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Le norme volontarie a supporto della sicurezza alimentare 3.1 Introduzione

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Academic year: 2021

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CAPITOLO 3

Le norme volontarie a supporto della sicurezza alimentare

3.1 Introduzione

Tra gli obiettivi che le aziende sia pubbliche che private si pongono ogni giorno per mantenere competitiva la propria posizione sul mercato ci sono (o dovrebbero esserci) quelli di aggiudicarsi forniture e materie prime di ottimo livello, avere un rapporto chiaro coi fornitori, ridurre i costi e garantire a clienti e/o utenti la bontà dei propri beni o servizi; la necessità di raggiungere tali obiettivi riguarda ogni impresa, indipendentemente dalle dimensioni e dal settore in cui essa opera e dal suo impatto – più o meno diretto – sul consumatore e sulla società in genere.

Non sfuggono a questa regola le imprese del settore alimentare, ambito nel quale più che in altri c'è da sempre l'esigenza di dare e ricevere rassicurazioni sulle particolarità intrinseche del prodotto; l'igiene dei processi produttivi di un alimento e la sua salubrità sono diventati aspetti ormai imprescindibili nelle scelte d'acquisto di consumatori sempre più informati ed esigenti.

Nel capitolo precedente si è esaminato in dettaglio il regolamento 178/2002, punto di partenza della nuova legislazione alimentare adottata dall'UE in risposta al panico del cittadino europeo scatenato dalle crisi alimentari degli anni '90; in un mondo sempre più globalizzato dove l'offerta di prodotti alimentari è garantita da circuiti di distribuzione che fanno letteralmente il giro del mondo, la gente comincia a porsi domande circa le modalità e le tecniche di produzione di un alimento, quale il livello di igiene prestato in esse, quali le autorità di controllo! Il consumatore medio (mediamente informato, attento e circospetto) sa darsi risposte insoddisfacenti a tali domande, e in breve tempo un forte senso di sfiducia dilaga un po' ovunque.

Paesi emergenti che si affacciano sul mercato europeo a prezzi competitivi, accordi commerciali internazionali sempre nuovi, sostegno ai mercati interni via via più limitati, le conseguenze della globalizzazione sono ormai sotto gli occhi di tutti e questo lavoro non ha certo lo scopo di farne una disamina dettagliata; d'altro canto è evidente che mai come in questa epoca il consumatore si è trovato tanto distante dal

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processo produttivo dell'alimento, e non solo fisicamente! Da che mondo è mondo, una certa “asimmetria” conoscitiva tra produttore e consumatore c'è sempre stata, ma negli ultimi decenni essa si è accresciuta a livelli quasi esponenziali; nuove tecnologie e frammentazione dei luoghi d'origine pregiudicano seriamente le reali possibilità di conoscere aspetti anche rilevanti di un alimento e di esercitare un controllo efficace non solo da parte del consumatore ma anche – cosa assai più allarmante – da parte del personale incaricato dei controlli e della vigilanza

La domanda sorge spontanea: come può essere colmata questa distanza?

Per parte loro, assillate dallo spettro del fallimento le imprese capiscono che se vogliono riconquistare la fiducia del consumatore, tale domanda ha un'unica risposta: comunicare garanzie! Garanzie sulla reale provenienza dell'alimento e sulla sua composizione, garanzie sul tenore igienico del processo produttivo, garanzie sul rispetto dei bioritmi di animali e piante, garanzie sulla possibilità di ricostruire e seguire il percorso di tale processo attraverso tutte le fasi della produzione, della trasformazione e della distribuzione; come logica conseguenza, nella seconda metà degli anni '90 si accresce vistosamente il numero di aziende agroalimentari che decidono d'intraprendere la strada delle certificazioni di qualità.

La norma UNI EN ISO 8402:1995 definisce la qualità come “l'insieme delle proprietà e delle caratteristiche di un prodotto o di un servizio che conferiscono ad esso la capacità di soddisfare esigenze espresse o implicite”; sebbene questa norma sia stata sostituita da versioni più recenti, la sua nozione di qualità è tutt'oggi più attuale che mai: prima di tutto non esiste attività economica di un qualsivoglia settore che non abbia interesse a soddisfare il cliente, inoltre dentro l'apparente “vaghezza” di parole come espresse e implicite sta tutto un mondo, o per usare un linguaggio matematico, un insieme il cui criterio di appartenenza è definito da tutto ciò che è importante per il consumatore.

Come ogni altra organizzazione economica, le imprese del settore agroalimentare sono chiamate a intercettare (e soddisfare) il maggior numero possibile di tali esigenze; in particolare, si parla di esigenze di natura “primaria” riferendosi a quelle legate all'igiene e alla salubrità di un alimento – e quindi alla tutela della salute del consumatore finale – e di esigenze di natura “accessoria” legate, ad esempio, alle

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caratteristiche organolettiche del prodotto o a fattori culturali come l'interesse verso la tipicità e l'antica tradizione dei prodotti “di nicchia”, o magari a fattori etico-sociali, dettati dalla sensibilità agli effetti su animali ed ambiente delle attività di produzione.

Qualità è dunque un concetto poliedrico e soggettivo, e soprattutto non statico dato il continuo proliferare di nuove sensibilità e nuovi criteri di scelta da parte di un consumatore che – sicuramente in ambito alimentare – è oggi assai più attento che in passato.

3.2 La normazione

La norma ISO UNI CEI EN 45020:1998, definisce la norma come il “documento, elaborato da tutte le parti interessate e tenendo conto del livello tecnologico del momento, approvato da un organismo riconosciuto, che fornisce, per usi comuni e ripetuti, regole, linee guida o caratteristiche, relative a determinate attività o ai loro risultati, al fine di ottenere il miglior ordine in un determinato contesto”.

