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La questione italica. La lotta per la cittadinanza e le risposte di Roma.

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(1)

C

APITOLO

I

La questione italica. La lotta per la cittadinanza e le risposte di Roma.

I.1. Introduzione: la nascita della questione italica

Tra il 91 e l’88 a. C. tra Roma e quelli che erano stati i suoi alleati in diversi sensi più vicini fin dal III secolo si produsse una spaccatura che cambiò l’aspetto di tali alleanze e rapporti, portò le comunità dell’Italia a scendere in guerra contro i propri potenti vicini e ad ottenere infine il riconoscimento di una parità giuridica con essi e che produsse conseguenze, anche e soprattutto, nella politica interna romana e nelle lotte tra le fazioni e le singole personalità che allora si opponevano.

Ma come si arrivò al deterioramento delle relazioni fra gli Italici e Roma1?

Considerando per prima cosa i rapporti fra Romani ed Italici all’estero, vediamo come dovette entrare in gioco innanzitutto una spinta economica al desiderio di cittadinanza da parte dei socii. Si trovavano infatti allora dovunque nel mondo romano Italici impegnati in attività finanziarie e commerciali di vario tipo: Campani, Apuli, Lucani, Piceni, Umbri, Etruschi erano presenti in Africa, Sicilia, Spagna e in Oriente2. La classe commerciale italica si trovava in questo senso unita negli interessi alla classe commerciale di Roma, rappresentata in primo luogo dal gruppo degli equites. D’altra parte anche Roma traeva senza dubbio indirettamente beneficio dal benessere economico dei propri alleati italici: da esso dipendeva la possibilità di questi ultimi di continuare a pagare a Roma il tributo e il numero di soldati che le varie comunità riuscivano a garantirle3. Agli Italici mancavano però i mezzi per influire attivamente nella politica romana. Essi realizzarono dunque di dover acquisire la cittadinanza se intendevano avere una voce in capitolo e trarre ancora più beneficio dalle politiche imperialiste di Roma.

1 Per la parte che segue vd. in particolare la sintesi di KEAVENEY 1987, pp. 3-44. Cfr. BRUNT 1971, p. 88.

2 Cfr BRUNT 1971, pp. 87 e 209-214.

3 Vd. in generale su questo tema ROSELAAR S. T., Mediterranean Trade as a Mechanism of Integration between Romans and Italians, in EADEM, Processes of integration and identity formation in the Roman Republic, Leiden-Boston 2012, pp. 141-158.

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Una spinta di tipo più “psicologico” entrò poi gradualmente in azione. Si generò presso gli Italici uno scollamento tra la rappresentazione di sé stessi per come venivano visti con gli occhi dei provinciali, i quali facevano verosimilmente fatica a distinguere tra loro e i cittadini romani, e la condizione effettiva che vivevano in patria, dove essi continuavano nonostante ciò ad essere politicamente sottoposti. I socii cominciarono dunque gradualmente a guardare a se stessi come pari dei Romani e a sentire piuttosto come maggiormente sensata una distinzione tra tutti gli abitanti dell’Italia, compresi i Romani, e gli abitanti delle province.

Anche agli Italici era toccato inoltre sostenere, in virtù dei vari foedera stabiliti con Roma, i pesi della conquista romana all’estero; e tuttavia capitava spesso che essi ricevessero, da soldati, un trattamento più duro dei loro vicini4.

Passando poi a considerare i rapporti fra Romani ed Italici nella stessa Italia, possiamo seguire ancora Keaveney mentre passa in rassegna alcuni fattori che guidarono l’evoluzione del sentimento degli Italici nei confronti dei loro potenti alleati.

Il processo di romanizzazione dell’Italia, con la presenza diffusa di cittadini romani su tutta la penisola; l’estesa rete stradale romana, vettore di scambi a diversi livelli; la diffusione del latino per i rapporti politici, commerciali, clientelari; l’adozione da parte degli alleati italici di concetti e termini romani per le proprie magistrature, istituzioni, forme costituzionali e leggi; l’acquisizione di monete, pesi e misure romani, contribuì alla formazione di un’identità condivisa tra socii e cittadini romani. D’altra parte Roma stessa non mancava di dimostrare un certo interventismo nelle questioni italiche, che andava sempre più accentuandosi in caso di disordini, arbitrati fra città, necessità di aiuto in seguito a disastri naturali, eventi religiosi, questioni di morale e legislative; e se tale interventismo era sentito talvolta come utile ed anzi richiesto dalle stesse comunità italiche, esso tuttavia dava in alcuni casi un’immagine piuttosto dispotica della guida romana sulla penisola, come per esempio si può pensare rispetto all’uso di confinare nelle città italiche prigionieri di stato, o al fatto che i magistrati romani si sentivano talvolta liberi di comportarsi in modo arrogante e dannoso con le comunità cittadine locali, effettuando spoliazioni di templi, estorsioni di denaro, atti di violenza contro gli individui5.

A fianco a queste tendenze centripete conviveva tuttavia da parte degli Italici uno spiccato senso della propria identità locale, distinta da quella dei Romani, fatta di miti, storia,

4 VELL. PAT., II, 15, 2. Vd. KEAVENEY 1987, pp. 14-15.

5 Esempi e fonti in KEAVENEY 1987, p. 30 n. 36. Vd. specialmente l’episodio del console L. Postumio Albino in visita a Preneste nel 173 a. C., riportato da LIV., 42, 1, 7-12.

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tradizioni, a cui si univa comunque la consapevolezza di far parte di un mondo comune, l’Italia6.

Tutti questi fattori contrastanti contribuirono a generare le frizioni di cui dicevamo e che condussero infine al prodursi di quella rottura sentita da parte degli Italici insanabile e non risolvibile altrimenti che con una dichiarazione di guerra alla stessa Roma.

A ciò non si giunse tuttavia immediatamente. Si trattò di un processo che ebbe modo di svilupparsi e crescere di entità lungo tutto l’arco del II secolo, attraverso le tappe che avremo modo qui di seguito di analizzare.

6 Sul concetto di Italia sviluppato dagli insorti durante la Guerra Sociale vedi, in particolare, CATALANO 1961-1962, pp. 198-228.

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I.2. Le riforme graccane e le prime proposte di concessione della cittadinanza ai socii italici (133-100 a. C.)

Il problema della terra. Le Leges Liciniae Sextiae. Uso e abuso dell’ager publicus tra III e II secolo a. C.

La rogatio dei due tribuni della plebe del 377 a. C., L. Sestio e C. Licinio, si articolava in tre diversi provvedimenti. Era previsto in primo luogo il divieto di occupare più di 500 iugera (quasi 126 ha) di ager publicus7 e, secondo il solo Appiano (BC, I, 8), anche un numero massimo di capi di bestiame che vi potevano essere fatti pascolare (cento bovini e/o cinquecento ovini), assieme all’obbligo per i possessores di impiegare esclusivamente manodopera libera. In secondo luogo veniva ridimensionato il peso dei debiti e se ne consentiva una rateizzazione in tre tranches. Infine si stabiliva che ogni anno uno dei due consoli eletti fosse plebeo.

Appiano tuttavia suggerisce che tale legge, di cui non viene riferito il nome né la data, risaliva al periodo successivo alla conquista romana di tutta l’Italia. Questa ipotesi sarebbe in effetti supportata dall’indicazione eccessiva dell’ampiezza massima di terra occupabile:

500 iugera sarebbero una misura adatta piuttosto alle condizioni dell’Italia di un paio di secoli dopo (prima metà del II sec. a. C.), quando venne incorporata nello stato romano l’Italia settentrionale fin sotto le Alpi, che al piccolo ager Romanus della prima metà del IV secolo8.

La clausola indicata da Appiano rimane ad ogni modo significativa nella misura in cui la gran parte dell’ager publicus non assegnato era effettivamente utilizzato per il pascolo dai possessores, ai quali appunto le fonti si riferiscono molto spesso con il termine pecuarii.

