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Schopenhauer, il pessimismo filosofico e il Mondo come volontà e rappresentazione

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Academic year: 2021

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Schopenhauer, il pessimismo filosofico e il Mondo come volontà e rappresentazione

Non è possibile diventare filosofi senza conoscenze, ma le conoscenze, da sole, non bastano a fare un filosofo.

I. Kant

1. Introduzione

Con Arthur Schopenhauer (1788-1860) ci imbattiamo in un personaggio scontroso, poco socievole, del tutto al di fuori dello schema del professore universitario di filosofia che in area tedesca aveva prevalso dal primo Settecento in poi.

Un personaggio le cui opere apparse tra il 1813 e il 1844 cadono praticamente nel silenzio totale, e che perverrà al successo, rapido ed esteso non solo all’area tedesca, con una grossa raccolta di saggi apparsa nel 1851, Parerga e Paralipomena, diretta in particolare a criticare in maniera irriverente e violenta la cultura universitaria del suo tempo.

Solo allora riprenderà a circolare la sua opera filosofica maggiore, Il mondo come volontà e rappresentazione, pubblicata nel 1819, che non ebbe alcuna risonanza e che anzi ricevette non poche stroncature dagli ambienti culturali dell’epoca.

Quando tenterà di insegnare come libero docente all’Università di Berlino, nel 1820, e anche qualche anno dopo, in concorrenza diretta ed esplicita rispetto a Hegel, dovrà smettere dopo qualche settimana per assenza di studenti.

Eppure questo personaggio stravagante, che sul comò teneva un busto del Buddha, sarebbe divenuto uno dei filosofi più “popolari” del mondo: Schopenhauer, Kierkegaard e Nietzsche sono infatti i tre autori contemporanei più diffusi e più letti tra i giovani colti.

Questi tre autori hanno in comune la centralità dei problemi della vita del singolo individuo, affrontati al di fuori di schemi teorici di carattere sistematico.

Punto di riferimento essenziale, per tutti e tre, è l’interiorità soggettiva.

Schopenhauer, Kierkegaard e Nietzsche mettono a nudo l’isolamento dell’individuo nel mondo nuovo aperto dall’insieme di rivoluzioni (politica, industriale, culturale) che tra la fine del Settecento e il primo Ottocento hanno cominciato a cambiare radicalmente le condizioni di una parte consistente dell’umanità.

Essi sono le “antenne” che segnalano lo smarrimento e il disorientamento di fronte al crollo dei sistemi di valore costituiti: il trono, l’altare, i sistemi filosofici, spazzati dalla ventata illuministica culminata nel pensiero di Kant.

Essi rifiutano, in maniera più o meno insolente, i tentativi di ripresa “totalizzante” della filosofia messi in atto da Fichte, Schelling e Hegel.

Rispettano le scienze e i loro risultati, ma non vedono in questa sfera di interessi un punto d’appoggio per una fondazione di “nuovi valori”.

L’essere umano di cui parlano è quello che è stato “liberato” dall’Illuminismo, dalla Rivoluzione francese, da Napoleone, dall’industria capitalistica, dalle scienze e dalle nuove tecnologie, ma che in questa “libertà” non si trova a suo agio; anzi, che in questa “libertà” soffre.

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2. Le radici culturali del sistema di Schopenhauer La vita è una miseria e io mi sono proposto

di passare la mia a rifletterci sopra.

A. Schopenhauer

Schopenhauer si pone come punto di incontro di esperienze filosofiche eterogenee: Platone, Kant, l’Illuminismo, il Romanticismo, l’idealismo e la spiritualità indiana.

Di Platone lo attrae soprattutto la teoria delle idee, intese come forme eterne sottratte alla caducità dolorosa del nostro mondo, da qui l’esigenza di Schopenhauer di ritrovare, al di là della molteplicità dell’apparenza sensibile, l’unità originaria dell’essere.

Da Kant, che egli considera il filosofo più importante e originale della storia del pensiero, deriva alcuni elementi della sua gnoseologia, nonché la ripresa di una nozione (già platonica e metafisica, del resto) dell’essere come uno e cosa in sé, ossia il noumeno.

Dell’Illuminismo lo interessano il materialismo, ma anche lo spirito ironico e brillante, la tendenza demistificatrice nei confronti delle credenze tramandate.

Dal Romanticismo Schopenhauer trae alcuni temi di fondo del suo pensiero, come ad esempio l’irrazionalismo, la grande importanza attribuita all’arte e alla musica, e soprattutto il tema dell’infinito, cioè la tesi della presenza, nel mondo, di un principio assoluto di cui le varie realtà sono manifestazioni transeunti.

Altro motivo indubbiamente romantico è quello del dolore. Tuttavia, mentre il Romanticismo, sul piano filosofico, mostra una tendenza globalmente ottimistica (pensiamo alla razionalità del reale hegeliana), Schopenhauer appare decisamente orientato verso il pessimismo, di cui è uno dei maggiori teorici.

