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CAPITOLO IV Il falco

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CAPITOLO IV

Il falco

“Addio uomo, addio falco dimentica la tua pesca. E tu scorda la tua senza becco e senz’ ali, omiciattolo, ometto”171

Il falco è sicuramente un animale emblematico, soprattutto nelle prime raccolte mon-taliane; assume però un carattere sempre più prosaico nelle raccolte più tarde, dove il poeta gli concederà addirittura facoltà di parola.

Dall‟analisi delle concordanze risulta che il falco è presente nei seguenti componi-menti:

- Spesso il male di vivere ho incontrato (OS); - Non rifugiarti nell’ombra (OS);

-

So che un raggio di sole (di dio?) ancora… (BU);

-

I falchi (SA);

-

Lungolago (QQ).

Il falco è un uccello rapace che, al pari dell‟aquila, ha un alto valore simbolico. An-cora oggi viene addestrato e utilizzato in falconeria per catturare, in volo o in corsa, altri uccelli o piccoli animali selvatici. Questo tipo di caccia è in voga presso gli Orientali, mentre in Europa è ormai poco praticata. Nell‟antico Egitto il falco, essen-zialmente il falco pellegrino, era considerato il simbolo regale per eccellenza, e il suo occhio paralizzava la vittima come lo sguardo del faraone i suoi nemici. Ma il falco

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era in primo luogo l‟immagine simbolica del potente dio del cielo Horus (Hor), forse anche a causa delle sue grandi ali. Horus veniva dunque di solito raffigurato come un falco, oppure aveva un corpo d‟ uomo e la testa di falco. Sotto le sembianze del falco erano raffigurati anche il dio del Sole Ra (con il disco solare intorno al capo), Month, con la sua doppia corona piumata, il dio della morte Sokar (un falco mummificato), e infine Hariêse, con la doppia corona dell‟ Alto e del Basso Egitto. Il vistoso disegno delle piume sotto gli occhi dell‟ uccello li fa sembrare più grandi. Per questo motivo l‟occhio Udjat è diventato il simbolo di una vista a cui non sfugge nulla, e dell‟ in-vulnerabilità. Questo ne fa un amuleto molto apprezzato. In occidente il falco da cac-cia è un attributo specifico di alcuni santi, come il patrono della caccac-cia, sant‟Uberto; più raramente esso rappresenta la vittoria sulla debole lepre, simbolo della sensualità, divenendo così a sua volta il simbolo della possibilità di trascendere il mondo della carne. Presso i Germani del Nord, il dio Odino aveva la facoltà magica di volare al di sopra della Terra in forma di falco; ma anche Loki poteva tramutarsi in falco. Nei be-stiari medioevali il falco viene interpretato in modo assolutamente negativo. Volteg-giando pigramente, dicono, esso vede dall‟alto la carne e la ruba nei mercati dove è esposta, diventando così l‟ immagine dell‟ uomo che si preoccupa esclusivamente di soddisfare il proprio stomaco. In tempi più recenti il falco è stato invece scelto come emblema di una politica estera aggressiva, in contrapposizione al partito delle co-lombe, divenute il simbolo del movimento per la pace.172

Il falco come animale totem simboleggia: il potere della visione, la sapienza, la tutela e il cambiamento.

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Il falco compare già nella prima raccolta poetica montaliana Ossi di seppia, nella poesia dal titolo Spesso il male di vivere ho incontrato:173

Spesso il male di vivere ho incontrato: era il rivo strozzato che gorgoglia, era l‟incartocciarsi della foglia riarsa, era il cavallo stramazzato.

Bene non seppi, fuori dal prodigio che schiude la divina Indifferenza: era la statua nella sonnolenza

del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato174.

Questa poesia compare per la prima volta nell‟edizione Gobetti degli Ossi di seppia del 1925, come settimo elemento della serie eponima, i cosiddetti “ossi brevi”. Ne

173 Cfr. Eugenio Montale, Spesso il male di vivere ho incontrato, in Tutte le poesie, Milano,

Mondado-ri, 1984, p. 35.

