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CAPITOLO 1 IL GHIACCIO COME RISORSA

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Academic year: 2021

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CAPITOLO 1

IL GHIACCIO COME RISORSA

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1.1 UNA RISPOSTA AI BISOGNI QUOTIDIANI

Scientificamente il ghiaccio naturale è acqua allo stato solido che si forma quando l’acqua liquida si raffredda (al di sotto di una temperatura di 0 °C, 32 °F), presentandosi come un solido cristallino trasparente. La peculiarità principale del ghiaccio è che, pur aumentando di volume, ha una densità di circa l’8% inferiore a quella dell’acqua liquida, che gli consente di galleggiare su quest’ultima e permette il mantenimento in vita della fauna presente al di sotto della copertura ghiacciata. Generalmente infatti, anche nei laghetti artificiali di un impianto di produzione del ghiaccio, nell’acqua liquida sottostante lo strato ghiacciato troviamo (alle volte posti appositamente) dei pesci di acqua dolce: solitamente tinche. Prediligendo fondi bassi, melmosi, ricoperti di vegetazione e nutrendosi di larve e parassiti (causa di produzione di ghiaccio infetto, il cui uso poteva provocare casi di colera e tifo), questo tipo di pesce aiuta a mantenere un’acqua pulita e quindi la formazione di un ghiaccio sano; allo stesso tempo costituisce un valido elemento integrativo della povera alimentazione montana.

Il ghiaccio, sebbene non ce ne rendiamo conto, è da sempre presente nella nostra vita, poiché è uno dei più efficaci mezzi di conservazione di beni deperibili. Nessuno quindi con certezza ci potrà mai indicare a quale popolo o a quale “inventore” si possano collegare i procedimenti che stanno alla base di tecniche di produzione e di conservazione del ghiaccio tuttora utilizzate. L’uomo fin dall’antichità aveva la necessità di conservare carni, pesce ed ortaggi oltre la loro naturale durata: se da una parte cercava di armonizzare al meglio il suo ritmo di vita con quello della natura, osservando il ciclo biologico della natura stessa, dall'altra era forte l'esigenza di controllare, modificare ed a tutti i costi contrastare i tempi naturali di deperimento. Non è perciò del tutto vera l’idea “romantica” di un’umanità che, specialmente nelle epoche passate, viveva in perfetta armonia con la natura, rispettandone ritmi e limiti. L’attenta osservazione della natura stessa fornì tuttavia lo spunto per sviluppare uno dei primi metodi di conservazione alimentare, e cioè l’essicazione. La frutta che rimaneva sugli alberi senza perdere di commestibilità, infatti, fu il modello che venne applicato, ad esempio, a cereali e legumi; questi ultimi iniziarono infatti ad essere conservati secchi per mesi se non anni, immagazzinati in locali asciutti, sopraelevati o sotterranei.

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Ovviamente tutt’altro discorso vale per gli alimenti freschi in breve tempo deperibili, poichése non si prendono adeguati provvedimenti di conservazione, in un tempo più o meno lungo vanno incontro ad alterazioni provocate dall’azione separata o combinata di microrganismi, enzimi, acqua ed ossigeno. La conservazione si basa quindi sul principio di creare un ambiente sfavorevole allo sviluppo batterico, per poter mantenere gli alimenti in luoghi diversi da quelli di produzione e poterli consumare in differenti stagioni da quelle di raccolta. Attualmente classifichiamo i metodi per la conservazione a seconda del principio sfruttato per bloccare o rallentare l'azione degli enzimi e dei microorganismi presenti: oltre all’essicamento (già accennato in precedenza) e alla conservazione mediante raffreddamento/congelamento (effettuata mediante il ghiaccio), altri metodi sono la cottura, l’affumicatura, la salagione e la conservazione sott’olio e sott’aceto. Si tratta di metodi conosciuti ed utilizzati sin da tempi immemorabili, spesso in accostamento tra loro, molti dei quali hanno però il difetto di modificare il gusto d’origine degli alimenti. Ad esempio l’affumicatura (prodotta dall’azione del calore e del fumo, sprigionati dalla combustione di alcuni legni pregiati) conferisce ai cibi un particolare aroma ed un alto livello nutrizionale, poiché nei cibi più asciutti le sostanze organolettiche presenti risultano più concentrate rispetto ai cibi freschi. Un metodo di stagionatura strettamente legato a quello dell'affumicatura (generalmente effettuato prima di quest’ultima) e dell’essicazione è la salagione, citata anche dallo storico Marco Terenzio Varrone nel trattato De re rustica (37 a.C.). La salagione sfrutta le proprietà antisettiche e disidratanti del cloruro di sodio (ovvero del comune sale da cucina): esso abbatte il livello di batteri presenti all’interno dell’alimento, i quali, trovandosi immersi in una soluzione più concentrata, per reazione osmotica perdono acqua fino a disidratarsi e morire. Contemporaneamente a tale processo avviene l’essicazione del prodotto, che consiste nell’eliminare l’umidità dagli alimenti esponendo gli stessi al sole o all’aria. Varrone descrive il lungo e laborioso ciclo di lavorazione col sale che porta alla produzione dei prosciutti: « … Alla fine di queste operazioni i prosciutti non

verranno attaccati né da tarli e né da vermi » 1. Sebbene questo metodo non alteri in maniera eccessiva le proprietà organolettiche, l’aggiunta di sale alle proteine animali, oltre a renderle più coriacee e a far aumentare il tasso di sodio, provoca inevitabilmente un’alterazione del gusto.

