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Per Alberto Savinio, infatti, la grecità altro non è che sentimento dell’infanzia. Un’infanzia principalmente culturale, quella del bambino

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(1)

I C ONVEGNI DELLA D EA M NEMOSINE

La forza immaginativa di Alberto Savinio si getta nel mare del patrimonio mitologico classico con un tuffo di testa. Ed è proprio questa costante immersione in quella che lo scrittore stesso definisce la propria grecità a fornirgli gli strumenti grazie ai quali creare una narrazione capace

di emergere come un Nivasio Dolcemare, venendo fuori dalla semplice dimensione del quotidiano, intrecciando – indissolubili, come trama e ordito – classicità e gusto potentemente avanguardista.

Ma l’estetica greca in Savinio non assume le fattezze di una poetica della forma, di una quête incessante dell’espressione ricercata, nobile, antica, o – semplicemente – di quella più raffinata. È testimone, invece, dell’estrema importanza che quella grecità assume nella sua carriera artistica e umana, dalla quale egli non vuole e non può allontanarsi mai.

Per Alberto Savinio, infatti, la grecità altro non è che sentimento dell’infanzia. Un’infanzia principalmente culturale, quella del bambino

occidentale, che ha i suoi padri e i suoi miti tra le bianche spiagge dell’Egeo

e i monti aridi della Tracia; un’infanzia di canti scazonti modulati al suono

della lira, o di balli ossessi sulle note del sirtaki. Ogni bambino, infatti, nasce

(2)

in Grecia. Apprende, sugge i semi aspri del melograno, contempla l’acropoli che si staglia sul cielo metallizzato di un’Atene ormai balcanica e succube di un’ossessione di inferiorità. Poi, per scelta o perché avvinto alla catena della necessità, affronta il mare alla maniera degli argonauti, raggiunge le «funeste Simplegadi» di ponente. Emigra. Porta quella ricchezza, quelle fulgide immagini, la musicalità del salterio, a vivere altrove, lontano. E il bambino si fa uomo, e la sua vita smette di essere «una continuazione, uno sviluppo, un ingigantimento dell’infanzia», diventando «l’ordinamento monotono, e grigio, e noioso che è».

Per Savinio, grecità e sentimento dell’infanzia sono la stessa cosa, anche alla lettera, perfino all’anagrafe.

Il Nostro infatti nasce e si forma anche artisticamente ad Atene –

«Atene, Nivasio Dolcemare la conosce bene. Ad Atene Nivasio Dolcemare ci è nato. […] Atene, Nivasio Dolcemare la ricorda bene» afferma Savinio in una terza persona grammaticale –,

1

tanto da costruire il suo sistema narrativo a partire proprio da quel repertorio di immagini antiche. Lì studia musica e lì si diploma in pianoforte. Savinio musicista quindi, ma anche Savinio regista, Savinio pittore, Savinio saggista, Savinio narratore: Savinio il polpo dalle

1

A

LBERTO

S

AVINIO

, Fame ad Atene, apparso in «Città», 23 novembre 1944, ora in I

DEM

, Opere.

Scritti dispersi tra guerra e dopoguerra (1943-1952), a cura di Leonardo Sciascia e Franco De

Maria, Milano, Bompiani, 1989, p. 69.

(3)

«infinite braccia in continuo movimento, inafferrabili»,

2

per cui la Grecia tutta somiglia a una mitica fonte battesimale da cui attingere continuamente per infiniti riferimenti, sterminate digressioni, eterni richiami: Alberto Savinio incarna compiutamente il compendio della civiltà occidentale.

1. La Grecia è «tragica».

Gran soluzione, il sorriso. Miglior solvente per sgomberare la via del flusso delle sopravvivenze e del tragico, questo massimo degli ingombri. Chi nega il tragico della vita? Il fondo stesso della vita forse è tragico. Io non lo so. Certi approfondimenti, il pudore me li vieta. Ma c’è anche il tragico che l’uomo impone a se stesso per «somigliare» al nume. Al «tragico» nume. Sorgente del tragico. Jouer à se faire peur à soi-même. Mi rileggo Eschilo e un maligno genietto mi vieta di assaporare in piena fiducia, in pieno abbandono quella tragica poesia.

3

La riflessione sul tragico compare a più riprese e con insistenza nelle pagine saggistiche di Alberto Savinio, ora presentandosi nelle forme di un’improvvisa divagazione – come nell’articolo citato, dove Savinio parla delle pasticche di vitamina e dell’ottimismo degli americani –, ora distendendosi in argomentazioni più puntuali che affrontano in maniera

2

S

ILVANA

C

IRILLO

, Alberto Savinio. Le molte facce di un artista di genio, Milano, Bruno Mondadori, 1997, p. 1.

3

A

LBERTO

S

AVINIO

, Ottimismo, in I

DEM

, Scritti dispersi. 1943-1952, a cura di Paola Italia, Milano,

Adelphi, 2004, pp. 1515-516.

(4)

diretta la questione filosofica del tragico e della sua mise en place nel linguaggio delle arti.

«Il fondo stesso della vita forse è tragico. Io non lo so. Certi approfondimenti, il pudore me li vieta», confessa l’ateniese nei suoi ultimi anni nella città degli uomini, liquidando con svelta ironia i sostenitori del

«tragico della vita» e della – a suo dire, stupida – convinzione che «tragicità»

equivalga a «profondità». Ma, in realtà, dietro l’esibita diffidenza nei confronti della «tragica poesia» di Eschilo, Savinio dissimula un lungo percorso di ricerca, nel quale al tema del tragico si lega lo sforzo parallelo di fornire un’intuizione totale della civiltà greca, in una costante dialettica con i pensatori a lui più cari: Vico, Leopardi, Schopenhauer, Nietzsche, Spengler e Freud. Non solo, nel procedere più volte a esaminare le categorie di

«dramma» e di «tragedia» – in tutte le loro implicazioni letterarie, retoriche, estetiche ed etiche –, esse divengono anche elementi fondanti di una personale poetica, che nel corso degli anni va continuamente ridisegnando se stessa

4

e l’orizzonte del proprio classicismo.

Già nelle opere d’esordio – gli Chants de la Mi-Mort ed Hermaphrodito –, maturate nel clima delle avanguardie parigine e dei funambolismi lirici di

4

In questa direzione, pionieristica e decisamente persuasiva è l’analisi di Davide Bellini che ripercorre in senso diacronico l’itinerario poetico saviniano alla luce della categoria di «tragedia», individuando «una traiettoria che muove dall’iniziale investimento sul “potere tragico” della metafisica per giungere poi alla sua sostanziale decostruzione» nelle opere del Savinio maturo ed enciclopedista.

Cfr.: D

AVIDE

B

ELLINI

, Dalla tragedia all’enciclopedia. Le poetiche e la biblioteca di Savinio, Pisa,

ETS, 2013, p. 9.

(5)

«Lacerba», erano apparse in filigrana le premesse di una poetica segnata da uno spirito tragico

5

– a livello concettuale quanto espressivo – incastonato nel plissé di quella metafisica che rimarrà negli anni la sua cifra distintiva, paradossalmente radicata nella materialità del mondo, sospesa tra movenze ironiche e immagini surreali.

Nell’Hermaphrodito, il mito della superiorità dell’artista si traduceva in un lirismo visionario ed enigmatico, intriso di una «tristezza dura» e scortato – fin dall’inizio – da presagi di morte, mentre sul piano simbolico, il Nostro affidava la rappresentazione del proprio destino a due figure drammatiche: il funambolo nietzscheano – che, libero da ogni fede, esegue l’ultimo mortale esercizio senza alcun fine e senza attesa di compensi

6

–, e l’androgino platonico, creatura anfibia in cui convivono gli opposti e le contraddizioni, e che, nell’assenza di forma, accoglie in sé infinite possibilità plastiche.

