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Effetti fisiologici degli UV-B su piante di Lepidium meyenii

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Academic year: 2021

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D

IPARTIMENTO DI

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CIENZE

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GRARIE

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LIMENTARI E

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MBIENTALI

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ORSO DI

L

AUREA

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AGISTRALE IN

B

IOTECNOLOGIE

V

EGETALI E

M

ICROBICHE

Effetti fisiologici degli UV-B su piante di

Lepidium meyenii

Candidato: Lorenzo Giuntini

Relatore: Dr. Lorenzo Guglielminetti

Correlatore: Dr.ssa Annamaria Ranieri

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Alla mia famiglia, alla mia ragazza

ed ai miei amici…

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INDICE

1. Introduzione………..2

1.1 Lepidium meyenii (W.G. Walpers)………...2

1.2 Botanica e ciclo vitale di L. meyenii………..2

1.3 Storia e tradizione di L. meyenii………...3

1.4 Composizione chimica………...5

1.5 Effetti biologici e farmacologici di L. meyenii……….6

1.6 Effetti delle radiazioni UV-B sui processi fotosintetici……...8

1.6.1 Risposte fisiologiche delle piante alle radiazione UV-B……..9

1.6.2 Effetti degli UV-B sulla fotosintesi………..11

1.6.3 Effetti sul Fotosistema II (PS-II)………..13

1.6.4 Effetti sul Cit. b6f sul PS-I e sulla ATP sintasi……….15

1.6.5 Effetti sulla regolazione stomatica………15

1.6.6 Effetti sull’enzima Rubisco………..16

1.6.7 UV-B inducono la formazione di ROS nelle piante…………. 17

1.6.8 Studi di esclusione di UV-B………. 19

1.7 La fluorescenza della clorofilla a... 20

1.7.1 Analisi e induzione della fluorescenza nella clorofilla……….21

1.7.2 La tecnica PAM e i parametri della fluorescenza………..24

1.7.3 Analisi degli scambi gassosi………..28

1.7.4 I parametri degli scambi gassosi………31

2. Obbiettivo della tesi………..33

3. Materiali e metodi………34

3.1 Materiale vegetale e disegno sperimentale………...34

3.2 Parametri biometrici………...37

3.3 Analisi della fluorescenza della clorofilla a e degli scambi gassosi………...37

3.4 Determinazione del contenuto di clorofille e carotenoidi nelle foglie………38

3.5 Determinazione del contenuto di zuccheri liberi………..38

3.6 Determinazione del contenuto di amido nelle radici………...41

4. Risultati………....…42

4.1 Parametri biometrici………....….42

4.2 Scambi gassosi e fluorescenza della clorofilla………....….43

4.3 Contenuto di pigmenti fogliari……… 47

4.4 Contenuto di zuccheri liberi e amido………...….. 48

5. Discussioni………50

6. Conclusioni………...52

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1. Introduzione

1.1 Lepidium meyenii (W.G. Walpers)

Lepidium meyenii è una pianta erbacea di origine peruviana dalle spiccate proprietà

benefiche, nutritive e medicinali; l’ipocotile chiamato comunemente Maca è stato utilizzato fin dai tempi antichi come integratore alimentare (nomi comuni: ginseng

peruviano, maka, maca-maca, maino, ayak chichira). Lepidium meyenii fa parte della

famiglia delle Brassicaceae e appartiene al genere Lepidium, il quale contiene dalle 150 alle 175 specie e costituisce uno dei più rappresentativi generi nella famiglia delle

Brassicaceae. Questa pianta cresce principalmente nella regione di Puna e di Suni, sulla Cordigliera delle Ande, in Perù, ad altitudini comprese tra i 3500 e i 4450 m, territori con

un clima caratterizzato da temperature estremamente fredde, da forti venti e da intensi raggi solari con una temperatura variabile dai -15° ai 18 °C (Gustavo F. Gonzales 2012).

1.2 Botanica e ciclo vitale di L. meyenii

L. meyenii è una pianta erbacea biennale, autogama e octoploide (2n = 8x = 64

cromosomi); è caratterizzata da una parte epigea ed una parte ipogea: la parte epigea appare nella fase vegetativa come una piccola rosetta di circa 10-25 foglie basali, che diventa più grande nella fase riproduttiva quando è costituita da foglie e fiori. La parte ipogea è costituita da una radice molto simile ad un ravanello o un tubero che rappresenta l’organo di stoccaggio delle sostanze nutritive e che può raggiungere una lunghezza di circa 18 cm e

diametro di 6,5 cm. Le

dimensioni medie sono

generalmente intorno ai 5-6 cm di lunghezza e 3-5 di larghezza, (ipocotili più apprezzati dalle popolazioni indigene); gli ipocotili più grandi sono troppo ricchi di fibre e sono considerati di scarso valore nutrizionale e per questo chiamati

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shugla. Il colore della radice varia da pianta a pianta, e può andare dal giallo al rosso

scuro e persino marrone-nero.

A differenza di molte altre piante tuberose, L. meyenii si propaga per seme e sono richiesti dai 7 agli 8 mesi per la raccolta della radice; questa pianta viene coltivata su terreni rocciosi delle Ande, caratterizzati da intensi raggi solari, forti venti e temperature fluttuanti dai -15° ai 18° C. Il terreno utilizzato per la coltivazione è l’argilla acida o calcarea con un umidità relativa del 70 %, e la pianta può crescere in assenza di ombra o penombra. La semina viene fatta da settembre ad ottobre con l’inizio della stagione delle piogge, mentre la raccolta viene fatta da maggio a luglio dopo una fase vegetativa di 260-280 giorni. Le radici di Maca mantenute sul campo o ripiantate, con l’arrivo della stagione invernale e secca, rimarranno dormienti per due o tre mesi fino all’inizio di settembre, nel quale produrranno un possente germoglio che produrrà i semi nei mesi successivi. La produzione di semi si esaurisce con l’esaurimento delle risorse della pianta e la sua successiva morte. I semi di Maca rappresentano secoli di selezione da parte dei coltivatori indigeni, ma è solo di recente che gli scienziati e i governi si sono occupati della salvaguardia e dello studio di questi semi; l’area di coltivazione per la Maca si è espansa drasticamente a causa dell’aumento della domanda, sia a livello nazionale che mondiale. Nel 1994 i terreni coltivati a Maca erano meno di 50 ettari; nel 1999 la produzione era aumentata di 24 volte fino a raggiungere i 1200 ettari; adesso si trovano più di 2000 ettari adibiti alla coltivazione di L. meyenii (Hermann M. and Bernet T. 2009).

1.3 Storia e tradizione di L. meyenii

La prima coltivazione di Maca risale a più di 1000 anni fa nella regione del Junin (odierna

Ondores), nella zona centrale delle Ande peruviane. Nel 1843 la specie fu descritta per la

prima volta e fu chiamata L. meyenii da W.G. Walpers, che basò la sua descrizione su un esemplare di pianta selvatica raccolta a Puni, nel Perù meridionale, distante dalla zona centrale Andina. Questo esemplare presentava una sola radice leggermente ispessita e quindi non derivava dalla forma coltivata di L. meyenii. Padre Bernabè Cobo, naturalista gesuita e scrittore spagnolo, descrisse la Maca nel 1653, e dichiarò che fosse una pianta in grado di crescere nelle zone più dure e fredde della provincia del Chinchayococha, dove nessun altra pianta coltivata dall’uomo sarebbe mai sopravvissuta. Nel diciottesimo secolo, Ruiz fece riferimento alla Maca e parlò delle sue proprietà sul miglioramento della

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fertilità e dei suoi effetti stimolanti se assunti come alimento dall’uomo; intorno agli anni ’60 la scienziata peruviana Gloria Chacon studiò l’influenza della radice della Maca sulla fertilità, conducendo ricerche all’Università di Lima su topi da laboratorio, sia maschi che femmine; lo studio dimostrò un effetto positivo sulla fertilità di alcuni alcaloidi presenti all’interno della radice, agendo con azione stimolante sull’ipotalamo e sull’ipofisi che rilasciano gli ormoni sessuali.

La Maca è stata coltivata come fonte di cibo dalle popolazione Indios del Pumpush, Yaros e dell’Ayarmaca. I conquistadores utilizzavano la radice essiccata o la polvere di radice bollita come alimento per gli animali con problemi di fertilità mentre gli Indios

Chinchaycochas la usavano come merce di scambio. La Maca era anche utilizzata per

comporre bevande, con l’aggiunta di sostanze allucinogene consumate durante danze e cerimonie religiose.

