggiornate sui processi biologici del recupero, per un tempo ragionevole non si verifichino cambiamenti significativi né nello sviluppo né nell’utilizzo delle fun- zioni adattive.

L’educazione è competenza della famiglia, del personale sanitario e dei professioni- sti del settore ed ha per obiettivo sia la preparazione del bambino ad esercitare il pro- prio ruolo sociale (educare il disabile) sia la formazione della comunità, a cominciare dalla scuola, ad accoglierlo e integrarlo (educare al disabile), per aumentarne le risorse e accrescere l’efficacia del trattamento rieducativo.

L’assistenza ha per obiettivo il benessere del bambino e della sua famiglia ed è com- petenza del personale sanitario e degli operatori del sociale. Essa deve accompagnare senza soluzioni di continuità il bambino e la sua famiglia sin dall’enunciazione della diagnosi di disabilità.

Al “Manifesto” ha fatto seguito la stesura di “Linee Guida” per la rieducazione del bambino affetto da PCI (2002), documento che, riconosciuto ufficialmente dalle socie- tà scientifiche dei medici fisiatri e dei neuropsichiatri infantili (i fisioterapisti sono an- cora in attesa dell’istituzione del loro ordine professionale, per cui non hanno potuto esprimere un parere di società ma solo di associazione), costituisce il primo esempio del suo genere realizzato in campo nazionale ed internazionale per guidare metodolo- gicamente l’intervento terapeutico. Le linee guida forniscono molte importanti “racco- mandazioni” su quando, come e per quanto tempo si deve procedere nel trattamento ri- educativo, ma restano una cornice di riferimento generale che ha bisogno di ulteriori approfondimenti in merito ai singoli strumenti operativi, perché la fisioterapia possa

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allontanarsi tanto da un empirismo che può nascondere l’ignoranza, quanto da un eclettismo che spesso cerca di rimediare all’incertezza e soprattutto dall’impiego dei metodi con l’eponimo che troppo spesso rivelano un ingiustificato integralismo.

Il “Manifesto” e le “Linee Guida” hanno aperto la strada, ma per poter procedere lungo di essa occorre rivedere e correggere vecchi principi terapeutici ed aggiungerne di completamente nuovi.

Vecchi e nuovi principi del trattamento

Il primo di questi vecchi principi da correggere è che la fisioterapia debba attingere i propri strumenti dallo sviluppo del bambino normale e debba trasferirli tali e quali al bambino con PCI. Abbiamo già sostenuto (vedi cap. 2 e cap. 19) che il bambino con PCI non può apprendere normalmente e non può apprendere la normalità, condizione che pur rappresentando un insostituibile modello teorico, non può costituire né lo stru- mento né lo scopo del nostro agire terapeutico.

Se accettiamo l’idea che la paralisi sia la forma delle funzioni messe in atto dal SNC del soggetto per rispondere ai bisogni che la crescita via via gli propone, le nostre pro- poste terapeutiche per avere successo dovranno essere coerenti con l’architettura della funzione considerata (vedi cap. 14), che è e resterà in ogni caso una funzione alterata, se pure in modo funzionalmente meno grave.

All’interno dell’architettura della funzione, alcuni elementi sono modificabili più o meno facilmente ed altri non lo sono affatto (vedi componenti top down, bottom up e coping al cap. 14). Ne consegue che il margine di modificabilità e non la gravità della paralisi dovrà costituire la misura del possibile in riabilitazione ed essere posto alla ba- se della presa in carico del bambino con PCI e del contratto terapeutico stipulato con la sua famiglia.