Ma è a partire dagli articoli che Savinio irradia su «Valori plastici» – le pubblicazioni che tra il 1919 e il ’21 gettano le fondamenta filosofiche al suo classicismo artistico: versificazione metafisica dalle suggestioni neoplatoniche, fondata sulla memoria e concretizzata dalla stesura di

5

Sulla metafisica del primo Savinio, si veda: M

ARCO

S

ABBATINI

, L’argonauta, l’anatomico, il funambolo. Alberto Savinio dai Chants de la Mi-Mort a Hermaphrodito, Roma, Salerno, 1997.

6

L’opera si chiude con il giocoliere equilibrista che, salito sul trapezio per l’esercizio finale, sa che

la sua avventura «si chiuderà in dramma»: «con un prillo tragico, piomberà nella segatura della pista,

come una stella estiva. Sul mondo mutante e medesimo, la mia casa non rimarrà, fra le case degli

uomini». (A

LBERTO

S

AVINIO

, Hermaphrodito, Torino, Einaudi, 1974, p. 234).

(6)

Tragedia dell’infanzia

7

– che l’ateniese va maturando con più

consapevolezza una propria teoria estetica, nella quale la categoria del tragico si fa perno concettuale per la definizione dell’arte metafisica.

Entrando nelle viscere del dibattito culturale degli anni Venti – serrato tra l’esuberanza comico-eversiva delle avanguardie e il «rappel à l’ordre» di un nuovo classicismo –, il Nostro si fa allora promotore di un’arte capace di far risorgere lo «spirito tragico» proprio dei Greci e dell’infanzia dell’umanità.

In una voce della Nuova Enciclopedia – scritta nel 1925 – dal titolo Potere (tragico), Savinio traccia un bilancio della propria passata esperienza

di scrittore,

8

individuando il filo rosso che connette Eschilo, Ibsen e l’arte metafisica, rivendicando a se stesso il merito di aver salvato il «potere tragico» – leggi: la stessa sostanza dell’arte – dal rischio di un’irrimediabile estinzione:

Quando l’uomo ebbe finito di affrontare la natura e i suoi mostri, il potere tragico si consumò fin quasi a spegnersi. Di poi l’uomo restrinse la propria attenzione su se stesso e lo spirito tragico proruppe

7

Pubblicato nel 1937, Tragedia dell’infanzia ha la sua gestazione nell’ultimo scorcio degli anni Dieci; come recita il commento che chiude la narrazione, «La prima stesura di questo racconto è del 1919». (A

LBERTO

S

AVINIO

, Tragedia dell’infanzia, a cura di Paola Italia, Milano, Adelphi, 2001, p.

122).

8

Come scrive Paola Italia (in E

ADEM

, Il pellegrino appassionato. Savinio scrittore 1915-1925,

Palermo, Sellerio, 2004, p. 17), il 1924 «inaugura per Savinio una nuova stagione artistica»,

caratterizzata sia dalla frequentazione di nuovi linguaggi artistici (la musica, la pittura, il teatro) sia

da nuove acquisizioni sul piano teorico: «D’ora in poi la sua produzione avrebbe spaziato nei campi

più diversi e la sua storia artistica lo avrebbe portato a nuovi pellegrinaggi per le strade d’Europa».

(7)

nuovamente, dai grandi dissidi e dalle gravi lotte che l’uomo scoprì dentro il proprio animo. Esempi in arte del primo stato: Eschilo; del secondo: Ibsen e gli psicologisti. Ma venne il giorno in cui anche dall’oceano dell’anima i tardivi pescatori non trassero su se non qualche pesciolino di scarto. E l’arte si sarebbe messa a dieta se noi, proprio noi, non avessimo scoperto lo stato metafisico del mondo. La vita e la fortuna del potere tragico furono salve una volta ancora.

9

Sebbene il pensiero di Alberto Savinio sia in continuo movimento e non fissi mai in maniera definitiva la cornice della propria metafisica – l’ateniese parlerà, infatti, ora di metafisica concreta, ora di un «cristianesimo terreno»

o di una filosofia fantastica, ora di animismo, di surrealismo o di «ibsenismo»

–, rimane costante nel corso degli anni l’idea che questa potenza visionaria abbia la propria culla in Grecia.

Per il Nostro, Grecia e infanzia hanno la stessa terminazione fonetica.

La Grecia, giardino della fanciullezza europea, traboccante del fascino ancestrale delle sue civiltà, della stratificazione pluriculturale di ogni sua zolla di terra. Terra di epifanie, di metamorfosi, di mostri e di demoni, di dèi ed eroi in quotidiano commercio con gli uomini, in cui fisico e metafisico si penetrano vicendevolmente, l’Ellade è il luogo originario in cui l’allucinata fantasia dell’uomo barbaro trova la sua chiarezza e si fa arte. «Stato mentale»,

«modo di pensare, di vedere»,

10

sintesi, mêlange di Levante e Occidente

9

A

LBERTO

S

AVINIO

, Nuova Enciclopedia, Milano, Adelphi, 1977, p. 297.

10

I

DEM

, Vita di Enrico Ibsen, Milano, Adelphi, 1979, p. 9.

(8)

nell’universo dei rapporti umani, di pratiche e credenze, delle speranze e delle lingue stesse, la Grecia assurge potentemente a simbolo di antica madre mediterranea: feconda, molteplice e viva.

«Grecia» non è dunque un luogo, ma una facoltà universale che dalla sua sede primitiva travalica il mare e le epoche, trovando di volta in volta nuovi spiriti eletti in cui incarnarsi.

Lo spiritualismo greco «emigra in Occidente», e rifiorisce in Vico, Campanella e Bruno; greco è Leopardi, in cui «lo sguardo lungo e malinconico della Grecia continua a brillare come Espero, in un crepuscolo senza fine»

11

, greco è Ibsen – «Il Northmannaland, che con parola più mite noi chiamiamo Norvegia, è l’ultima Grecia dell’Europa. Per ora»

12

–, greci sono Jules Verne e Stravinsky, Apuleio e Böcklin. La «grecità» si trasmette di artista in artista, in una genealogia fantastica che funziona da griglia interpretativa del classicismo saviniano.

Per il Nostro, il classicismo – più che una scelta di poetica – è una sorta di investitura, un dono prezioso e insieme terribile che riguarda solo alcuni popoli e alcuni uomini, e che a lui, Savinio-Nivasio, è toccato in virtù di una nascita «all’ombra del Partenone», in un’Atene incantata e «bianca come una forma di pecorino»:

11

I

DEM

, Drammaticità di Leopardi, Roma, Edizioni della Cometa, 1980, p. 42.

12

I

DEM

, Vita di Enrico Ibsen, Milano, cit., p. 9.

(9)

Grande privilegio essere nati all’ombra del Partenone: questo scheletro di marmo che non butta ombra. Si riceve in eredità una generatrice di luce interna e un paio di occhi trasformatori. Questo il privilegio toccato a Nivasio Dolcemare. Anche al milione di creature che popolano l’Atene d’oggi? No. L’indigeno non ha diritto a questi doni, il suo naso è refrattario al profumo degli dèi; ma il singolo soltanto, l’isolato, colui che, nato in Grecia, greco non è. Come Nivasio Dolcemare, venuto al mondo in Atene, dall’unione di una tritonessa ligure con un centauro toscano. In ciò si riconosce la mano del Destino, la sua volontà di scelta.

Dice il Destino al privilegiato: «Prendi questa luce che trapassa i metalli più duri e serbala nella sede più riposta del tuo retrosguardo; aspira questo profumo misto di muschio e di sudore che è l’autentico odor dei e nascondilo nel cavo della narice. Chi dispone di questi infallibili mezzi di comparazione è condannato a una preziosa infelicità. Va’ e sopporta la tua pena. Addio!».

13

Il nesso metafisica-tragedia si consolida, dunque, all’interno del più vasto rapporto con la cultura greca. Come scrive Alessandra Zingone, più che mimesi o adesione a canoni e a rigidi schemi, «il classico – il classicismo – è di scena come categoria, dimensione, campo di riferimento, polo di attrazione in quanto generatore di inesauribili avventure della mente».

14

Da qui la presenza pervasiva del mito nelle varie declinazioni della prosa saggistica, nei romanzi, nei racconti, nelle biografie storiche e nel teatro, così come nelle opere di pittura e di musica; non tanto in funzione di una

13

I

DEM

, Isadora Duncan, in A

LBERTO

S

AVINIO

, Narrate, uomini, la vostra storia, Milano, Adelphi, 1984, p. 229.