Decisiva importanza, anche se indiretta, gioca pure l’idealismo, vera “bestia nera” e “idolo polemico” di Schopenhauer.

Il pensiero idealistico, dominatore incontrastato della cultura “ufficiale” e accademica dell’epoca, viene spregiativamente indicato come “filosofia delle Università” e presentato come una filosofia che non è al servizio della verità, ma di interessi volgari quali il successo e il potere, e che si propone di giustificare le credenze che tornano utili alla chiesa e allo stato.

Nel linguaggio fiorito e pittoresco nel quale egli esprime il suo poco benevolo apprezzamento sulla filosofia contemporanea si manifesta l’esigenza, che sentì fortissima, della libertà della filosofia, esigenza che lo fa indignare di fronte alla divinizzazione dello stato fatta da Hegel.

Un caratteristico rilievo occupa pure, nell’universo spirituale di Schopenhauer, la sapienza dell’antico Oriente.

Il rapporto fra Schopenhauer e la tradizione filosofico-religiosa dell’India è stato variamente interpretato e dibattuto fra i critici, tuttavia – qualunque sia il giudizio in proposito – è fuor di dubbio che Schopenhauer:

1) è stato tra i primi filosofi occidentali a tentare il recupero di alcuni motivi del pensiero dell’estremo Oriente;

2) ha desunto da esso un prezioso repertorio di immagini e di espressioni suggestive, del quale ha fatto un uso abbondante nei suoi scritti;

3) è stato un ammiratore della sapienza orientale e un profeta del suo successo in Occidente.

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3. Il mondo della rappresentazione come “velo di Maya”

Dietro il mondo si nasconde qualcos’altro:

se lo meritiamo, possiamo raggiungerlo sbarazzandoci del mondo stesso.

Come evidente dal titolo della sua opera più importante, Il mondo come volontà e rappresentazione, la metafisica di Schopenhauer si presenta come dualistica.

Da una parte la realtà (il mondo) ridotta a un insieme di rappresentazioni, ossia di contenuti mentali per i soggetti conoscenti, dall’altra la volontà, assimilabile alla cosa in sé kantiana, ossia la realtà vera, nella sua essenza più profonda.

Vedremo come, più nello specifico, la volontà, da intendersi come ciò che caratterizza la realtà, sarà un’invisibile potenza che permea di sé tutto ciò che esiste, una forza cieca, irrazionale e insondabile, che tutto governa e da cui tutto scaturisce.

Vediamo di capire allora, innanzitutto, cosa significa dire che “il mondo è rappresentazione”.

Il pensiero di Schopenhauer, lo abbiamo già visto, è inquadrabile come punto di intersezione di influssi culturali diversi: innanzitutto la filosofia platonica e quella di Kant.

Da Platone Schopenhauer riprende lo schema di un mondo sensibile che non sarebbe la realtà vera, realtà alla quale si deve approdare in modi diversi da quelli garantiti dalla semplice facoltà sensibile (teoria platonica delle idee).

Da Kant riprende i termini e i concetti di fenomeno e noumeno, ma interpretati in maniera diversa rispetto a Kant.

Alla base della dottrina schopenaueriana della realtà c’è dunque la distinzione tra fenomeno e noumeno, anche se questa ha poco a che fare con la distinzione kantiana.

Per Kant il fenomeno è la realtà, l’unica realtà conoscibile dall’uomo e accessibile alla mente umana, esso è insomma qualcosa di reale; mentre il noumeno è la cosa in sé, che, come tale, è solo pensabile, ma non conoscibile, inaccessibile alla conoscenza, perché sottratto alle forme a priori dell’intuizione e alle categorie dell’intelletto.

Il noumeno kantiano è anzi ciò che segna il limite della conoscenza umana.

Per Schopenhauer invece il fenomeno è

parvenza, illusione, sogno, ovvero ciò che nell’antica sapienza indiana è detto “velo di Maya”;

mentre il noumeno è

una realtà che si nasconde dietro l’ingannevole trama del fenomeno, e che il filosofo ha il compito di scoprire.

Fin da principio, quindi, Schopenhauer riconduce il concetto di fenomeno a un significato estraneo allo spirito del kantismo e che appare vicino, almeno in parte, alla filosofia indiana e buddistica.

Inoltre, mentre per il criticismo il fenomeno è l’oggetto della rappresentazione, che esiste fuori della coscienza, anche se viene appreso attraverso un corredo di forme a priori della sensibilità (spazio/tempo) e dell’intelletto (dodici categorie), il fenomeno di cui parla Schopenhauer è una rappresentazione che esiste solo dentro la coscienza.