Figura 2: Maca essiccata (Hermann e Bernet 2009)

La maggior parte delle radici di Maca viene essiccata dopo il raccolto all’aperto, alla temperatura fredda e secca del Puna; una piccola parte invece viene cotta negli huatias, forni di terra costruiti dagli agricoltori. Sia l’essiccazione che il trattamento termico sono noti per diminuire la pungenza e la piccantezza delle radici, a causa della significativa riduzione del contenuto di glucosinolati. Prima di essere consumati gli ipocotili devono essere bolliti in acqua per ottenere un prodotto che può essere consumato come un succo;

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il processo di ebollizione influisce sulla disponibilità di alcuni metaboliti secondari presenti: talvolta si registra un aumento e talvolta una diminuzione. Ad esempio il riscaldamento diminuisce l’attività della “epithiospecifer protein” o ESP, una proteina che interagisce con la mirosinasi, che se è inattiva, porta alla produzione di sulforafano, un isotiocianato proveniente dalla sulforafanina, con spiccate proprietà nutraceutiche (Gustavo F. Gonzales 2012).

1.4 Composizione chimica

La Maca è costituita da metaboliti primari e metaboliti secondari; i metaboliti primari costituiscono la componente nutrizionale degli ipocotili, mentre quelli secondari sono i responsabili delle proprietà benefiche e medicinali.

I metaboliti primari: gli ipocotili secchi di Maca contengono approssimativamente dal 13

al 16 % di frazione proteica e sono ricchi di aminoacidi essenziali; gli ipocotili freschi contengono l’80 % di acqua e una elevata concentrazione di ferro e calcio. Uno studio più accurato ha rilevato che la composizione di Maca secca è: 10,2 % di proteine, 59 % di carboidrati, 2,2 % di lipidi e 8,5% di fibre; sono presenti anche acidi grassi liberi come l’acido linoleico, l’acido palmitico e l’acido oleico. Gli aminoacidi presenti in abbondanza sono: leucina (91 mg/g di proteina), arginina (99,4 mg), fenilalanina (55,3 mg), lisina (54,3 mg), glicina (68,3 mg), alanina (63,1 mg), valina (79,3 mg), isoleucina (47,4 mg), acido glutammico (156,5 mg), serina (50,4 mg), acido aspartico (91,7 mg). Altri aminoacidi presenti in minor proporzione sono: istidina (21,9 mg), treonina (33,1 mg), tirosina (30,6 mg), metionina (28 mg), idrossiprolina (26 mg), prolina (0,5 mg) e sarcosina (0,7 mg). I sali minerali presenti in Maca comprendono il ferro (16,6 mg / 100 g di sostanza secca), calcio (150 mg / 100 g), rame (5,9 mg/100 g), zinco (3,8 mg/100g) e potassio (2050 mg /100 g).

Metaboliti secondari: i principali metaboliti secondari possono essere classificati in 4

gruppi: oli essenziali, glucosinolati, alcaloidi e macamidi. In Maca sono stati identificati un totale di 53 componenti di oli essenziali attraverso l’utilizzo di indici di ritenzioni gascromatografiche e dati di spettri di massa. Tra i costituenti, il fenilacetonitrile (85,9%), il benzaldeide (3,1%) e il 3-metossifenilacetonitrile (2,1%) sono i maggiori componenti dell’olio distillato a vapore. I glucosinolati sono una classe di metaboliti secondari che si

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ritrovano in 15 famiglie botaniche di dicotiledoni, tra cui in particolare le Brassicaceae. I glucosinolati sono presenti all’incirca all’ 1% nelle radici fresche di L. meyenii e i due composti più ritrovati sono la glucotropeolina e il m-metossibenzilglucosinolato, utilizzati anche come marker chemiotassonomici per maca, dato che la combinazione di questi due glucosinolati non si verifica in altre specie di Brassicacee. Dal punto di vista nutraceutico i glucosinolati una volta consumati dall’uomo vengono idrolizzati dall’enzima mirosinasi in isotiocianati, tiocianati, indoli e nitrili; questi composti sono molto studiati per una loro possibile attività inibitoria della crescita tumorale: tra i più importanti vi è il sulforafano. Oltre a questi composti, nelle radici di Maca sono stati identificati 5 tipi di steroli tra cui: il sitosterolo, campesterolo, ergosterolo, brassicasterolo e Ergostadienolo. (Muhammad et. al 2005).

1.5 Effetti biologici e farmacologici di L. meyenii

Sono stati attuati diversi studi, sia preclinici (in vitro o su animali) che clinici riguardo gli effetti farmacologici e biologici della Maca. L’effetto principale dovuto al consumo di Maca è un miglioramento della fertilità e un effetto afrodisiaco. Zheng et al (2000) hanno riportato che la somministrazione orale di estratti di lipidi purificati di Maca diminuivano il periodo di latenza di erezione (LPE) nei topi maschi con disfunzione erettile, oltre a migliorare le funzioni sessuali degli stessi.

Gonzales et al (2003) hanno documentato che la Maca non influenza i livelli di ormone riproduttivo nel sangue degli uomini adulti, ma migliora sia la motilità che la produzione di spermatozoi. In un esperimento simile Gonzales (2002) ha dimostrato: un miglioramento del desiderio sessuale dopo 8 settimane di trattamento con estratti lipidici di maca e questi effetti non dipendevano né dai livelli di testosterone né da quelli di estradiolo; una somministrazione orale di estratti acquosi di maca ha influito sull’aumento del peso dei testicoli e dell’epididimo, ma non della vescicola seminale, inoltre ha rinvigorito la spermatogenesi nei topi maschi agendo sulla parte iniziale dei tubuli seminiferi dove si verifica mitosi. È stato concesso anche un brevetto internazionale per una “mixture”, contenente estratti di maca, che migliora il desiderio e l’attività sessuale.

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Le potenzialità della Maca sul miglioramento della fertilità sono dovute alla presenza di isotiocianati aromatici: specialmente il benzil isotiocianato e il p-metossibenzil isotiocianato. Le proprietà afrodisiache della maca possono essere attribuite alla presenza di prostaglandine e diversi steroli nell’ipocotile.

Alcuni tipi di isotiocianati derivanti da glucosinolati sono anche agenti chemiopreventivi capaci di interrompere o far regredire processi di cancerogenesi; è stato documentato che il consumo di maca porta al graduale miglioramento di sindromi metaboliche, è in grado di inibire l’ipertensione, ha effetti energizzanti nei consumatori e antiossidanti nell’utilizzo in campo cosmetico. Gonzales (2002) ha documentato inoltre che alcuni tipi di Maca rossa, contenenti benzil glucosinolati sono in grado di ridurre i livelli di zinco nella prostata e di ridurre fenomeni di iperplasia della stessa.

Sebbene non siano state trovate documentazioni riguardo gli effetti della Maca sull’apprendimento e la memoria umana, le popolazioni native delle Ande Peruviane attribuiscono al consumo di Maca un miglior rendimento scolastico da parte dei bambini. Studi sperimentali su animali hanno provato che la varietà di colore nero di Maca ha effetti benefici sull’apprendimento e sulla memoria; utilizzando estratti idroalcolici di maca o estratti acquosi bolliti di maca è stato possibile diminuire, in cervello di topo, i livelli di malondialdeide (MDA), marker di stress ossidativo, e diminuire i livelli di acetilcolinesterasi (Ache). Piacente et al. (2002) hanno documentato che negli ipocotili di Maca è presente l’acido (1R,3S) -1-metil-1,2,3,4-tetraidro-β-carbolin-3-carbossilico, o MTCA, composto che ritroviamo anche nelle arance e nei pompelmi, caratterizzato da una spiccata azione antiossidante. La Maca dunque è una pianta con grandi potenzialità ad effetto adattogeno, ovvero contiene sostanze naturali che oltre alla funzione antiossidante, aiutano ad adattarsi alla stanchezza, migliorano il metabolismo dell’organismo, aumentano la resistenza fisica e psicologica verso lo stress ambientale e verso le malattie acute e croniche migliorando l’azione del sistema immunitario; proprio per questi motivi il consumo di Maca in tutto il mondo è notevolmente aumentato negli ultimi 10 anni, e questo lo dimostra anche la quantità di Maca esportata dal Perù e dalla Cina.

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Figura 3: Crescita di Maca esportata (valuta in USD sull’asse verticale) dal 2000 al 2010 (Gonzales, 2012)

.

Nel corso del 2010, il Perù ha esportato Maca per un valore di 6,179,011 USD, 4 volte superiore al valore esportato nel 2001 (G.F. Gonzales 2012).