14

A

LESSANDRA

Z

INGONE

, Alberto Savinio. Il classico nel segno del contemporaneo. Testi e

immagini, in «Bollettino ‘900», 1-2, giugno-dicembre, 2002, in http://www3.unibo.it/boll900.

(10)

riscrittura aggiornata ai canoni della modernità – e dunque con un’intenzione puramente letteraria –,

15

piuttosto attivando nuovi processi mitopoietici in funzione gnostica ed etica.

La fenomenologia mitica del passato si sovrappone e si fonde al tempo presente, dando luogo a nuove affabulazioni e a nuove configurazioni di senso.

16

Ne scaturisce così un mondo fantastico in cui passato e presente, attualità e sogno, quotidianità ed eccezionalità si scambiano continuamente le parti: c’è Diana, che abbandona le sale del Louvre per consumare la sua vendetta contro una novella Niobe (Isadora Duncan)

17

; c’è Agamennone, che

«travalica i secoli, traversa l’invenzione delle armi da fuoco»

18

e si ripresenta – nave da guerra inglese – a bombardare Ilion; e ci sono anche Nettuno – che concedendosi un po’ di fresco nei pomeriggi estivi al caffè Lubié di Atene, può mangiare un pasticcino e fumare con calma il narghilè prima di riprendere il mare –

19

ed Ercole, reincarnatosi nel presidente americano Roosevelt per sconfiggere i mostri nuovi del totalitarismo.

20

15

Savinio (Non furono miracoli né Omero né Virgilio, in, A

LBERTO

S

AVINIO

, Scritti dispersi 1943- 1952, cit., p. 1737) critica tanto il filologismo accademico, che «rimira le opere e le civiltà letterarie come altrettanti cadaveri imbalsamati» tanto la mania moderna di parafrasare la Grecia antica «in maniera intellettualistica», di rievocarla «in forma di travestimento, di mascherata, di trucco» (I

DEM

, Isadora Duncan, in A

LBERTO

S

AVINIO

, Narrate, uomini, la vostra storia, cit., p. 237).

16

«Il mito si intreccia con la storia reale e con il fantastico, mediante un procedimento ricorrente […] che annulla lo iato fra storia e mito e ne sancisce continuità, perdurante attualità e scambievoli leggi» (G

IOVANNA

C

ALTAGIRONE

, Io fondo me stesso. Io fondo l’universo. Studio della scrittura di Alberto Savinio, Pisa, ETS, 2007, p. 207).

Sulle riscritture saviniane del mito, si vedano anche: V

ANNI

B

RAMANTI

, Gli dei e gli eroi di Savinio, Palermo, Sellerio, 1983; A

NTONELLA

U

SAI

, Il mito nell’opera letteraria e pittorica di Alberto Savinio, Roma, Nuova Cultura, 2005.

17

Cfr.: A

LBERTO

S

AVINIO

, Isadora Duncan, in I

DEM

, Narrate, uomini, la vostra storia, cit.

18

Cfr.: I

DEM

, Vendetta postuma, in A

LBERTO

S

AVINIO

, Casa «la Vita», Milano, Adelphi, 1988, p.

63.

19

Cfr.: Ivi, Walde «Mare».

20

Cfr.: I

DEM

, Alcesti di Samuele e Atti unici, Milano, Adelphi, 1991.

(11)

Il mito classico, con il suo repertorio di temi, situazioni e personaggi, si fa così chiave interpretativa della storia, poiché porta alla luce – in una chiarezza cristallina – i conflitti, le paure, il destino; in una parola, «il dramma» umano e universale di ogni esistenza.

21

Ed è in questo dramma ecumenico che la struttura profonda della realtà, la sua «anatomia interna» –

quella che di volta in volta Savinio chiama l’«architettura», lo «spettro», l’«occhio», l’«anima», la «psiche»: nomi molteplici con cui, per una sorta di

«igiene mentale», egli va di continuo correggendo e aggiornando il suo pensiero –

22

si manifesta compiutamente, svestita.

Uno snodo fondamentale del rapporto tra Savinio e il tragico si percepisce potentemente nel romanzo autobiografico Tragedia dell’infanzia.

Tra accensioni liriche, piglio raziocinante e atmosfere rarefatte, l’ateniese ritorna al «tempo favoloso» della sua infanzia in Grecia, e ricostruisce – tallonato dalla Memoria – il cammino percorso da se stesso bambino fino all’inevitabile ingresso nella città dei grandi.

21

Va ricordato che nel mondo metafisico di Savinio – oltre agli uomini – anche gli animali, e piante e tutte le cose inanimate (una statua, un monumento, una piazza, una città, un paesaggio, un oggetto, il cielo) hanno una vita e un’anima. Anche per gli oggetto, infatti, un giorno arriverà la liberazione, quando l’uomo rivolgerà loro «quell’amore cristiano che finora egli portava soltanto agli uomini»

(A

LBERTO

S

AVINIO

, Prefazione a Tutta la vita, Milano, Adelphi, 2011, p. 13).

22

«Stamattina per caso ho ritrovato fra le mie carte questo “pezzo”. Lo avevo scritto una decina di anni fa (1938) e caso raro tra i miei scritti, era rimasto inedito. Me lo sono riletto e mi ha colpito. Mi ha colpito più di quanto mi colpiscano le cose mie rilette a distanza di anni. Mi ha colpito per un che di profondamente diverso. Come rivedere il me di allora in confronto al me di ora. Perché questa profonda diversità? ... Per una parola. Allora usavo la parola “anima”, ora uso la parola “psiche”.

[…] C’è profonda diversità fra “anima” e “psiche”. […] Bisognerebbe, per igiene mentale,

aggiornare regolarmente il linguaggio» (A

LBERTO

S

AVINIO

, Anima e Psiche, in I

DEM

, Scritti

dispersi. 1943-1952, cit., pp. 733-734).

(12)

Non «Commedia dell’infanzia» – commedia (Dante), comédie humaine (Balzac) – non «Dramma dell’infanzia» che, in quanto drasis, sottintende un «risultato»; ma «Tragedia», ossia sacrificio e annientamento.

La parte del toro è fatta dai bambini.

23

L’infanzia è l’unico momento della vita umana in cui la realtà si svela nel suo volto magico e prodigioso. Essa incarna la stagione mitica dell’uomo –

«Anche la vita dell’uomo esordisce con un mito»

24

–, perché, aliena dalle categorie cartesiane, dalla «ragione tarda e circospetta»

25

che guida l’età adulta, impara a conoscere per via immaginosa e sensuale.

Similmente alle menti dei primi uomini che – come sostiene Vico – «di nulla erano astratte, di nulla erano assottigliate, di nulla spiritualizzate, perch’erano tutte immerse nei sensi»

26

, la fantasia del bambino suscita fantasmi, anima l’inanimato, percepisce il mondo in visioni terribili o

dolcissime.

«Io sapevo ciò che nessun altro poteva sapere, vedevo ciò che nessun altro riusciva a vedere».

27

L’identità infanzia-mito stabilita nel romanzo – identità cementata dal patto di nascita che il protagonista sigla nella terra mitica per eccellenza –

23

A

LBERTO

S

AVINIO

, Commento alla Tragedia dell’infanzia, in I

DEM

, Tragedia dell’infanzia, cit., pp. 129-130.

24

Ivi, p. 125.

25

Ivi, p. 54.

26

G

IAMBATTISTA

V

ICO

, Scienza nuova, Milano, Rizzoli, 1977, p. 265.

27

A

LBERTO

S

AVINIO

, Tragedia dell’infanzia, cit., p. 21.

(13)

sviluppa il motivo della tragicità insita nel potere visionario del mito.

Tutt’altro che felice e spensierata, l’infanzia è infatti condizione doppiamente tragica. Da una parte, il bambino è immerso in uno stato impotente e tormentato, poiché vede continuamente repressi e castrati i propri sogni e i propri desideri, in una lotta impari con il mondo degli adulti; dall’altra – forse questa a più alto dosaggio di tragico – perché la coscienza infantile si lascia sedurre e dominare dalle proprie visioni senza poter contare sul soccorso della ragione, la sola forza capace di costruire un diaframma tra l’essere e il caos cosmico.