La presa in carico rappresenta idealmente un luogo di pensiero, uno spazio di ascol- to e di contenimento, un momento di supporto e di sostegno, dove possano essere ac- colti e considerati i molti problemi sofferti dal bambino con PCI e dalla sua famiglia e dove possano essere individuati e proposti gli interventi più idonei per affrontarli e ren- derli più tollerabili. Essa costituisce l’elemento di continuità dell’intero progetto riedu- cativo poiché lo accompagna longitudinalmente, dal momento dell’accoglienza e della stipula del contratto terapeutico alla dimissione dal servizio, e lo attraversa diametral- mente interessandosi del soggetto, della sua comunità e del suo ambiente. Solo in una sua porzione specifica, ma limitata nella potenzialità e soprattutto nella durata, la pre- sa in carico coincide con l’erogazione di interventi di chiaro significato terapeutico di- retti al bambino (fisioterapia) ed al suo nucleo familiare (counselling), ai quali sono de- putati operatori professionali titolati (fisioterapisti, neuropsichiatri infantili, fisiatri, psicologi). Per la restante parte, che in termini di durata e di complessità può essere considerata almeno quantitativamente la maggiore, la presa in carico, proprio per la so- stanziale incapacità dell’intervento terapeutico di risolvere radicalmente il problema della PCI, rappresenta un intervento di sostegno, tecnico ma non terapeutico, il più possibile ampio e adeguato (dall’accoglienza alla consulenza psicologica, dall’educa- zione all’assistenza ed all’accudimento), che accompagna il paziente per tutta la sua sto- ria riabilitativa, allo scopo di favorire uno sviluppo adattivo interattivo e reciproco in grado di estendersi dall’educare il disabile all’educare al disabile. La presa in carico può essere intesa allora come un’interazione di funzioni all’interno dell’équipe riabili-

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tativa, non essendo ambito dell’agire di una singola figura professionale (fisioterapista, neuropsichiatra infantile, fisiatra, psicologo, assistente sociale, ecc.), ma espressione di un processo messo in atto dal gruppo nel suo insieme (intervento multiprofessionale e interdisciplinare).

Il contratto terapeutico raccoglie a sua volta gli impegni assunti dal servizio verso la famiglia, cioè cosa ci sforziamo di modificare nello sviluppo delle funzioni adattive del bambino, in quale maniera, entro quanto tempo e verificando in quale modo il risulta- to è stato raggiunto. Il contratto vincola mutuamente anche la famiglia a fare proprie le indicazioni ricevute e a utilizzare gli strumenti consegnati (tecnici ed educativi) nel modo concordato e per il tempo stabilito. Resta evidente in questo contratto il ruolo centrale e attivo svolto dalla famiglia sia come committente sia come ideale destinataria dell’intervento terapeutico compiuto sul bambino (abilitazione dei familiari e consegna degli strumenti terapeutici).

La possibile modificabilità dell’architettura delle funzioni adattive è condizione strettamente necessaria ma assolutamente non sufficiente per il successo dell’interven- to terapeutico. La fisioterapia è una forma di insegnamento che presuppone da parte del bambino capacità di apprendimento. L’apprendimento in generale, e l’apprendi- mento motorio in particolare (vedi i cap. 6, 10 e 13), rappresenta dopo la modificabili- tà della funzione il secondo prerequisito perché il trattamento rieducativo possa avere successo.

A sua volta, la capacità di apprendimento motorio non è una condizione sufficiente se mancano da parte del bambino motivazione ed interesse, investimento e partecipa- zione (vedi i cap. 11 e cap. 12). La curiosità, la propositività, il bisogno di cambiare, la voglia di riuscire, il desiderio di migliorare sono altrettanti prerequisiti al trattamento rieducativo che il terapista può coltivare e accrescere ma non aggiungere o imporre al bambino.

Un ulteriore principio da rivedere nella rieducazione della PCI è l’idea che il proble- ma della paralisi sia prevalentemente motorio e che la fisioterapia si debba occupare principalmente se non esclusivamente di movimento.