1.6 Effetti delle radiazioni UV-B sui processi fotosintetici

Le piante sono organismi fotoautotrofi sessili e quindi devono adattarsi costantemente al cambiamento delle condizioni ambientali. La regione ultravioletta dello spettro elettromagnetico proveniente dal sole è suddivisa in tra bande di diversa lunghezza d’onda denominate: UV-A (315-400 nm), UV-B (280-315 nm) e UV-C (200-280 nm). L’attenuazione atmosferica della radiazione solare dipende dalla lunghezza d’onda di quest’ultima, quindi i cambiamenti anticipati di irradiazione spettrale si verificherebbero all’interno di una banda di lunghezza d’onda ristretta nella regione dell’UV-B. Negli ultimi decenni ci sono stati molti cambiamenti sulla composizione chimica dell’atmosfera con una sostanziale riduzione dello strato protettivo di ozono; ciò ha portato ad un notevole aumento di UV-B che raggiungono la superficie terrestre. Una comprensione approfondita degli effetti degli UV-B sulle specie coltivate è essenziale per progettare colture che possono produrre cibo, fibre e altre materie prime sotto livelli crescenti di radiazioni UV-B. Sono stati calcolati i livelli attuali di UV-B durante la stagione del raccolto: valori tra i 2 e i 12 kJ m-2 al giorno sulla superficie terrestre; rispetto ai livelli calcolati nel 1980 siamo di fronte ad un aumento del 10-15 %. Stando a questi dati nel

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periodo 2010-2020 i dati GISS indicano un aumento delle dosi di UV fino a 14% nell’emisfero settentrionale e fino al 40% nell’emisfero meridionale.

La luce solare è la fonte di energia primaria per le piante; le radiazioni UV che raggiungono la superficie terrestre comprendono solo gli UV-A e parte degli UV-B. Sebbene gli UV-B siano la componente minore della luce solare, sono radiazioni che hanno la più alta energia dello spettro di luce e quindi hanno un impatto sostanziale sulla biosfera. Numerosi studi hanno dimostrato che le radiazioni UV-B influenzano significativamente i processi morfologici, fisiologici e biochimici di molte specie di piante. Ciò ha suscitato interesse sulle possibili conseguenze dell’aumento dei livelli di UV-B sulla crescita e lo sviluppo delle piante e i meccanismi alla base di queste risposte (Kataria et al. 2014).

1.6.1 Risposte fisiologiche delle piante alle radiazioni UV-B

Gli organismi fotosintetici hanno bisogno della luce solare e sono inevitabilmente esposti alle radiazioni UV-B. La radiazione ultravioletta di tipo B è una componente importante dell’ambiente agendo come fattore ecofisiologico con il potere di alterare la crescita delle piante e la fotosintesi. Anche un piccolo aumento degli UV-B incidenti può avere effetti biologici significativi poiché questa radiazione è facilmente assorbita da un certo numero di macromolecole importanti come gli acidi nucleici, le proteine, i lipidi e i fitormoni. Diversi articoli scientifici hanno riassunto gli effetti e le conseguenze delle radiazioni UV-B sulle principali specie agricole e non agricole, concludendo che la sensibilità delle piante coltivate alla radiazione UV-B varia a seconda delle specie, delle cultivar e delle condizioni di crescita. La risposta della pianta agli UV-B dipende dalla dose applicata biologicamente efficace (180 mW m-2) e dalle interazioni con altre risposte a stress ambientali; in particolare è stata dimostrata l’importanza dell’equilibrio spettrale tra radiazione fotosinteticamente attiva (PAR), UV-A e UV-B nel determinare la sensibilità delle piante negli studi su campo. La PAR riesce ad alleviare infatti alcuni degli effetti negativi delle radiazioni UV-B: la luce blu stimola la produzione di foto-liasi che sono coinvolte nella riparazione di dimeri di pirimidina ciclobutanica (CPD) indotta dagli UV. Alcuni composti, che proteggono dagli UV, accumulati nelle foglie delle piante

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rispondono al PAR (flavonoidi, acidi ferulici, acidi idrossicinammici). A basse intensità di luce PAR, gli UV-A possono essere particolarmente efficaci nel mitigare il danno da UV-B, mentre ad alte intensità PAR, l’efficacia nel mitigare i danni da UV-B sembra procedere indipendentemente dalla dose di UV-A.

Studi recenti dimostrano chiaramente l’entità dei danni causati dagli UV-B sulle componenti morfologiche, fisiologiche, biochimiche e molecolari delle piante coltivate. Gli effetti morfologici da UV-B includono molti cambiamenti come: la riduzione di altezza della pianta, riduzione della lunghezza e dell’area fogliare, aumento della ramificazione ascellare, foglie di color bronzo con spot necrotici e clorotici. Nel complesso un aumento di radiazione UV-B riduce i tassi di allungamento dello stelo e dei rami principali, portando a piante più corte e compatte. La diminuzione dell’altezza della pianta è dovuta principalmente ad internodi più corti piuttosto che ad un numero minore di nodi; inoltre l’aumento di radiazione UV-B può portare ad un ritardo nell’emergenza,

Effetti degli UV-B sulle piante

Morfologici Fisiologici/Biochimici Molecolari

 Inibizione della crescita dell’ipocotile

 Riduzione area fogliare  Aumento dello spessore

fogliare

 Accorciatura internodi  Riduzione della crescita

radicale

 Riduzione della biomassa  Fioritura alterata  Riduzione della fertilità  Riduzione del raccolto

 Accumulo di pigmenti protettivi  Perossidazione lipidica  Formazione di ROS  Induzione di enzimi antiossidanti  Riduzione dell’efficienza fotosintetica  Degradazione delle proteine D1 e D2 del PS-II  Fotoossidazione dell’ IAA  Riduzione del contenuto e dell’attività della Rubisco

 Formazione di CPD e (6-4) PPs

 Induzione di meccanismi di riparazione

 Sottoespressione dei geni fotosintetici

Figura 4: Effetti degli UV-B sulle piante (Kataria et al 2014)

nella fioritura e nella maturazione dei frutti di diverse piante coltivate, questo perché alcune risposte morfogenetiche guidate dalle radiazioni sono una conseguenza dei

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cambiamenti indotti da UV-B direttamente sul metabolismo ormonale. È stato provato che le specie dicotiledoni sono molto più sensibili agli UV-B rispetto a specie monocotiledoni. Insieme ai cambiamenti della parte epigea, gli UV-B influenzano anche i modelli di sviluppo di radice e rizoma. Kumari et al (2009) hanno evidenziato che la lunghezza della radice diminuisce con la dose più bassa di UV-B in Acorus calamus; è stato osservato anche che lo stress da UV-B portava ad una riduzione della biomassa radicale in soia, in Calamagrostis purpurea e in Lolium perenne.

Gli effetti fisiologici causati da UV-B includono la riduzione dell’attività fotosintetica dovuto alla parziale degradazione delle proteine del PS II, alla degradazione delle clorofille e dei carotenoidi, alla riduzione dell’attività della Rubisco e ad effetti sulle funzioni stomatiche.

Gli effetti biochimici di UV-B includono l’accumulo di flavonoidi nell’epidermide vegetale; i flavonoidi forniscono una protezione dalle radiazioni poiché riescono ad assorbire la componente UV-B. A bassi tassi di fluenza, gli UV-B fanno esprimere alcuni geni coinvolti in una vasta gamma di processi di protezione, compresi i geni responsabili nella produzione di flavonoidi e composti fenolici. Ad alti tassi di fluenza, gli UV-B provocano invece danni alle biomolecole generando ROS (Reactive Oxigen Species), i quali possono causare l’ossidazione di lipidi o proteine, l’aumento della perossidazione dei lipidi e danneggiare il DNA. Al fine di ridurre l’impatto dei ROS, la pianta produce antiossidanti come l’acido ascorbico e l’α-tocoferolo e produce enzimi come la superossido dismutasi, l’acido ascorbico perossidasi e la glutatione reduttasi.

Il DNA è una molecola bersaglio potenzialmente sensibile alle radiazioni UV-B e subisce foto-trasformazioni che portano alla formazione di dimeri di pirimidina (CPD) e (6-4) pirimidina-pirimidone (G.I. Jenkins 2009).

1.6.2 Effetti degli UV-B sulla fotosintesi

La fotosintesi è uno dei processi metabolici più sensibili e più importanti poiché è direttamente legata alla produzione e alla resa della biomassa; per questo motivo diventa essenziale studiare la risposta fotosintetica allo stress da UV-B. Le risposte dei

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“pathways” fotosintetici agli UV-B dipendono dalle condizioni di crescita sperimentale e dalla fase di crescita delle piante, dal tasso di fluenza e dal rapporto tra PAR e UV-B, dal dosaggio UV-B, nonché dall’interazione con altri stress ambientali ad esempio freddo, siccità, carenza o eccesso di minerali.