Sì, la civiltà è castrante; sì, è una forza controrivoluzionaria che progressivamente inaridisce la fonte fantastica del bambino, eppure Savinio sembra ammettere la necessità di abbandonare lo stato infantile e primordiale. Attraverso la voce dell’adulto – redattore dei ricordi – il romanzo prospetta infatti l’idea di un’arte come superamento della tragedia, capace di disciplinare la virtù ricettiva propria dell’infanzia, riconducendo «i voli dell’immaginazione» sotto il potere catartico dell’intelligenza e della Memoria.

Del resto, non esistono bambini artisti, se non in musica, «arte pazza» e irrazionale per eccellenza.

28

28

«Perché soltanto in musica allignano i fanciulli prodigio? Perché il musicista è il meno creativo,

il più ricettivo, il più femminile degli artisti. Perché nel musicista l’ispirazione opera più che nelle

arti (in pittura, arte maschile per eccellenza, l’ispirazione non esiste) ossia il fenomeno di una

volontà superiore che colpisce il musico e lo satura da sé» (A

LBERTO

S

AVINIO

, Mozart il fanciullo,

in I

DEM

, Scatola sonora, Torino, Einaudi, 1977, p. 39).

(14)

In anni successivi questo problematico punto nodale verrà sciolto con maggiore chiarezza argomentativa e sviluppato con più decise conclusioni:

La tragedia è una questione puerile. Nel tragico si nasce e la tragedia riempie di sé la scena dell’infanzia, fra tenebrose scenografie. Per che altro il piccolo uomo aspira a diventare grande, se non per il bisogno di uscire dal tragico della vita, ossia di passare dallo stato di paziente a quello di attore?

29

Ma, mentre l’uomo comune dimentica la tragedia e cammina nella vita

«vuoto e senza peso» – continua Savinio – l’artista, «l’uomo cosciente di sé, l’uomo di mente profonda non dimentica la tragedia, ma la risolve con i suoi propri mezzi e se ne libera»:

E dopo che ha risolto la tragedia dell’infanzia, ossia la sua tragedia intima, e personale, risolve a poco a poco anche la tragedia del mondo;

e quando ha finito di risolvere la tragedia del mondo e se ne è liberato allora entra in quello stato di serenità, di leggerezza, di “frivolità” di cui la morte è la meritata conclusione.

30

Nel percorso intellettuale di Alberto Savinio è avvenuto un mutamento radicale, metamorfosi inquadrabile come passaggio dalla metafisica tragica alla leggerezza metafisica. Così, mentre dall’orizzonte del suo pensiero

29

A

LBERTO

S

AVINIO

, Fuori del tempo, in I

DEM

, Scatola sonora, cit., p. 402.

30

Ibidem.

(15)

tramonta la fascinazione per le profondità insondate e ogni altro residuo del romanticismo tragico – i cui mentori erano stati Nietzsche, Goethe, Schiller e Wagner –, il Nostro apre un sentiero che vede l’arte come «la forma suprema della felicità».

31

Al Savinio maturo la «vita metafisica» non fa più paura, perché l’artista che ha valicato la tragedia può spaziare in quell’«universo allargato» e godersi le suggestioni della fantasia privandole del loro aspetto drammatico.

Conseguenza diretta di questa rivoluzione prospettica è allora una scrittura arguta, penetrante sul piano filosofico, che non abbandona mai la tensione raziocinante e argomentativa, ma che gioca coi modi della leggerezza ironica e dell’agilità fantastica, in un caleidoscopio di riproduzioni mitiche oramai prive di qualunque inclinazione al patetico e al mostruoso.

Proprio negli anni Trenta – gli stessi in cui rimaneggia il primo romanzo sull’infanzia –, Savinio approfondisce la propria riflessione sul tragico e, in uno scritto poi confluito nella voce Tragedia di Nuova Enciclopedia, di fatto ribalta le posizioni fino a lì sostenute: «l’arte esclude la tragedia».

32

La tragedia – spiega – nasceva in un tempo gravido di prodigi, in una terra popolata di mostri e di dèi, in cui l’uomo non aveva ancora reciso il legame originario e religioso con il cosmo. I primi tragedi ebbero così il compito di

31

I

DEM

, Tragedia, in A

LBERTO

S

AVINIO

, Nuova Enciclopedia, cit., p. 375.

32

Ivi, p. 368. Bellini (Dalla tragedia all’enciclopedia, cit., pp. 86-87) considera proprio questo

articolo (apparso nel 1934 in «Cinematografo» col titolo Origine della tragedia) «lo snodo teorico

decisivo relativo alla categoria di tragico», nel quale Savinio ribalta la propria visione, operando «un

rovesciamento delle tesi espresse da Nietzsche nella Nascita della tragedia».

(16)

ingaggiare la lotta contro i mostri, contro la natura, contro gli dèi, contro tutto ciò che l’uomo riteneva «male» e da cui sorgevano le sue paure – «la tragedia non è se non una forma di lotta contro il male» –.

33

I Greci furono «i primi e i soli a pensare all’arte come soluzione della vita».

34

Ma a questo punto del ragionamento, l’ateniese introduce dei distinguo e, sulla falsariga della nietzscheana Origine della tragedia – ma in totale disaccordo con le tesi che un tempo aveva fatto proprie –, traccia una sorta di storia dello spirito greco, dalla barbarie alla conquista del pensiero teoretico dell’arte. Per Savinio, «Eschilo non è un greco puro», perché le sue tragedie sono «disperate» e colme di magia e di misticismo, rivelando una mente «più ricettiva che creativa», intensamente predisposta ad assecondare

«le suggestioni dello spavento e dello stupore». Eschilo sarebbe così estraneo alla mente greca, che, invece, si rivela compiutamente nella tragedia di Euripide, che non adora il mostro – come il «barbaro» e «orientale» tragedo eleusino –, ma lo distrugge, trasfigurando il male in arte:

La tragedia come arte comincia con Euripide. Con un’opera che non è più rappresentazione diretta del tragico universale (Eschilo), né del tragico umano (Sofocle) ma espressione mnemonica, intellettuale, ironica e per tutto dire “artistica” del tragico della vita. In altre parole la tragedia di Euripide è la natura (il male) catturata e messa in gabbia, così anche i ragazzini la possono stare a guardare senza pericolo. (La

33

A

LBERTO

S

AVINIO

, Tragedia, in Nuova Enciclopedia, cit., p. 367.

34

Ivi, p. 369.

(17)

natura, cioè il male, considerata da vicino e di qua da un’inferriata, perde la sua terribilità e gran parte del suo fascino).

35

La differenza che separa i primi tragedi dall’«ateo e raziocinatore»

36

Euripide, risiede proprio in quest’opera di mediazione intellettuale, nell’esercizio di un pensiero che non si lascia sedurre dall’aspetto

«spaventoso e inesplicabile» delle cose (della natura, dell’uomo), ma vi si pone vis-à-vis, in piedi, impettito come Ercole di fronte all’Idra. Così, mentre prende le distanze da Eschilo – il tragedo di cui si sentiva continuatore –, simmetricamente Savinio innalza la tragedia euripidea a categoria generale dell’arte, «dell’arte intellettualistica: la nostra».

37

L’ultima fase della produzione artistica saviniana si apre dunque a una visione dell’arte radicalmente distante da quella teorizzata su «Valori Plastici». Anche allora Savinio parlava di un’intuizione del mondo

«cerebrale», ma là dove l’artista ambiva alla rivelazione del dramma interno alle cose, ecco che adesso si pone l’obiettivo di attraversare quel dramma, giungendo all’«indrammatico». Utilizzando il paradossale lessico saviniano, l’artista è dunque passato dalla scoperta della profondità alla «scoperta della superficie».

38

35

Ibidem.

36

I

DEM

, Alceste e Creature di Prometeo, in A

LBERTO

S

AVINIO

, Scatola sonora, cit., p. 217.