La pastorizia, estensiva per sua natura, era il modo più facilmente praticabile e redditizio di sfruttare le terre pubbliche. Praticabile e redditizio per coloro i quali disponessero di greggi

7 LIV., 6, 35, 5 e VARRO, Rust. I, 2, 9.

8 A favore dello scetticismo NIESE B., Das sogennante Licinisch-Sextisch Ackergesetz, in “Hermes” 23 (1888), pp. 410-423. TIBILETTI G., Il possesso dell'ager publicus e le norme de modo agrorum sino ai Gracchi, in “Athenaeum” 26 (1948), pp. 173-236, ipotizza che Livio potrebbe aver confuso due leggi de modo agrorum, una dell’epoca della rogatio Licinia Sextia (che avrebbe stabilito un tetto massimo di terra occupabile ben più basso di 500 iugera) e un’altra più recente di inizio II sec. a. C. Sulla questione vd. anche FORSÉN B., Lex Licinia Sextia de modu agrorum: fiction or reality?, Helsinki 1991; HERMON E., Habiter et partager les terres avant les Gracques, Roma 2001 (in partic. Partie 2ème, Chapitre 1ère); RICH J., Lex Licinia - Lex Sempronia: B.G. Niebuhr and the limitation of landholding in the Roman Republic, in DE LIGT L. and NORTHWOOD S. (edd.), People, land, and politics: Demographic Developments and the Transformation of Roman Italy 300 BC-AD 14, Leiden-Boston 2008, pp. 519-572.

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numerose, ovvero, all’epoca successiva alla conquista di Veio (396 a. C.) e alla creazione del primo bacino di ager publicus, il gruppo dei patrizi; erano costoro dunque ad avere interesse a potersi espandere liberamente con le loro greggi sulla parte non assegnata delle terre conquistate9.

La legge di Sestio e Licinio de modo agrorum, qualunque fosse l’effettiva entità delle restrizioni da essa imposte, serviva dunque a limitare sia l’appropriazione indebita di terra pubblica da parte dei grandi agricoltori, sia il suo sfruttamento estensivo a pascolo da parte dei pecuarii, operando a vantaggio dei non possidenti e di chi si serviva dell’ager compascuus, l’indispensabile terra comune per il pascolo10.

Nonostante le restrizioni imposte dalla legge Licinia Sextia de modo agrorum, l’ingente accrescimento dell’ager publicus nel corso del III-II secolo su territori che si prestavano bene alla transumanza (e che lo Stato riservava espressamente a questo tipo di utilizzo) resero ben presto irresistibile la loro violazione da parte di chi ne aveva i mezzi;

l’occupazione illecita di ager publicus dovette infatti essere una pratica comune già a partire dal III secolo a.C., quando una cospicua parte delle terre conquistate non veniva assegnata e l’ager Romanus cresceva molto più velocemente del numero di cittadini11. L’agricoltura intensiva prevaleva in modo significativo sui terreni dell’ager Campanus, l’insieme dei territori delle città campane che nel 216 a. C. erano passate dalla parte di Annibale e che era stato interamente confiscato. Su queste terre Roma esigeva il pagamento di un vectigal, un’imposta sull’uso della terra pubblica, che rimase a lungo un’importante fonte di entrata per lo Stato. Ad ogni modo gli abusi e le usurpazioni restavano molti, così come le conseguenti operazioni di recupero da parte dei magistrati romani12.

Come si diceva, però, la normale forma di sfruttamento dell’ager publicus era la pastorizia estensiva e se per la prima metà del II secolo a.C. abbiamo testimonianza che gli abusi dei pecuarii venivano effettivamente perseguiti13, nella seconda metà del secolo l’impunità

9 ZIOLKOWSKI 2000, p. 97-98.

10 LAFFI U., L’ager compascuus, in IDEM, Studi di storia romana e di diritto, Roma 2001, pp. 381-412.

11 Vd. BRUNT 1971, p. 371, n. 2: LIV. X, 47, 4 riferisce per la prima volta della condanna di numerosi possessori illegali di terra pubblica nel 298 a.C. Della consistenza del fenomeno ci dà una testimonianza anche OV., Fast., V, 277-294, parlando dell’opera degli edili plebei Publici (Malleoli) che, grazie alle multe fatte pagare ai numerosi sfruttatori illegali di terra pubblica, subito dopo la fine della seconda Guerra Punica finanziarono i (primi) ludi florales e costruirono anche una strada e un tempio.

12 ZIOLKOWSKI 2000, p. 193: esempi relativi alla prima metà del II sec. a. C.

13 LIV., XXXIII, 42 (197 a. C.); XXXV, 50 (192 a. C.).

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doveva essere il sentimento più diffuso tra i possessores illegali di terra pubblica, dal momento che il progetto di ripristino messo in atto da Tiberio Gracco, pur a condizioni molto generose verso gli usurpatori, suscitò una strenua (e trasversale) resistenza all’interno dello stesso corpo dell’élite al potere a Roma.

Le riforme di Tiberio Gracco (133 a. C.) e l’opposizione degli alleati.

L’iniziativa di riforma agraria di Tiberio Gracco, volta a fornire una risposta al problema del declino demografico e sociale diffuso in Italia e a favorire una maggiore partecipazione alla vita dello stato mediante una redistribuzione e una nuova limitazione dello sfruttamento dei privati sull’ager publicus, suscitò, com’era appunto prevedibile, una forte opposizione, non solo tra gli avversari romani del tribuno, ma anche fra gli stessi Italici14. Cicerone (Rep., I, 31; III, 41) afferma infatti che l’attività della commissione per le riforme agrarie aveva violato i trattati con i Latini e con gli alleati e che questi protestarono contro tali misure. Tali gruppi avevano con ogni probabilità a loro volta diritto all’usufrutto dell’ager publicus e dunque “è possibile che, di fronte alla mancanza di una chiara definizione dei confini dopo le confische romane seguite alla seconda Guerra Punica, i triumviri abbiano trattato come ager publicus delle terre che gli abitanti del luogo consideravano proprie”15. È anche probabile, ad ogni modo, che le proteste provenissero da Latini ed Italici ricchi, che occupavano più terra pubblica di quanto fosse consentito.

Sembra infatti che la legge agraria di Tiberio beneficiasse in qualche misura anche Italici non abbienti16. I governi locali potrebbero dunque aver preso le difese degli interessi di quei domi nobiles come Sex. Roscio di Ameria, ricco possidente terriero nella valle del Tevere, o A. Cluenzio Abito di Larino, che sommava ai possessi privati allevamenti sulle terre pubbliche17.

Il compito della commissione per la attuazione della riforma non era semplice, poiché bisognava spesso ricostruire la distinzione fra le terre legittimamente possedute e quelle sfruttate illegalmente. Erano toccati dalla revisione i cittadini romani come gli Italici e, come era naturale, tale attività provocò non poco subbuglio. Gli Italici trovarono allora un campione che accolse e sostenne le loro proteste in P. Cornelio Scipione Emiliano, il

14 Cfr. RICH J., Tiberius Gracchus, land and manpower, in Hekster O. et al. (ed.), Crises and the Roman Empire, Leiden 2007 pp. 155-166, che definisce il problema a cui Tiberio tentò di rispondere “an imagined crisis of land and manpower” (p. 166).

15 ZIOLKOWSKI 2000, p. 237.

16 GABBA 1990, p. 675-676.

17 CIC., Rosc. Am., 20; Cluent., 161. Cfr. BRUNT 1971, p. 88.

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distruttore di Cartagine, il quale nel 129 a. C., rifacendosi ai vecchi foedera con Latini e alleati, che rischiavano ora di essere violati, fece in modo di far trasferire le decisioni in merito dai triumviri ai consoli: se gli alleati avessero voluto contestare le decisioni dei commissari, i consoli stessi avrebbero presieduto la corte che aveva il compito di giudicare18. Grazie a questo espediente, gli Italici riuscirono a rallentare parecchio i lavori della commissione ed il programma graccano trovò serie difficoltà ad essere portato avanti19.