Abbiamo già affermato con forza (vedi i cap. 6, 7, 13) che per migliorare il controllo motorio del bambino dobbiamo occuparci sia del versante esecutivo (moduli, prassie, azioni) sia di quello afferenziale (sensazioni, percezioni, rappresentazioni) all’interno di esperienze guidate che risultino significative per quel bambino e gli consentano di acqui- sire nuove capacità. La rieducazione delle componenti percettive della paralisi costituisce almeno metà del problema riabilitativo e presuppone soluzioni estremamente differen- ziate fra loro, poiché, come abbiamo visto, i difetti presenti possono essere l’uno l’oppo- sto dell’altro: la mancanza di sensazioni nella mano dell’emiplegico (vedi cap. 18), la loro mancata processazione nel diplegico “tirati su” (vedi cap. 16), l’incapacità di una rappre- sentazione nel neglect (vedi cap. 7), l’eccessiva raccolta di informazioni nell’intolleranza al carico di certi bambini diplegici (vedi cap. 17), l’intollerabilità delle percezioni legate allo spazio del bambino “cado-cado” (vedi cap. 16), gli errori commessi a livello di anticipa- zione percettiva che conducono a rappresentazioni errate cui consegue il mancato con- senso all’azione e quindi la rinuncia (vedi cap. 7). Il trattamento rieducativo per essere ef- ficace deve saper necessariamente affrontare il livello percettivo della paralisi non meno di quello motorio e risultare in entrambi i settori attivo ed adattivo. Come infatti il movi- mento deve essere ideato, pianificato ed eseguito dal soggetto perché possa modificare in senso adattivo la funzione, altrettanto attiva deve risultare la percezione perché essa sia in grado di scoprire le possibilità offerte dall’ambiente e utilizzarle a proprio favore.

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La terza dimensione della paralisi, l’intenzionalità (vedi cap. 13), è per sua natura at- tiva fin dal costituirsi della coscienza di Sé (vedi cap. 11). La terapia può solo far emer- gere gli interessi del bambino agendo opportunamente sul contesto ed offrendogli ade- guati modelli operativi. Il setting terapeutico acquista dunque in riabilitazione un pre- ciso significato: il luogo costituisce una facilitazione all’azione (vedi teoria delle affor- dance al cap. 7), gli oggetti in esso contenuti una facilitazione al loro uso appropriato (vedi ruolo dei neuroni canonici al cap. 6), il ruolo assunto dal terapista una facilitazio- ne al transfert (vedi cap. 11), le regole imposte all’azione una facilitazione al suo dive- nire adattiva (scopo, individuo, ambiente fisico, contesto sociale, sfera culturale), il modello offerto con il proprio comportamento una facilitazione al come progettare il movimento (vedi ruolo dei neuroni mirror al cap. 7) e al come pianificarlo (vedi cap. 8) quanto un’incentivazione all’interazione (vedi cap. 12).

L’esercizio terapeutico

Pur rappresentando il punto focale dell’intero processo rieducativo, non è semplice stabilire cosa dobbiamo intendere per esercizio terapeutico. Perfetti e Pieroni (1992) lo definiscono strumento del cambiamento in riabilitazione, ma questa specificazione ap- pare troppo generica e potrebbe ben adattarsi anche al concetto di setting o più in ge- nerale a quello di inserimento nel sociale. Per capire il significato del termine esercizio terapeutico nella rieducazione della PCI dobbiamo immaginare che da un lato esso si identifica con quello di manovra (opera della mano), vocabolo del tutto appropriato quando parliamo di facilitazione o di inibizione del movimento e pensiamo alle carat- teristiche operative dell’apparato locomotore, mentre dall’altro esso si sovrappone al concetto di compito, cioè di un’attività assegnata deliberatamente, costruita su misura e vincolata a uno scopo significativo e motivante per il bambino stesso.

Quando parliamo di manovra terapeutica dobbiamo accettare l’idea che un’attività ripetitiva di addestramento o di rinforzo, marcatamente direzionata dal terapista, non necessariamente partecipata o addirittura eseguita passivamente dal bambino, avente come obiettivo la forma del movimento, possa favorire la probabilizzazione di alcuni schemi motori piuttosto di altri, confidando nella loro successiva automatizzazione.

Quando invece parliamo di compito terapeutico dobbiamo considerare la motiva- zione del soggetto, la sua partecipazione, il suo impegno cognitivo, la sua esperienza, privilegiando alla fine il risultato dell’azione piuttosto che la forma dei movimenti adot- tati per realizzarla.