37

I

DEM

, Tragedia, in Nuova Enciclopedia, cit., p. 369.

38

I

DEM

, Vita di Enrico Ibsen, cit., p. 10.

(18)

Ricondotta al modello euripideo, l’arte si fa allora carico di una missione, che non è solo conoscitiva, ma è anche etica, poiché – riappropriandosi della funzione catartica peculiare dell’arte greca – avvia l’uomo verso una condizione più felice:

E la Grecia arriva a un gioco nel quale più nulla rimane della traversata tragedia e del dramma superato, se non una certa quale malinconica curiosità per le vicende umane.

39

Questo nuovo rapporto con il tragico – riconsiderato all’interno della dialettica attraversamento-superamento del dramma – comporta anche una nuova definizione della grecità, nella quale l’elemento visionario trova il suo necessario contrappeso in quello razionale.

L’occhio si associa al «cervello»:

S’intende per «Grecia» una mente portatile e nei modelli più alti tascabile. S’intende un cervello, un occhio, una voce in comparazione ai quali ogni altra voce diventa muta, ogni altro occhio cieco, ogni altro cervello «materia grigia». S’intende la facoltà consentita a taluni popoli e negata ad altri di intelligere la vita nel modo più acuto e assieme più

«astuto», più lirico e assieme più «frivolo» (i nostri dèi sono leggeri)

40

39

I

DEM

, Fuori del tempo, in A

LBERTO

S

AVINIO

, Scatola sonora, cit., p. 403.

40

I

DEM

, Vita di Enrico Ibsen, cit., p. 9.

(19)

Senza abbandonare l’immagine di una Grecia magica e favolosa, Savinio sposta allora il suo asse di interesse dalla «Grecia tragica» alla Grecia del

«dilettantismo».

Nel procedere della sua riflessione, infatti, la lettura del mondo greco si è fatta meno unitaria, più sfaccettata. Il monolite si è come sbriciolato, assumendo – nella deflagrazione metafisica – ora i tratti sinuosi del continente, ora le fattezze discontinue degli arcipelaghi ellenici che chiazzano l’Egeo; ora l’ateniese può individuare nell’idea greca le due anime contrapposte cui attribuire una diversa intuizione del mondo e dell’arte.

Esiste così una «Grecia asiatica», riconducibile a Eschilo – ma anche alla metafisica di Pitagora e di Platone – che ha la propria stirpe radicata nel mistico e teocratico Levante e che coincide con la «prima fase delle idee, dei pensieri, dei concetti: del mentalismo».

41

A questa «Grecia asiatica»

corrisponde una visione antica, tragica e atavica della vita – metafisica nel senso originario e illustre del termine –, poiché presuppone l’esistenza di «un dio unico», e dunque di una verità assoluta.

Ed esiste poi una «Grecia più greca»,

42

che emerge come evoluzione successiva e naturale di quella tragica, che è rappresentata da Euripide – e

41

I

DEM

, Orfeo vedovo, in A

LBERTO

S

AVINIO

, Scritti dispersi. 1943-1952, cit., p. 1444.

42

Ivi, p. 736.

(20)

con lui da Talete, Eraclito, Empedocle e Luciano, per citare solo i «più grec[i]

della Grecia»

43

– e a cui Savinio associa la propria originale metafisica.

È questa la Grecia «indrammatica» e frivola. È questa la terra che allo spiritualismo asiatico oppone l’intelligenza, alla serietà il gioco, al credo unico e assoluto l’ironia.

Solo una Grecia come questa può essere la casa soprasensibile di Alberto Savinio.

2. «Poetica della memoria».

L’arte è un dono che Dio ci ha fatto per consolarci in questo nostro esilio. L’arte pertanto è figlia della memoria: è della memoria la figlia più bella.

Gli stessi mezzi dell’arte nascono dalla memoria, perché solo nella memoria gli aspetti si compongono e si dispongono in ordine, trovano la fermezza e la gravità che li fa duraturi. Nella memoria nasce la linea, che è come il segno della perfezione.

44

Come sapientemente intuito da Paola Italia, gli appunti che Savinio stende sul rapporto tra arte e memoria coiscono in quella «poetica della

43

I

DEM

, Europa, in A

LBERTO

S

AVINIO

, Nuova Enciclopedia, cit., p. 147.

44

P

AOLA

I

TALIA

, Il pellegrino appassionato. Savinio scrittore 1915-1925, Palermo, Sellerio, 2004,

pp. 448-449.

(21)

memoria» che costituisce il retroterra teorico delle opere che il Nostro dedica all’infanzia, e che trovano uno spazio e un tempo di sintesi negli scritti sull’arte pubblicati sulla rivista romana «Valori plastici».

In questi saggi, Savinio manifesta, insistente, l’idea – ricavata da una lunga lettura della filosofia irrazionalistica tedesca dell’Ottocento – di una profonda crisi del periodo storico contemporaneo, causa di precarietà, incertezza, di un disagio diffuso, collettivo: «Conosco la mia epoca. Conosco la specie de’

miei contemporanei. Giammai, io credo, il mondo ha vissuto una età così sordida e disumana come la nostra»,

45

afferma l’ateniese nei primissimi anni del primo dopoguerra.

Se di fronte alla confusione del presente l’uomo comune può lasciarsi abbattere, può arrendersi, abbandonandosi alla corrente di una realtà disperante, l’artista no. Egli infatti – mediante il proprio metodo ippocratico – possiede la sensibilità per guardare alla realtà attraverso lenti diverse;

possiede una cura.

Così, se il mondo fenomenico non è in grado di fornire soggetti per un’arte che voglia ristabilire valori solidi e certi, l’artista deve esplorare la dimensione della memoria:

45

A

LBERTO

S

AVINIO

, Primi saggi di filosofia delle arti, in «Valori plastici», III, 5, settembre-ottobre

1922.

(22)

La memoria è il nostro passato. La memoria è il nostro proprio passato.

Ma non è soltanto il nostro proprio passato: è anche il passato degli altri uomini, di tutti gli uomini che ci hanno preceduti; via via fino a Caino, il quale, primo fu generato nel grembo di lei.

La memoria è la nostra cultura. È l’ordinata raccolta dei nostri pensieri.

Non solamente dei nostri propri pensieri: è anche l’ordinata raccolta dei pensieri degli altri uomini che ci hanno preceduto. E poiché la memoria è l’ordinata raccolta dei pensieri nostri e altrui, essa è la nostra religione (religio). Nacque la memoria nell’istante medesimo che l’esiliato Adamo varcava la soglia del Paradiso Terrestre. Nacque allora questa pensierosa facoltà, affinché lui e tutti i suoi discendenti mai più dimenticassero, fra i pericoli e le traversie, tra le fatiche e sotto la minaccia della morte, la felicità innocente e senza termine cui in principio egli era stato eletto e che di poi speriamo sempre di ritrovare.

Nacque insomma la memoria affinché si tramandi per lei, di uomo in uomo, il desiderio del perduto bene. Disperata era in principio la Memoria. Ma quando un dio si avvicinò a lei amorosamente, alla Memoria si aggiunse la speranza: dal crudo e dolorosissimo ricordo di ciò che fu, anche il desiderio che ciò che fu ritorni. Questo desiderio si adornò di una vaghissima promessa: grazie a lei, l’arida nostalgia, si voltò in conforto. Nove figlie generò l’amore di Giove a Mnemosine. Le quali, scese che furono sulla terra, questa ne sospirò di gioia e di consolazione.

L’arte dunque è sorta dal fecondo grembo della memoria. È per questo che nell’arte, più che in nessun altro modo, spira come una nostalgia, non di celesti rapimenti, ma della grazia che in principio fioriva quaggiù: dell’immortalità terrestre.

È per questo che nell’arte e solo nell’arte, il ricordo del primitivo bene ritorna vivissimo, preciso, e un’altra volta, miracolosamente, diventa certezza.

46

46

Ibidem.