È a questo punto che avvenne in modo esplicito la connessione tra questione agraria e questione della cittadinanza agli alleati italici20. Fu per primo M. Fulvio Flacco, console del 125, a cercare di indurre gli Italici a deporre le proprie resistenze offrendo loro in cambio la cittadinanza romana. Roma giungeva dunque a “barattare” la propria cittadinanza in cambio della terra. La proposta tuttavia trovò l’opposizione dei senatori e finì per cadere, con delusione degli alleati21.

All’iniziativa patrocinata da Flacco viene riferita anche la misteriosa rivolta della colonia latina di Fregelle (poi sedata e conclusasi con la distruzione della città), a proposito della quale C. Gracco e Flacco furono formalmente accusati di esserne gli istigatori22.

Nel 122 a. C. è lo stesso C. Gracco, in qualità di tribuno della plebe, che si impegna a favore di della concessione dello status di Latini agli alleati italici e della cittadinanza romana ai Latini; significativa, per quanto difficile da verificare, appare la testimonianza di Velleio Patercolo23, secondo il quale la concessione della cittadinanza romana agli Italici sarebbe già stata parte del programma politico promosso dieci anni prima dal fratello Tiberio. Nell’ambito della seconda proposta graccana, che incontra la dura opposizione del console C. Fannio Strabone (Oratorum Romanorum Fragmenta, fr. 3) e il veto del tribuno della plebe Druso, padre di Livio Druso (!)24, viene inoltre prospettata la possibilità di aprire la colonizzazione della provincia africana, di recente acquisita, anche a tutti gli

18 APP., BC, I, 18-19; LIV., Perioch. 59; CIC., Rep., I, 31.

19 APP., BC, I, 21.

20 Vd. KEAVENEY 1987, pp. 58 ss.

21 VAL. MAX., IX, 5, 1; APP., BC, I, 21 e 34.

22 STRABO, V, 3, 10; cfr. ZIOLKOWSKI p. 239. per l’accusa a carico di C. Gracco e di Flacco vd. PLUT., C. Gracch., 3, 1; ASCON., 17C. A proposito di questa stessa colonia Livio (XLI, 8, 7) riferisce della protesta di alcuni Sanniti e Peligni, i quali, proprio nell’anno del consolato di Tiberio Gracco nel 177 a. C., padre di Tiberio e Caio, esprimevano a Roma le proprie rimostranze per la massiccia emigrazione di famiglie dai loro territori alla volta di Fregelle.

23 VELL. PAT., II, 2, 2.

24 APP., BC, I, 23; KEAVENEY 1987, pp. 60 ss.

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Italici25! Plutarco, sottolineando la notevole massa di Italica accorsi a Roma per sostenere la candidatura di C. Gracco al tribunato26, afferma che “da tutta Italia accorse in città a dargli sostegno una massa così grande che a molti mancò il modo di trovare ove alloggiare e siccome il Campo Marzio non li conteneva tutti, fecero sentire la loro voce dai tetti e dalle terrazze”. Sarebbe questa la prima manifestazione politica del problema italico a vedere il coinvolgimento di una consistente massa di persone.

Citiamo en passant un altro fatto “storico” dello stesso anno, che andava nella medesima direzione di avvicinamento degli alleati Italici alla sfera di diritti propria dei cittadini romani. Nel 123-122 a. C.27 fu votata la lex Acilia, plebiscito promosso con tutta probabilità da M'. Acilio Glabrione, collega di C. Gracco nel tribunato, che si inseriva nel progressivo percorso di inasprimento delle disposizioni volte a far fronte al reato de repetundis. Grazie a questa legge le concussioni commesse dai magistrati assunsero per la prima volta natura di veri e propri reati e al posto della semplice restituzione del maltolto (beni o denaro) fu sancita per i concussionari una vera e propria sanzione, quantificata nella restituzione del doppio del valore dei beni estorti. La novità più eclatante tuttavia consisteva nel fatto che, in caso di vittoria, l’accusatore avrebbe ottenuto, se peregrinus, la cittadinanza ed il diritto di voto (suffragium) nella tribù dell’accusato; se Latinus la cittadinanza, ovvero il diritto di provocatio ad populum e se cittadino l’esenzione dal servizio militare28. Le corti infine sarebbero state composte da cavalieri, muniti di immunità giudiziaria29, cosa che verrà abolita solo da M. Livio Druso nell’ambito delle sue riforme in campo giudiziario.

Nel decennio 121-111 a. C. furono approvate tre leggi agrarie molto favorevoli ai possessores di terra pubblica30: esse sopprimevano l’inalienabilità degli appezzamenti assegnati, rendevano proprietari i possessori della terra ancora non assegnata ed infine abolivano l’obbligo di pagare su di essa il vectigal.

25 APP., BC, I, 24.

26 PLUT., C. Grach., 3, 1-2.

27 Il provvedimento è sicuramente posteriore alle leggi Calpurnia e Iunia, che esso cita (cfr. SANTALUCIA B., La repressione penale e le garanzie del cittadino, in Storia di Roma II: L'impero mediterraneo. 1. La repubblica imperiale, Torino, 1990, nota n. 23, p. 544).

28 Vd. ROTONDI 1962: lex Acilia de repetundis, p. 312-313. Cfr. SANTALUCIA B., La repressione penale e le garanzie del cittadino, p. 545. Della legge e della sua vantaggiosa clausola di cittadinanza potevano avvalersi anche gli Italici secondo KEAVENEY 1987, pp. 83-84 e SHERWIN-WHITE A.N., “The date of the Lex Repetundarum and its consequences”, in Journal of Roman Studies 62 (1972), pp. 92-96 e 96-97.

CIC., Balb. 53-54, mostra in che modo gli accusatori vincenti ottenevano la cittadinanza.

29 Per questo particolare vd. ZIOLKOWSKI 2000, p. 176.

30 Per le quali vedi ROTONDI 1962, pp. 322-323.

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Tra il 103 e il 100 a. C., periodo in cui il consolato era dominato da C. Mario (che, in violazione alle norme che regolavano il cursus honorum dei magistrati, si era fatto eleggere console per cinque anni consecutivi a partire dal 104 a. C.), L. Appuleio Saturnino, in qualità di tribuno della plebe, fece promulgare diverse leggi, tra le quali due con cui si proclamava la creazione di colonie extraitaliche riservate ai veterani di Mario che avevano combattuto nelle guerre cimbriche31. Di fronte a ciò la plebe romana si oppose strenuamente: oltre a considerare odiosa la distinzione implicita operata dalla legge in cittadini “migliori” (degni delle assegnazioni) e “peggiori”32, il popolo di Roma non ravvisava benefici per sé né riteneva sufficiente come contraccambio in proprio favore la legge frumentaria del tribuno, che abbassava di molto rispetto ai parametri fissati da C.

Gracco vent’anni prima il prezzo di vendita del grano ai cittadini33. È verosimile infatti che le armate di Mario contenessero anche molti Italici34 e che anch’essi beneficiassero dunque della nuova colonizzazione, che non riguardava invece i cittadini di Roma. Le riforme di Saturnino non sembrano dunque avere avuto la minima intenzione di interferire con la situazione della terra in Italia (come si è detto, tutte le assegnazioni previste si trovavano oltremare), né tanto meno di occuparsi della questione del conferimento della cittadinanza agli Italici35.

Per quanto riguarda C. Mario, egli è spesso rappresentato come campione della causa italica, soprattutto in considerazione delle sue proposte in favore degli Italici dell’88-87.

Non è tuttavia scontato che si possa designare Mario come “filo-italico” tout court.

Abbiamo appena ricordato i provvedimenti di Saturnino per i veterani del console, sottolineando come essi non mirassero tanto a favorire gli Italici, verosimilmente presenti nel suo esercito, quanto a gratificare tout court le truppe, quale che fosse la loro composizione.

31 Obiettivo primario delle proposte di Saturnino era l’assegnazione di terra alle truppe di Mario ed egli poteva infatti contare su costoro per rimuovere gli ostacoli alle proprie proposte: APP., BC, I, 29, 30, 32;

CIC., Brut., 224; CIC., Pis., 20; LIV. Epit. 69; PLUT., Mar.,, 28; PS. AVR. VICT., De viris illustribus, 73.