174 Per un analisi metrica approfondita, cfr. Luigi Blasucci, Montale tra Leopardi e Schopenhauer.

Lettura di “Spesso il male di vivere ho incontrato…” in “Vaghe stelle dell’ orsa…”. L’“io” e il “tu” nella lirica italiana, a cura di Francesco Bruni, Venezia, Marsilio, 2005, pp. 307-319: 308- 309: “Il

metro del nostro “osso” è costituito da due quartine di endecasillabi, eccetto l‟ultimo verso che è un martelliano (risultante precisamente da un settenario sdrucciolo più uno piano). Lo schema delle rime ABBA, CDDA, dove la rima A, di tipo “grammaticale” o “morfologico” (ottenuta nel nostro caso con desinenze participiali), è insieme strofica (chiude la prima quartina) e inter strofica (ricompare nell‟ ultimo verso della seconda quartina, chiudendo l‟intero componimento). La irrelata c trova a suo mo-do un adempimento all‟interno del verso 8 (rima imperfetta prodigio : meriggio). Tutti gli obblighi rimici risultano così soddisfatti. Per di più, la rima A è riecheggiata all‟interno del verso 2 (strozzato), risultando in tal modo come una specie di filo conduttore fonico dell‟intero componimento. Per effetto di queste trame rimiche la struttura metrica di Spesso il male di vivere… si presenta come di frequente in Montale, compatta e bloccata. Nel caso specifico, questo carattere “chiuso” del componimento fa tutt‟uno, come vedremo, con l‟inesorabilità dei suoi asserti, risultando dunque, insieme, un fatto isti-tuzionale della poesia montaliana e un dato funzionale al nostro testo. Un‟ analoga doppia valenza, istituzionale e funzionale, è da riconoscere al finale contrappunto metrico, dovuto all‟ introduzione di un verso di altra misura dopo una serie isometrica. In quanto procedimento istituzionale, il contrap-punto può essere ottenuto sia con un verso ipometro che con un verso ipermetro”.

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possediamo una redazione autografa con due varianti, contenuta in un foglio che in-clude di seguito il testo di un altro “osso”, So l’ora in cui la faccia più impassibile, insieme ad altri due fogli o fascicoli contenenti altri autografi degli Ossi. Il nostro fu donato da Montale a Bianca Messina, compagna e poi moglie dello scultore France-sco, e da costui, dopo la morte di lei, consegnato con l‟altro materiale all‟ editore Vanni Scheiwiller. Il foglio contenente Spesso il male di vivere…e So l’ora… non re-ca date: ma per il livello espressivo dei due testi e per la contiguità con gli altri “ossi brevi” datati, la composizione sembra da assegnare al 1923- 24175

.

Il primo tratto che colpisce il lettore di Spesso il male di vivere… è la simmetria co-struttiva delle due quartine: a una dichiarazione generale di tenore esistenziale segue in entrambi i casi, introdotta dai due punti, un‟esemplificazione costituita da tre ele-menti concreti. La simmetria della costruzione è ribadita dalla ripresa dell‟anafora sintattica era…era.., e, sul versante metrico, dalla presenza dell‟ enjambement fra il terzo e il quarto verso di ciascuna quartina. Ma questa simmetria, come sottolinea Blasucci, introduce un‟opposizione sul piano dei significati, tra il male evocato nella prima quartina e il bene evocato nella seconda. Questa simmetria si riflette sul piano fonico–lessicale nel contrasto tra un linguaggio fortemente espressivo, anzi materico, riferibile agli esseri sofferenti della prima quartina: il rivo, il foglio e il cavallo, e un linguaggio più piano e lieve, riguardante gli esseri indifferenti della seconda quartina, ovvero la statua, la nuvola e il falco. La stessa simmetria dell‟anafora era…era… è rotta nella seconda dal polisindeto che lega tra loro gli esseri lievi: “era la statua nel-la sonnolenza / del meriggio, e nel-la nuvonel-la, e il falco levato”, in contrasto con nel-la forte scansione degli esseri grevi nella prima quartina: era…era…era… È qui che s‟inserisce il discorso sulla funzionalità del verso finale più lungo; esso, rompendo la