In sintesi gli effetti diretti degli UV-B sulla fotosintesi sono:  Perdita dell’integrità delle membrane tilacoidali

 Danneggiamento del fotosistema II (PS-II) in misura maggiore rispetto al PS-I  Riduzione della fissazione della CO2

 Diminuzione del peso secco, del contenuto di amido e del contenuto di clorofilla Gli effetti indiretti comprendono:

 L’efficienza dello scambio gassoso può essere ridotta dall’induzione della chiusura stomatica

 L’arrivo della luce all’interno della foglia può alterarsi in base alle variazioni di spessore della foglia

 La fotosintesi dell’intera pianta può essere influenzata indirettamente dall’alterazione della morfologia della chioma

La radiazione UV-B può essere assorbita da diverse proteine nelle piante e proprio per questo esse sono facilmente danneggiabili. La radiazione influisce sui pigmenti fotosintetici sia attraverso l’inibizione della loro sintesi sia interagendo con enzimi coinvolti nella biosintesi della clorofilla. Marwood e Greenberg (1996) hanno dimostrato che una esposizione ad UV-B di una pianta acquatica (Sspirodela oligarrhiza) determina una riduzione della quantità di Chl a rispetto a Chl b, dovuta ad una distruzione selettiva di Chl a oppure ad una degradazione dei suo precursori. Cicek et al. (2012) hanno constatato una significativa riduzione dei carotenoidi nell’orzo dopo l’esposizione ad UV-B; i carotenoidi proteggono la clorofilla dalla distruzione fotoossidativa, quindi una loro riduzione potrebbe avere gravi conseguenze sulle clorofille.

Per quanto riguarda i meccanismi molecolari, le radiazioni UV possono inibire la fotosintesi alterando l’espressione di alcuni geni. Casati e Walbot (2003) hanno condotto un esperimento su piante di mais e hanno constatato una significativa sotto espressione di geni associati alla fotosintesi dovuta ad UV-B; la riduzione di espressione riguarda

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proteine fotosintetiche chiave tra cui: la Rubisco, proteine per complessi antenna periferici del PSII (Lhcb) e il polipeptide D1 del PSII (PsbA). I geni codificati nel nucleo sono più sensibili agli UV-B (rcbs subunità piccola della Rubisco, la subunità atpc-g dell’ATP sintasi, la binding protein del complesso antenna di PSII) rispetto ai geni codificati nel cloroplasto. La relativa sensibilità delle trascrizioni agli UV-B dipende anche dallo stadio di crescita del tessuto in esame.

Al contrario della sottoespressione di geni codificanti proteine fotosintetiche, i geni sovraespressi codificano una serie di meccanismi di difesa, come gli enzimi antiossidanti e gli enzimi coinvolti nella sintesi di pigmenti protettivi (B.R. Jordan 1994).

1.6.3 Effetti sul Fotosistema II (PS-II)

Il fotosistema II può essere considerato il cuore della fotosintesi, poiché la prima conversione di energia avviene nel suo centro di reazione. Il PSII è un complesso multiproteico incorporato nella membrana tilacoidale degli organismi fotosintetici, attraverso cui avviene il trasferimento foto-indotto di elettroni dall’acqua ai plastochinoni. Il danno ossidativo di proteine, lipidi e pigmenti contribuisce alla diminuzione della funzione della membrana tilacoidale e alla alterazione nell’organizzazione dei complessi di membrana. Swarna et al. (2012) hanno riportato che radiazioni UV-B su piante di mais influenzano la fotochimica del PS II (perdita di efficienza del 68 %) e questa inibizione è strettamente correlata alla perossidazione lipidica delle membrane tilacoidali delle foglie primarie. Il complesso evolvente ossigeno (Oxygen Evolving Complex) sembra essere sensibile ai raggi UV-B, che causano l’inattivazione della catena di trasporto degli elettroni. Altri bersagli del danno da UV-B nel core del PS II sono: i plastochinoni, i donatori di elettroni di tirosina e le proteine D1 e D2 del centro di reazione, che risultano essere i più sensibili, mentre il complesso antenna CP43 risulta più resistente. I meccanismi di fotoinibizione sono causati da una maggiore quantità di ROS, generati dalla radiazione UV-B, che conducono ad una riduzione di prestazione del PS II. Le ipotesi su quali siano i bersagli primari degli UV-B nel PSII sono ancora controversi; alcuni ricercatori hanno supposto che la causa

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primaria dell’inibizione del PSII sia l’inattivazione del trasporto di elettroni tra il complesso Mn, proveniente dall’OEC, e il mediatore redox tirosina, nella proteina

Figura 5: Effetti degli UV-B sulla membrana tilacoidale (Kataria et al. ,2014)

D1; altri invece hanno affermato che è l’inattivazione del trasporto di elettroni al plastochinone accettore (sito QA e QB).

Vass et al. (1996) hanno misurato gli effetti delle radiazioni UV-B sul complesso evolvente ossigeno (OEC) e hanno concluso che gli effetti sul plastochinone e sul mediatore redox tirosina sono eventi successivi al danno diretto all’OEC.

Rodrigues et al. (2006) hanno dimostrato che il plastosemichinone QA- è un

fotosensibilizzatore di radiazione UV-B, infatti con l’assorbimento di quest’ultima, cominciano a verificarsi reazioni che portano al danneggiamento del PS II, con la distruzione diretta della proteina D2. Alcuni esperimenti di Jansen et al. (1996) hanno sostenuto questa tesi mostrando che la proteina D2 viene degradata dagli UV-B. Szilard et al. (2007) hanno suggerito che l’effetto dannoso degli UV-B può verificarsi all’interno del sito catalitico della proteina D2, causandone un cambiamento strutturale e/o funzionale che rende l’intero complesso inattivo. Dobrikova et al. (2013) hanno rilevato che la radiazione UV-B influenza maggiormente il sito del plastochinone accettore QB

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15

Wang et al. (2010) hanno scoperto che le radiazioni UV-B causano una diminuzione dei parametri di fluorescenza come Fv/Fm, ϕPSII e la resa quantica di assimilazione della CO2, che indicano lesioni ai fotosistemi.

1.6.4 Effetti sul Complesso Citocromo b

6

f sul Fotosistema I e sulla

ATP sintasi

Il complesso del Citocromo b6f, insieme al fotosistema II e al fotosistema I, è un

complesso proteico di membrana che costituisce la catena di trasporto elettronico nella membrana tilacoidale. Alcuni studi pregressi suggeriscono che il complesso del cyt b6f e del PSI sono le componenti tilacoidali meno colpite dagli UV-B.

Il cyt b6f contiene due siti di legame per i plastochinoni: uno dove il plastochinolo viene ossidato, e l’altro in cui si verifica la riduzione del plastochinone; proprio per questo motivo il complesso è resistente agli UV-B. Eichorn et al. (1993) hanno osservato riduzione nel contenuto di Cyt f associato ad un rapporto minore di Chl a /Chl b in piante trattate con UV-B, che causa una riduzione nella capacità di trasporto di elettroni. Gli effetti degli UV-B sul PS I sono minori rispetto al PS II; nei casi in cui viene applicata un’alta intensità di radiazione UV-B, la compromissione di PS I è solitamente osservata con una diminuzione di assorbimento a 700 nm che riflette la quantità di clorofilla ossidata nel centro di reazione (P700). Lindon et al. (2011) hanno documentato che i danni alla struttura proteica all’interno di PS I contribuiscono all’amplificazione dei ROS, già innescati dalla perossidazione lipidica dei tilacoidi e dalla proteolisi del PS II.

La reazione di fotofosforilazione è catalizzata dall’ ATP-sintasi nelle membrane tilacoidali dei cloroplasti e l’inattivazione di essa, mediante irradiazione UV-B, è totale a 290 nm. Una rappresentazione schematica di vari siti influenzati dalla radiazione UV-B è illustrata in Figura 5.

1.6.5 Effetti sulla regolazione stomatica

La regolazione stomatica è un altro importante processo che limita la fotosintesi delle foglie. Diversi studi hanno dimostrato che la riduzione nell’assimilazione di CO2 è

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16

causata dalla riduzione della conduttanza stomatica indotta dai raggi UV. Alte irradiazioni di UV-B influenzano direttamente gli stomi agendo sui meccanismi di controllo dell’apertura delle cellule di guardia; questi meccanismi contribuiscono ad una risposta coordinata agli UV-B ed alcuni possono essere potenziati dalla radiazione fotosinteticamente attiva (PAR). Una volta esposti alla radiazione UV-B, gli stomi non sono più in grado di regolare efficacemente la loro apertura in risposta agli stimoli ambientali. La riduzione del tasso di assimilazione della CO2 può essere mediato dai

complessi antenna LHC, con l’interruzione dell’integrità della membrana tilacoidale oppure con la degradazione o inattivazione della Rubisco (Takeuchi et al. 2002).