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Invece conservando il cibo mediante il freddo, il gusto si preserva invariato, in quanto le basse temperature sono in grado di conservare la derrata senza alternarne l’originaria natura fisica ed organolettica. Inoltre il freddo permette di conservare più a lungo gli alimenti, poiché rallenta le reazioni di degrado all’interno dell’alimento e, se si arriva al congelamento, arresta l’attività enzimatica dovuta all’azione di microrganismi (perché si congela l’interno dell’alimento), ma non disattiva gli enzimi, che riacquistano le loro proprietà quando la temperatura aumenta, cioè al momento della cottura. La refrigerazione degli alimenti2 e delle bevande nell’antichità veniva realizzata utilizzando neve e ghiaccio: proprio per la sua economicità, facilità ed efficienza di applicazione , la conservazione degli alimenti mediante refrigerazione andò col tempo perfezionandosi e prese sempre più piede.

Fino ad alcuni secoli fa, per conservare gli alimenti si sfruttava sostanzialmente una serie di fenomeni naturali, quali il freddo pungente dell’inverno e le abbondanti nevicate, che costituirono pertanto una risorsa per le comunità montane. Un incisivo cambiamento avvenne quando, per esigenze di lavoro, la gente migrò dalle alture verso le città, allontanandosi dai luoghi di produzione del ghiaccio, causando un depauperamento ed un abbandono dell’ambiente; tale fenomeno si verificò all’incirca dalla metà del XIX secolo, quando anche la nascente tecnologia industriale cominciò a sviluppare numerosi e moderni procedimenti preposti alla conservazione ed alla trasformazione dei prodotti alimentari. Il ghiaccio naturale, ottenuto con fatica in montagna, non riuscì più a sostenere la concorrenza del ghiaccio prodotto dalla nuova tecnologia e risultò fuori mercato: il ghiaccio artificiale prodotto nelle nuove fabbriche che nacquero in città risultava infatti essere, oltre che più igienico, molto più comodo da acquisire per la vicinanza ai luoghi di consumo, avviando una vera e propria "rivoluzione" nel modo di conservazione degli alimenti deperibili.

Se prima solo le ville dei signori erano dotate di stanze o cavità sotterranee (neviere o ghiacciaie) nelle quali veniva stivato il ghiaccio in inverno, da utilizzare poi nei mesi estivi, ora, anche nelle case più umili si diffusero le prime ghiacciaie domestiche in legno, simili ad armadi, nelle quali finiva il ghiaccio acquistato sotto forma di stecche direttamente dalle fabbriche. L’arrivo dei primi frigoriferi a compressione, diffusi in Italia solo a partire dal secondo dopoguerra, intorno agli anni Sessanta, decretò la fine

2 Un prodotto si definisce refrigerato se la temperatura alla quale viene portato consente all'acqua in esso

contenuto di rimanere allo stato liquido, rallentando la naturale crescita microbica e la degradazione, riuscendo a mantenere una buona qualità del prodotto.

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dell’attività anche di queste fabbriche, portando ad un graduale e definitivo abbandono delle strutture di produzione del ghiaccio artificiale. Oggi, nelle nostre case non mancano mai frigoriferi e freezer, che utilizzano il metodo del congelamento anziché del refrigeramento3. Le attuali industrie alimentari, a loro volta, usano diversi trattamenti di conservazione, ad esempio la liofilizzazione, che tendono a preservare l’integrità e la salubrità dei prodotti con azioni di tipo termico, fisico o chimico.

L’importanza attribuita in passato alla neve e al ghiaccio è testimoniata dalla presenza di numerose chiesette consacrate alla “Madonna delle Neve” (molto diffusa tra i cristiani era l’usanza di invocare la protezione divina per far cadere la neve e proteggere il lavoro dei ghiacciaroli), ma soprattutto dalle numerose tracce di ghiacciaie tuttora visibili in tutta la penisola e anche dalle testimonianze orali di chi ha vissuto il problema della conservazione degli alimenti. La società contemporanea, purtroppo, ha completamente dimenticato il valore di questa attività ed ha perso l’interesse per questi luoghi, che sono dei veri e propri monumenti a testimonianza della ingegnosità della civiltà contadina.

3 A differenza del refrigeramento, il congelamento consiste nel portare l'alimento a temperature molto

basse, con conseguente solidificazione dell'acqua presente all'interno. In realtà, la totale congelazione del prodotto è impossibile da realizzare, e quindi le reazioni di degradazione, per quanto molto rallentate, avvengono ugualmente. Per tale motivo, il prodotto congelato non può mantenersi oltre un certo periodo di tempo.

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1.2 IL GHIACCIO NELLA STORIA

1.2.1ORIGINIDELLARACCOLTADELGHIACCIO.LEGHIACCIAIENELDESERTODEGLI

ANTICHIPERSIANI

Nell’antichità il termine Persia indicava il vastissimo territorio soggetto alla dominazione persiana che attualmente ricade in più di 15 stati (Carta 1). Nell’accezione moderna invece, il termine Persia (nome rimasto in uso fino al 1935) è stato spesso utilizzato per individuare l’attuale Iran (Carta 1).

Carta 1. a) i territori che comprenderebbe oggi l’Impero Persiano; b) carta geografica dell’attuale Iran.

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Geografia e clima non hanno di certo favorito questa terra compresa tra il Mar Caspio a Nord e Golfo Persico a Sud. Il territorio comprende infatti un enorme altipiano che raggiunge i 1.500 m, arido, desertico e stepposo, circondato a Nord e ad Ovest da impervie montagne che impediscono la penetrazione di nuvole e piogge, generando così un clima continentale con forti escursioni termiche. Eppure questo territorio all’apparenza ingeneroso ha ospitato da sempre l’uomo, divenendo culla feconda di civiltà a partire almeno dal III millennio a.C. A partire dal VII sec. a.C. con la dinastia degli Achemenidi, si assiste al passaggio da parte dell’antico popolo iraniano da una vita nomade ad uno Stato organizzato e le strutture architettoniche tipiche di questa terra iniziano a prendere forma. Nonostante ciò, per molto tempo terra, acqua e aria sono stati gli unici elementi della natura che questi popoli sono riusciti a sfruttare a proprio vantaggio.