(23)

Ma non c’è solo la Storia – impalpabile, incontrollabile nel suo svolgersi – a impedire, a schermare l’imitazione del reale; c’è anche l’estetica autoriale. Nell’illustrare la sua «poetica della memoria», Savinio manifesta infatti la sua visione violentemente antirealista e antinaturalista dell’arte. Per l’ateniese, essa non può farsi semplice deformazione del reale, né – tanto meno – specchio mimetico di questo.

47

L’arte deve, al contrario, essere concepita come costruzione e lettura del passato, come «riflesso lontano e mnemonico»

48

della realtà, come la traduzione del vissuto operata dal diaframma autoriale. Un rapporto diretto tra l’uomo e la realtà non è impensabile, è impossibile. «Mobile e transitoria»

49

per essenza, la realtà non può restare imprigionata in una forma eterna e fissa come l’arte. Continua infatti Savinio:

Nella realtà non è calma: essa fugge di continuo. Forse è obbligata a fuggire, per isfuggire alla morte che la incalza. E forse la cagione di ogni movimento è il timore della morte: questo è forse il mistero della formazione.

47

«Il golfo, mamma, il golfo!». Il golfo, il molo da un lato, l’anello dei monti lontani: erano quegli stessi, eppur stentavo a riconoscerli. Quale ambigua somiglianza è questa, che fa la cosa simile a se stessa e assieme diversa? L’arte coglie lo spettro delle cose e lo fissa per sempre. L’arte sorprende la natura nel suo stato di pazzia. Dipinto, il golfo era più bello che al naturale. Quell’ignoto scenografo era un cacciatore di spettri. Quanto poco verista fosse il suo telone di fondo, appariva dal mare soprattutto che stendendosi per tutto altrove liscio come un olio, sul davanti s’impennava in una burrasca improvvisa, e rizzava dei cavalloni altissimi e boccolati di spuma». (I

DEM

, Tragedia dell’infanzia, cit., p. 69).

48

I

DEM

, Rivista del cinematografo I, apparso in «Galleria», gennaio 1924, ora in V

ANNI

S

CHEIWILLER

(a cura di) Il sogno meccanico, Milano, Quaderni della fondazione Primo Conti, Libri Scheiwiller, 1981, p. 67.

49

Cfr.: P

AOLA

I

TALIA

, Il pellegrino appassionato, cit., pp. 448-49.

(24)

L’arte che si illude di riprodurre e di fermare questa realtà attiva, è un’arte condannata: nasce cadavere.

50

Il poeta non è dunque solo incapace di addomesticare la realtà senza sopprimerla, ma non può neppure affidarsi alla semplice ricostruzione del passato attraverso le tessere dei propri ricordi.

In Tragedia dell’infanzia, Infanzia di Nivasio Dolcemare e nei racconti a sfondo greco, infatti, le reliquie che Savinio conduce a una transizione di fase – dalla memoria alla carta – non servono a rivivere ciò che umanamente

si è concluso, ma a creare una realtà inedita, frutto dell’innesto mnemonico nel magma dell’onirico.

Perché sì, la narrazione prende forma grazie all’emersione di lacerti di ricordi, ma è attraverso il dialogo continuo tra il grande e il piccolo, nell’ibridazione di reminiscenza e sogno, che il presente del bambino diventa il ricordo nuovo del poeta adulto.

Se il tempo della vita si identifica con la durata bergsoniana, se esso continuamente si metamorfizza e cresce su se stesso, la forma d’arte che nasce riceve allora – grazie all’utilizzo del ricordo – quella scheggia di eternità che è la liricità peculiare dell’arte plastica. «Rappresentazione della

50

Ibidem.

(25)

vita non come è, ma come dovrebbe essere»

51

, l’opera si fissa così nell’immortalità dell’arte, restando al di là dalle alterazioni del déroulement del presente.

Solo in questo modo è possibile «trovare l’uscita dal labirinto»; solo così si può dare corpo a un’arte metafisica.

3. Nostalgia.

Se imprigionare la realtà è per il poeta un turpe atto di necrofilia, l’immersione nel tempo mitico dell’infanzia alla ricerca di quella libertà oramai perduta per sempre costituisce invece un’occasione imperdibile di affermazione umana e artistica. Perché, se – come scrive Savinio –

«L’infanzia è veramente il tempo mitico della mia storia»,

52

allora imperlare la propria opera dell’acqua del Parnaso equivale al conseguimento dell’immortalità.

Di quando in quando il passato mi richiama. Il mio passato. Meglio, mi si ripresenta, mi si ricompone intorno. Quale passato? Il tempo dell’infanzia e dell’adolescenza. Il solo passato che «resista». Il solo passato chiuso e fermo per cristallizzazione. E brillante come un

51

A

LBERTO

S

AVINIO

, Primi saggi di filosofia delle arti, in «Valori plastici», I, 2, marzo-aprile 1921.

52

I

DEM

, Segreto della montagna, apparso in «L’Illustrazione del medico», giugno 1947, ora in

A

LBERTO

S

AVINIO

, Opere. Scritti dispersi tra guerra e dopoguerra (1943-1952), cit., p. 527.

(26)

diamante sul velluto nero. Come una sfera di luce nel buio. La sola parte del nostro passato che ha qualità di eternità.

53

Questa «qualità di eternità» in Savinio è potentissima proprio perché agglutinata al mito. Perché rievocare l’infanzia equivale a rievocare la propria e universale grecità, è rivivere nella propria storia – con la

naturalezza della percezione infantile – l’eternità e l’ecumenicità dei suoi miti.

Ma l’utilizzo del passato in Savinio non è una volontà di azione da muscolatura striata, anzi, è un evento accettato passivamente, un richiamo

del tutto involontario. Per il suo Pellegrino appassionato, Paola Italia ha cavato – tra i materiali conservati presso il Fondo Alberto Savinio – un appunto intitolato proprio Passato.

54

Ne riporto un estratto:

Di quando in quando il passato mi richiama. Il mio passato. Meglio: mi si ripresenta; mi si ricompone intorno. Quale passato? Il tempo dell’infanzia e dell’adolescenza.

55

Non è il poeta a condurre il gioco quindi, a distribuire ruoli e recitativi: è il passato stesso a manifestarsi, a ricomporsi intorno a lui.

53

I

DEM

, Passato, apparso in «Corriere d’informazione», 15-16 maggio 1950, ora in Ivi, p. 1175.

54

Dall’appunto Savinio ha poi tratto, sviluppando e ampliando quell’idea, l’articolo omonimo edito nel «Corriere d’informazione».

55

L’appunto è conservato presso l’Archivio Contemporaneo «Alessandro Bonsanti», Gabinetto G.

P. Vieusseux, Firenze, Fondo Alberto Savinio, scatola 59.

(27)

Ma il passato è solo un totem, un simulacro dal quale lo scrittore può attingere solo attraverso la continua mediazione della dimensione onirica – che s’incunea nelle manifestazioni vestigiali, penetra nella «foresta dell’infanzia»,

56

si dilata facendosi essa stessa realtà –; solo così piccolo e grande possono ritrovarsi uno di fronte all’altro, solo così Savinio può specchiarsi in Nivasio.

Mentre ricalco in compagnia della pia Mnemosine le orme di quello che fui, e rotti gli ormeggi del presente navigo i mari favolosi dell’infanzia, un crudele genietto si compiace talvolta a rompere il mio pietoso inganno.

Fugge il passato spaventato dalla luce.

Sono io dunque quello stesso Signor Peché?

Riemergo da un sogno sovrumano: un sogno vergognoso.

La mia disperata curiosità chiede soccorso allo specchio.

Accanto alla mia persona, investo quel piccolo fantasma di me stesso e gli grido.

«Vane sono le tue istanze, signor Peché. Noi non ci somigliamo più.

Dobbiamo separarci».

57

56

«Ora che avvenne? A udir parlare di foreste ritrovate, oscure ricordanze si destarono dentro le teste opache degli uomini. Molti si avvicinarono ai cancelli, chiesero di rientrare nella foresta… Una voce avvertì che i soli poeti avevano diritto di entrare. Un tale emise l’ipotesi che foresta dell’infanzia e paradiso fossero tutt’uno. La voce rispose: «Sì»». (A

LBERTO

S

AVINIO

, Commento alla Tragedia dell’infanzia, in I

DEM

, Tragedia dell’infanzia, cit., p. 130).