1.6.6 Effetti sull’enzima Rubisco

Nelle foglie la proteina più suscettibile al danno da UV-B è la proteina ribulosio-1,5-bifosfato carbossilasi-ossigenasi (Rubisco). Questo enzima catalizza l’incorporazione di CO2 nello zucchero all’interno del Ciclo di Calvin. Dal momento che la Rubisco non

contiene cofattori cromogeni, solo gli aminoacidi aromatici che la compongono possono assorbire gli UV-B. Ogni oloenzima di Rubisco è costituito da otto grandi subunità (LSU,53 kDa) e otto piccole subunità (SSU, 14 kDa). Entrambe le subunità contengono triptofano (Trp), il potenziale bersaglio degli UV-B. Nella fissazione della CO2 del Ciclo

di Calvin, l’aumento della radiazione UV-B causa una riduzione sia in attività che in contenuto di Rubisco in molte colture coltivate in campo. L’inattivazione indotta della Rubisco potrebbe essere dovuta ad una modifica della catena polipeptidica, alla degradazione della proteina e/o alla ridotta trascrizione del gene. Il trattamento prolungato alla radiazione UV-B potrebbe causare una compromissione dell’attività catalitica dell’enzima, una riduzione del livello di mRNA delle subunità della Rubisco, e la Large

subunit (LSU) potrebbe trasformarsi in una proteina da 66 kDa per ossidazione indotta.

Allen et al. (1998) hanno dimostrato che gli UV-B riducono l’attività della Large sub-unit della Rubisco in foglie mature di colza.

Altri autori hanno dimostrato che i ROS generati dai raggi UV-B inducono al fotodanneggiamento della Rubisco, causando la degradazione proteolitica della LSU. John et al. (2001) hanno riportato che, in Arabidopsis, l’esposizione ad UV-B induce l’espressione di geni associati alla senescenza (SAG), tra cui SAG12, che codifica per

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17

una proteasi di cisteina, coinvolta anche nella degradazione della Rubisco in piante di riso. Inoltre la rigenerazione del ribulosio1,5-bifosfato (RuBP) e la quantità di sedoeptulosio 1,7-bifosfato viene ridotta attraverso trattamento con UV-B.

1.6.7 UV-B inducono la formazione di ROS nelle piante

Nei cloroplasti, i fotosistemi I e II sono i principali siti di produzione di ossigeno singoletto (1O2) e radicale superossido (O2.-). È ormai risaputo che i vari ROS sono

coinvolti nelle risposte delle piante agli UV-B, sia come agenti segnalatori che come agenti dannosi. Radicali di ascorbato e radicali di clorofilla così come i radicali di ossigeno, carbonio e azoto sono stati rilevati, attraverso spettroscopia di risonanza paramagnetica elettronica (EPR), in diverse varietà di piante, dopo esposizione ad UV-B. Le principali fonti di ROS nelle piante sono la catena di trasporto degli elettroni (ETC) nei cloroplasti e nei mitocondri, alcune perossidasi e ossidasi (NADPH ossidasi, xantina ossidasi, lipossigenasi, glicolato ossidasi, ammina ossidasi), alcuni fotosensibilizzanti come le molecole di clorofilla e i perossisomi.

He et al. (2001) hanno documentato che l’H2O2, indotta da UV-B, inibisce la

germinazione del polline e la crescita del tubetto pollinico in Paeonia suffrutticosa e

Paulownia tomentosa.

Su alcune piante, lo stress da UV-B, ha causato un aumento significativo della forma reattiva dell’acido tiobarbiturico (TBARS), un buon indicatore di danno ossidativo generale dovuto a compromissione dei sistemi di difesa cellulari. Nel cloroplasto la catena di trasporto di elettroni (ETC) opera in un ambiente talmente ricco di O2 tale da fare

fuoriuscire gli elettroni dalla catena sovraccaricata e portare alla produzione di ROS, causando stress ossidativi, mentre una parte del flusso di elettroni viene deviata dalla ferredossina all’ O2, riducendolo a radicali liberi di superossido. I ROS possono venir

prodotti anche tramite la fotosensibilizzazione di alcuni composti, ad esempio l’ossigeno singoletto formato per fotosensibilizzazione, gioca un ruolo cruciale nel danneggiamento della proteina D1.

Barta et al. (2004) hanno osservato che le specie reattive dominanti durante lo stress da UV-B erano O2.- (idroperossiradicale) e il radicale idrossido (OH.), piuttosto che 1O 2

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superossido (O2-) invece si forma al livello della ferredossina nel PS-I, fatto dovuto allo

squilibrio tra fase di luce e fase notturna (Ciclo di Calvin) a causa dell’inattività della Rubisco.

Le piante hanno sviluppato delle strategie per alleviare il danno indotto dai raggi UV-B ai cloroplasti; queste strategie includono la schermatura degli organelli grazie all’assorbimento da parte di composti fenolici della radiazione UV, un meccanismo di riparazione che coinvolge il DNA e la sintesi de novo di proteine sensibili ai raggi UV, come le proteine D1 e D2 del PS II, e infine meccanismi di difesa che coinvolgono complessi enzimatici e complessi non enzimatici.

I sistemi di difesa ai danni ossidativi nelle piante coinvolgono enzimi come la superossido dismutasi (SOD), catalasi (CAT), perossidasi (POD), diidroascorbato reduttasi (DHAR), mono diidroascorbato reduttasi (MDHAR), glutatione perossidasi (GPX); i sistemi di difesa non enzimatici includono invece il glutatione ridotto (GSH), l’acido ascorbico (AsA), α-tocoferolo e carotenoidi. I principali percorsi di detossificazione dei ROS nelle piante includono le SOD che si trovano in tutti i compartimenti cellulari, ed anche le GPX e le CAT nei perossisomi. La radiazione UV-B induce la trascrizione di geni codificanti enzimi chiave del sistema enzimatico antiossidante come: APx, SOD, POD e CAT. I primi ROS ad essere generati in risposta agli UV-B sono i radicali superossido (O2-) e

il perossido di idrogeno (H2O2) probabilmente nei fotosistemi e nei tilacoidi;

l’esposizione a UV-B provoca una riduzione dell’attività dei fotosistemi e dell’attività della catena di trasporto di elettroni, aumentando il contenuto di radicali superossido, perossido di idrogeno, malondialdeide (MDA). Le SOD sono coinvolte nella detossificazione del radicale superossido, che può essere prodotto dalla sovra-riduzione nella catena di trasporto degli elettroni. Il perossido di idrogeno, anch’esso attivato dagli UV-B, viene detossificato dall’azione delle CAT, da perossidasi e antiossidanti a basso peso molecolare.

Ascorbato, α-tocoferolo e glutatione ridotto sono importanti molecole in risposta allo stress ossidativo, indotto dagli UV-B, attraverso la via non enzimatica. L’accumulo di ascorbato è una strategia di difesa importante contro l’ossidazione, ed è stato precedentemente documentato in una vasta gamma di piante tra cui la soia, il grano, il cetriolo e i fagioli mung. Regolando l’azione dei fitormoni, incluso IAA, l’ascorbato svolge un ruolo importante nei processi di sviluppo nelle piante; lo stato di ossidazione

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dell’ascorbato è particolarmente importante per il suo ruolo di molecola segnale: le alterazioni del suo stato di ossidazione potrebbero interferire con la crescita e lo sviluppo delle piante, e la capacità nel recuperare lo stato di ossidazione è un ruolo chiave che permette la crescita della pianta anche sotto lo stress da UV-B.

La rigenerazione dell’ascorbato ossidato viene ottenuta attraverso l’azione di enzimi come il MDHAR (monodeidroascorbato riduttasi) e il DHAR (deidroascorbato riduttasi), mentre il glutatione è rigenerato tramite l’enzima GR (glutatione riduttasi) (Selvakumar et al., 2008).

1.6.8 Studi di esclusione di UV-B

La maggior parte delle ricerche riguardo gli effetti delle radiazioni UV-B sul metabolismo e sull’espressione genica nelle piante, sono state condotte in serre, in camere di crescita o in laboratorio. Questi tipi di esperimenti indoor sono importanti per capire la risposta fisiologica agli UV; tuttavia producono spesso equilibri spettrali non realistici tra gli UV-A, UV-B e PAR, e in alcuni casi le piante sono esposte a dosi relativamente elevate a breve termine, che mancano di rilevanza ecologica. Pertanto, gli studi outdoor, che utilizzano l’irradiazione fornita dalla luce solare, sono necessari per valutare realisticamente gli effetti biologici degli UV-B. I due approcci più utilizzati negli studi

outdoor sono l’approccio di attenuazione (studi di esclusione degli UV) e l’approccio di

integrazione/potenziamento (fornire un alta concentrazione di UV-B). Gli studi di integrazione/potenziamento utilizzano banchi di lampade con luci fluorescenti che integrano i livelli ambientali di UV-B e hanno il vantaggio di valutare direttamente l’aumento dei livelli di UV-B che influenzeranno la fisiologia e lo sviluppo della pianta. Gli studi di esclusione invece usano film o filtri di plastica con diverse proprietà di trasmissione UV-B. In molte piante, attraverso l’esclusione degli UV-B solari, è stato documentato un miglioramento della crescita, un maggior accumulo di biomassa e un miglioramento della resa; in foglie di Cyamposis, Amaranto, Sorgo e Cotone cresciuti sotto filtri UV-B cut-off è stato dimostrato un aumento della quantità di clorofille (Chl) nelle foglie, accompagnato da una aumento del tasso di evoluzione di ossigeno; sempre in Cyamposis, con esclusione di UV-B, sono avvenuti dei cambiamenti strutturali del cloroplasto; Shine e Guruprasad (2003) hanno trovato un maggior numero di radicali e attività di detossificazione ROS più alte in foglie esposte a UV-B rispetto a foglie di piante

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coltivate sotto filtri UV-B cut-off; registrazioni di indici di fluorescenza hanno chiaramente dimostrato l’impatto negativo degli UV-B sulla prestazione del PS II come: l’efficienza fotochimica potenziale (Fv/Fm), i centri di reazione, la resa quantica del trasporto elettronico e gli indici di prestazione energetica.