Terra

La terra è stata da sempre impiegata per la fabbricazione dell’adobe, un tipo di mattone costituito da un impasto di argilla, sabbia e paglia essiccato poi al sole. Questo tipo di materiale, particolarmente spesso e con una buona capacità termica, è stato utilizzato per la costruzione delle abitazioni. La particolarità dell’adobe è infatti quella di assorbire in modo graduale il carico della radiazione solare diurna senza trasmettere immediatamente il calore all'interno dell'edificio: tale calore, che viene quindi immagazzinato nei muri, viene a poco a poco rilasciato all’interno dell'edificio durante la notte, cosicché al mattino seguente i muri risultano freschi.

Acqua

L’acqua è un bene che scarseggia in queste zone, ma le popolazioni hanno saputo sfruttare sapientemente questa risorsa mediante tecniche ingegnose impiegate tutt’oggi. Le acque vengono infatti captate al livello di falda e fatte confluire in profondi canali, chiamati qanāt, antichissimi impianti sotterranei di raccolta delle acque di falda freatica collocati alla base delle alture (prima che l’acqua si inabissi nuovamente). I canali hanno pendenze moltodolci (0,5° per km), in modo tale che l’acqua fluisca lentamente (senza asportare materiale dal fondo del canale) e raggiunga una cisterna, punto di raccolta e distribuzione per le aree agricole e gli insediamenti a valle (Schema 1.1).

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Schema 1.1. Modello schematico di un qanāt. Sezione e pianta. (da Bollettino di Archeologia on line - Congresso di Archeologia A.I.A.C. 2008, Volume Speciale A / A10 / 4)

La costruzione di un qanāt (Schema 1.2) è molto semplice ma richiede una grande perizia tecnica da parte di operai specializzati (i muqanni).

Inizialmente viene scavato un pozzo di sondaggio (detto pozzo principale) a monte del pendio fino ad intercettare la falda freatica. A questo punto viene definito un tracciato lineare lungo il quale vengono scavati in superficie una serie di pozzi verticali di areazione ad intervalli regolari: dall'alto la loro disposizione appare molto chiara, segnata dall'allineamento degli alveoli gonfiati che sono gli orifizi dei pozzi (Fig. 1.2). La fase successiva consiste nel congiungere i vari pozzi verticali mediante un condotto orizzontale, il cui scavo procede a segmenti. Lo scavo inizia dalla base del pendio (opposto al pozzo principale) e procede seguendo la conoide alluvionale.

I condotti orizzontali che collegano i vari pozzi vengono scavati da due operai, che lavorano uno con il piccone e l’altro con una vanga a manico corto (Fig. 1.3); il materiale di scavo, raccolto in morbidi secchi di pelle, viene portato in superficie mediante un verricello e accumulato attorno alla bocca del pozzo (Fig. 1.4). Coppie di

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lampade ad olio vengono poste tra gli intervalli dei pozzi verticali: in questo modo, oltre a far luce e ad aiutare gli scavatori a progredire in linea retta, fungono anche da segnalatori di carenza di ossigeno (nel caso la fiamma si spenga).

Figura 1.2. Esempio di pozzo verticale di qanāt iraniano.

Figura 1.3. Muqanno in atto di usare un piccone a manico corto.

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I muqanni dimostrano una grande perizia tecnica in questo lavoro, che tuttavia non è privo di rischi. Quando ad esempio il canale attraversa zone di terra non compatta il tetto può crollare: in questo caso le pareti vengono sostenute con anelli ovali in argilla cotta (Schema 1.3a); se invece la terra è ben compatta la pareti vengono lasciate senza sostegno (Schema 1.3b). Un’altra fonte di pericolo è data dal rischio di inondazione del tunnel stesso da parte dell’acqua di falda, un’eventualità che può verificarsi quando gli operai si avvicinano troppo alla testa del pozzo principale, rompendolo. Per evitare ciò, il pozzo verticale viene preventivamente svuotato prima di rompere il diaframma che lo separa dal condotto orizzontale.

I pozzi verticali, oltre a permettere agli operai di respirare sotto terra durante la fase di realizzazione e successivamente quella di manutenzione, vengono utilizzati per il diretto prelievo dell’acqua e molti sono tuttora operativi. I qanāt persiani sono un eccellente esempio di come l’uomo sia stato in grado, mediante l’applicazione di diversi accorgimenti tecnologici, di trarre i maggiori benefici da regioni aride e semi-aride di

direzione dello scavo

Figura 1.4.Verricello di superficie con muqanni al lavoro.

Schema 1.3. Sezione trasversale di galleria: a) le pareti sono rinforzate con l’anello ovale in terracotta; b) le pareti sono lasciate senza sostegno quando il terreno è argilloso o ben compatto.

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tutto il mondo. Sono, se vogliamo, la pietra angolare della prosperità nelle città del deserto e per questo sono stati riconosciuti dall’UNESCO come Patrimonio dell’umanità4

.

Aria

Per sfuggire alle alte temperature delle regioni desertiche e ottenere temperature più gradevoli all’interno delle abitazioni, gli antichi persiani per primi hanno concepito strutture semplici ma di grande impatto visivo, utili per sfruttare l’energia dei venti caldi che soffiano in regione. Sono i badgir o torri del vento, costruiti con i mattoni adobe. Si tratta di “camini” a pianta rettangolare o poligonale, divisi all’interno da setti verticali che formano dei condotti ove si incanalano i venti, provenienti dalle prese d’aria poste ai lati superiori della torre in direzione delle correnti principali (Fig. 1.5).