L’idea di fondo è che il terapista debba porsi degli obiettivi e quindi degli esercizi (compiti) quotidianamente nuovi (Milani Comparetti, 1985) e che l’esercizio terapeuti- co migliore sia quello che si usa una volta sola (Perfetti e Pieroni, 1992). Naturalmente, nella pratica, per favorire la capacità di apprendere, possono essere giustificate anche li- mitate ripetizioni di una stessa proposta, purché l’attività considerata resti significativa e gratificante per il bambino. È infatti ancora totalmente condivisibile l’affermazione che “qualunque esercizio fisioterapico risulti ripetitivo e senza senso diviene una vio- lenza inutile al bambino” (Milani Comparetti, 1985). D’altra parte anche le nostre mae- stre di scuola insegnano che le modalità di apprendimento più efficaci non sono basate sulla ripetizione di uno stesso movimento “… prestate attenzione e ripetete corretta- mente, cercando di ricordare quanto state facendo”, ma sulla soluzione di problemi (problem solving), purché questi siano significativi per il soggetto in relazione alla sua

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età, alla sua storia, al suo contesto di vita, ai suoi bisogni e per quanto possibile ai suoi desideri. Cercando di sintetizzare, possiamo affermare che l’esercizio terapeutico può essere allora considerato un mezzo per migliorare il risultato di una prestazione moto- ria intrapresa volontariamente dal soggetto per realizzare un determinato compito. La sola ripetizione o partecipazione ad un movimento guidato non bastano invece a defi- nire terapeutico quanto stiamo proponendo al paziente. La prevenzione delle deformi- tà e la cosiddetta terapia di mantenimento appartengono di conseguenza all’ambito dell’assistenza e non a quello della terapia, senza che per questo i terapisti siano auto- rizzati a considerarsi totalmente chiamati fuori dal problema (Ferrari, 2000).

Tre parole chiave possono sviluppare questa visione dell’esercizio terapeutico: in- tenderlo come un’esperienza significativa guidata (Ferrari, 1997).

Esperienza: conoscenza diretta, prodotto di un’attività intrapresa volontariamente dal soggetto su indicazione del terapista per raggiungere un risultato definito, realiz- zata adattando se stesso al contesto e al compito, interagendo positivamente con l’am- biente fisico e sociale e utilizzando nel modo più opportuno gli strumenti disponibili.

Significativa: capace di destare nel soggetto attenzione, interesse, partecipazione emotiva, impegno cognitivo, di facilitare l’apprendimento di una specifica abilità e di produrre soddisfazione per il risultato raggiunto e perciò meritevole di essere ricorda- ta e ripetuta. È la significatività dell’esperienza proposta in relazione alle capacità at- tuali e potenziali del bambino a conferire valore terapeutico all’azione del terapista.

Guidata: condotta secondo predefinite regole suggerite dal terapista al bambino per facilitargli il compito di identificare, fra le possibili soluzioni, quella più idonea allo sco- po.

L’esercizio deve produrre una modificazione stabile e migliorativa della capacità di agire del bambino: perché possa essere considerato terapeutico occorre che all’interno della libertà di scelta concessa dalla patologia sia riconoscibile la selezione operata dal soggetto (esperienza), in relazione alle regole stabilite dal terapista (guidata) e che il compito assolto e il risultato conseguito siano importanti per lui (significativa).

Non basta perciò far muovere il bambino e neppure evocare in lui emozioni piace- voli, per quante valenze positive queste possano avere sia in senso somatico sia psichi- co, per poter parlare legittimamente di terapia.

Poiché il gioco rappresenta la principale attività del bambino, il giocare e i giocatto- li, ancorché opportunamente selezionati, modificati e adattati devono costituire la tra- ma intima del trattamento rieducativo, perché al saper fare si accompagni il fare con piacere e questo conduca al piacere di fare (vedi cap. 13).

Obiettivi e strumenti del trattamento

Un principio da rivedere è quello che considera la conquista del cammino il principale, quando non il solo, obiettivo della riabilitazione. La capacità di stare in piedi e di cam- minare è certamente agli occhi dei genitori la meta più importante da raggiungere, ma in termini operativi la conquista di queste funzioni non presuppone di per sé l’acquisi- zione secondaria e scontata delle altre funzioni ad essa più o meno direttamente colle- gate.

La fisioterapia non può dunque essere un intervento “globale” con ricadute a pioggia su tutte le funzioni del bambino che sono state compromesse dalla PCI. Perché essa possa essere efficace deve essere analitica e mirata. La parola globale va riservata al

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progetto terapeutico, che non deve dimenticare alcuna area funzionale, non alla meto- dica terapeutica impiegata e neppure all’operatore tecnico che la applica (fisioterapista, psicomotricista, terapista occupazionale, logopedista, ortottista, ecc.).