Sull’azione politica di Saturnino vedi anche CRAWFORD 1969, pp. 37-78 ; KEAVENEY 1987, p. 77, note 7 e 8; CAVAGGIONI 1998.

32 ZIOLKOWSKI 2000, p. 249.

33 Plut., C. Grach., 5 1-2.

34 APP., BC, I, 29-30 parla di gente venuta dalla campagna a sostenere Saturnino, vd. KEAVENEY 1987, p.

77-78, che cita anche GABBA 1976, p. 187, n. 61.

35 KEAVENEY 1987, p. 77.

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Negli stessi anni vi fu un altro episodio, che potrebbe dare luogo all’equivoco sulle intenzioni generali di Mario rispetto agli Italici. Nel 101-100 a. C. infatti, dopo la battaglia di Vercelli, alla fine delle guerre cimbriche, il comandante vittori

oso accordò la cittadinanza a mille abitanti (o due coorti) di Camerino che si erano distinti combattendo36: poiché il provvedimento apparve illegale ed alcuni gli mossero accuse in tal senso, egli rispose che per via dello strepito delle armi non aveva potuto sentire la voce della legge37. Nonostante la violazione procedurale e la novità costituita dall’ingente numero di beneficiari coinvolti38, conferendo la cittadinanza ad un gruppo di alleati Mario non faceva altro che procedere secondo uno spirito tradizionale: il suo modo di agire rispecchia quello di un generale ansioso di provvedere alla soddisfazione delle proprie truppe e “since the Italians formed part of his army it was but natural that something should be done for them [...]. Grants of land were, of course, the absolute minimum which might be offered but Marius was prepared to go a little further than that”39.

Allo stesso tempo non si può negare che un atto del genere costituisse di fatto per il generale un ottimo modo per acquisire in una volta sola una clientela di una certa consistenza. Una clientela che, grazie anche alla procedura non legale con la quale Mario aveva agito, configurava un rapporto ancora più stretto e diretto tra peregrini beneficiari e generale-benefattore, un rapporto tale da non esaurirsi con la fine dell’impegno militare. La lealtà del nuovo cittadino così creato finiva dunque con l’essere sentita come dovuta non semplicemente alla nuova patria, ma anche e soprattutto al proprio generale-patronus.

La portata simbolica dell’atto di Mario, proprio considerandolo nella prospettiva dell’imminente Guerra Sociale, è evidente: gli alleati, che nel decennio successivo sempre più avvertiranno lo scollamento non più sostenibile tra il supporto da loro dato alla costruzione dell’impero di Roma e lo status giuridico-sociale a loro (non) riconosciuto,

36 CIC., Balb., 46: idem [C. Marius] cohortis duas universas Camertium civitate donavit, cum Camertinum foedus omnium foederum sanctissimum atque aequissimum sciret esse. VAL. MAX., V, 2, 8: duas enim Camertium cohortes mira virtute vim Cimbrorum sustinentis in ipsa acie adversus condicionem foederis civitate donavit. PLUT., Mar., 28, 3: Kai/toi le/getai Kameri/nwn aÃndraj o(mou= xili/ouj diaprepw=j a)gwnisame/nouj e)n t%= pole/m% dwrhsa/menoj politei/#, dokou=ntoj ei)=nai tou/tou parano/mou kai/ tinwn e)gkalou/ntwn, ei)pei=n oÀti tou= no/mou dia\ to\n tw=n oÀplwn yo/fon ou) katakou/seien.

37 La misura adottata da Mario violava il foedus aequum stabilito con Camerino nel 310 a. C. (LIV., IX, 36, 7). Inoltre, la normale procedura per ricompensare con la cittadinanza un non-Romano che avesse combattuto per Roma con valore passava dal consenso del Senato e dall’approvazione del popolo, a partire, certo, dalla proposta avanzata da un generale: vd. CUFF 1975, pp. 76 ss.; cfr. CIC., Balb.,10, 25 e 24, 55. Secondo KEAVENEY 1987, p. 77, infatti, l’illegalità dell’atto di Mario consistette nel fatto che egli agì totalmente di propria iniziativa, senza attendere l’autorizzazione formale da parte delle autorità di Roma (vd. anche p. 78:

“to grant citizenship was the prerogative of the Roman people”).

38 CUFF 1975, p. 76.

39 KEAVENEY 1987, p. 80.

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possono verosimilmente aver colto nel gesto di Mario un precedente per il riconoscimento della loro legittima volontà di entrare nel corpo civico romano, anche sotto forma di ricompensa per la virtus dimostrata sul campo di battaglia40.

Gli episodi sopra ricordati non testimoniano ancora tuttavia un programma di portata radicale da parte romana riguardo al conferimento della cittadinanza agli Italici tutti; anche le iniziative di Mario, seppur più generose di quelle di altri comandanti dell’epoca, si mantennero ben più circoscritte di quelle di Fulvio Flacco e C. Gracco e, agli occhi dei Romani, non ebbero la stessa pericolosa portata.

40 CUFF 1975, p. 78, che a p. 85 nota come alla fine della Repubblica diventerà regolare che un peregrinus che abbia servito nell’esercito sia poi ricompensato con la cittadinanza.

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I.3. Gli anni 90 e la “stretta legalitaria” di Roma: la lex Licinia Mucia de civibus redigundis

Lo spazio della generazione che intercorre tra l’epoca delle iniziative del 125 e 122 a. C., volte ad integrare gli alleati italici nella cittadinanza romana o perlomeno promuoverli ad uno status migliore (da socii a Latini) e quella del nuovo, definitivo tentativo operato da M.

Livio Druso, è testimone di un progressivo rafforzamento dei legami tra Roma e i suoi vicini, con una penetrazione più intensa degli Italici nel corpo civico romano. Il sentire degli Italici si era ulteriormente evoluto rispetto al momento dell’uccisione di C. Gracco, quando essi non poterono reagire altrimenti che con dispiacere e rabbia41; gli alleati si sentivano ormai costretti a prendere in mano autonomamente la propria situazione e pronti ad agire per cambiarla. Era maturato anche il sentimento e la voglia di appartenenza al novero di coloro che prendevano le decisioni fondamentali dell’impero; fino alla fine del II secolo infatti “se vi era negli alleati il desiderio di conseguire la cittadinanza, questo era piuttosto limitato ed era, comunque, dipendente da fattori estranei di carattere contingente”42.

Non mancarono episodi di usurpazione della cittadinanza o di concessione della stessa, per esempio, per meriti di guerra, come si è visto poc’anzi a proposito di C. Mario. Il suo caso comunque non rimase isolato: assieme ad altri esprimeva con sempre maggiore forza la volontà di un’integrazione più completa da parte degli alleati e, parallelamente, la scelta di alcuni uomini romani di prendere decisioni che andavano incontro a tale tendenza43.

Nel 95 a. C. fu sentita in effetti la necessità di istituire un tribunale che giudicasse coloro che senza averne diritto avevano preteso di essere cittadini romani44. La proposta porta il nome dei consoli di quell’anno, Q. Mucio Scevola e L. Licinio Crasso – quello stesso Crasso che nel 92, in qualità di censore, promulgherà assieme al collega Cn. Domizio

41 APP., BC, I, 34: a)naireqe/ntoin de\ a)mfoi=n, w(/j moi proei/rhtai, polu\ ma=llon h)re/qisto h(

)Itali/a: ou)/te ga\r h)ci/oun e)n u(phko/wn a)nti\ koinwnw=n ei)=nai me/rei ou)/te Fla/kkon kai\

Gra/kxon u(pe\r au)tw=n politeu/ontaj toia/de paqei=n.

42 GABBA 1973, p. 198.

43 Sui provvedimenti degli ultimi due secoli della Repubblica tesi a frenare l’infiltrazione dei non cittadini nel corpo civico romano vd. la sintesi di GABBA 1973, pp. 176-177.

44 ROTONDI 1962: lex Licinia Mucia de civibus redigundis, p. 335; ASCON., 67C-68C; CIC., Off., III, 47;

Balb., 21, 48; PLUT., C. Grac., 12. Cfr. GABBA 1973, pp. 177 ss.; MRR, II, p. 11.