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simmetria metrica, prolunga, infatti, la durata dell‟evocazione riguardante gli esseri “indifferenti”, contribuendo a un effetto di allontanamento e di dissolvenza verso l‟alto, “la nuvola” e “il falco alto levato”. Che le immagini della sofferenza siano tre, continua Blasucci, non è dovuto ad una scelta retorica, in questo caso l‟utilizzo del

tricolon, ma alla logica stessa del discorso, che vuol riferirsi alla totalità degli esseri.

Le tre immagini della sofferenza sono, infatti, enunciate secondo una progressione della scala naturale, che va dal mondo minerale, il rivo, a quello vegetale, la foglia, a quello animale: il cavallo. Più difficile, semmai, sarebbe identificare nella totalità quella progressione nelle tre immagini della seconda quartina: se il falco, infatti, ap-partiene al mondo animale e corrisponde, anche per sua posizione, al cavallo del ter-zetto precedente; se la statua, messa in prima posizione, può appartenere al mondo minerale; la nuvola risulta difficilmente assegnabile a quel regno medio della natura, il vegetale, a cui dovrebbe assimilarsi per la sua natura simmetrica con quella della “foglia riarsa”. Su suggerimento di Blasucci possiamo dire che la simmetria s‟incrina proprio nel secondo terzetto.

Inoltre, due grandi modelli di pessimismo si offrivano a Montale: da una parte Leo-pardi e il cosiddetto “pessimismo cosmico”, ossia quella visione della generale soffe-renza degli esseri, che s‟instaura a partire dal Dialogo della Natura e di un Islandese, anche se probabilmente Leopardi sarebbe rimasto perplesso di fronte alla sofferenza del “rivo strozzato”, dal momento che in questo caso non solo la capacità di “sentire” ma anche quella di “essere” applicata ad un rivo sarebbe stata messa in discussione. In realtà Montale, procedendo per via analogica, attraverso la sostituzione di

ingor-gato a strozzato ha messo in relazione “il rivo” con il mondo degli umani. Dall‟altra

parte c‟è Schopenhauer, che nel Mondo come volontà e rappresentazione, e in quella sua tarda appendice intitolata La volontà della natura, arrivò a parlare di una

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“senso-rialità” delle piante, mentre vide nell‟ universo inorganico il dominio di una pura e cieca “volontà”, verificabile in fenomeni come la forza di gravità, il magnetismo, la reattività delle sostanze chimiche. Nell‟ attribuire al rivo una sua sensibilità, Montale avrebbe compiuto un passo ulteriore rispetto allo stesso Schopenhauer, estendendo il dato della coscienza, e quindi della sofferenza, alla stessa cieca volontà della materia inorganica176.

Il confronto con Schopenhauer si pone anche sul tema dell‟“indifferenza”: questa volta il confronto è con Il mondo come volontà e rappresentazione, dove la libera-zione viene vista come l‟effetto di una disvelalibera-zione ultima, per cui gli oggetti, dive-nuti “le finte immagini del mondo” riescono ormai “indifferenti” al soggetto senzien-te; questo concetto è tutt‟altro che estraneo alla poesia montaliana, che negli Ossi ha spesso toccato il motivo della conoscenza come disvelazione, come ribaltamento del-la realtà ingannevole che ci sta sotto gli occhi; tenendo conto anche di quanto il poeta dichiarerà nell‟Intervista immaginaria177:

Ubbidii a un bisogno di espressione musicale. Volevo che la mia parola fosse più ade-rente di quella di altri poeti che avevo conosciuto. Più adeade-rente a che? Mi pareva di vi-vere sotto una campana di vetro, eppure sentivo di essere vicino a qualcosa di essenzia-le. Un velo sottile, un filo appena mi separava dal quid definitivo. L‟espressione assolu-ta sarebbe sassolu-taassolu-ta la rottura di quel velo, di quel filo: un‟esplosione, la fine dell‟inganno del mondo come rappresentazione.178.