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Questo perché

conoscere il mondo significa inserirlo entro le strutture a priori del soggetto (le forme a priori sono ridotte a tre: spazio, tempo (inerenti alla sensibilità) e causalità (inerente all’intelletto).

 e siccome né lo spazio, né il tempo, né le connessioni causali sono trovati nelle cose, ma dobbiamo già averne l’idea per poter incontrare le cose,

il mondo è allora una nostra rappresentazione. Cioè il mondo è un’elaborazione rappresentativa interna al soggetto.

“Quando, osservando un vasto panorama, mi rendo conto che si forma in quanto le funzioni del mio cervello – tempo, spazio e causalità – vengono applicate a certe macchie che sono sorte sulla mia retina, allora sento che quel panorama lo porto dentro di me, e in quel momento l’identità fra la mia essenza e l’intero mondo esterno mi diventa più che mai tangibile”.

Per questo motivo Schopenhauer riassume il senso del kantismo con la frase che apre il Mondo come volontà e rappresentazione: “Il mondo è la mia rappresentazione”.

Il fenomeno è dunque solo la rappresentazione del soggetto che conosce, non è la vera realtà, l’unica conoscibile, ma soltanto

 un complesso di contenuti rappresentativi (immagini e percezioni) che si struttura in base alle leggi del soggetto conoscente.

Dietro l’illusoria trama del fenomeno si nasconde il noumeno, la realtà vera, che non è inconoscibile, o meglio è inconoscibile attraverso la pura e semplice rappresentazione, ma è conoscibile attraverso altre vie, che il filosofo deve scoprire: “La scienza non può cogliere l’intima essenza del mondo, non può oltrepassare la rappresentazione: la scienza, in fondo, non fa che darci relazioni tra rappresentazioni”(Il mondo etc., p. 66); “Il mondo oggettivo, il mondo come rappresentazione, non è l’unico aspetto dell’universo; ne è, per così dire, la sola faccia esteriore; ma il mondo ha pure un’altra faccia assolutamente diversa dalla prima, e che ne costituisce l’intima essenza, il nocciolo vero, la cosa in sé” (Il mondo etc., p. 69); “Dietro il mondo si nasconde qualcos’altro: se lo meritiamo, possiamo raggiungerlo sbarazzandoci del mondo stesso”.

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Ricapitolando:

Abbiamo visto finora che, in merito alla conoscenza del mondo, l’esperienza sensibile e immediata che ne ha il soggetto, e dunque il modo in cui si presenta la realtà come oggetto della conoscenza sensibile e teoretica, ossia intellettuale, è quello della rappresentazione.

Si è poi detto che la rappresentazione è l’immagine sotto la cui forma ci si presenta la realtà.

Ora, dal momento che:

la rappresentazione è l’unico modo in cui si dà l’esperienza del reale,

e poiché la natura della rappresentazione è quella dell’immagine interiore che appare alla coscienza,

allora Schopenhauer può presentare il mondo fenomenico come costituito di immagini, ovvero di apparenze, il cui statuto ontologico è appunto paragonabile a quello delle parvenze, e dunque delle illusioni, quindi dei sogni, degli eidola e dei phantasmata.

Il senso essenziale della posizione di pensiero di Schopenhauer è dunque il fatto che egli riduce il reale all’immagine interiore, ossia a quell’apparire della cosa che il soggetto porta con sé nella coscienza.

Questo ridurre la realtà alla rappresentazione, quindi a nient’altro che ad apparenza e a parvenza, significa considerarla una fantasmagoria ingannevole, una fantasia non diversa dal più chimerico dei sogni.

Ciò induce Schopenhauer a trarre la conclusione che la vita è “sogno”, cioè un tessuto di apparenze o una sorta di “incantesimo”, che fa di essa qualcosa di simile agli stati onirici.

Andando alla ricerca di precedenti illustri di questa intuizione, Schopenhauer cita i filosofi Veda (che considerano l’esistenza comune come una sorta di illusione ottica), Platone (il quale dice spesso che gli uomini non vivono che in un sogno), Pindaro (il quale afferma che l’uomo è il sogno di un’ombra), Sofocle (che nell’Aiace paragona gli individui a simulacri e ombre leggere:

“Vedo, infatti, che non siamo altro che sembianze, noi che viviamo, un’ombra vuota”), Shakespeare (il quale scrive che “noi siamo di tale stoffa, come quella di cui son fatti i sogni, e la nostra breve vita è chiusa in un sonno”), Calderòn de la Barca (autore del noto dramma La vida es sueno).

Affermando che il mondo è una “mia rappresentazione”, Schopenhauer vuole avanzare la tesi che il reale che ci appare innanzi ed è generalmente assunto come la realtà in sé, è invece un insieme di contenuti rappresentativi, condizionato dalla coscienza e dalle sue forme a priori, mentre la realtà in sé non si lascia conoscere attraverso esse e rimane quindi, a livello puramente rappresentativo, inconoscibile.