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Enobarbo il decreto di espulsione da Roma dei rhetores Latini45 e che poi l’anno seguente ritroveremo invece sorprendentemente come strenuo sostenitore delle proposte di legge di Druso, in particolare proprio di quelle in favore del conferimento della cittadinanza agli alleati italici! È stato proposto che, da parte degli Italici, la scelta di un’occasione utile da cogliere in vista del loro obiettivo principale cadde sul censimento del 97-96 a. C., quando molti di loro decisero di uscire allo scoperto e dichiararsi cittadini46 e che dunque fosse alle usurpazioni avvenute in quella precisa occasione che la legge dei due consoli intendeva porre rimedio. Altri ritengono tuttavia che essa fece sentire veramente i suoi effetti soltanto con la successiva censura, quella del 92-9147, e dunque comprendesse anche le usurpazioni prodottesi in quell’ulteriore quinquennio. Più prudentemente Gabba si limita ad affermare che sembra quantomeno chiaro che negli anni iniziali del secolo molti alleati (delle classi sociali più elevate) “erano riusciti ad entrare nella cittadinanza romana e si comportavano come cives”48. Brunt d’altra parte (1971, p. 85) sottolinea che sembra che fino ad un certo punto Roma tollerò il meccanismo di cui alleati e Latini talvolta usufruivano: l’ottenimento cioè della cittadinanza mediante autonomo trasferimento su territori romani.

Si tratta di quello che viene comunemente chiamato negli studi moderni “ius migrandi”, il quale sarebbe consistito nella possibilità privilegiata per gli individui di diritto latino di modificare la propria cittadinanza cambiando il proprio luogo di residenza, in particolare di acquisire la cittadinanza romana mediante il trasferimento in territorio romano. In tal modo, in seconda istanza, anche i non Latini, mediante un passaggio in più, avrebbero avuto la possibilità di acquisire la cittadinanza romana trasferendosi e facendosi registrare in territorio latino e di nuovo in seguito in territorio romano49. Il condizionale è dovuto al fatto che la ricostruzione di un tale diritto si basa unicamente su un passaggio di Livio (41, 8, 6 ss.), il quale, in relazione alle lamentele presentate al Senato di Roma nel 177 a. C. da parte di gruppi di alleati che vedevano sempre più diminuire la propria consistenza demografica a causa dell’emigrazione di propri concittadini, si riferisce ad una lex grazie

45 Accusati di non formare correttamente i giovani e di agire contrariamente al mos maiorum: CIC., De orat., III, 14, 93 ss.; Gell., XV, 11, 2.

46 Cfr. DENIAUX 1983, p. 271: serie di iscrizioni fraudolente nei registri del censo del 97-96 a. C.;

BANCALARI MOLINA 1987, p. 427; TWEEDIE 2012, p. 124, 128. Diversamente BRUNT 1971, p. 85, n.

1, che ritiene preferibile pensare che l’infiltrazione degli alleati nella cittadinanza romana fu piuttosto un

“gradual process”, in atto almeno dalla prima metà del II sec. a. C.

47 SHERWIN WHITE 19732, p. 140.

48 GABBA 1973, pp. 179-180.

49 Vd. BROADHEAD 2001, p. 70 ss. Livio in effetti tratta la questione come se toccasse tutti i federati obbligati a fornire truppe a Roma; cfr. BEHRENDS 2002, p. 16, n. 1: “il n’y a pas de trace que ce droit ait été réservé aux seuls Latins et nié, par example, aux Étrusques, aux Sabins ou aux Grecs”.

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alla quale membri di altre comunità in ciuitatem Romanam per migrationem et censum transibant; legge che sociis [ac] nominis Latini, qui stirpem ex sese domi relinquerent, dabat, ut ciues Romani fierent. Dall’impoverimento demografico derivava direttamente una reale difficoltà degli alleati a sostenere il tributo militare imposto dagli accordi con Roma (quod si permittatur, perpaucis lustris futurum, ut deserta oppida, deserti agri nullum militem dare possint) ed essa seppe allora rispondere attraverso l’azione di C.

Claudio Pulcro, uno dei consoli dell’anno, il quale prescrisse per legge che tutti i socii e Latini che di persona, o i cui padri, fossero stati censiti come tali da M. Claudio Marcello e T. Quinzio Flaminino (cioè nel 189 a. C., dodici anni prima)50, o dopo quell’anno, dovessero fare rientro nella propria civitas entro l’inizio di novembre51.

La lex Claudia de sociis52 potrebbe dunque essere considerata nelle intenzioni un precedente alla lex Licinia Mucia del 95. Quest’ultima tuttavia non pare aver previsto necessariamente l’espulsione dei cittadini “abusivi” da Roma e sembra aver mirato essenzialmente a colpire soltanto coloro che si erano infiltrati nella civitas romana illegalmente, mettendo così ordine nel corpo civico ufficiale53. In entrambi i casi appare comunque forte il legame tra un censimento, le usurpazioni (o comunque l’eccessivo approfittare di una sorta di “scorciatoia” per la cittadinanza) da parte alleata e la conseguente repressione romana54. Ma se nel II secolo l’intervento romano fu richiesto proprio dagli alleati, nel 95 l’azione fu condotta dai due consoli, che Cicerone (Off., III, 47 e ASCON., 67C) definisce sapientissimi. Nonostante questo riconoscimento, che pare avvalorare l’opportunità di un tale provvedimento dal punto di vista del diritto, nel passo di Asconio Cicerone definisce la legge del 95 non modo inutilem sed perniciosam rei publicae e Asconio stesso aggiunge che essa fu vel maxima causa belli Italici55.

Altrove Cicerone (Balb., 48), a proposito dell’unico processo scaturito dalla legge del 95 di cui siamo a conoscenza, quello contro lo spoletino T. Matrinio, definisce acerrima quaestio il tribunale da essa istituito. Non sappiamo se quest’unico processo a noi noto fu anche l’unico ad avere effettivamente luogo, o se ve ne furono altri e, in tal caso, quanti essi furono. La definizione di acerrima data da Cicerone potrebbe in effetti suggerire che

50 MRR, I, pp. 360-361.

51 LIV., 41, 9, 9-11.

52 ROTONDI 1962, p. 280.

53 Cfr. CIC., Off., III, 11, 47. Vd. BRUNT 1971, p. 85; TWEEDIE 2012, pp. 125-126, 134-135.

54 Proprio lo stretto rapporto fra i censimenti e le tensioni tra Roma e gli alleati attorno alla questione della cittadinanza costituisce il tema centrale dell’articolo di TWEEDIE 2012.

55 Cfr. KEAVENEY 1987, p. 82-83 (“the mood of anger engendered by the lex Licinia Mucia was never to be dissipated and at last it brought war to Italy”) e n. 35. GABBA 1973, pp. 184-185.

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vi fu un numero significativo di procedimenti e che dunque molti Italici ne risultarono colpiti56. Anche la cosiddetta “marcia su Roma” di Poppedio Silone assieme ai molti socii che temevano le eu)qu/nai depone, come vedremo tra poco, a favore di questa stessa ipotesi.

I problemi tutt’altro che risolti (e anzi piuttosto suscitati) dalla legge di cui parliamo avranno ripercussioni importanti sugli eventi degli anni immediatamente successivi al 95;

specialmente nel cruciale anno di tribunato di M. Livio Druso e del suo discusso pacchetto di riforme. Vedremo infatti più avanti se e in quale misura la lex Licinia Mucia si colleghi agli eventi del 91 ed abbia effettivamente contribuito anche allo scoppio della guerra tra Roma e i suoi alleati.

Quando la possibilità dei socii di diventare cittadini romani mediante il meccanismo della migratio – possibilità che, se non sancita da Roma con una specifica legge, fu da essa per lungo tempo almeno tollerata – subì abbastanza inaspettatamente una restrizione da parte dell’autorità romana, ciò causò certamente dei malumori in Italia e questo può avvalorare l’idea che la cosa fu allora sentita evidentemente come una novità.