Il trattamento deve affrontare con strumenti idonei i diversi disturbi prodotti dalla PCI nelle singole funzioni del bambino. Il controllo posturale, le diverse forme di loco- mozione e di manipolazione dovranno essere affrontate dal fisioterapista e dallo psico- motricista, quando necessario con l’aiuto del tecnico ortopedico, i disturbi del linguag- gio e delle altre funzioni corticali dal logopedista i disturbi visivi dall’ortottista, ecc.

Un altro principio da riformare è quello che riserva alla fisioterapia il posto di primo piano nella rieducazione del bambino con PCI. Altri rimedi terapeutici quali i farmaci sistemici (baclofene, tizanidina, dantrolene, ecc.), distrettuali (infusione intratecale di baclofene) o topici (tossine botuliniche, alcol, fenolo), le ortesi e gli ausili, la chirurgia ortopedica funzionale delle parti molli e dello scheletro, la chirurgia neurologica (rizo- tomie e radicellotomie) e funzionale (stimolazione nervosa profonda), non vanno con- siderati come soluzioni estreme da adottare solo di fronte al fallimento della fisiotera- pia, ma al contrario come straordinari strumenti in grado di potenziarne l’effetto.

Anche nell’analisi della spasticità, come di qualunque altro segno della PCI, occorre saper distinguere i difetti dai compensi (il pollice nel palmo rispetto alla semplificazio- ne del gesto), gli errori primitivi da quelli prodotti secondariamente (l’equinismo del piede rispetto alla flessione del ginocchio e dell’anca), lo stadio evolutivo raggiunto dalla funzione (l’interferenza adduttoria rispetto alla fissazione prossimale, l’equinismo di mid stance rispetto alla capacità di arrestarsi), la strategia messa in atto dal SNC del bambino (vedi coping solutions al cap. 6) rispetto a quanto abitualmente possibile in quella forma clinica.

Per l’impiego dei farmaci occorre allora chiedersi quale spasticità, in quale punto, per quale attività, in quale stadio, con quali ricadute sulle altre funzioni, ecc.

Il grande pregio del trattamento farmacologico resta comunque quello di fornire una soluzione ripetibile e reversibile, nel senso che se funziona si può ripetere o prose- guire, se non funziona o peggiora addirittura la situazione, si può sospendere con ga- ranzia di ritorno alla situazione precedente.

La stessa considerazione non può essere fatta invece per la chirurgia funzionale, la quale ha però dalla sua parte la possibilità di indurre delle modificazioni stabili e la pos- sibilità di graduare l’entità della modificazione prodotta nei singoli distretti, cosa più difficile da ottenere con i farmaci. Il concetto di dosatura della correzione nella chirur- gia funzionale non è ispirato alla prudenza o suggerito dalla peculiarità dell’età evoluti- va, stagione di continui cambiamenti, ma va rapportato alla misura delle modificazio- ni compatibili con l’organizzazione della funzione nel SNC e non solo a quelle realizza- bili negli apparati periferici deputati a produrla.

Anche le ortesi sono in grado di produrre sugli apparati di movimento modifiche adattive in grado di indurre bottom up (vedi cap. 14) con consenguente riorganizzazio- ne della funzione considerata. La stessa considerazione vale anche per gli ausili, che agi- scono invece o modificando gli strumenti perché essi siano più adatti a un individuo con limitati gradi di adattabilità o modificando l’ambiente perché le barriere non costi- tuiscano una limitazione alla partecipazione del soggetto alla vita sociale.

Farmaci, chirurgia funzionale, ortesi e ausili rendono possibile una diversa organiz- zazione delle funzioni, in particolar modo del controllo posturale, della locomozione in tutte le sue forme e della manipolazione. È quindi necessario che il trattamento fisiote- rapico interiorizzi questi strumenti e li valorizzi sia potenziandone l’effetto sia guidan- 20 • Considerazioni metodologiche 403

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do il bambino nella fase di rimodellamento della funzione. Si distingueranno quindi in- terventi rivolti allo strumento terapeutico (il trattamento postiniettivo del gastrocne- mio per la tossina botulinica o postoperatorio per allungamento del tendine di Achille, ad esempio) e interventi rivolti alla funzione (la rieducazione del cammino di quel bam- bino trattato farmacologicamente o chirurgicamente).