Esplicito, in queste ultime parole, il riferimento a Schopenhauer.

176

Cfr. Giovanni Bardazzi, Schopenhauer tra Montale e Sbarbaro, in “Studi novecenteschi”, xv, 1988, p. 78.

177 Cfr. Luigi Blasucci, Montale tra Leopardi e Shopenhauer, cit., p. 316.

178 Cfr. Intenzioni (Intervista immaginaria) in Il secondo mestiere. Arte, musica, società, a cura di

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Secondo Orelli179, un‟altra preziosa reminiscenza letteraria è quella offerta dall‟immagine della “statua”, parente forse di quella del sonetto dannunziano La

sta-tua. Dice D‟Annunzio: “Una statua, memore d‟assenti / Numi, grandeggia fra i

ci-pressi insigni / Qual mistero dal gesto d‟una grande / statua solitaria in un giardino / silenzioso al vespero si spande”. Dove appunto: si può mettere in relazione il “miste-ro” che emana dal gesto della statua in D‟Annunzio con “il prodigio che schiude la divina indifferenza” della statua montaliana180

.

Vorrei ricordare che le tre immagini che raffigurano l‟Indifferenza sono immagini statiche, di permanenza e di durata: la statua, la nuvola, il falco sospeso nel volo.

Blasucci nel suo studio pone una domanda: si tratta in realtà di metonimie o metafo-re?

La risposta non è semplicissima: “lo stato figurale delle prime due immagini è per molti aspetti analogo a quello del rivo: non si tratta di esseri coscienti, e nel caso del-la nuvodel-la è di nuovo in gioco del-la qualifica stessa di „essere‟. E il falco e del-la sua natura stessa di animale potrebbe suggerire non un‟idea analogica ma reale dell‟indifferenza. Ma il sospetto che quello di essere sospeso in volo sulle ali sia, nel-la realtà etologica del falco, funzionale a una sua successiva picchiata sulnel-la preda, si ricordi il “falchetto che strapiomba / fulmineo nella caldura” dell‟“Osso” Non

rifu-giarti nell’ombra…, indurrebbe a riguardare questa immagine del falco, come una

trasposizione, come la proiezione figurativa di un‟aspirazione del poeta (compresa, magari, quella di volare).”181.

179

Cfr. Giorgio Orelli, L’“upupa”, cit., p. 245.

180 La divina Indifferenza secondo il Pozzi “rappresenta la prima, positiva presenza teogonica

riscon-trabile nella poesia di Montale” (Gianni Pozzi, La poesia italiana del Novecento, Torino, Einaudi, 1965, p. 162).

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Forse è proprio la ricerca di quell‟attimo estatico, di sospensione dal tempo, rappre-sentato dal falco, l‟aggancio grazie al quale il poeta e l‟uomo possono finalmente svincolarsi dai vincoli del tempo e allontanarsi anche solo per un istante dalla realtà delle cose.

E proprio l‟uomo, è stato detto, è il grande assente di questa lista, ma in fondo finisce per essere il vero referente del discorso. E allora “il male di vivere” tende a perdere i connotati autonomi di sofferenza dei singoli esseri naturali, per assumere piuttosto quelli di una deriva esistenziale, di un malessere proprio della coscienza dell‟uomo.182

Il falco, o meglio i falchi, sono i protagonisti di un'altra lirica montaliana, presente nella raccolta Satura (1971), intitolata I falchi183:

I falchi

Sempre troppo lontani dal tuo sguardo raramente li hai visti davvicino. Uno a Étretat che sorvegliava i goffi voli dei suoi bambini.

Due altri in Grecia, sulla via di Delfi,

una zuffa di piume soffici, due becchi giovani arditi e inoffensivi.