Al di là del sogno e della trapunta arabescata del fenomeno, dunque, esiste la realtà vera, inconoscibile mediante gli strumenti della sensibilità e dell’intelletto, sulla quale però l’uomo, o meglio il filosofo che è nell’uomo, non può fare a meno di interrogarsi.

Infatti, sostiene Schopenhauer, l’uomo è un “animale metafisico”, che, a differenza degli altri esseri viventi, è portato a stupirsi della propria esistenza e a interrogarsi sull’essenza ultima della vita.

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5. Il mondo come volontà

Tutti vogliono vivere, ma nessuno sa perché.

Schopenhauer, rispetto a Kant, ritiene il noumeno accessibile.

Si è detto in precedenza, però, che la via d’accesso al noumeno, alla cosa in sé, non può essere quello della rappresentazione, la quale coglie invece l’aspetto fenomenico del mondo (ovvero il suo apparire concreto, esterno, materiale).

La rappresentazione, si è detto, coglie il mondo come appare, non come è realmente.

Rimanendo dunque nella sfera della rappresentazione, si rimane nella sfera dell’apparenza, dei fenomeni, di ciò che appare (phainomenon è “ciò che appare”).

L’ambito del noumeno è invece l’ambito dell’essenza, della cosa in sé, e dunque di ciò che è.

Come attingere il noumeno? Ossia, come penetrare nella dimensione profonda del reale, per giungere in qualche modo a rendersi consapevoli di quella cosa in sé della cui realtà non è possibile dubitare?

Il varco verso il noumeno è dato dal corpo.

L’uomo, infatti, non è soltanto conoscere, non è soltanto soggetto conoscente (cioè individuo che conosce). L’uomo è anche altro, non solo conoscenza e rappresentazione.

Cos’è questo altro? E’ il proprio corpo. L’uomo non è soltanto attività teoretica (forte differenza rispetto a Cartesio, cogito ergo sum), ma anche corporeità, corpo.

Di tutte le cose ce n’è una sola che ci è data in duplice maniera, dall’esterno e dall’interno, e questo siamo noi stessi in quanto esseri corporei.

Considerato esteriormente il nostro corpo è un oggetto dell’intuizione empirica, rappresentazione fra le rappresentazioni; vissuto invece nell’immediatezza dell’interiorità, per così dire dal di dentro, è volontà.

Attraverso il corpo l’uomo ha esperienza di sé non soltanto come di un oggetto tra gli oggetti; il corpo non è solo l’interfaccia dell’uomo con l’esterno, una cosa materiale tra cose materiali (altri oggetti, altri corpi), ma è anche

il veicolo attraverso il quale l’uomo si vive dal di dentro.

Esiste una dimensione esterna del corpo (quella che abbiamo chiamato fenomeno, che si coglie con la rappresentazione) e una interna (che non ha nulla a che fare con la rappresentazione, e che anzi attinge a una profondità diversa, e tutta interna all’uomo).

Proprio questa dimensione interna, questa via che attraverso il corpo porta alla nostra interiorità, proprio questo permette all’uomo di afferrare la cosa in sé.

O almeno la cosa in sé del nostro essere, cioè la nostra essenza più profonda, che è la volontà di vivere (wille zum leben): è un impulso che ci spinge a essere, a esistere, ad agire.

L’uomo, prima di tutto, è manifestazione della vita e della volontà di vivere, e il nostro corpo è la manifestazione oggettiva, fenomenica, concreta di questa forza più profonda: i movimenti e le azioni del nostro corpo sono infatti la manifestazione del nostro volere.

La volontà di vivere è dunque il noumeno dell’uomo, la sua essenza. Il corpo ne è solo la manifestazione fenomenica. Nell’uomo: il corpo è il fenomeno; la volontà è il noumeno.

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Schopenhauer estende quindi questo risultato della sua ricerca filosofica a tutto il mondo sensibile: il modello attribuito all’uomo è esteso a tutta la realtà.

Ecco dunque che la volontà che affiora come nucleo profondo del nostro essere costituisce la dimensione interiore di tutte le cose.

E’ la cosa in sé dell’universo: l’uomo è soltanto una parte dell’unica volontà che agita e muove tutti gli esseri.

La volontà che affiora come essenza del nostro essere costituisce (secondo un ragionamento analogico che Schopenhauer non si preoccupa troppo di giustificare) la dimensione interiore di tutte le cose.

Immergendoci cioè nella nostra interiorità ci ritroviamo parti di quell’unica volontà che si agita cieca ed eternamente insoddisfatta in noi come in tutto l’universo.

La volontà è dunque Streben eterno che mai non ha posa.

Ricapitolando:

a) Il filo dell’esperienza corporea consente all’uomo di giungere al di là di ciò che appare nella rappresentazione;

b) l’essenza più profonda dell’uomo è la volontà di vivere;

c) questa volontà di vivere è estesa a tutti gli enti; il mondo in quanto noumeno è volontà, ovvero la volontà costituisce la struttura metafisica del mondo (in quanto fenomeno, invece, il mondo è rappresentazione).