La tipologia tradizionale delle torri del vento permette di rinfrescare le abitazioni in maniera passiva per semplice ventilazione. L’aria calda, infatti, costretta a scendere per via della corrente lungo il condotto della torre, si raffredda (sfruttando le proprietà termiche degli adobe) portando negli ambienti interni refrigerio, per poi fuoriuscire nuovamente come aria calda (che tende in maniera naturale a salire verso l’alto poiché più leggera) dalle aperture del camino. Sovente l’azione di raffrescamento passivo

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esercitata dai badgir viene utilizzata congiuntamente al raffrescamento per evaporazione ottenuto sfruttando i qanāt sopracitati. In questo caso l’aria calda entra in contatto con le umide pareti di terra e con l’acqua fredda che scorre nel canale (il

qanāt). In conseguenza dell’evaporazione, l’aria rinfrescata risale verso l’alto (cioè

lungo la torre del vento) per l’effetto coandă (la tendenza di un getto di fluido ad essere attratto da una superficie vicina) e passando attraverso i vani dell’abitazione porta ad una generale diminuzione della temperatura all’interno della struttura (Schema 1.4).

Le ghiacciaie nell’antica Persia

Un sistema di refrigerazione che utilizzi, oltre le torri del vento, anche l'evaporazione dell'acqua, risulta particolarmente efficace se combinato con altri elementi architettonici studiati per raffrescare gli ambienti (come ad esempio fontane, giardini interni, cisterne). Altre importanti funzioni dei badgir sono quelle di creare riciclo d’aria all’interno di strutture calde e prive di aerazione (in modo da prevenire la nascita di

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muffe e microrganismi), nonché quelle di mantenere l’acqua fresca nelle cisterne e perfino conservare il ghiaccio d’estate.

Per millenni, quindi, questo antico popolo ha sfruttato unicamente fonti di energia rinnovabili donando allo stesso modo carattere ad una architettura urbana che si presenta essenzialmente semplice e povera nei materiali utilizzati, ma estremamente funzionale: di fatto specchio della vita nel deserto. I caratteri appena riportati sono ben visibili nella regione di Yazd (Carta 1b), un altopiano (con un altitudine media di 1216 m) posto ai piedi delle montagne nella zona centrale dell’Iran, in un’area dove i deserti Dasht-e-Kavir e Dasht-e-Lut si incontrano. A causa della sua distanza dalle principali capitali degli imperi che si susseguirono nei secoli, la regione di Yazd rimase immune dalle distruzioni causate dalle guerre, mantenendo intatte le sue tradizioni fino ai giorni nostri. In particolare, la città di Yazd, capoluogo dell’omonima regione, è una delle città più antiche e longeve, da sempre oasi e crocevia dei commerci carovanieri della Via della seta, visitata e citata anche da Marco Polo5 nel resoconto del suo viaggio in Asia (Fig. 1.6).

5 M. Polo, Il Milione, capitolo 33, anno 1295.

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Il viaggiatore veneziano descrive con dovizia di particolari alcuni elementi in quel viaggio insoliti: per esempio il sistema di approvvigionamento idrico ottenuto mediante i qanāt, che dava alla città la possibilità di essere un'oasi nel deserto; ma descrive anche i badgir, che in un primo momento pensò fossero dei minareti. Yazd, dunque, è un'autentica testimonianza del rapporto tra l’uomo e l’aspra natura, in cui l’architettura ha saputo trarre vantaggio dal bioclima della regione (con forti escursioni termiche fra il giorno e la notte) per rendere più confortevole la vita degli abitanti. È proprio in questi luoghi che sono state inventate e da qui esportate (identiche o con altre sembianze) queste particolari tecniche costruttive. Oltre alle già citate torri del vento (badgir), ai canali sotterranei per l’acqua (i qanāt - un esempio italiano conservato lo troviamo nella città antica di Palermo, in Sicilia, risalente al periodo del dominio arabo 827-1072), rientrano in questa ingegnosità anche i primi fabbricati per la produzione e la conservazione del ghiaccio, cioè le ghiacciaie.

I precursori di queste strutture sono sicuramente le cisterne di raccolta dell’acqua usate in Persia (realizzate a partire dal VI sec. a.C.), costituite da un serbatoio di forma cilindrica profondo dai 10 ai 20 metri, scavato nel suolo, coperto da una cupola e circondato da varie torri del vento. Le ghiacciaie vere e proprie, chiamate in persiano

Yakhchāl (da yakh - ghiaccio e chāl – fossa, letteralmente «fossa del ghiaccio») sono costruzioni imponenti, costituite da due parti: la prima, in superficie, è una copertura a gradoni a forma di cono alta fino a 18 metri; la seconda, sotterranea, è uno spazio di stoccaggio (Fig. 1.7).

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Le tecniche di produzione e conservazione del ghiaccio sono state introdotte in Persia dai Mongoli: infatti, già dall’VIII sec. a.C. le culture dell’antica Cina, quando la neve non era disponibile, riu-scivano a “fabbricare” il ghiaccio naturale e a con-servarlo in grotte sotter-ranee freddissime. Gli

Yakhchāl presentano

ca-ratteri in comune con le cisterne d’acqua, ma contengono maggiori ac-cortezze nelle tecniche costruttive per rispondere al meglio al loro compito. Ecco quindi che lo spazio sotterraneo scavato nel ter-reno ha forma troncoco-nica rastremata verso il basso, con una pro-fondità variabile che raggiunge anche i sei metri e un diametro massimo interno di quattordici metri; le pareti sono spesse al-meno due metri alla base ed interamente rea-lizzate in mattoni crudi rivestiti di una malta speciale chiamata sārūj – un composto di sabbia, argilla, albume d’uovo, calce, pelo di capra e ceneri in proporzioni specifiche – re-sistente al trasferimento di calore e comple-tamente impermeabile all’acqua. Lungo le pareti è ricavata una scala che segue il loro andamento curvilineo, la cui funzione è consentire il trasporto dei pezzi di ghiaccio dal fondo, sino al completo riempimento della fossa (Fig. 1.8).