In Ulva lactuca, in cotone, grano, sorgo e amaranto cresciute sotto filtri UV-B sono stati trovate alte concentrazioni di Rubisco con maggior attività enzimatica; con l’aumento di efficienza del PSII e della Rubisco si ha un aumento delle prestazioni fotosintetiche e un aumento di fissazione del carbonio (Bischof et al. 2000).

1.7 La fluorescenza della clorofilla a

La luce raggiunge la superficie delle foglie sotto forma di fasci di fotoni che vengono assorbiti dalle molecole dei pigmenti fotosintetici, e soprattutto dalla clorofilla. Questi pigmenti sono organizzati nei complessi antenna per massimizzare l’efficienza della raccolta della luce. L’energia assorbita viene trasferita verso i centri di reazione dei fotosistemi (PS-II e PS-I), e utilizzata per alimentare le reazioni fotochimiche. Una parte di questa energia non raggiunge il centro di reazione ed è dissipata sotto forma di calore dall’antenna stessa. Un’altra parte, pur raggiungendo il centro di reazione, viene riemessa sotto forma di fluorescenza. La fluorescenza rappresenta pertanto una forma di dissipazione dell’energia secondo l’equazione:

Energia assorbita = attività fotochimica + perdita di calore + perdita di fluorescenza

La quantità di energia dissipata in forma di fluorescenza durante la fotosintesi è piccola, va dal 3% al 5%. La fluorescenza rimane su livelli modesti quando la fotosintesi si svolge regolarmente e senza problemi. L’incremento dell’emissione di fluorescenza indica una riduzione dell’efficienza fotosintetica (Lichtenthaler e Rinderle 1988).

Dopo aver assorbito un elettrone, la molecola di clorofilla raggiunge un livello superiore di eccitazione energetica formando un singoletto. Il livello di eccitazione energetica dipende dalla lunghezza d’onda del fotone assorbito: essa è maggiore se questa è nel blu o violetto, ed è minore se è nel rosso.

La clorofilla può passare da uno stato di eccitazione superiore ad uno stato inferiore, con un trasferimento interno di energia. Questa transizione ha la durata dell’ordine di alcuni

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21

femtosecondi (10–15s). In un tempo appena più lungo (10–13s) la clorofilla passa ad uno stato di bassa eccitazione e l’energia in eccesso viene dispersa come calore. La molecola di clorofilla tende a tornare rapidamente (circa 10–9s) allo stato base di eccitazione. L’energia di eccitazione delle molecole di clorofilla viene dissipata per mezzo di calore, o tramite emissione di fluorescenza (λmax = 685 nm). L’energia rimanente è usata nel trasporto fotosintetico di elettroni (reazioni fotochimiche). La fluorescenza deriva sempre da una perdita di energia allo stato inferiore di eccitazione della clorofilla, e quindi viene emessa nelle lunghezze d’onda del rosso. Nello spettro della fluorescenza, la massima lunghezza d’onda di emissione è superiore a quella con cui la luce viene assorbita dalla clorofilla. Il picco di emissione di fluorescenza in una soluzione di clorofilla è a 668 nm, mentre il massimo assorbimento si verifica a 663 nm. Questa differenza si chiama “Stokes shift”. Il picco massimo di emissione di fluorescenza in una foglia a temperatura ambiente è a 685 nm (Hall e Rao, 1999), e lo spettro di fluorescenza si estende fino a 800 nm (Krause e Weis, 1984).

Mediamente nella foglia la Chl a è tre volte più abbondante della Chl b. Nelle foglie sane la fluorescenza viene emessa quasi esclusivamente da molecole di Chl a situate per lo più nel PSII. Infatti l’energia di eccitazione della clorofilla a viene trasferita alla clorofilla b quasi per il 100%.

Tramite l’analisi della fluorescenza della clorofilla si possono ottenere informazioni sull’efficienza degli apparati fotosintetici, consentendo di valutare lo stato fisiologico dei campioni fotosintetici esaminati. La fluorescenza può essere usata anche come metodo indiretto per stimare il contenuto di clorofilla.

1.7.1 Analisi e induzione della fluorescenza nella clorofilla

La misura della fluorescenza è una tecnica molto sensibile, in grado di rilevare i cambiamenti dello stato bioenergetico nelle piante fornendo, direttamente o indirettamente, informazioni su tutti i momenti della fase luminosa della fotosintesi: la fotolisi dell’acqua, il trasporto di elettroni, la formazione di un gradiente di pH nelle membrane dei tilacoidi e la sintesi di ATP. In tal modo è possibile misurare le risposte degli organismi esaminati ai cambiamenti dei parametri ambientali (radiazioni luminose

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e UV, temperature, stato idrico, inquinamento ambientale …), e di conseguenza l’insorgere di condizioni di stress e i meccanismi di acclimatazione. La fluorescenza è quindi una tecnica impiegata nella fisiologia dello stress.

La fluorescenza attiva viene indotta tramite l’applicazione di luce. Se il campione è stato precedentemente adattato al buio, all’inizio dell’induzione luminosa si osserva un forte incremento di fluorescenza fino ad un picco massimo, dopo di che la fluorescenza decresce lentamente fino a raggiungere un livello stabile. Questo andamento è denominato “effetto Kautsky” (Kautsky e Hirsch, 1931, Govindjee, 1995). La fluorescenza massima viene raggiunta in meno di 1 secondo e indica la riduzione del pool dei plastochinoni (chiusura dei centri di reazione). La successiva fase discendente è associata alle reazioni enzimatiche necessarie alla sintesi di ATP, NADPH e la riduzione della CO2 nella fase oscura che avviene nello stroma. Infine, il livello stabile esprime l’equilibrio fra l’assorbimento dell’energia luminosa e l’organicazione del carbonio (Schreiber et al. 1994). In un campione fotosintetico adattato al buio tutti i centri di reazione sono nello stato ossidato (centri di reazione “aperti”). Al momento dell’applicazione di una luce attinica (LA = luce in grado di provocare cambiamenti chimici, la cui intensità è generalmente fissata tra 200 – 500 μmol m-2 s-1) inizia, nel corso

di alcuni nanosecondi, la prima fase della fluorescenza indotta.

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Il primo punto rilevabile della fluorescenza indotta si verifica entro i 50 µs (nella curva di induzione è identificato come punto O). Questo valore determina la fluorescenza iniziale (F0), che è principalmente associata alle perdite di energia del pigmento antenna del PS-II (Fig. 6). L’aumento dell’emissione di fluorescenza fra F0 e FP (picco) dipende dal buon funzionamento dei donatori e accettori di elettroni nel PSII, e la efficiente connessione fra i vari elementi dell’apparato fotosintetico. Conseguentemente alla eccitazione del centro di reazione PSII, un elettrone ad alta energia riduce una molecola di feofitina (Feo-). Successivamente l’elettrone è trasferito al QA (il plastochinone connesso alla proteina D2), che è il primo accettore stabile del PSII. Dopo 2 – 5 milli secondi il centro di reazione è chiuso a causa della riduzione dell’accettore QA-, e l’intensità della fluorescenza sale fino al punto I. Nel breve termine si osserva un leggero declino della fluorescenza stessa da I a D, riflettendo la parziale riossidazione di QA dovuta al trasferimento dell’elettrone verso QB (accettore secondario associato alla proteina D1). Ciò consente il trasferimento consecutivo di elettroni eccitati dalla Feo al QA.

Le varie componenti della catena di trasporto degli elettroni (PQ mobile, complesso del citocromo b6f, accettori del PSI) vengono successivamente ridotti fino a che, attraverso molteplici turn-over, tutti i centri di reazione sono chiusi ed il pool del plastochinone è completamente ridotto. Alla chiusura di tutti i centri di reazione (che avviene in un tempo compreso fra 0,5 e 1 s), corrisponde l’intensità di fluorescenza massima (punto P, o picco). In questa fase il rendimento delle reazioni fotochimiche è minimo.