L’opera di Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, può dunque anche essere scritta così: Il mondo come noumeno (volontà) e fenomeno (rappresentazione).

Bisogna però intendersi sul significato di volontà.

Nella considerazione comune, per volontà si intende un desiderio razionale, una forza controllabile e orientabile secondo determinati fini (volere è volere questo o quello, questo piuttosto che quell’altro, volere e non volere, volere nel senso dell’atto individuale con cui un soggetto si afferma).

La volontà originaria, il fondamento dell’essere, è invece un impulso cieco, arbitrario, inconsapevole, non finalizzato ad alcunché, irrazionale; è pura volontà di vivere che sta alla base di tutto, una forza vitale che, essendo oltre lo spazio, il tempo e la causalità (cioè le forme del mondo come rappresentazione, che però non valgono se parliamo del mondo inteso come volontà, perché quest’ultima è oltre, al di là della rappresentazione), non è sottoposta al processo di determinazione che dà vita alle cose finite (quel processo, cioè, che è attuato dalle forme di spazio e tempo, che delimitano la materia); essa è dunque unica, eterna, dovunque la stessa.

La concezione della volontà come forza irrazionale apre la via a un radicale pessimismo: tutto ciò che di positivo crediamo di riconoscere nel mondo si rivela un inganno, un’illusione; tutto ciò che ci viene incontro apparentemente dotato di un senso non è che l’incontenibile spinta della volontà.

La vita, che proviene da siffatta Volontà, non può avere un senso razionale che la riscatti.

Ogni finalità, ogni armonia, ogni ordine e organizzazione che crediamo di riconoscere in essa si rivelano ingannevoli. Sono il perenne miraggio dell’esistenza, l’inevitabile abbaglio che accompagna ogni progetto e ogni impegno con l’illusione di un significato.

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Pessimismo: termine usato in Inghilterra all’inizio del secolo XIX in opposizione a ottimismo; in senso largo indica qualsiasi posizione che afferma la prevalenza nella realtà del male sul bene;

in senso stretto indica una specifica teoria metafisica secondo cui ogni forma di vita è male o dolore e il mondo è nella sua totalità la manifestazione di una forza irrazionale. L’iniziatore del pessimismo filosofico è Schopenhauer, in contrasto con il razionalismo dispiegato e il sostanziale ottimismo del sistema hegeliano. Tutte le forme di pessimismo negano la possibilità di un miglioramento della realtà e del progresso.

Incalzata dalla volontà, la vita è continua tensione, bisogno e desiderio; ma desiderare significa

essere privi di ciò che si desidera; perciò

la vita è mancanza, preoccupazione, dolore, tanto più sentito quanto più forte è la consapevolezza dello stato infelice in cui si vive.

L’appagamento del desiderio, di un qualsiasi desiderio, è solo momentaneo, perché sempre di nuovo la volontà insorge e spinge verso nuovi desideri.

Ciò che gli uomini chiamano piacere, sia il piacere fisico sia quello psichico, si determina solo in relazione al dolore come cessazione di esso.

Se viene però meno lo stimolo del piacere, la tensione esistenziale prodotta dal bisogno e dalla spinta al suo soddisfacimento, l’individuo cade in uno stato di sazietà e di noia che arriva inaspettato a rivelare il vuoto, il nulla che pervade l’esistenza.

Di qui la conclusione schopenhaueriana: la vita oscilla perennemente tra il dolore e la noia, passando attraverso l’intervallo fuggevole e illusorio del piacere.

Ancora una volta c’è il passaggio dall’uomo al mondo: il dolore è un’esperienza universale che coinvolge tutti gli esseri viventi. Il dolore è dunque un fatto cosmico.

Il negativo è la realtà profonda da cui derivano le cose, come testimoniano le lotte che si scatenano tra gli esseri viventi per la sopravvivenza. Dietro l’immagine rassicurante dell’ordine e delle meraviglie del creato sta la lotta sfrenata degli individui.

Nemmeno l’amore costituisce un elemento positivo, perché, se pure offre un illusorio senso di felicità, di fatto esso è soggiogato alla passione fisica, all’istinto sessuale, attraverso cui la volontà opera per riprodurre la vita e le sue forme.

Che cos’è l’amore se non l’occasione d’incontro di due infelicità per prepararne una terza?

L’individuo appare più che altro uno strumento per la conservazione della specie, non un valore in sé.

6. La critica delle ideologie

Certo, sarebbe molto carino se con la morte

l’intelletto non si spegnesse: così porteremmo intatto nell’altro mondo il greco che abbiamo imparato in questo.