Figura 1.8. Interno di uno Yakhchāl: spazio sotterraneo di conservazione del ghiaccio. Si noti il foro per il drenaggio dell’acqua di scioglimento del ghiac-cio.

Figura 1.9. Vista dall'interno del foro di area-zione della cupola dello Yakhchāl.

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Contrariamente alle cisterne, però, le ghiacciaie non posseggono torri di ventilazione

(come i badgir): questa funzione viene assolta da un foro di areazione verticale all’apice della copertura (Fig. 1.9), che allo stesso tempo funge da fonte di luce in quantità appena sufficiente per poter vedere agevolmente all’interno di questo grande ed unico ambiente. L’aria calda può così allontanarsi dal vano di costipamento del ghiaccio, permettendo di avere una temperatura costante e bassa durante il giorno e la notte, in inverno come in estate: il mantenimento del ghiaccio e di conseguenza anche la disponibilità di esso vengono così assicurati per tutto l’anno. Un parziale scioglimento del ghiaccio rimane tuttavia inevitabile. Per ovviare a ciò, un sistema di drenaggio a "trincea di fondo" nella fossa raccoglie l’acqua di scioglimento facendola confluire nel canale sotterraneo che alimenta dei bacini artificiali esterni di congelamento, riducendo di molto eventuali sprechi di acqua.

Inizialmente lo Yakhchāl è stato concepito come un semplice luogo di conservazione per il ghiaccio trasportato dalle vicine montagne; successivamente, i persiani hanno ideato un sistema efficiente per produrre il ghiaccio direttamente in città nelle adiacenze dello Yakhchāl, sfruttando sempre l’escursione termica giornaliera.

Schema 3b. Plastico ricostruttivo dell'intero sistema di produzione e conservazione.

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Uno Yakhchāl (Fig. 1.10) prevedeva la costruzione a Nord di vasche esterne per il congelamento dell’acqua poste a ridosso di un alto muro avente la stessa lunghezza, che correva in direzione Est–Ovest. Questo muro era dotato di due ali laterali che chiudevano questi bacini per proteggerli dai raggi solari e dai venti caldi, cosicché di giorno fossero sempre in ombra ed il ghiaccio potesse mantenere la sua solidità.

Le vasche venivano alimentate da acque captate dal qanāt che scorre in un canale interrato a Nord dello Yakhchāl: hanno forma rettangolare molto allungata (anche fino ai 90 metri) ed una esigua profondità (30-50 centimetri) per fare sì che il liquido solidificasse facilmente in tutto il suo spessore (Schema 1.5). Prima dell’alba, il ghiaccio formatosi durante la notte nei periodi freddi invernali veniva rotto in blocchi, raccolto e stivato all’interno dello Yakhchāl. Alcune ghiacciaie erano dotate di un’apertura posta allo stesso livello del piano di calpestìo esterno, fornita di uno scivolo che permetteva di trascinare con facilità i blocchi all’interno della struttura dove sarebbero stati conservati, agevolando così il lavoro degli operai. I blocchi venivano stivati a partire dal fondo, e risalendo man mano fino al completo riempimento dello spazio sotterraneo. Ogni strato di blocchi veniva intervallati da uno strato di paglia, in modo che i blocchi stessi non si saldassero tra loro, ma rimanessero separati per essere poi asportati più agevolmente. Il ghiaccio immagazzinato d’inverno veniva usato durante l’estate per raffreddare pietanze, conservare alimenti nonché per preparare sorbetti e per fare il tradizionale dessert persiano, il ālū e h6, considerato tra i primi

semifreddi al mondo e progenitore del nostro gelato.

Ad oggi sono numerosi questi complessi, che sono stati utilizzati fino a circa cinquant’anni fa. Diventati poi via via obsoleti con l’avvento dell’energia elettrica e l’introduzione dei frigoriferi, molti di essi sono però stati recuperati, restaurati ed ora riutilizzati per scopi pubblici.

1.2.2L’UTILIZZODINEVEEGHIACCIO NELMONDOGRECOEROMANO

L’uso di neve e ghiaccio era molto diffuso presso gli antichi Greci e Romani, fatto facilmente deducibile da numerosi ritrovamenti archeologici (resti di ghiacciaie e vasellame da simposio). Sappiamo che gli antichi amavano le bevande fresche da

6 نت س بی شور فی in persiano, il nome significa frullato, filtrato. Sono tagliatelle sottili di amido di mais

mescolato con sciroppo semicongelato a base di zucchero e acqua di rose, servito con succo di lime e pistacchi macinati.

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servire durante i simposi e i banchetti. Ne sono testimonianza i molteplici esemplari di

Psyktère prodotti a partire dal V sec. a.C. a figure nere e successivamente (a partire dal

530 a.C.) anche a figure rosse. Questo recipiente appartiene alla produzione vascolare greca dei recipienti per la preparazione del vino ed è principalmente costituito da un corpo centrale per il liquido a forma globulare che poggia su alto e stretto piede. Ciò che tuttavia lo caratterizza maggiormente è l’intercapedine fra la parete interna del corpo e la parete esterna, che veniva riempita di neve. Sovente questa forma ceramica può presentarsi senza manici, provvista di coperchio ma soprattutto priva della duplice parete, poiché lo Psyktère poteva essere immerso nella neve raccolta all’interno di un grande cratere, refrigerando così il vino (Fig. 1.11). Il suo utilizzo è attestato anche nel

Simposio (IV sec. a.C.) di Platone, dove al verso 214 Alcibiade presente al convivio a

casa del poeta tragico Agatone, esclama: «… porta, piuttosto, ragazzo, quel vaso per

tenere fresco il vino»7. Come si vede, se la ricerca archeologica si basa sullo studio dei manufatti, le fonti letterarie vengono in aiuto per accrescere la conoscenza, menzionando i vari contenitori, il loro utilizzo, e dando notizie sui luoghi utilizzati dagli antichi per la trasformazione di neve in ghiaccio.