L’area compresa fra la curva e l’asse delle ordinate fornisce informazioni sul pool complessivo del plastochinone del PS-II (Krause e Weis, 1991). Tra i punti P e S vi è una netta riduzione della fluorescenza dovuta al rapido trasferimento di energia dal PSII al PSI, mentre aumenta il gradiente di concentrazione di protoni (ΔpH) tra l’interno dei tilacoidi (lumen) e lo stroma. Ciò consente alla fotofosforilazione di operare velocemente, e di attivare i processi fotosintetici della fase oscura. Dopo 5 – 9 s l’intensità della fluorescenza aumenta nuovamente fra il punto S e M a causa dell’esaurirsi della FNR (ferredossina riduttasi NADP+) e il conseguente rallentamento della produzione di NADP+. L’aumento della produzione di ATP e la rigenerazione di FNR (e il conseguente aumento di produzione di NADPH+) fanno sì che in breve tempo la fluorescenza della clorofilla riprende a declinare per raggiungere il livello base (steady, chiamato T o S) nel corso di alcuni minuti. Il tempo necessario per raggiungere questo livello dipende dallo

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stato fisiologico delle piante e dal loro grado di sviluppo. A questo livello di emissione della fluorescenza (Fs) vi è un equilibrio fra le reazioni fotochimiche della fase luminosa,

la produzione di energia (NADPH e ATP) e l’utilizzo di questi prodotti nella fase oscura.

1.7.2 La tecnica PAM e i parametri della fluorescenza

Strumenti di misura della fluorescenza basati sulla tecnica nota come “Pulse Amplitude Modulated” (PAM) sono disponibili in commercio dagli anni ’80. La tecnica fu proposta per primi da Bradbury e Baker (1981), e la chiamarono “light addition technique”. Successivamente Schreiber (1986) rese questa tecnica disponibile ad un gran numero di ricercatori per ricerche applicate. Per comprendere i principi della tecnica PAM è importante distinguere il concetto di “intensità di fluorescenza” da quello di “yield (o resa quantica) di fluorescenza”. L’intensità della fluorescenza è un valore assoluto che dipende dalle condizioni di illuminazione e può variare di molti ordini di grandezza. Lo yield invece è molto meno variabile (attorno ad un fattore di 5 – 6) perché esprime il rapporto fra fotoni assorbiti e fotoni riemessi. Nella fluorimetria PAM la sorgente di luce usata per misurare la fluorescenza è modulata, cioè applicata con impulsi ad alta frequenza, e la misura avviene solo sulla parte di fluorescenza generata dagli impulsi modulati. Perciò lo yield di fluorescenza relativo a tali impulsi può essere misurato anche in presenza di una illuminazione di fondo, come per esempio in condizioni di luce solare.

In sintesi, la fluorescenza della clorofilla è misurata in presenza di una fonte supplementare di radiazione attinica. In questo sistema di misurazione la luce viene somministrata ad intervalli di tempo, per periodi brevi (1 – 3 µs), ma sufficienti per rilevare l’impulso della fluorescenza. Il fluorimetro a fluorescenza modulata misura tre tipi di segnali:

1. la luce ambiente, che agisce come attinica;

2. il segnale di fluorescenza indotto dalla luce attinica;

3. il segnale di fluorescenza indotta da impulsi di luce modulata. Il segnale di fluorescenza è amplificato elettronicamente ignorando tutti gli altri segnali non indotti dagli impulsi luminosi.

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25

La tecnica PAM consente una misurazione accurata della fluorescenza iniziale in campioni adattati al buio (F0), dal momento che l’intensità iniziale della luce attinica è

molto bassa. Un esempio di misurazione PAM su un campione adattato al buio include un impulso di luce modulata (ML = modulated light) molto debole (0,1 – 10 μmol m–2s– 1), ma in grado di causare la fluorescenza della clorofilla. ML è originata da un sistema di diodi (LED) che emettono radiazioni nello spettro del rosso (di solito λmax = 650 nm). La debole radiazione iniziale non ha effetto di induzione della fotosintesi, e la fluorescenza della clorofilla proviene principalmente dalla perdita di energia dall’antenna, e quindi il suo valore può essere assunto come per F0. Prima della misura di

F0’ può essere applicato un debole impulso di luce nel rosso lontano (far red, FR).

Successivamente viene somministrato un impulso di saturazione (SP = saturation pulse) per un tempo di circa 0,8s. Si tratta di un impulso con intensità molto forte, fino a 16.000 μmol m -2 s -1 (LED, λmax = 665 nm), che causa la riduzione di tutti gli accettori del PSII,

il blocco momentaneo delle reazioni fotochimiche e, di conseguenza, l’aumento dell’intensità della fluorescenza fino a raggiungere il valore massimo (Fm).

Dopo che l’intensità della fluorescenza è tornata al livello di F0, viene nuovamente

somministrata una luce attinica con PPFD (Photosynthetic Photon Flux Density) = 200 – 500 μmol m -2 s -1 (LED, λmax = 665 nm). Questa luce provoca un aumento di

fluorescenza fino a FP (picco di fluorescenza). Nei minuti successivi la fluorescenza

diminuisce nuovamente fino al livello costante (stabile) di Fs (steady state fluorescence).

Dopo che è stato raggiunto Fs (circa 240 secondi dopo che è stato raggiunto FP), viene

somministrato il secondo impulso che riduce nuovamente gli accettori di elettroni del PSII. Questo impulso provoca un nuovo aumento di fluorescenza fino al livello FM’, che

è sempre inferiore a FM. La differenza tra FM e FM’ è dovuta alla estinzione non

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Figura 7: Esempio di cinetica della fluorescenza (Murkowski et al. 2002)

Successivamente, un impulso di luce nel rosso lontano (far red, FR) (30 µmol di fotoni m

-2 s -1 a 720 – 730 nm), in assenza di luce attinica (van Kooten e Snel, 1990; Maxwell e

Johnson, 2000) consente di misurare F0’, che è il livello minimo di fluorescenza quando i

centri di reazione del PSII sono aperti in una foglia adattata alla luce. Si assume che in tal modo (debole luce nel rosso lontano in assenza di luce attinica) venga eccitato preferenzialmente il PSI rispetto al PSII, rimuovendo così gli elettroni dal sito degli accettori del PSII (ossidazione del pool dei plastochinoni associati al PSII) e favorendo l’apertura dei centri di reazione del PSII.

La fluorescenza modulata consente, in particolare, l’analisi del quenching, cioè dei processi di estinzione della fluorescenza stessa. Questa estinzione può avvenire a causa del trasporto degli elettroni fuori dal PSII, con un meccanismo indotto dall’attività degli enzimi coinvolti nel metabolismo del carbonio, ed è chiamata “estinzione fotochimica” (photochemical quenching, qP). Un processo parallelo riguarda la conversione dell’energia in calore, ed è denominato “estinzione non-fotochimica” (non photochemical quenching, NPQ). Normalmente le variazioni di stato che avvengono a causa di questi due processi durano circa 15 – 20 minuti, prima che si raggiunga lo stato di emissione costante di fluorescenza (FS).

Il parametro FV / FM = [(FM –F0) /FM], in campioni adattati al buio, indica la massima

efficienza (resa quantica) per la fotochimica primaria da parte del PSII, ed è il parametro maggiormente usato come indicatore affidabile dell’attività fotochimica dell’apparato fotosintetico. Il valore può variare da 0 a 1, ma il valore ottimale di questo parametro è

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0,83 (Bjorkman e Demmig, 1987).. La diminuzione di questo valore, che avviene a seguito dell’azione di vari fattori di stress, indica un danno o una ridotta efficienza del centro di reazione del PSII. La riduzione di FV / FM comporta l’aumento della dissipazione

di energia nell’antenna sotto forma di calore ed è indice di fotoinibizione.

Il parametro ΦPSII (effective quantum yield) detto anche semplicemente Yield (Y),

consente di valutare la resa quantica effettiva delle reazioni fotochimiche nel PSII, in foglie adattate alla luce (Genty et al. 1989).

ΦPSII = (F’M – FS) / F’M

L’effective quantum yield misura la proporzione di luce assorbita usata per alimentare le reazioni fotochimiche. L’efficienza fotosintetica è determinata dalla quantità di accettori di elettroni disponibili presso il PSI (normalmente NADP+), per cui ΦPSII decresce in

condizioni di limitato consumo di NADPH, come per esempio quando la concentrazione interna di CO2 è bassa (stress idrico). Lo Yield fornisce una misura del trasporto lineare

degli elettroni e dà un’indicazione della fotosintesi complessiva. In condizioni di laboratorio è stato provato che esiste una stretta relazione fra ΦPSII e ΦCO2 (resa quantica

di fissazione di CO2 in assenza di fotorespirazione). Tuttavia una discrepanza fra ΦPSII e ΦCO2 può avvenire in certe condizioni di stress e può determinare alterazioni nella fotorespirazione e nel trasporto pseudociclico di elettroni (reazione di Mehler, Fryer et al. 1998).