All’altezza cronologica dell’inizio del I secolo a. C. le istanze dei socii italici si erano ormai manifestate con una chiarezza che era stata sempre crescente. Se la risposta romana a questa maturazione del sentire italico si concretizzò nell’approvazione della lex Licinia Mucia, ciò significa che si scelse ad un certo punto di procedere con un muro contro muro.

56 TWEEDIE 2012, p. 135.

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I.4. M. Livio Druso, socialis belli auctor: tra condivisione e strumentalizzazione delle istanze italiche

Di M. Livio Druso sappiamo che era figlio dell’omonimo tribuno della plebe che nel 122 a.

C. pose il proprio veto sul progetto di C. Gracco di promuovere un graduale avvicinamento al corpo civico romano da parte di Latini e alleati, proponendo di rimando ai cittadini di Roma, non senza spirito demagogico, un seducente quanto poco realistico programma di colonizzazione (dodici colonie di 3000 cittadini ciascuna)57.

Druso figlio è presentato come campione del Senato e dell’aristocrazia e desideroso di rafforzare la posizione di tale gruppo da tutta la tradizione antica, sia quella favorevole58, sia quella ostile59.

Mentre però la maggior parte delle fonti spiega la sua opera legislativa come finalizzata principalmente alla restituzione delle corti giudicanti ai senatori ed avente dunque al proprio centro la lex iudiciaria60, il solo Appiano (BC, I, 35), pur non tacendo le altre sue proposte, pone l’accento piuttosto sulla volontà del tribuno di farsi promotore delle istanze degli alleati italici e di concedere loro la cittadinanza mediante la rogatio de sociis.

Cominciamo con il vedere dunque meglio nel dettaglio il contenuto delle rogationes di Druso61.

La rogatio iudiciaria prevedeva appunto la restituzione del monopolio delle corti giudicanti ai senatori62; il numero dei componenti del Senato sarebbe stato però raddoppiato mediante la cooptazione di trecento membri scelti fra i “migliori” equites,

57 ROTONDI 1962: Rogatio Livia de coloniis duodecim deducendis, pp. 314-315; PLUT., C. Gracch., 9, 2;

APP., BC, I, 23. Cfr. ZIOLKOWSKI 2000, p. 242.

58 DIOD. SIC. 37, 2, 10; VELL. PAT., II, 13; CIC., De orat., I, 7, 24; Mil., VII, 16.

59 LIV., Perioch. 70 e 71; ASCON., 69C; SEN., Brev. vit., VI, 1; FLOR., Epit., II, 5, 1-2; PS. AVR. VICT., De viris illustribus, 66; OROS., Hist. V, 18. Cfr. KEAVENEY 1987, p. 87. SORDI 1995, p. 99.

MARASTONI 2009 classifica invece Livio piuttosto dalla parte del fronte filo-sillano: pp. 56 e 258.

60 DIOD. SIC. 37, 10, 3; LIV., Perioch. 70; VELL. PAT., II, 13, 2 ss.; FLOR., Epit., II, 5, 3-4.

61 Le proposte di legge di Druso: APP., BC, I, 35-36; LIV., Perioch. 71; VELL. PAT., II, 13, 2-14, 1; FLOR., Epit., II, 5; PS. AVR. VICT., De viris illustribus, 66.

62 Questo anche sulla scia dell’indignazione provocata dalla condanna dell’integerrimo P. Rutilio Rufo, legato del proconsole Q. Mucio Scevola (cos. 95) in Asia, da parte di una corte giudicante composta di cavalieri l’anno precedente (fonti complete in MRR, II, p. 8). Le ultime disposizioni in merito alla composizione delle giurie infatti, stabilite dal tribuno della plebe C. Servilio Glaucia tra il 111 e il 100 a. C., ribadendo quanto stabilito dalla lex Acilia nel 123-122 (vd. sopra, p. 8, n. 27), prevedevano che i giudici delle principali quaestiones perpetuae fossero scelti esclusivamente tra gli equites (Vd. ROTONDI 1962: lex Servilia repetundarum, p. 322 con fonti. Rotondi riporta inoltre un parere secondo cui la concessione della cittadinanza fatta dalla lex Acilia agli accusatori peregrini vittoriosi fosse da questa nuova legge limitata ai soli Latini).

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mentre i rimanenti cavalieri sarebbero rimasti esclusi dai tribunali. Era prevista inoltre la soppressione dell’immunità dei giurati63.

Due leggi di stampo “graccano” poi andavano incontro innanzitutto alla plebe romana: con la lex agraria coloniaria (chiamata appunto Gracchana da FLOR., Epit., II, 5, 6) egli promise al popolo la creazione di nuove colonie in Italia e Sicilia64, mentre con la riproposizione di una legge frumentaria il tribuno manifestava l’intenzione di proseguire la politica dei Gracchi verso gli strati meno abbienti della popolazione romana, calmierando a livello centrale il prezzo di vendita del grano65.

Dell’oggetto della sua ultima rogatio, la concessione della cittadinanza romana agli Italici, riferiscono diversi autori66. Tuttavia è Appiano soltanto, come si diceva, a sostenere che fosse da considerare tale legge il vero punto centrale del progetto complessivo di Druso67. La sostanza di queste proposte mette in luce che quattro erano i gruppi fondamentalmente interessati dalle leggi: equites, senato, plebe romana e infine anche gli Italici. A ciascuno di essi Druso doveva necessariamente porre attenzione, misurando con cura cosa chiedere e cosa offrire affinché le sue mozioni risultassero attraenti per il maggior numero possibile di persone e fossero infine approvate.

Se la perdita del monopolio nei tribunali e dell’immunità giudiziaria costituiva una notevole diminuzione di potere per gli equites (per esempio a livello provinciale, se si pensa in particolare alla quaestio de repetundis e all’impunità che tale monopolio garantiva loro nei confronti dei senatori-governatori, i quali al ritorno in patria sarebbero stati poi in balia del loro esclusivo giudizio e arbitrio in caso di processo), tale sacrificio veniva ricompensato con la cooptazione in Senato di trecento cavalieri68. E se per i senatori rappresentava un enorme vantaggio il fatto che il Senato si riappropriasse delle corti, tale profitto era smorzato appunto dall’imposizione fatta loro di accogliere nel proprio novero

63 APP., BC, I, 35; CIC., Cluent., 153, Rab. Post., 16-17; MRR, II, p. 21.

64 APP., BC, I, 35 afferma che si trattava di colonizzazioni già stabilite ma non ancora realizzate (e)yhfisme/naij me\n e)k pollou=, gegonui/aij de\ ou)/pw): potrebbe allora trattarsi delle colonie promesse da M. Livio Druso padre in contrapposizione alle proposte di legge di C. Gracco sulle quali aveva posto il veto. Cfr. KEAVENEY 1987, p. 88.

65 LIV., Perioch. 71.

66 DIOD. SIC. 37, 11 e 13; LIV., Perioch. 71; VELL. PAT., II, 14; FLOR., Epit., II, 5, 6.

67 Come ci fa intendere APP., BC, I, 35 (e)pi\ de\ e)kei/noij kai\ Li/bioj Drou=soj dhmarxw=n [...]

dehqei=si toi=j I)taliw/taij no/mon au)=qij e)senegkei=n peri\ th=j politei/aj u(pe/sxeto) e 36 (oi(

I)taliw=tai d, u(pe\r w(=n dh\ kai\ ma/lista o( Drou=soj tau=ta e)te/xna/ze...).

68 Anche se non mancava un certo disappunto nel vedersi distinguere in più o meno “degni” (a)ciw/teroi) di entrare in Senato: APP., BC, I, 35.

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trecento equites, da parte dei quali essi temevano la formazione di una rafforzata factio antisenatoria69.

Per quanto riguarda la plebe di Roma, le leges agraria e frumentaria avrebbero dovuto essere premi sufficienti ad assicurarsi un comportamento di collaborazione anche rispetto al resto delle misure, tanto più che stavolta Druso non commise l’errore di Saturnino di riservare la ricca prospettiva di una nuova colonizzazione ad un gruppo relativamente ristretto di persone come i soli veterani. La plebe sarebbe stata così anche meno timorosa, di fronte alla prospettiva della condivisione della cittadinanza con gli Italici, di perdere le proprie prerogative70.