Il trattamento combinato della PCI (fisioterapia, farmaci, chirurgia funzionale, orte- si ed ausili) presuppone, per essere efficace, il cambiamento di un altro principio gene- rale: quello di considerare ogni segno in quanto tale senza collocarlo all’interno della lo- gica di apparato, di funzione, di strategia, di forma clinica, di stadio evolutivo.

Un piede equino riportato alla completa dorsiflessione può essere considerato un successo dal punto di vista anatomico, ma si rivela un fallimento all’interno di un arto inferiore in cui il ginocchio e forse l’anca non riescono a estendersi.

La correzione di un equinismo di stance migliora certamente l’allineamento e il bi- lanciamento del paziente, ma peggiora la reazione di sostegno e la resistenza comples- siva allo sforzo prolungato.

Il miglioramento della stazione eretta e dell’equilibrio statico ottenuto tramite la ri- duzione dell’equinismo peggiora la performance della marcia e l’equilibrio dinamico, se la strategia utilizzata dal soggetto era la velocizzazione.

La correzione dell’equinismo praticata in un bambino diplegico della prima forma (cap. 17) migliora la funzione cammino solo a condizione che sia associata all’impiego di tutori bassi di caviglia, Ankle Foot Orthosis (AFO); nella seconda forma dà sollievo al piede ma apre la strada alla flessione del ginocchio e all’abbattimento della resistenza (crouch gait); nella terza forma se realizzata prima che il paziente abbia imparato a fer- marsi senza appoggio può costringerlo a riprendere l’uso di ausili per gli arti superiori di cui aveva già imparato a fare a meno; nella quarta forma può penalizzare irrimedia- bilmente la capacità di correre, saltare, camminare velocemente, fermarsi e restare fer- mi in piedi, ecc., solo per citare qualche esempio.

Tutto è terapia?

Un ulteriore difficile principio da modificare è quello di considerare terapeutica ogni cosa venga prodotta a favore del bambino disabile: il bambino gioca, allora è ludotera- pia; va in acqua, allora è idroterapia; va a cavallo, è ippoterapia; ascolta musica, è mu- sicoterapia; partecipa con i compagni ad attività di animazione, è arteterapia, teatrote- rapia, ecc.

La terapia per essere tale deve essere scopo-contesto specifica: in acqua si diventa nuotatori, sul cavallo cavalieri, in arte pittori, musicisti, cantanti o attori, in nessun ca- so si impara a mangiare, manipolare o camminare se queste sono le funzioni che inten- diamo modificare.

Anche il principio di una terapia scopo-contesto specifica non è esente da critiche.

Perché un esercizio, un compito, un’esperienza guidata possano essere considerate te- rapeutiche è necessario che sappiano produrre delle modificazioni stabili, oggettive e misurabili.

Stabili significa che il bambino deve essere in grado di conservarle anche quando cessa l’intervento terapeutico che le ha prodotte. Altrimenti cadiamo nella trappola di una terapia di mantenimento che si rivelerà eterna.

Oggettive significa che le modificazioni devono essere riconoscibili agli occhi di tut-

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ti. Molti sono gli interventi che possono agire sullo stato soggettivo del paziente e che non per questo devono essere considerati trascurabili o privi di senso, ma se l’obiettivo della fisioterapia nella PCI è il recupero delle funzioni adattive è su queste che devono vedersi i cambiamenti ottenuti.

Misurabili significa che i cambiamenti ottenuti devono essere valutati attraverso strumenti sensibili in grado di rilevarli. È un passo essenziale perché anche per la fisio- terapia, come per qualunque altra forma di terapia, si possa parlare di medicina basata sull’evidenza (Evidence Based Medicine EBM).

La misurazione del successo del trattamento non può in ogni caso limitarsi a inda- gare la singola prestazione. La gait analysis esplora la performance del cammino ma non ci può dire se il paziente è diventato indipendente nella sua vita di relazione e se il miglioramento della marcia si è rivelato uno strumento utile in questa direzione.