6.1. Il rifiuto dell’ottimismo cosmico

Uno degli aspetti più interessanti della filosofia di Schopenhauer è la critica delle varie ideologie ottimistiche, intendendo con questa espressione l’insieme delle false rappresentazioni con cui gli uomini tentano di celare a se stessi qualche dato negativo del vivere o la cruda realtà del mondo in generale.

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Schopenhauer sbugiarda la filosofia accademica di Stato, quelli che chiama “i professori di filosofia”, affermando che chi viene pagato per pensare non può certo filosofare liberamente, ma deve riflettere secondo le idee e i pregiudizi di chi lo paga.

Egli polemizza anche con gli intellettuali “inseriti”, e contro le loro occulte ambizioni di denaro, di potere e di gloria.

“Che tra breve i vermi divoreranno il mio corpo è un pensiero che posso sopportare – ma che i professori di filosofia faranno lo stesso con la mia filosofia! – questo mi fa orrore”.

Abbiamo visto inoltre come si opponga alle ipocrisie spiritualistiche sull’amore, e come critichi il luogo comune della “razionalità” dell’essere, o della felicità dell’esistenza umana.

Questo tipo di polemica trova il suo bersaglio preferito nell’ottimismo cosmico, che circola in buona parte della filosofia e delle religioni occidentali, ossia quello schema di pensiero che interpreta il mondo come un organismo perfetto, provvidenzialmente governato da un dio oppure da una “Ragione” immanente.

Pur essendo indubbiamente consolatrice, questa visione è per Schopenhauer palesemente falsa, poiché la vita è un’esplosione di forze irrazionali, e il mondo, anziché essere il regno della logica e dell’armonia, è il teatro dell’illogicità e della sopraffazione.

Tutto questo, secondo Schopenhauer, è verificabile sia nei riguardi della società, sia nei riguardi della natura, nella quale vige scopertamente la cosiddetta “legge della giungla”.

Di conseguenza, fra la credenza in un mondo governato da dio e dalla ragione e la realtà di un mondo malfatto e caotico, esiste aperta contraddizione.

L’ateismo filosofico di Schopenhauer sarà ripreso in forma originale da Nietzsche.

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6.2. Il rifiuto dell’ottimismo sociale

Per quanto riguarda l’uomo, secondo Schopenhauer, la tesi della sua bontà e socievolezza è una menzogna: si deve ammettere, secondo il filosofo, che la regola di fatto dei rapporti umani è sostanzialmente il conflitto e il tentativo di sopraffazione reciproca.

La cattiveria connaturata nell’uomo, nei confronti dei suoi simili, è già evidente dal fatto che le disgrazie altrui provocano spesso una malcelata soddisfazione al nostro feroce istinto egoistico, mentre ogni vantaggio del prossimo, anche piccolo, ci infastidisce e ci irrita, spingendoci talora a comportarci come quel carceriere che “quando scoprì che il suo prigioniero era riuscito faticosamente ad addomesticare un ragno e ne traeva diletto, subito lo schiacciò”.

Di conseguenza, se gli uomini vivono insieme non è tanto per simpatia o innata socievolezza, ma per bisogno.

E se esiste qualcosa come lo stato e le sue leggi non è certo per l’intrinseca “eticità umana”, come sostengono le “fandonie” degli idealisti, ma solo per una necessità di difesa e di regolamentazione degli istinti aggressivi degli individui.

Il mondo è insomma un “inferno di egoismi”.

Contro il facile ottimismo idealistico e positivistico dell’Ottocento, per cui il male non è che un elemento dialettico destinato al superamento o un episodio passeggero del trionfale progresso dell’umanità, Schopenhauer afferma che la realtà del male e del dolore è una realtà effettiva e ineludibile, che conferisce alla condizione dell’uomo un carattere eminentemente tragico.

Il mondo dell’uomo non è ordinato nell’armonia e dominato dalla ragione, e pertanto determinato dal bene e predestinato al progresso.

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7. Le vie di liberazione dal dolore Alla natura sta a cuore solo il nostro essere, non il nostro benessere

Da quanto si è detto emerge chiaramente come la vita sia sostanzialmente dolore, al di là di qualsiasi apparenza ingannevole.

La conclusione di Schopenhauer è radicale: la vita non è bella, ma oscilla perennemente tra il dolore e la noia.

Schopenhauer fa proprie le sentenze pessimistiche dei saggi dell’Oriente (“esistere è soffrire”), di Platone (“è meglio non essere nati piuttosto che vivere”), di Calderòn de la Barca (“il delitto maggiore per l’uomo è di essere nato”), e afferma che l’esistenza, in virtù del dolore che la costituisce, risulta tal cosa che si impara poco per volta a non volerla.