Gli Italici da parte loro erano consapevoli di poter venire danneggiati dalla lex agraria, che minacciava di privarli di molto dell’ager publicus che essi occupavano, più o meno lecitamente. Come già era stato all’epoca di C. Gracco e della commissione agraria per la redistribuzione di tali terre, Druso sapeva che agli alleati, specialmente agli Italici potenti e possidenti, bisognava offrire un buon bilanciamento costi-benefici e ancora una volta lo scambio si basava su questo semplice presupposto: terra in cambio di un mutamento di status, terra in cambio della cittadinanza71. A quanto pare molti degli alleati erano disposti a fare questo sacrificio, avendo ormai acquisito una prospettiva più ampia e non accontentandosi più di palliativi al loro statuto di sottoposti, ma mirando a diventare pari dei Romani72.

In un primo momento l’azione di Druso dovette avere il sostegno di personalità fra le più eminenti in Senato, comprensibilmente interessate in primo luogo alla restituzione dei tribunali a tale corpo. Possiamo farci un’idea del gruppo dei sostenitori delle leggi di Druso, compresa quella sulla cittadinanza, dall’elenco delle vittime della quaestio extraordinaria (condotta da cavalieri) istituita nel 90 a. C. dal tribuno Q. Vario Ibrida, le quali, come vedremo, furono condannate all’esilio con l’accusa di aver favorito con il proprio aiuto o consiglio i socii nel prendere le armi contro il popolo romano73. C. Aurelio Cotta, console nel 75; Q. Pompeo Rufo, console nello stesso anno; il princeps senatus M.

69 APP., BC, I, 35. L’espediente dei tribunali affidati ad un Senato “annacquato” per l’immissione al suo interno di un gran numero di cavalieri è interpretato da Appiano come un’astuzia di Druso (texna/zwn) finalizzata a rendere ambiguo chi fosse il reale beneficiario della norma.

70 Su queste linee, della perdita cioè delle prerogative basilari dei cittadini romani, era stata condotta davanti al popolo infatti la propaganda di opposizione alla proposta di cittadinanza di C. Gracco da parte del console C. Fannio Strabone (Oratorum Romanorum Fragmenta, C. Fannius, fr. 3).

71 APP., BC, I, 36. KEAVENEY 1987, pp. 62-63.

72 APP., BC, I, 34: ou)/te ga\r h)ci/oun e)n u(phko/wn a)nti\ koinwnw=n ei)=nai me/rei.

73 VAL. MAX., VIII,6, 4; APP., BC, I, 37. Cfr. ROTONDI 1962: lex Varia de maiestate, pp. 339-340 con relative fonti.

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Emilio Scauro, console nel 115; L. Licinio Crasso, coautore della lex Licinia Mucia e console nel 95 e forse P. Sulpicio Rufo, nell’88 tribuno della plebe e alleato di C. Mario contro Silla, sono alcuni tra i nobili che sostennero inizialmente Druso e che furono poi condannati dal tribunale di Vario74.

Pare che al momento della presentazione delle proposte di Druso anche L. Cornelio Silla fosse tra i sostenitori del tribuno: oltre a godere dell’amicizia di parenti di Druso, Silla condivideva con lui l’ideale di un Senato rafforzato75. È il caso di ricordare infatti che, sia tra i provvedimenti da lui attuati nel “pacchetto di riforme” fatto passare prima della partenza per la campagna mitridatica, sia nel grande riassetto legislativo realizzato durante la dittatura, spiccano misure sorprendentemente simili a quelle proposte dallo stesso Druso:

affidamento delle quaestiones perpetuae al Senato76; ampliamento del numero dei senatori, probabilmente proprio mediante l’immissione di un massiccio numero di cavalieri77; legge agraria per la creazione di colonie di veterani su suolo italico78. Quando poi, per i motivi che stiamo per riferire, l’attività di Druso si spinse oltre il segno di ciò che era accettabile per l’élite al potere, tanto da alienargli l’appoggio dei senatori che prima gli erano stati favorevoli, anche Silla fu tra coloro che si tirarono indietro79. È importante qui almeno sottolineare che tale atteggiamento, che peraltro prosegue la linea di ambiguità e ambivalenza tenuta dalla classe dirigente romana nei precedenti trent’anni, si rifletterà ancora come vedremo nel capovolgimento che ancora una volta si verificherà nell’atteggiamento di Silla verso gli Italici alla vigilia del suo ritorno in patria dall’Asia dopo la campagna mitridatica.

Per come abbiamo poc’anzi elencato le diverse parti di cui si componeva il progetto complessivo di Druso, esso potrebbe apparirci pacificamente organico, quasi fosse stato appunto da lui studiato “a tavolino” come un insieme bilanciato di provvedimenti utili e urgenti in quel momento per i diversi gruppi di interesse menzionati. Un tentativo di analisi più accurata della cronologia degli eventi dell’anno tuttavia potrà condurci a ravvisare sì

74 Cfr. con rimando alle fonti MRR, II, pp. 26-27; KEAVENEY 1987, p. 169; GABBA 1973, pp. 389-390.

75 KEAVENEY 20052, p. 39. Sulla vicinanza di Silla al gruppo politico che faceva capo a Druso nel 91 vd.

anche GABBA 1973, pp. 390-391.

76 VELL. PAT., II, 32, 3; TACITO Annales XI, 22, 9.

77 APP., BC, I, 100: afferma che i nuovi senatori erano scelti e)k tw=n a)ri/stwn i(ppe/wn; LIV., Perioch. 89:

senatum ex equestri ordine supplevit; TACITO, Annales XI, 22. Riguardo al provvedimento dell’88 invece APP. BC, I, 59 dice soltanto che i nuovi membri furono tratti e¦k tw=n a)ri/stwn a)ndrw=n.

78 23 legioni o 120˙000 uomini secondo APP., BC, I, 100 e 104; 47 legioni secondo LIV., Perioch. 89. Per le misure varate da Silla nell’88 vd. infra.

79 KEAVENEY 20052, p. 40.

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nell’operato del tribuno una strategia, ma una strategia sviluppata in itinere, messa in atto tentando di adattarla alle pieghe che gli eventi via via prendevano e alle scelte fatte anche dagli altri personaggi e gruppi coinvolti.

Nessuna delle fonti a nostra disposizione ci dà una chiara successione cronologica degli avvenimenti svoltisi nel 91. È possibile tuttavia tentare di procedere alla messa in ordine degli eventi mediante un raffronto incrociato delle notizie date dai diversi autori. Proviamo dunque a ricostruire in tal modo una cronologia plausibile del complesso anno di tribunato di Livio Druso80.

Sappiamo in primo luogo che Druso ebbe modo di scontrarsi con il console Filippo, a lui avverso81 e che questo avvenne secondo gli autori in contione (Cicerone), contionantem [scil. Drusum] (Valerio Massimo), allorché aderat promulgandi dies (Floro) e in comitio (Ps. Aurelio Vittore). A stretto giro rispetto a questo scontro ebbe luogo una convocazione del Senato da parte dello stesso Druso, di cui Cicerone fissa il momento: mane Idibus Septembribus, il 13 settembre82. Il motivo del contenzioso sembra fosse l’avversione del console alle leggi proposte dal tribuno, in particolare a quelle agrarie, contro le quali egli intendeva opporre la propria obrogatio (obrogare legibus, Floro; legibus agrariis resistenti, Ps. Aurelio Vittore). Nel corso della seduta senatoria poi il censore L. Licinio Crasso, sostenitore, come si è già visto, delle proposte di Druso, attaccò duramente Filippo e l’orazione da lui pronunciata fu approvata dal Senato a grande maggioranza83.

Possiamo dunque riassumere così questa prima sequenza di avvenimenti: prima della metà di settembre del 91, nel giro di breve tempo, Druso effettuò la promulgatio in contione delle proprie proposte di legge e andò in scena lo scontro con il console L. Marcio Filippo;

poco dopo vi fu la convocazione del Senato per la discussione delle mozioni, con l’intervento autorevole del censore Licinio Crasso in favore di Druso, il quale riuscì a far sì che il sostegno dell’assemblea si mantenesse dalla parte del tribuno.