Disabilità e ICF

Di recente (2002) l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha rivisto in chiave po- sitiva e propositiva i termini “Impairment”, “Disability” ed “Handicap” abbandonando l’impostazione del 1980 per una nuova formulazione dei loro rapporti: la ICF, classifi- cazione internazionale del funzionamento, della disabilità e della salute. Nella nuova formulazione, le interazioni tra i vari fattori che costituiscono la salute e la disabilità so- no diventate più complesse ed è stato attribuito un peso diverso anche agli elementi contestuali, sia ambientali sia sociali. La valutazione dello stato di salute comprende adesso i complessi rapporti esistenti tra corpo, mente, ambiente, contesto e cultura. I termini disabilità ed handicap sono stati sostituiti da attività e partecipazione sociale. Il termine menomazione correla ora con la funzione, il termine attività con l’esecuzione di un compito ed il termine partecipazione sociale con il coinvolgimento in una situa- zione reale di vita; i fattori personali raccolgono gli aspetti psicologici, affettivi e com- portamentali mentre i fattori ambientali comprendono gli aspetti del mondo esterno che formano il contesto di vita dell’individuo e come tali hanno influenza sul suo fun- zionamento (Janes, 2003). Questi fattori includono l’ambiente fisico e le sue caratteri- stiche, il mondo fisico creato dall’uomo, gli altri individui in diverse relazioni e ruoli, gli atteggiamenti e i valori, i sistemi sociali, i servizi, le politiche, le regole, le leggi (Janes, 2003). Ci serve dunque conoscere quale sia il contesto nel quale vive il bambino, quale sia lo stile educativo adottato dalla sua famiglia (considerando anche l’influenza delle multietnie presenti oggi nella nostra società), quali siano le relazioni, i desideri, i biso- gni del soggetto, quale il suo patrimonio culturale, ecc.

Il termine disabile aggiornato in “diversamente abile” ha già raccolto il consenso di molte associazioni di categoria ma nella nuova logica proposta dalla OMS non risulta ancora totalmente soddisfacente. Forse potrebbe essere sostituito più correttamente con la locuzione “limitatamente abile”. Mentre infatti l’avverbio “diversamente” conti- nua a sottolineare quanto vorrebbe invece far definitivamente superare e a dividere gli individui in due categorie, gli abili e quelli “diversamente”, l’uso del termine “limitata- mente” ci comprende e ci accomuna tutti. Ciascuno di noi è stato, è e sarà sempre “li- mitatamente” qualche cosa: bello, forte, intelligente, capace, coraggioso, fortunato, ecc., a seconda di chi o di che cosa eleggiamo a termine di paragone. Il concetto di limite ap- pare la soluzione più equa in tema di disabilità. Come sostiene il “Manifesto per la ri- abilitazione” (2002) occorre infatti promuovere e favorire una cultura della disabilità

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basata sul concetto di diversità come normalità della persona umana. La riabilitazione deve allora realizzare la persona disabile con le sue differenze e aiutarla a prendere co- scienza delle sue possibilità come dei suoi limiti. Il concetto di limite è centrale per tut- te le componenti coinvolte nel processo riabilitativo: il bambino disabile, la sua fami- glia, lo stesso personale sanitario.

Accettare il limite per il bambino disabile significa rinunciare a un impossibile futu- ro di normalità per governare un presente di massima autonomia possibile dove il ca- varsela da soli non riguarda solo l’attività locomotoria, ma l’indipendenza nelle attività della vita quotidiana e nella cura di sé e soprattutto lo sviluppo della personalità e del pensiero.

Accettare il limite per la famiglia significa riconoscere che non è poi così importan- te essere “almeno” uguale agli altri.

Accettare il limite per il medico ed il fisioterapista significa rinunciare a curare il ma- le nell’individuo per prendersi finalmente cura dell’individuo con il suo male.

Sarà argomento del prossimo volume dedicato alla terapia in tutte le sue forme (Fer- rari e Cioni, in preparazione) quello di approfondire gli spunti che sono stati tracciati sopra e di affrontare l’analisi degli strumenti terapeutici sia nelle loro caratteristiche pe- culiari sia nelle loro modalità di impiego nel trattamento della PCI, considerandoli al- l’interno di un’ottica di integrazione e di correlazione con le forme cliniche descritte nel presente volume.

Bibliografia

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