Ma Schopenahuer, a differenza di quanto si potrebbe credere, rifiuta e condanna il suicidio, per due motivi di fondo:

1) perché il suicidio “lungi dall’essere negazione della volontà, è invece un atto di forte affermazione della volontà stessa”, in quanto il suicida “vuole la vita ed è solo malcontento delle condizioni che gli sono toccate”, per cui egli non nega veramente la volontà, bensì soltanto la vita;

2) perché il suicidio sopprime unicamente l’individuo, ossia una manifestazione fenomenica della Volontà di vivere, lasciando intatta la cosa in sé, che pur morendo in un individuo rinasce in mille altri.

Di conseguenza, secondo il filosofo, la vera risposta al dolore del mondo non consiste nell’eliminazione, tramite il suicidio, di una vita o più vite, ma nella liberazione dalla stessa Volontà di vivere.

Ma come è possibile per l’uomo spezzare le catene della Volontà, se quest’ultima costituisce la sua essenza e la struttura metafisica dell’universo?

Più che soffermarsi su una vera e propria giustificazione teorica di questo passaggio-chiave (ma poco fondato) del suo pensiero, Schopenhauer preferisce richiamare l’attenzione sul fatto dell’esistenza di individui eccezionali (i geni dell’arte, i santi, gli eremiti, i mistici) che, in tutti i tempi, hanno intrapreso e sperimentato il cammino della liberazione dalla tirannia dei bisogni e degli egoismi connessi alla volontà di vivere, dimostrando che allorquando la voluntas perviene alla “coscienza di sé” essa tende a farsi noluntas, ossia negazione progressiva di sé medesima.

In altri termini, dalla presa di coscienza del dolore e dal disinganno di fronte alle illusioni dell’esistere, nascono le varie tappe della liberazione.

Schopenhauer articola l’iter salvifico dell’uomo in tre momenti essenziali:

l’arte;

la morale;

l’ascesi.

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7.1. L’arte

L’arte è per Schopenhauer conoscenza libera e disinteressata, che si rivolge non tanto ai fenomeni, quanto alle idee, ossia alle forme pure o ai modelli eterni delle cose: nell’arte questo amore, questa afflizione, questa guerra divengono ad esempio, l’amore, l’afflizione, la guerra, ovvero l’essenza immutabile di tali fenomeni.

Essa ci offre la possibilità di contemplare gli aspetti universali della realtà.

Proprio per questo suo carattere contemplativo e per questa sua capacità di muoversi in un mondo di forme eterne, l’arte sottrae l’individuo alla catena infinita dei bisogni e dei desideri quotidiani.

Di fronte alla bellezza artistica l’uomo si sente come trasportato in un altro mondo, migliore di quello in cui si trova; sospetta inconsapevolmente che quello che l’ha colpito provenga da una dimensione più elevata, che in quel bello si nasconda un bene puro, non contaminato dagli scopi e dalle faccende per cui l’uomo si agita quotidianamente.

L’esperienza della bellezza offre perciò un punto di mediazione tra ideale e reale, perché rappresenta la manifestazione di qualcosa di umano, che si mostra nel mondo, che è fatto di materia, e che pure è divino, spirituale, e superiore all’umano (è chiaro il riferimento all’idealismo estetico di Schelling).

L’arte è di conseguenza catartica per essenza, in quanto l’uomo, grazie a essa, più che vivere contempla la vita, elevandosi al di sopra della volontà, del dolore e del tempo.

Fra le arti spiccano la tragedia, che è la rappresentazione del dramma della vita, e la musica.

Riprendendo e svolgendo in modo originale spunti già presenti nell’estetica musicale romantica, Schopenhauer sostiene che la musica si configura come l’arte più profonda e universale, una vera e propria “metafisica in suoni”, capace di metterci a contatto con le radici stesse della vita e dell’essere.

Ogni arte è liberatrice in quanto il piacere che essa procura, visto come contemplazione disinteressata, è cessazione del bisogno.

Ma la funzione liberatrice dell’arte è soltanto temporanea e parziale, e ha i caratteri di un gioco effimero, di un breve incantesimo.

Di conseguenza essa non è la via per uscire dalla vita, ma solo un conforto alla vita stessa.

La via della redenzione presuppone altri sentieri.

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7.2. L’etica della pietà

A differenza della contemplazione estetica, che è un estraniarsi trasognato dalla realtà, la morale implica un impegno nel mondo a favore del prossimo: l’etica è infatti un tentativo di superare l’egoismo e di vincere quella lotta incessante degli individui tra loro, che costituisce l’ingiustizia e rappresenta una delle maggiori fonti di dolore.

Schopenhauer afferma che l’etica sgorga da un sentimento di pietà attraverso cui avvertiamo come nostre le sofferenze degli altri.

Di conseguenza la pietà non nasce da un ragionamento astratto, ma da un’esperienza vissuta, mediante la quale, squarciando l’impedimento del nostro egoismo, compatiamo il prossimo e ci identifichiamo con il suo tormento.

Non basta dunque sapere che la vita è dolore e che tutti soffrono, bisogna invece sentire e realizzare questa verità nel profondo del nostro essere: non è allora la conoscenza che produce la moralità.