Si deve a T. Bartholinus († 1680), medico anatomista e professore universitario a Copenaghen, una raccolta accurata di notizie sull’uso e metodi di conservazione di neve e ghiaccio8 riportati in opere di scrittori di epoche diverse, fra i quali anche greci e

7

Platone, Simposio, Edizione Einaudi, Torino 2006.

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romani. Un esempio dalla letteratura greca può essere la favola di Eracle al bivio9, ove si racconta che Eracle cercava un po' di neve per raffreddare la sua bevanda; si tratta di un’opera composta nel 371 a.C. dal sofista Prodico di Ceo e giunta a noi perché riportata dallo storico ateniese Senofonte nei sui Memorabili. Altro esempio ci proviene

dai pochi frammenti giunti a noi degli Annali di Carete di Mitilene, storico greco del IV sec. a.C., meglio conosciuto per aver ricoperto la carica di cerimoniere di corte per Alessandro Magno, nel corso della spedizione in Asia. Carete racconta di come Alessandro, durante un assedio alla città di Petra, fece scavare nel terreno trenta buche, riempite con neve portata dalle montagne e coperte poi con foglie e rami, per avere continue scorte da consumare per refrigerare bevande o mescolare a miele e frutta durante le calde giornate, in modo da ritemprare se stesso e le truppe. Il terreno rappresentava l’isolante termico necessario alla conservazione della neve, la quale, adeguatamente compressa e compattata, si trasformava in ghiaccio. Tra uno strato e l’altro di neve si interponevano paglia e foglie evitando così la formazione di un unico grande blocco.

Agli scritti di Carete attinsero molti altri scrittori greci vissuti sotto l’Impero Romano, tra i quali Plutarco e Ateneo di Naukrati, vissuto alla metà del III sec. d.C. Proprio quest’ultimo, nell’opera I dotti a banchetto10

(redatta in quindici libri e giunta a noi

pressoché completa) racconta un dialogo tra uomini dotti, avvenuto durante un simposio a casa del ricco romano Laurenzio, ove i temi centrali erano cibo, vino e divertimento: nel II libro dell’opera, Ateneo descrive una bevanda fresca, un vero e proprio sorbetto composto da neve e chicchi di melograni.

A Roma l'utilizzo di neve per raffreddare qualsiasi vivanda divenne una moda generalizzata tra i ricchi, nonostante le difficoltà di conservarla e reperirla, tanto da renderla un prodotto di lusso soggetto anche a leggi (le Leggi Suntuarie, emanate in tarda età Repubblicana). L’importazione di pietanze sempre più stravaganti e il ricorrente impreziosimento della cornice nella quale si svolgevano i convivi, dovuti ai continui contatti con l’Oriente, avevano notevolmente influenzato le usanze dei romani, comportando un lusso sfrenato ed uno spreco incredibile.

9 Senofonte, Memorabili, II 1, 21-34.

10Ateneo, I Deipnosofisti - I dotti a banchetto, L. Canfora, Salerno Editore, Roma 2001.

I libri I - II sono giunti a noi in una epitome bizantina dell’XI sec. d.C.

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Seneca (4-65 d.C.) condannava l'uso smodato della neve e scriveva: «...per questa gente

non c'è nulla di sufficientemente freddo... Vedrai certuni, te lo dico, gracili e avvolti in un mantelletto e in una fascia di lana, pallidi come cenci e malati, non solo bere la neve ma addirittura mangiarla e gettarne pezzi nei calici perché (quel che bevono) non intiepidisca tra un sorso e l'altro»; mentre Marziale (40- 104 d.C.) con la sua sprezzante

ironia riferisce che il costo di acqua refrigerata con neve era superiore a quello del vino. Ma anche il popolo aveva comunque la possibilità di gustare bevande ghiacciate nei cosiddetti thermopolia, una sorta di bar ante litteram. Nella capitale dell’Impero, tutti i giorni, dal Vesuvio, dall’Etna e dal massiccio montuoso del Terminillo sull’Appennino abruzzese, arrivavano con carri speciali (aventi il diritto di precedenza assoluta lungo le vie) grandi quantità di neve pressata, avvolta in paglia e fieno, destinati a rifornire le ghiacciaie imperiali (come quelle dell’imperatore Adriano nella sua villa di Tivoli), i grandi mercati ed i thermopolia dell’Urbe.

Alcuni medici greci e latini lanciavano i loro anatemi contro le bevande ghiacciate, poiché oltre a bloccare la digestione, mischiare la neve al vino poteva portare a malattie a causa delle impurità contenute all’interno della neve che veniva utilizzata. Ma se medici come Ippòcrate (fondatore della medicina in Grecia) erano sfavorevoli a tal consumo, altri colleghi prescrivevano ai loro pazienti di bere vino ghiacciato. Plinio il Vecchio (I sec. d.C.)nella Naturalis Historia11 racconta di un medico greco, Asclepìade (130 a.C.- 40 a.C.), conosciuto per le sue “cure dolci”, che esercitava la sua professione anche a Roma. Egli annoverava tra i suoi pazienti anche Cicerone, Crasso e Marco Antonio. Il suo principio terapeutico non prevedeva rimedi bruschi come quelli in uso all’epoca, bensì metodi rapidi, sicuri e sereni come massaggi, bagni termali, passeggiate e musica, con ricorso a metodi empirici solo in casi estremi. Asclepìade fu proprio il medico che ebbe un ruolo decisivo nell’introduzione del vino tra le cure mediche nella società romana, tanto da venire soprannominato “frigida danda”, cioè colui che prescrive cibi e bevande freddi.