Non dovette poi passare molto tempo prima che le rogationes di Druso fossero approvate nei comizi. Appare piuttosto sicuro infatti che, quantomeno, non si attese il trinundinum (intervallo di 24 giorni) tra la promulgatio e le votazioni, così come sarebbe stato prescritto invece dalla lex Caecilia Didia del 98 a. C.84: fu proprio per questo vizio di forma infatti

80 Un tentativo a mio avviso buono di ricostruzione in SORDI 1995, pp. 102 ss.

81 CIC., De orat., III, 1, 2; VAL. MAX., IX, 5, 2; FLOR., Epit., II, 5, 8; PS. AVR. VICT., De viris illustribus, 66, 9.

82 CIC., De orat., III, 1, 2; cfr. VAL. MAX., IX, 5, 2.

83 CIC., De orat., III, 2, 5.

84 ROTONDI 1962: lex Caecilia Didia de modo legum promulgandarum, p. 335.

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che le leggi di Druso così approvate furono in seguito abrogate85. Possiamo dunque collocare la votazione in blocco delle proposte del tribuno verosimilmente pochi giorni dopo la metà di settembre, forse prima della morte di Crasso, avvenuta die septimo dal discorso a sostegno di Druso, dunque il 19 settembre86.

È molto importante notare qui che questo primo gruppo di proposte non doveva ancora comprendere quella sul conferimento della cittadinanza agli Italici: nessuna delle fonti che stiamo analizzando ci parla infatti mai della rogatio de sociis come di qualcosa che ricevette effettivamente forma attuativa; esse parlano invece di spes civitatis (LIV., Perioch. 71 e FLOR., Epit., II, 5, 6) e di promissa (cfr. APP., BC, I, 35, u(pe/sxeto e PS.

AVR. VICT., De viris illustribus, 66, 11)87. Vedremo tra breve inoltre a chi e quando la civitas fu “promessa”.

È giusto però chiedersi a questo punto quando e come maturò un interessamento alla

“questione italica” da parte di Druso – che sfociò nell’ipotesi della presentazione da parte sua di una rogatio de sociis – e con quali modalità avvennero quei contatti con gli Italici protagonisti delle rivendicazioni sulla cittadinanza, che di tale interessamento furono il presupposto.

Sappiamo da Floro (Epit., II, 6, 8) di un primo tentativo ostile dei socii contro i magistrati romani, che doveva concretizzarsi nell’uccisione dei consoli Sex. Giulio Cesare e L.

Marcio Filippo (o soltanto di quest’ultimo, secondo l’altra fonte che si riferisce allo stesso episodio: PS. AVR. VICT., De viris illustribus, 66, 12). Entrambi gli autori offrono interessanti appigli cronologici per collocare tale fatto: Floro ambienta il progettato misfatto in Albano monte [...] festo die Latinarum (scil. Feriarum); lo Ps. Aurelio Vittore si limita alla notazione in Albano monte. Si tratta dunque per entrambi del periodo delle Feriae Latinae e dunque della primavera del 91 (anche se l’episodio è da essi postdatato).

Mentre poi Floro riferisce soltanto che il delitto fu sventato grazie ad una rivelazione proditoria, senza specificare ad opera di chi, lo Ps. Aurelio Vittore attribuisce il salvataggio

85 CIC., Dom, 41: iudicavit senatus M. Drusi legibus, quae contra legem Caeciliam et Didiam latae essent, populum non teneri. Notiamo per inciso che la violazione della lex Caecilia Didia avrebbe potuto consistere anche nella contravvenzione al divieto, previsto dalla stessa legge, di comprendere in un’unica proposta disposizioni eterogenee (rogatio per saturam); cfr. ROTONDI 1962, l. cit. Altre fonti per l’abrogazione:

CIC., Dom, 50; Leg, 14 e 31; DIOD. SIC. 37, 10; ASCON., 68C-69C.

86 CIC., De orat., III, 2, 6. Cfr. SORDI 1995, p. 103. Non così invece BANCALARI MOLINA 1987, secondo cui le proposte di Druso, presentate a giugno, furono votate nei comizi a luglio (assunto che, come vedremo, conduce inevitabilmente a conclusioni diverse anche su altri punti): pp. 408, n. 3; 431, n. 94; 437, n. 120.

87 Cfr. SORDI 1995, p. 104.

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di Filippo allo stesso Druso88. E se da un lato il fatto che Druso fosse informato dell’attentato sembra suggerire che già nella primavera del 91 egli avesse in qualche forma contatti con gli Italici, dall’altro il suo intervento in difesa del console attesta che a quell’epoca egli non era ancora un sostenitore dichiarato delle richieste dei socii.

Ad un momento in cui le posizioni di Druso non erano ancora decisamente favorevoli agli Italici devono risalire anche le frequentazioni della casa del tribuno da parte di un loro autorevole esponente, Q. Poppedio Silone, capo marso che sarà tra i comandanti supremi degli insorti durante l’imminente Guerra Sociale89. Della sua familiarità con Druso ci danno testimonianza Valerio Massimo (III, 1, 2)90, il quale lo definisce Drusi hospes, e Plutarco (Cat. Min., 2, 1), che addirittura lo designa come tou= de\ Drou/sou fi/loj. Se però a partire dalle loro parole possiamo da un lato desumere che all’epoca di questi incontri i rapporti tra il tribuno e gli Italici fossero evidenti e forse frequenti91, non è d’altra parte scontato che un “patto” tra loro fosse già definito. Dalle espressioni usate dai due autori appare anzi chiaro forse proprio il contrario. Valerio Massimo dice infatti che gli alleati de ciuitate inpetranda conuenissent a casa del tribuno della plebe e che M. Porcio Catone (del quale Druso era zio materno) dovette essere rogatus ut socios apud auunculum adiuuaret e iterum [...] ac saepius interpellatus, senza tuttavia cedere mai a queste richieste (constanti uultu non facturum se respondit e in proposito perstitit), al punto che Poppedio dovette infine ricorrere alla minaccia di gettarlo dal sommo della casa, senza comunque riuscire ad ottenere ciò che chiedeva (perseuerantia sua [scil. Catonis] Latinos iura nostrae ciuitatis adprehendere cupientes reppulit). Ugualmente significativi sono i termini usati da Plutarco: Poppedio, dimorando da più giorni presso Druso ed essendo entrato in familiarità con i bambini della casa (tra cui il piccolo Uticense), chiese loro di “pregare”

(deh/sesqe) il loro zio di aiutare il suo popolo nella lotta per la cittadinanza. La volontà di Druso in tal senso all’epoca dei fatti non era dunque per niente già decisa in favore degli Italici.

88 FLOR., Epit., II, 6, 9: id nefas proditione discussum est. PS. AVR. VICT., De viris illustribus, 66, 12: (scil.

Drusus) Philippum admonuit, ut caveret.

89 DIOD. SIC. 37, 2, 6 ss. (Ma/rsoj me\n to\ ge/noj, prwteu/wn de\ tw=n o(moeqnw=n) e 37, 13 (o( tw=n Marsw=n h(gou/menoj); LIV., Perioch. 76; FLOR., Epit., II, 6, 6 e 10 (dux et auctor belli; comandante di Marsi e Peligni); APP., BC, I, 40; PS. AVR. VICT., De viris illustribus, 80, 1 (Marsorum princeps); cfr.

KEAVENEY 1987, p. 216; SALMON 1967, pp. 351-352 e GABBA 1967, pp. 132-133.

90 Che però si riferisce a lui chiamandolo Latii princeps, e lo dice venuto in casa di Druso a capo di una delegazione di Latini.

91 Cfr. TWEEDIE 2012, pp. 137-138, n. 46, che a proposito delle relazioni tra Druso e Poppedio Silone afferma che doveva esserci “a high degree of intimacy and ease between these men”, corroborato forse da un rapporto di “hospitium going back generations”.

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