Tramite la pietà sperimentiamo quell’unità metafisica di tutti gli esseri che la filosofia teorizza.

Ai suoi massimi livelli la pietà consiste nel far propria la sofferenza di tutti gli esseri passati e presenti, e nell’assumere su di sé il dolore cosmico.

Sebbene la morale della pietà implichi una vittoria sull’egoismo, essa però rimane pur sempre all’interno della vita e presuppone un qualche attaccamento e essa.

Di conseguenza Schopenhauer si propone il traguardo di una liberazione totale non solo dall’egoismo e dall’ingiustizia, ma dalla stessa volontà di vivere.

Questa liberazione è l’ascesi.

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7.3. L’ascesi

L’ascesi, che nasce dall’orrore dell’uomo per la volontà di vivere, è l’esperienza per la quale l’individuo, cessando di volere la vita e il volere stesso, si propone di estirpare il proprio desiderio di esistere e di volere.

L’ascesi è il comportamento che nega più radicalmente d’ogni altro l’individualità e la volontà dell’uomo.

In essa la volontà cancella ogni affermazione di sé, negando o sopprimendo tutte le forme ‘positive’ di vita, tutte le determinazioni dell’esistenza, e trasformandosi infine in quella che Schopenhauer chiama la « nolontà » (ossia il riflesso speculare – ma opposto, negativo – della volontà).

Il primo passo dell’ascesi è la castità perfetta, che libera dalla prima e fondamentale manifestazione della volontà di vivere: l’impulso alla generazione e alla propagazione della specie.

La rinuncia ai piaceri, l’umiltà, il digiuno, la povertà, il sacrificio tendono tutti al medesimo scopo, quello di sciogliere la volontà di vivere dalle proprie catene.

Il compito di questa liberazione radicale è affidata all’uomo, tramite cui l’intero mondo può essere redento. L’ascesi è castità e rassegnazione, indifferenza e sacrificio.

Quello ascetico si configura, in ultima analisi, non tanto come un atto quanto come uno stato: lo stato di chi ha annullato in sé medesimo ogni pulsione vitale, di chi si è distaccato dall’ordine degli eventi mondani.

“Attenendosi con serietà e rigore a un voto monastico, o attuando realmente la negazione della volontà di vita, viene di fatto cancellato un atto di affermazione con cui l’individuo è entrato nell’esistenza”.

La soppressione della volontà di vivere, di cui l’ascesi rappresenta la tecnica, è l’unico vero atto di libertà che sia possibile all’uomo.

Quando succede ciò l’uomo diviene libero, si rigenera ed entra in quello stato che i cristiani chiamano di grazia.

Tuttavia, mentre nei mistici del cristianesimo l’ascesi si conclude con l’estasi, che è l’ineffabile stato di unione con dio, nel misticismo ateo di Schopenhauer il cammino nella salvezza mette capo al nirvana buddista, che è l’esperienza del nulla.

Un nulla – si badi bene – che secondo quanto insegnano i testi e i maestri dell’Oriente non è il niente, bensì un nulla relativo al mondo, cioè una negazione del mondo stesso.

La soppressione finalmente completa dell’impulso vitale produce infatti, a suo avviso, nulla meno che l’annullamento totale del mondo.

Per l’asceta schopenaueriano, in altre parole, il mondo, con tutte le sue illusioni, le sue sofferenze e i suoi rumori è un nulla, mentre il nirvana è un tutto, cioè un oceano di pace spirituale e uno spazio di luminosa serenità, in cui le nozioni stesse di “io” e di “soggetto” si dissolvono.

Pervenuto alla perfezione della « nolontà », l’uomo scopre che il traguardo della propria compiuta autonegazione non gli dona la fruizione dell’essere (la contemplazione-immedesimazione con l'Assoluto, con Dio: si pensi alla coscienza infelice di Hegel o alla grande tradizione del misticismo cristiano) ma la contemplazione del nulla.

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In effetti, l’annullamento della volontà implica anche l’annullamento sia della funzione rappresentativa dell’uomo, e dunque della sua capacità di percepire i fenomeni mondani, sia della cieca forza che governava la realtà naturale.

“Non più volontà: non più rappresentazione, non più mondo. Davanti a noi non resta invero che il nulla [...]. Per gli altri, in cui la volontà si è rivolta da se stessa e rinnegata, questo nostro universo tanto reale, con tutti i suoi soli e le sue vie lattee è il nulla”. (Il mondo come volontà e rappresentazione).

Così nel 1819, parallelamente alla celebrazione hegeliana della pienezza e della sensatezza dell’Essere come dispiegamento del Logos nella Storia, faceva il suo ingresso nel teatro della filosofia occidentale questa nuova figura a-razionale e a- storica del Nulla, destinata non meno dell’altra a sollecitare e a stimolare il pensiero dell’uomo moderno.

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