Effettivamente la neve arrivava sporca sulle tavole dei banchettanti, a causa dei vari passaggi cui era sottoposta: dalla raccolta sui picchi innevati, al trasporto su carri, all'imballaggio nella paglia per isolarla dall'esterno, fino all'immagazzinamento in neviere, le quali spesso altro non erano che semplici grotte o cantine sotterranee. L’acqua corrente rimaneva la migliore da ghiacciare, ma è pur vero che non sempre essa

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è disponibile nelle vicinanze; così successivamente si iniziò a far ghiacciare l’acqua bollita. E bollita per renderla potabile, poiché spesso putrida, era anche l’acqua piovana grondante dai tetti, raccolta nelle case all’interno dell’impluvium (vasca rettangolare che si trova al centro del cortile) che confluiva in bacini o cisterne coperte dai quali poi si prelevava l’acqua per il consumo domestico. Troviamo citazioni sull’utilizzo di acqua bollita - acqua decocta – nuovamente nella Naturalis Historia di Plinio il Vecchio12 e nel quarto libro delle Quaestiones Naturales di Seneca13, scritto tra il 63 ed il 65 d.C. Entrambi, oltre a sostenere la salubrità di quest’acqua e a favorirla per la rapidità con cui ghiacciava, riportano una distinzione tra il ghiaccio derivato dalla neve aquae

nivatae e quello prodotto dalla solidificazione dell’acqua: il primo era più abbondante e

meno pregiato rispetto al secondo, il quale era sicuramente più raro e ad appannaggio delle classi abbienti.

Tuttavia tanta riprovazione non spaventava i consumatori, i quali usavano la neve per rinfrescare la stessa acqua bollita, priva di sapore dopo la bollitura, cercando così di renderla più piacevole al palato facendola raffreddare in contenitori pieni di neve. Stessa cosa succedeva con le bevande a base di miele, succhi di frutta e spezie: è questo il periodo delle nivatae potiones di cui scrittori romani testimoniano l’esistenza in gran numero, sebbene a noi siano giunte che poche ricette.

La raccolta più cospicua di preparazioni gastronomiche è sicuramente quella contenuta nel ricettario De re coquinaria di Apìcio, ricco patrizio, maestro d’arti culinarie durante l’impero di Tiberio (14-37 d.C.). Quest’opera, oltre a permetterci di conoscere i prodotti, cioè le materie prime utilizzate per realizzare i vari piatti dell’epoca, coadiuvata dalle molteplici scoperte archeologiche, ha consentito di ricostruire anche l’ambiente dove veniva consumato il pasto principale, la cena. Naturalmente le ricette riportate erano destinate ai banchetti dei ricchi, poiché il cibo della gente comune era molto più semplice: a base di focacce, zuppe e molti ortaggi.

Uno spaccato vivace della vita di questi elevati ceti sociali si trova nel Satyricon di Petrònio (metà del I sec. d.C.), nel quale si descrive con ironia, raffinatezza e realismo, una cena a casa dell’ex schiavo arricchito Trimalcione. Nella descrizione riporta come i

12 Plinio il Vecchio, Nat. Hist. XXXVI, 2.

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commensali si misero «... facilmente a tavola, con valletti di Alessandria che versavano

acqua ghiaccia sulle mani…»14 prima di iniziare a mangiare.

In quanto ad eccessi e stravaganze, si deve proprio all’Imperatore Nerone la prima comparsa ufficiale nei banchetti delle nivatae potiones quando, durante un banchetto imperiale, offrì ai suoi invitati una bevanda fatta di frutta tritata, miele e neve, in sostanza una ricetta molto simile al nostro sorbetto. Plinio il Vecchio, dal canto suo, parla di una bevanda composta da ghiaccio finemente tritato e miele, a cui viene aggiunta un’altra porzione di ghiaccio e succo di frutta, in modo da ottenere una sorta di crema ghiacciata. Invece in una lettera di Plinio il Giovane (61-113 d.C.) troviamo un riferimento ad una torta della sua cuoca, fatta di «alica cum mulso et nive», ovvero farina, vino mielato e neve. Questi e altri esempi ci fanno capire quanto tra i romani fosse diffuso il concetto di sorbetto.

Ma il ghiaccio da neve, oltre ad essere usato per raffreddare bevande, veniva impiegato negli impianti termali per raffreddare l’acqua del frigidarium (piscinae di acqua fredda); un ambiente esposto generalmente al lato nord, dove per mantenere una temperatura dell’acqua ottimale, se necessario, si aggiungeva all’interno delle vasche la neve. In conclusione, il consumo di neve e ghiaccio era tanto elevato, che costituì un fiorente commercio fino alla caduta dell’Impero Romano, quando, a seguito delle invasioni barbariche, il patrimonio delle raffinatezze alimentari si andò a perdere.

Completamente opposta era la situazione nelle terre d’Oriente: nel mondo dell’islam, infatti, lusso e prestigio sono sempre stati prerogativa delle persone ricche e la tradizione per il freddo si perfezionò più intensamente.

1.2.3 L’UTILIZZO DI NEVE E GHIACCIO DAL MEDIOEVO ALL’ETÀ MODERNA.

Il sistema di produzione ed il consumo di neve e ghiaccio ripresero in Europa alcuni secoli più tardi, dapprima nelle terre conquistate dagli arabi e successivamente a seguito delle Crociate tra l’XI ed il XIII secolo. Doversi crociati di ritorno dall’Oriente infatti, oltre ad aver accumulato grandi bottini, arricchendosi enormemente, importarono nuovi usi e costumi.