Ti piaceva la vita fatta a pezzi,

quella che rompe dal suo insopportabile ordito.

182 Cfr. Luigi Blasucci, Montale tra Leopardi e Shopenhauer, cit., p. 318. 183

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Questo componimento (Xenia, II, 12) è del 1967. Il poeta si rivolge alla sua defunta moglie Drusilla Tanzi, soprannominata “la Mosca” a causa della sua fortissima mio-pia, come già abbiamo visto.

Montale tenta qui di mettere in funzione quel meccanismo così fallace, labile ed er-roneo che è la memoria, e prova a ricordare. Il ricordo parte proprio dai falchi, e vie-ne subito legato alla figura della moglie; probabilmente i primi tre versi servono per introdurci all‟argomento che Montale vuole realmente trattare: il tempo. Bisogna ri-cordare che Étretat è il luogo in cui Marcel Proust era solito andare per trovare pace e tranquillità, e dove probabilmente concepì ed elaborò Alla ricerca del tempo perduto. Inoltre Delfi è il luogo in cui era situato l‟oracolo di Apollo, il quale forniva, in ma-niera oscura e spesso incomprensibile, predizioni sul futuro. I falchi né eterni né temporali segnalano e non segnalano la via di Delfi, uniscono passato e futuro che non hanno in comune nulla se non la presenza dei falchi stessi. Essi, come abbiamo visto in Spesso il male di vivere…, rappresentano un varco, un‟uscita e quindi la pos-sibilità in un certo senso di sottrarsi al tempo, di rimanere in un attimo estatico e so-speso che non è né presente né futuro. Non esiste un ordine programmato e prestabi-lito di fatti, e spesso molti anelli di questa catena temporale non tengono, tutto è do-minato dalla casualità. Ma forse esiste una salvezza, esiste quella “maglia rotta nella rete” (In limine), rappresentata in questo caso proprio dai falchi, esiste forse quella vita che, se pur breve, riesce a rompere questo insopportabile ordito.

Del resto i falchi sono gli stessi di cui Montale parla nella prosa del 1962 Sulla via

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Le luci sono spesso accecanti, il vento che soffia fra gole lontane sommuove il tappeto dei muschi là dove qualche chiazza di verde si ostina a crescere su ciglioni di terra ros-sastra. Monotonia e spreco, miseria e sotterranea convulsa esuberanza sembrano i carat-teri di questa “via sacra” del mondo antico. L‟uccello più frequente è quella gazza nera striata di bianco che gli Spagnoli chiamano hurraca e che in tale quantità si vede solo in Provenza e Catalogna. Anche i corvi sono numerosi, più tardi appariranno i falchi. Do-po Delfi ne ho visto due, giovani, robusti, che si azzuffavano amorosamente su un mu-retto della strada, indifferenti al passaggio della nostra macchina184.

Nella prosa i falchi vengono qualificati proprio come esseri “indifferenti”, tema che si riallaccia inequivocabilmente a Spesso il male di vivere…, ma oltre a ciò bisogna costatare che i falchi sono uccelli rapaci, potenti e intelligenti e possono essere eletti tra i “simboli concreti” più memorabili di Montale: simboli della vita che diciamo col Leopardi del Dialogo di un fisico e di un metafisico: “debb‟ esser viva, cioè vera vi-ta; o la morte la supera incomparabilmente di pregio”185.

Bisogna prestare attenzione anche ad un ulteriore motivo che riguarda il falco, segna-lato da Orelli come motivo religioso, ovvero quello “della potenza visiva, della vista che s’avvalora guardando e non guardando fuori e dentro di sé.”186.

Inoltre, il “tu”, la moglie miope, che i falchi li vorrebbe vedere da vicino, è più che mai, anche, dilatazione dell‟“io” in questa “affermazione vitale al di qua di ogni ra-zionale assetto delle cose”187

. Scrive Montale: “Non esistono vite corte o lunghe / ma

vite vere o vite morte o simili”.188

184 Cfr. Sulla via sacra (FC) in Prose e racconti, a c. e con introduzione di Marco Forti. Note ai testi e

varianti a c. di Luisa Previtera, Milano, Mondadori, 1995, pp. 483-488.

