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Addio Paolo Prodi. La ricerca inquieta di un grande storico

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«la Repubblica» 18 dicembre 2016

Addio Paolo Prodi. La ricerca inquieta di un grande storico

Alberto Melloni

Il mestiere di storico ha popolato la società moderna di figure assai distanti fra loro: storici senza ambizioni, storici mediocri che si credono divulgatori, storici frettolosi o pigri, storici che confondono miopia ed erudizione.

E accanto ci sono i grandi storici – pochi, pochissimi – che pensano che la scienza di studia- re le fonti e l'arte di narrare il passato abbia una funzione nel percorso del tempo. Convinti cioè che capire i grandi passaggi e individuare i perché delle cesure del tempo abbia una funzione decisiva non per un oggi effimero, ma per il domani.

Paolo Prodi, fratello maggiore di Romano morto venerdì sera a Bologna all'età di 84 anni, era uno di questi storici.

Non si era fatto da solo. S'era formato, lui scandianese mandato all'Augustinianum, alla scuola spirituale e intellettuale di Giuseppe Dossetti, che gli fece incontrare Delio Cantimori.

Aveva la disciplina di Hubert Jedin e poi aveva praticato l'ascesi sprovincializzante, mentre era ancora all'istituto per le scienze religiose di Bologna, che lo aveva reso familiare di Ivan Illich e di tante voci della chiesa d'America Latina. Cinquecentista e biografo del cardinale Paleotti, non aveva smesso di pensare ai grandi snodi della storia occidentale anche dopo, in un percorso in- tellettuale fatto di rotture e incontri: all'istituto storico italo-germanico di Trento, da rettore di quell'ateneo, nelle biblioteche tedesche e americane dove si ritirava quando i suo libri richiede- vano l'assiduità finale e soprattutto a Bologna.

Era nata così una sequenza di lavori – usciti per il Mulino, di cui è stato fondatore e riferi- mento per mezzo secolo – che aveva esplorato la figura del Sovrano pontefice dove mostrò come il potere papale avesse incubato lo Stato moderno. Poi Il sacramento del potere, sulla le- gittimazione della autorità nel giuramento; e ancora Una storia della giustizia e Settimo non rubare, con i quali completava una sorta di biografia politica e intellettuale dell'Occidente. Par- tendo da una intuizione di Harold Berman (Law and Revolution uscì nel 1983) Prodi vedeva nelle dualità concepite con la rivoluzione gregoriana del secolo XI la matrice e il garante della cultura occidentale: Stato e chiesa, peccato e reato, furto e mercato, sacro e profano. Una dualità la cui tensione era stata generatrice: e che esaurendosi segnava la fine di una secolari- tà illusa di sopravvivere alla dialettica.

Una ricerca inquieta e inquietante, quella di Paolo Prodi: in cui l'impegno politico diretto e indiretto costituiva non una distrazione, ma una assunzione pubblica della responsabilità pub- blica dello storico. Era un percorso che era passato dalla Lega Democratica negli anni di piom- bo (Prodi fu uno dei dotti che negava l'autenticità delle lettere di Moro); era passata dalla as- sunzione di responsabilità al ministero dell'istruzione, dalla collaborazione con la segreteria di De Mita e con la Dc degli esterni, poi dalla Rete di Leoluca Orlando con cui ruppe ai tempi dei referendum di Mariotto Segni sulla legge elettorale, deputato sullo scorcio della XI legislatura e poi in un duello intellettuale col Pd e le sue contraddizioni.

Ma alla fine era nella riflessione storica, nella catalogazione dei reperti di una dualità perdu- ta che aveva riversato la sua caparbia interrogazione del tempo: "Il mondo si disintegra e si ricompone. Bisognerà vedere su quali basi". Chi poneva la interrogazione s'è spento. La do- manda resta.

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