Anche in questo caso il ghiaccio diventò un bene di lusso, frutto della costante ricerca di uno stile di vita sempre più raffinato e di maggior prestigio per le classi più agiate.

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Nelle corti rinascimentali in particolare, le tecniche antichissime di produzione e conservazione di ghiaccio e neve tornano nuovamente di moda e vennero perfezionate grazie all’impegno di numerosi scienziati ed architetti. Fu Caterina de’ Medici in occasione delle nozze con il Duca d’Orleans, futuro Enrico II, a portare ad esempio in Francia la moda italiana degli alimenti ghiacciati antesignani dei moderni gelati. La regina portò infatti con sé un certo Ruggeri, ideatore di una bevanda composta e raffreddata a base di acqua, zucchero e frutta, probabilmente più simile a una granita che ad un gelato, chiamata “ghiaccio all’acqua inzuccherata e profumata”.

Ma è al manierista fiorentino Bernardo Buontalenti che si deve l’introduzione di nuove tecniche per la produzione di dessert simili al gelato, grazie agli studi sull’utilizzo di sale e ghiaccio per ottenere miscele refrigeranti che raggiungevano temperature di parecchi gradi sotto lo zero. Egli nel 1559, in occasione del banchetto inaugurale del Forte Belvedere voluta da Cosimo I de’ Medici, realizzò un dessert ghiacciato da offrire agli ospiti: si trattava di una crema fredda a base di latte, miele, tuorlo d’uovo e un tocco di vino, aromatizzata con bergamotto, limoni ed arance. Grazie a queste innovazioni vennero così poste le basi del gelato moderno, che prevede l’utilizzo di ingredienti di materie grasse (come latte e uova) che donano al gelato la caratteristica struttura cremosa.

Nella vita quotidiana delle corti del Rinascimento, si accentuò quindi l’uso di bevande e dolci freddi, ed in questa cornice si inserì l’interesse alla produzione e al mantenimento del freddo. Anche Leonardo da Vinci si appassionò al problema, tanto da dedicare parte dei suoi studi proprio a questa tecnologia durante il soggiorno alla corte degli Sforza a Milano. Tra i testi e le tavole lasciati in eredità è stato ritrovato un disegno autografo da-tabile al 1492 che rappresenta una macchina per produrre artificialmente il freddo (Fig. 1.12). Questa macchina è composta da un mantice circolare a tre camere d’aria, 18 beccucci che concentrano l’aria su un contenitore centrale e un piccolo argano a due manovelle da azionare a mano. Mediante quest’ultima si va a creare un getto d’aria in grado di mantenere o abbassare la temperatura di cibi o bevande nel contenitore.

Non sappiamo se questa macchina sia stata effettivamente mai realizzata da Leonardo; il suo scopo principale in tal caso sarebbe stato quello di raffreddare bevande, sorbetti e dolci o per prolungare la durata del ghiaccio utilizzato nelle mense e nei banchetti, rendendola un antesignano dei moderni frigoriferi.

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Nel Seicento, sulle riviere adriatica e ligure sorgevano ghiacciaie per la conservazione del pesce, mentre nelle città di pianura, poiché spesso mancava la neve naturale, si produceva il ghiaccio allagando un tratto di terreno e lasciandolo congelare finché la crosta non arrivava ad una di-mensione utile per essere spac-cata in blocchi da trasportare. Una testimonianza della rac-colta del ghiaccio sul fiume Arno a Firenze, viene data da un arazzo del 1643 realizzato da Van Asselt per la Villa Medici- Riccardi di Poggio a Caiano; sappiamo infatti grazie al Va-sari, come la famiglia dei Me-dici pagava operai per la rac-colta di questo prezioso bene (Fig. 1.13).

Nell’Italia insulare (Sicilia in

Figura. 1.12 a) Foglio autografo di Leonardo da Vinci, 21x15 cm, Parigi, Institut de France; b) modello della

“Macchina del freddo” leonardiana, ricostruita dal disegno

autentico e oggi conservata presso il Museo della Scienza e della Tecnologia di Milano.

a

b

Figura 1.13. Villa Medici-Riccardi, Poggio a Caiano. Arazzo di Van Assel del 1643. Oggi custodito a Palazzo Medici-Riccardi.(da Aterini B., 2007)

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particolare) furono gli spagnoli, già nel XIV secolo, a portare alla creazione di neviere nelle zone montane (sull’Etna, sui monti Iblei, sulle Madonie) per ottenere ghiaccio da consumare durante i caldi mesi estivi per sorbetti e bibite; risalgono a queste esigenze le origini delle famose granite siciliane, nate ufficialmente alla fine del Seicento con il nome di “aque gelate”. Gli ingredienti ed i metodi di preparazione di questi dolci si sono via via modificati, sostituendo progressivamente il miele con lo zucchero ed aggiungendo sale al ghiaccio per raffreddare più rapidamente le preparazioni, come sperimentato dal Buontalenti nel Cinquecento.

L’uso di neve e successivamente di ghiaccio prodotto nei bacini esterni e conservato nelle ghiacciaie rimase tuttavia immutato nei secoli, così come sostanzialmente uguale rimase il modo di produrlo. Le ghiacciaie che sorsero si diffusero in tutti i paesi d’Europa erano fondamentalmente di due tipologie, quelle ad uso privato e quelle cittadine. Le seconde in realtà erano anch’esse private, ma svolgevano un servizio di pubblica utilità, in quanto vendevano il prodotto all’ingrosso per coprire il fabbisogno di ghiaccio negli ospedali e nei primi laboratori universitari, e solo in minor misura lo vendevano al dettaglio.

Tra la fine dell’Ottocento e primi del Novecento nacquero tuttavia le prima fabbriche per la produzione del ghiaccio artificiale, avviando la produzione del ghiaccio naturale alla decadenza.

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