Un grande vantaggio pratico di questo parametro è che entrambi i valori FM’ e FS sono

misurati alla luce e quindi non è necessario l’adattamento al buio del campione. Tuttavia, poiché ΦPSII è fortemente influenzato dall’intensità della luce, sono necessarie delle

precauzioni durante la misura in condizioni di campo, dove è difficile evitare cambiamenti repentini nelle condizioni di illuminazione. (Bussotti et al. 2012)

ETR, o Linear Electron Transport Rate, indica la capacità fotosintetica complessiva in vivo e deriva dal parametro precedente (ΦPSII). ETR misura la velocità del trasporto di

elettroni ad una data intensità luminosa (Photosynthetic Photon Flux Density, PPFD, misurata in µmol m-2 s-1). Si calcola come:

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Dove α è un termine che include il prodotto dell’assorbimento di luce da parte della foglia e la ripartizione dei quanti assorbiti fra il PSI e il PSII. Da un punto di vista applicativo si assume che solo l’84% della luce incidente venga assorbita, e che per muovere un elettrone sia necessaria assorbire due quanti (uno per il PSII e uno per il PSI), per cui la formula diventa:

ETR = ΦPSII *PPFD*0,84*0,5

1.7.3 Analisi degli scambi gassosi

Le analisi di misurazione degli scambi gassosi sono attualmente le tecniche più comunemente utilizzate, a scopi commerciali e di ricerca, per studiare i processi di respirazione e fotosintesi in vivo su singole foglie o su piante intere. I sistemi di misurazione sono i gas analyzer, strumenti che permettono di misurare le concentrazioni di vapore acqueo e di CO2 in ingresso o in uscita da una camera (cuvetta) in cui viene

inserita la pianta o parte di essa. Le molecole gassose assorbono le radiazioni dell’infrarosso, e ciascun gas ha uno spettro di assorbimento diverso. Gli analizzatori differenziali IRGA (Infrared gas analyzer) misurano la riduzione della trasmissione di raggi infrarossi causata dalla presenza di CO2 tra la fonte e il rivelatore; la riduzione è in

funzione della concentrazione di CO2. La cuvetta è situata su un unità mobile, in grado di

aprirsi a pinza, per l’inserimento all’interno del materiale vegetale; le guarnizioni di gomma permettono la chiusura ermetica e l’isolamento dall’ambiente esterno. All’interno della cuvetta è possibile monitorare una serie di parametri fra cui concentrazione di CO2,

umidità relativa, pressione i quali possono essere impostati e mantenuti costanti dall’operatore; all’interno della camera è presente una lampada LED che permette di fornire intensità luminose predefinite. L’unità mobile è collegata ad una console, l’unità centrale dell’analizzatore. Esistono due tipi di analizzatori di scambi gassosi, quelli a sistema chiuso e, quelli più utilizzati, a sistema aperto. Nei sistemi aperti l’aria viene aspirata e immessa nel sistema attraverso una pompa; i flussimetri regolano invece i flussi e li dividono in due parti: il flusso di riferimento che viene indirizzato ad un primo IRGA e il flusso del campione che passa attraverso la camera dove è posta la foglia che viene indirizzato ad un secondo IRGA. Una volta posto il campione nella camera, è necessario attendere che il sistema raggiunga un equilibrio (steady state), e ciò dipende dalla capacità di scambio di CO2 e vapore acqueo che la foglia scambia con il flusso di aria passante e

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quindi dalla sua efficienza dei processi fotosintetici e di respirazione/traspirazione. L’analizzatore IRGA permette di misurare, attraverso la misura dei differenziali di concentrazione di CO2 e H2O tra i flussi di analisi e di riferimento, alcuni parametri tra

cui l’assimilazione netta di CO2 (A), la traspirazione (E), la conduttanza stomatica (gs) e

la concentrazione intercellulare di CO2 (Ci). Questi analizzatori ci permettono inoltre di

visualizzare l’andamento di questi parametri al variare della luce PAR (curve luce A/PPFD) e della concentrazione di CO2 (curve A/Ci).

L’analizzatore LI-6400 Portable Photosynthesis System (Li-COR, Nebraska USA) è un sistema aperto di ultima generazione e possiede gli analizzatori IRGA nell’unità mobile dove è presente la cuvetta per il campione. La console presenta una tastiera e uno schermo LCD che consentono di impostare i vari parametri e visualizzare i loro andamenti; all’interno è presente un sistema di memoria che permette di salvare i dati delle analisi. Attraverso questo gas analyzer è possibile condizionare il flusso d’aria in entrata, ovvero parametri come la concentrazione di CO2 e di H2O, l’umidità e la temperatura possono essere impostati dall’operatore. L’unico gas presente nell’aria con spettro di assorbimento che si sovrappone a quello della CO2, è il vapore acqueo; per ovviare a questo problema il LI-6400 è dotato di una colonna di drierite che dissecca l’aria eliminando il vapore acqueo; per eliminare invece qualunque traccia di CO2 nell’aria si fa passare il flusso entrante in un cilindro contenente soda lime, in grado di sequestrare la CO2 presente. Il LI-6400 è dotato anche di una bombola di CO2 pura collegata ad un iniettore, che permette di impostare nel flusso una determinata concentrazione di anidride carbonica, grazie ad un mixer che lo mantiene costante.

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Sull’unità mobile del LI-6400 può essere inserito un fluorimetro che permette di misurare la fluorescenza della clorofilla e quindi l’efficienza fotochimica del PSII (Φ PSII)

attraverso la tecnica della PAM (Pulse-amplitude modulated).

Figura 9: Tubo di Drierite e spazio per il tubo di soda lime, LI-6400 (using the LI-6400 PSS, 1998)

1.7.4 I Parametri degli scambi gassosi

I parametri che regolano gli scambi gassosi sono essenzialmente dovuti alle equazioni di

Caemmerer e Farquear (S.von Caemmerer e G.D.Farquhar,1981). Il tasso di

traspirazione è dato dalla seguente formula:

sE = uowo -uiwi

dove s è l’area della foglia (m2), E è la traspirazione misurata in moli m-2s-1, u

i e uo sono

rispettivamente i flussi molari di aria in entrata e in uscita dalla cuvetta (mol s-1), wi e wo

sono rispettivamente le frazioni molari di vapore acqueo nell’aria in entrata e in uscita dalla cuvetta. Sapendo che uo = ui + sE allora possiamo calcolare la traspirazione come:

E = 𝑢𝑖 (𝑤𝑜−𝑤𝑖)

𝑠(1−𝑤𝑜)

L‟assimilazione netta di CO2 (A), misurata in mol m-2 s-1, per superficie fogliare (s),

misurata in m2, è calcolata dalla seguente equazione:

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dove ci e co sono le frazioni molari di anidride carbonica presente nell’aria in entrata e in

uscita dalla cuvetta, rispettivamente. Tuttavia la traspirazione inficia la corretta valutazione di questo parametro, poiché addiziona vapore acqueo al flusso di aria all’interno della cuvetta. Occorre perciò introdurre un fattore di diluizione che tenga conto di questo fenomeno. Considerando che uo = ui + sE si ottiene dopo alcuni passaggi

l’equazione per il calcolo dell’assimilazione netta: A = 𝑢𝑖(𝑐𝑖− 𝑐𝑜)

𝑠 − 𝐸𝑐𝑜

La conduttanza stomatica al vapore acqueo (gsw), misurata in mol m-2s-1 corrisponde

all’inverso della resistenza stomatica:

𝑔𝑠𝑤 =

1 𝑟𝑠

Dove rs è la resistenza stomatica alla diffusione del vapore acqueo ed è calcolata così:

𝑟𝑠 =

(𝑒𝑙𝑒𝑎𝑓− 𝑒𝑜𝑢𝑡)

𝐸𝑃 − 𝑟𝑏

Dove eleaf è la pressione di vapore saturo alla temperatura fogliare mentre eout è la

pressione di vapore acqueo che fuoriesce dalla camera, E è la traspirazione, P è la pressione atmosferica e rb è la resistenza dello strato limite al vapore acqueo.

La concentrazione intercellulare di CO2 (Ci), misurata in µmol di CO2 mol di aria-1 è data

da:

𝐶𝑖=

(𝑔𝑡𝑐−𝐸2) 𝐶𝑜𝑢𝑡106 − 𝐴

𝑔𝑡𝑐+𝐸2

La conduttanza totale alla CO2 (gtc), misurata in mol m-2s-1 è data dalla seguente formula:

𝑔𝑡𝑐 = 1

1,6 𝑟𝑠 +

1,37𝑘𝑓 𝑟𝑏

Dove kf è un fattore che indica la conduttanza stomatica di una sola pagina fogliare; 1,6 e

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nell’aria e misurato nello strato limite (Using the Li-6400 Portable photosytnhesis system 1998).

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