185 Cfr. Giacomo Leopardi, Operette Morali, Milano, Mondadori, 1988, pp. 62-67. 186

Cfr. Giorgio Orelli, I falchi di Montale, in Del modo di insegnar presiedendo senza campanello.

Studi in ricordo di Giulia Giannella, a cura di Fabio Beltraminelli, Bellinzona, Edizioni Casagrande,

2006, pp. 181-188: 186.

187 Cfr. Ivi, p. 185. 188

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In conclusione, vorrei soffermarmi su una lirica presente nel Quaderno dei quattro

anni (1977), Lungolago189:

Il piccolo falco pescatore

sfrecciò e finì in un vaso di terracotta fra i tanti di un muretto del lungolago. Nascosto nei garofani era visibile quel poco da non rendere impossibile un dialogo.

Sei l‟ultimo esemplare di una specie che io credevo estinta, così dissi. Ma la sovrabbondanza di voi uomini sortirà eguale effetto mi fu risposto.

Ora apprendo osservai che si è troppi o nessuno. Col privilegio vostro disse il falchetto

che qualcuno di voi vedrà il balletto finale. A meno ribattei che tempo e spazio, fine e principio non siano invenzioni umane mentre tu col tuo becco hai divorato il Tutto. Addio uomo, addio falco dimentica la tua pesca. E tu scorda la tua senza becco e senz‟ ali, omiciattolo, ometto.

E il furfante dispare in un alone

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di porpora e di ruggine.

Il titolo potrebbe risuonare ancora come caratteristico della Bufera, coniato sul mo-dello di Lungomare e del “fondolago” di Ginevra dal quale s‟alzava in volo un‟anitra, in Da un lago svizzero. In questa poesia del Quaderno il sostantivo si rife-risce al punto di osservazione del poeta, che indugia sulla caduta di un falco pescato-re lungo la strada che costeggia il lago di Lugano, nei ppescato-ressi di Campione d‟Italia.

La prima parte del componimento è occupata dal “piccolo falco pescatore” che piomba da cielo a terra contro un “vaso di terracotta”: il tema della caduta angelica della Musa femminile viene così ribaltato dal poeta stesso nella rappresentazione di un uccello precipitato, che non parrebbe avere alcuna simbologia particolare, ma sol-tanto la mera indicazione referenziale conferita dall‟episodio.

Eppure la caduta dell‟uccello fornisce al poeta quella cornice rappresentativa per ten-tare “un dialogo”; si noti l‟isolamento di quest‟oggetto al sesto verso.

L‟episodio del falchetto funge, così, da cornice enunciativa per consentire un discor-so diretto fra i due, l‟uomo e l‟uccello. Il piccolo, cosmopolita falco pescatore dialo-ga con un “io” poetante che risulta però degradato a omiciattolo, ometto190

.

Riassumendo si può dire che il vispo falchetto di lungolago, rappresentato da Monta-le in tutta la sua naturaMonta-le selvatichezza e vitalità, in grado di oltrepassare i confini spazio-temporali e di esprimere con tutto il suo essere un insopprimibile senso di li-bertà, simboleggi l‟istinto in cui si riverbera, secondo il poeta, tutto il segreto dell‟esistenza, ovvero di quella “vitalità” declinata poi a “decenza quotidiana” dell‟ultimo Montale.

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In questa poesia si ritrovano infatti i tratti dell‟essenzialità della poesia–prosa dell‟ultimo montale, che nella desublimazione programmatica, ma assai ambigua, del linguaggio poetico lanciato, sin da Satura (1971), in una mimesi furente del magma e del vuoto della società di massa, ribadisce, nella immobile disperazione dell‟autore, il valore dell‟atto poetico come rifondazione pur minima dell‟umano.

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