57

Ivi, p. 25.

(28)

Se rivivere il passato è un’illusione, un atto chimerico, il poeta deve allora allontanarsene il più possibile, deve ricercare la risposta alle sue curiosità in un ailleurs di cui ignora ogni cosa.

Lo specchio – la reificazione di Narciso – si fa così allegoria dell’uomo creatore di se stesso, diventato Domineddio della propria realtà attraverso il soccorso del mondo onirico, che diviene memoria.

Ho dubitato per molti anni che alle vicende reali si fossero mischiati frammenti di sogni che a quelle si connettevano. Ma come determinare dove cessa la realtà e a questa subentra il sogno?

Ora non me lo domando più. Il dubbio si è placato.

Tutti i ricordi stimo memorabili, che a mano a mano si vanno deponendo in noi con la gravità delle cose eterne.

Quanto è corrotto dalla falsità, l’oblio lo cancella e lo distrugge.

58

Il sogno si fa così strumento di indagine e di conoscenza, agente agglutinante di un’esistenza distillata dalla memoria; accompagnando l’artista fin sulla strada della creazione, il sogno si fa così più materico della vita vissuta, più reale della realtà reificata.

L’opera dell’ateniese è percorsa lungo tutto il proprio asse da rarefazioni oniriche, in un gioco obliquo di continui rimandi a una realtà densa e sulfurea nella quale è la notte a prevalere:

58

Ivi, p. 13.

(29)

Della città marittima nella quale soggiornammo alcuni giorni, serbo un ricordo come di città veduta in sogno. La sua immagine, dalla quale uno squisito sceveramento della memoria ha escluso qualsiasi reminiscenza diurna, è tutta chiusa in una notte luminosa.

59

Quella città marittima, «scomparsa» dalle carte e dai mappamondi dei grandi, è potuta riaffiorare come novella Atlantide solo quando è stata

avvolta dalla notte «illuminata» dallo sguardo dell’artista, che nel sogno chiarifica l’oscurità.

Calati così in un’atmosfera incantata che fa continuamente scattare a livello psicanalitico i congegni dell’inconscio, Savinio colloca «molti oggetti semiologicamente protocollabili in un sistema: lo scialle, il letto, il divano, la testa del servo, l’augusto e troneggiante petto materno»,

60

tutti elementi che accarezzano la memoria, e che riportano l’autore – con tutti e cinque i sensi – alla Grecia, cioè ai primi anni di esistenza su una terra «aperta a ipotesi plurivalenti di vita e ricettiva di molte espressioni».

61

Terra meravigliosa, paese dimenticato, impossibile da ritrovare se non nelle incavature più felici della memoria.

59

Ivi, p. 47.

60

U

GO

P

ISCOPO

, Alberto Savinio, Milano, Mursia, 1973, p. 7.

61

Ibidem.

(30)

Nel racconto Alla città della mia infanzia dico, la categoria della nostalgia di un passato edenico, perduto, permea di sé ogni riga del testo, diventando chiave di lettura capitale per l’intera opera dell’ateniese:

Nulla è tanto propizio all’animo appassionato e curioso dei bambini, quanto gli aspetti colmi e misurati quali amavano e produssero gli antichi della terra ov’io nacqui. Scorgo talvolta sui campi che spaventati fuggono al passare del treno, rupestri città armate di tutto punto, che a poco a poco mi scoprono la cinta della loro antica forza; e mentre quelle precipitano all’orizzonte, ombre vane di un’età consumata per sempre, ogni volta si sovrappone a esse la dolce città della mia infanzia. Allora come di lei mi risovviene, che si lasciava cogliere intera dai miei occhi di bambino, posata come nido candidissimo di albatri nella selvosa conca della valle, ben fortunato mi reputo di essersi formata laggiù la mia ragione, fra i templi portatili, le colonne che girano assieme al girare del sole, le statue animate di serena magia, quando brillanti nella compagnia degli alberi, quando levate oscure di contro l’amorosissimo cielo.

Non aveva segreti per me la mia città. […]

L’esperienza insegna che le cose più care e che vorremmo serbare per sempre, sono quelle appunto che ci abbandonano prima.

Temevo fino di me stesso. Di allontanarmi: peggio, di andarmene per sempre. E benché una simile evenienza io la ritenessi impossibile in effetto; benché non ne pensassi se non per assaporare, durante la felicità, l’amarezza del perduto bene, il solo dubbio che un giorno io mi potessi pentire o forse disamorare della mia città oscurava nella mia mente la lieta promessa del domani. […]

Sempre mi riappare nel fondo – porto di continui ritorni, golfo felice

dei miei primi anni – la città della mia infanzia. Sorge dalla mia

(31)

nostalgia inestinguibile, si leva come lo spettro dolente e crucciato della sola felicità che la vita mi ha largito.

62

Ma la scrittura saviniana non si ferma alla descrizione di esperienze idilliache. Il rapporto con la memoria non è infatti sempre e comunque quella riscoperta della cameretta piena di giochi capace di far entusiasmare il bambino e commuovere l’adulto. No, nello scavo indefesso dell’archivio della memoria c’è posto anche per altro; c’è posto – ad esempio – per una squallida taverna di fronte casa che la notte si metamorfizza in locale equivoco che propone varietà, in un’atmosfera da «orge marinaresche» che terrorizza il bambino durante una lunga febbre tifoide:

Era una fètida stamberga che si fregiava di un nome illustre: «Le Panatenèe».

Di giorno «Le Panatenèe» si travestivano da trattoria.

All’ora dei pasti vi convenivano i gabellotti del vicino ufficio di dogana e gli scribi di una piccola ferrovia a scartamento ridotto che allacciava quel porto argonautico con l’interno della Tessaglia.

Quei funzionari erano pii. Per nulla al mondo avrebbero attaccato il pilàf con lo spezzatino o le budella d’abbacchio allo spiedo, se prima non si fossero risciacquata la bocca con un abbondante sorso d’acqua, che dopo un sonoro gargarismo spruzzavano a ventaglio sulle assi unte e spugnose del piantito.

Compiuto il rito purificatorio le mascelle pazienti cominciavano a macinare, tra la coppietta dei polsini a tubo collocati accanto al piatto

62

A

LBERTO

S

AVINIO

, Alla città della mia infanzia dico, in I

DEM

, Casa «la Vita», cit., pp. 17-19.

(32)

come due piccoli animali tutelari, e il «Neològos» poggiato al quartuccio di vino bianco e odoroso di rèsina».

63

Non solamente gli esseri mitici, anche le cose possono tramutarsi in altro da sé:

Di sera, dentro quella saletta medesima ma nuvolata di fumo e graveolente di fiati carichi d’aglio e di vino, marinai e barcaioli, scaricatori del porto e trafficanti levantini si pigiavano sotto la luce itterica delle lampade a petrolio, davanti ai contorcimenti di alcune baldracche sulla menopausa, che Spiridione Lascas, proprietario e manager delle «Panatenèe», scritturava a vilissimo prezzo nelle

«piazze» dell’Egitto e dell’Asia Minore.

I posti distinti erano riservati agli equipaggi dei piroscafi olandesi, che dai lontani porti del nord calavano a quello scalo del Levante per scaricare conserve stantie, cacao ammuffito, «teste di morto» brulicanti di vermi.

A metà programma, immancabilmente, gli officianti di quel mistero carnale erano in preda ai furori del Bacco Lieo. I neerlandesi tiravano sul minuscolo palcoscenico i cuscini, le bottiglie vuote e fino le sedie.

Con gioia vivissima degli indigeni stipati nei posti popolari, lo spettacolo dilagava dal palcoscenico in platea. Spariva ogni distinzione fra attori e spettatori. Le gerarchie fondevano nel tumulto. E sulle grida del turco, del grèculo e del giudeo, squillavano più alti e gutturali gli amorosi basiti dei figli dello Zuiderzee».

64

63

I

DEM

, Tragedia dell’infanzia, cit., pp. 18-19.

64

Ivi, pp. 19-20.

(33)

4. Trololò.

Questa maniera altèra di tradurre su carta i ricordi dell’infanzia, in Savinio, non si limita agli ambienti sboccati o désagréables, ma giunge fin dentro il luogo più sacro della civiltà tardoborghese: la casa. Se dal lupanare ci spostiamo alla villetta in cui abita il bambino, notiamo infatti come lo scrittore si scagli sulla materia affettiva con l’identica spietatezza appena vista sopra. Senza assumere le pose compiaciute del dissacratore a tutti i costi, Savinio gioca a «épater les bourgeois»,

65

giungendo fino allo smantellamento dell’«aureola di luce creata da secoli attorno al volto dei genitori, deponendo in un angolo tutta la raggiera d’oro, e raffigura di profilo e di scorcio le loro persone, facendole uscire dalle nicchie e dalle absidi dove usava da generazioni conservarle frontalmente come immagini bizantine di santi e di imperatori con le loro famiglie».

66

E se Savinio riesce pienamente nell’impresa di non fermarsi davanti a nessun tabù, è proprio grazie «all’aiuto di una memoria acuta che ferma gesti e forme in una fissità di morte, in un irreversibile tratto».

67

Così l’occhio cinematografico del narratore, dopo aver seguito l’espettorazione dell’acqua gargarizzata, spruzzata «a ventaglio» sulle assi di

65

Cfr.: P

IER

P

AOLO

P

ASOLINI

, Descrizioni di descrizioni, in Saggi sulla letteratura e sull’arte, Milano, Mondadori, 1999, pp. 2193-194.

66

U

GO

P

ISCOPO

, Alberto Savinio, cit., p. 9.

67

Ibidem.

(34)

legno vecchio della trattoria-lupanare-varietà, immortalato il ritmico incedere masticatorio degli avventori, individuato la tipicità cromatica del vino balcanico – con un veloce movimento di camera – si sposta sulla carta millimetrata dello spettacolo familiare. Come scrive Piscopo, esiste infatti

una costante nella riproduzione del soggetto familiare in Savinio, per cui

«qualunque pagina, dedicata a tale tema, è costruita cartesianamente secondo ascisse e coordinate».

68

Si prenda – per esempio – l’inizio di un racconto intimamente autobiografico come Trololò. I personaggi appaiono tutti incasellati dentro riquadri che compongono una rete geometrica piana. Una simile rigidità costruttiva – rigidità che fa pensare più al Quattrocento fiorentino che alla fissità medioevale – è solitamente avversa alla variazione. Il movimento – se

presente – nasce allora dalla sovrapposizione di scene piuttosto che da un movimento centripeto di queste verso un comune punto di fuga, riflettendo nella forma euclidea una tecnica compositiva che vede l’essere umano profondamente immerso nella considerazione della propria solitudine.

Si osservi dunque il padre, scardinato dall’immobilità del suo riquadro solo da un dramma grottesco; la madre, che torreggia al centro della scena; i

68

Ibidem.

(35)

due fratelli, che – ciascuno immerso nel proprio gioco – ai piedi della mamma sembrano due laici pastorelli di Fátima. È scesa la notte sulla casa di Volo, il

«borgo marittimo della Tessaglia» dove la famiglia de Chirico risiede e dove è nato il primogenito Giorgio. Siamo nel 1897. Il capofamiglia – il signor Girolamo nel racconto – è impegnato nella costruzione di un ramo ferroviario, ma l’opera è a rischio per l’approssimarsi alla città del fronte bellico: è appena scoppiata infatti la guerra che la Grecia di Giorgio I ha intrapreso contro Impero Ottomano per ricondurre l’isola di Creta sotto la corona ellenica. Risiedere in una regione di confine facile all’invasione è, di conseguenza, malsicuro, tanto che la popolazione indigena è stata sfollata.

Ora, se in Trololò lo sfondo su cui si impernia il racconto risulta appena tratteggiato, è de Chirico che ce ne restituisce il grandangolo.

69

La narrazione di Savinio comincia infatti ex abrupto, con un colpo di fucile che lacera una notte – fino a quel momento – serena:

La notte è scesa sulla città abbandonata dai suoi abitanti. Una fucilata apre un buco nel silenzio. Si aspetta che la ferita si rimargini, e quando anche l’ultima traccia della cicatrice è scomparsa sulla pelle della notte, qualcuno di fuori comincia a grattare la porta con unghie leggere.

70

69

Cfr.: G

IORGIO DE

C

HIRICO

, Memorie della mia vita, Milano, Rizzoli, 1962, pp. 15-25.

70

A

LBERTO

S

AVINIO

, Trololò, in I

DEM

, Casa «la Vita», cit., p. 183.

(36)

In una tale cornice di grandi manovre militari, un rumore così strano e a quell’ora della notte fa trasalire la casa. La cesura vespertina scompiglia l’equilibrio del giorno, risucchiando nel suo sbrego la famiglia al completo, che entra in stato di agitazione:

La signora Emma si alza di colpo dalla tavola, anche Giorgio e Andrea si alzano, come per naturale effetto del movimento della loro madre. Costoro sono ancora due bambini, ma la tragedia della guerra, l’atmosfera cupa nella quale essi si trovano implicati li fa coscienti e gravi. Sopra la tela cerata su cui piove a piramide la luce gialla e senile della lampada a petrolio, rimangono inerti e come morti i calzoncini del piccolo Andrea che la signora Emma stava rattoppando, il disegno di Chiostri che Giorgio andava ricalcando sulla velina del libro di Pinocchio, i due pezzi del domino con il quale il piccolo Andrea cheto cheto giocava. Anche il signor Girolamo balza in piedi dalla sedia sulla quale si era addormentato. La porta del villino dà su un giardino minuscolo, nell’ingresso dietro la porta la signora Emma ha fatto la camera di soggiorno.

Finché il signor Girolamo stava sulla sedia a dormire, la sua faccia congestionata dal sonno e dalla digestione era rossa, e nel silenzio si udiva il congiungersi molle delle sue labbra che a intervalli regolari baciavano le mute immagini dei sogni. Ma nell’attimo che il signor Girolamo ha spalancato gli occhi ed è balzato in piedi, la faccia gli si è sbiancata istantaneamente, come se sotto la pelle gli avessero iniettato del latte.

Ora il signor Girolamo sta in piedi, e il brivido continuo che lo

scuote trasforma la sua dentatura in un piccolo silofono. Il suo

completo a lunghe code è così stanco e afflitto, da far credere che egli

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non se lo è più tolto dal giorno ormai lontano del suo matrimonio, e che l’abito di cerimonia gli si è invecchiato addosso.

71

Il processo di «diseroicizzazione»

72

dei personaggi è in atto, e la parte ontologicamente inferiore è interpretata dal padre. Se la tradizione narrativa precedente (la memorialistica ottocentesca, per esempio) disegnava attorno al genitore un’aura ossequiosa, riservandogli un ruolo quantomeno decoroso anche nelle situazioni più sgradevoli, qui la descrizione di un uomo sconvolto dall’improvvisa antinomia sonno/inquietudine denuda il personaggio di ogni reverenza, mostrandolo inetto, goffo, impaurito.

Savinio sembra davvero divertirsi tutte le volte in cui può svellere un tabù:

Nessuno parla e del resto sarebbe inutile, perché i quattro personaggi immobili dietro la porta del villino, hanno in questo momento un pensiero solo. Anche il passaggio dal pensiero al dubbio avviene nei loro quattro cervelli uniformemente e contemporaneamente, allorché la signora Emma, il signor Girolamo e i due bimbi cominciano a domandarsi ciascuno per sé se quel rumore dietro la porta lo hanno veramente udito, o se era una sinistra illusione di quella notte chiusa nel suo silenzio e nei suoi tenebrosi terrori.

La tensione a poco a poco si allenta e la signora Emma accenna anche a sedersi, ma il sedere le rimane sospeso in aria: il rumore leggero delle unghie è ricominciato dietro la porta. La ripresa del misterioso

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Ivi, pp. 183-184. Il corsivo è mio.

72

Cfr.: U

GO

P

ISCOPO

, cit., pp. 11-14.

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