La storia della normazione è vecchia come il mondo (si pensi al cubito, geniale norma egizia ante litteram) ma ancor più che per realizare opere architettoniche, essa si è resa indispensabile all'uomo nell'altra sua millenaria attività: il commercio! Per regolamentare gli scambi di merci e denaro, soprattutto tra popoli lontani, da sempre i mercanti hanno avvertito l'esigenza di scale di valori condivise per pesi e misure, di linguaggi e strumenti riferiti a ordini di grandezza universalmente riconosciuti, e se con la coniazione della moneta viene scritto un capitolo fondamentale, è con l'avvento delle rivoluzioni industriali dell'Ottocento che la cultura della norma s'insedia in modo definitivo nel mondo dell’impresa e delle istituzioni scientifiche. L'ingresso dei primi macchinari a vapore nell'industria non accresce solamente il volume dell'offerta di prodotti tessili e siderurgici ma pure quello degli inconvenienti relativi alla mancata compatibilità – in termini di forme e dimensioni – fra i vari componenti meccanici; l'ampia eterogeneità di officine, ciascuna con proprie linee produttive, determina la coesistenza di differenti misure di articoli analoghi col risultato di problemi d'intercambiabilità e massicci accumuli di inutili giacenze di magazzino.

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Una soluzione efficace giunge con la definitiva adozione del Sistema Metrico Decimale; prezioso lascito del secolo dei Lumi, il metro diventa poco a poco l'asse portante di ogni intervento finalizzato alla standardizzazione di design, modelli e processi di produzione: taratura degli strumenti di misurazione, calibrature differenziali, attuazione del principio d'intercambiabilità dei pezzi, unificazione della filettatura di viti e bulloni, adozione del cono Morse, scartamenti ferroviari uniformi, tolleranze di lavorazione. Con la nascita dell'industria la normazione fa un salto di “qualità” e – sebbene ancora fortemente legata ad una funzione tecnico-economica – impartisce all'uomo la prima lezione di una nuova era: usare le norme significa ottimizzare le risorse, significa vendere di più, significa trovare soluzioni adatte a tutti, ma soprattutto, usare le norme significa “fare bene le cose”!

Il Novecento si apre all'insegna del boom dell'industria automobilistica e la catena di montaggio proposta dal modello fordista segna il passo per una concezione più evoluta della disciplina normativa, nella quale l'elaborazione delle norme diventa in breve tempo un processo istituzionalizzato ad opera di enti giuridicamente riconosciuti: nel 1901 nasce in Inghilterra l’Engineering Standards Committee, preludio al British Standards Institute (BSI), fondato nel 1921, in Germania nel 1917 il Normenausschuss der Deutschen Industrie che in seguito diverrà il Deutsches Institut für Normung (DIN) e in Francia nel 1918 compare l'Association Française de Normalisation (AFNOR). L'Italia segue il trend e nel 1921 l’Associazione Nazionale fra gli Industriali Meccanici ed Affini dà vita all'Unificazione dell’Industria Meccanica (UNIM) che nel 1930 si trasformerà in Ente Nazionale di l'Unificazione, l'odierno UNI.

La competenza esclusivamente nazionale di ciascuno di essi – che si traduce anche nell'ostinazione anglosassone a perpetrare il ricorso a piedi, once e galloni – lascia tuttavia spazio alla situazione assai contraddittoria in cui svariati enti normatori da un lato predicano unità d'intenti e di misure, dall'altro lo fanno solo in casa propria; dal momento che il commercio su scala mondiale scalda i motori, ecco che sull'esempio del settore elettrotecnico – che si era portato avanti coi tempi, fondando l'International Electrotechnical Commission (IEC) – nasce nel 1926 l'International Federation of Standardizing Association (ISA) di cui fa parte anche l'Italia.

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Sorti per aiutare l'ampliamento degli scambi commerciali e una più facile circolazione delle merci, all'inizio gli enti mantengono lo status di “comitati tecnici” indipendenti senza scopo di lucro, deputati all'elaborazione di standards di riferimento che – sebbene, di fatto, sempre più imposti dal mercato – non hanno alcun valore di legge o altra norma giuridica; la faccenda cambia temporaneamente con la comparsa del nazifascismo in Europa, in virtù del quale si assiste al forte accentramento della pratica normativa da parte dei governi totalitari decisi a manovrare direttamente la produzione industriale (soprattutto quella pesante), e che distorcono la natura volontaria di molti standard di produzione mutandoli in regolamentazioni cogenti. Per di più, lo scoppio del secondo conflitto mondiale crea nuove divisioni, con gli organismi normatori costretti a seguire i propri Paesi negli opposti schieramenti, e mette a nudo l'effettiva scarsezza dell'operato della seppur giovane ISA, il cui fallimento totale si concretizza con la fondazione da parte degli Alleati del United Nations Standards Coordinating Committee (UNSCC). Il problema di fondo dell'ISA (come del resto pure del UNSCC) risiedeva nella sua stessa natura di coordinatore delle diverse contingenze normative nazionali e non di piattaforma per un nuovo unico ente sovranazionale preposto a dettare regole tecniche universalmente riconosciute ed applicate; l'immediato dopoguerra vede nuove e più energiche spinte in tal senso e, più precisamente, dall'Ottobre del 1945 a tutto il 1946 i comitati tecnici di ISA e IEC – ai quali non partecipano i delegati dei Paesi sconfitti – si riuniscono più volte a Londra, Parigi e New York per gettare le basi di quello che il 23 Febbraio 1947 diverrà operativo come International Standardization Organization (ISO).

3.2.1 L'International Standardization Organization

Ad oggi l'ISO è la maggiore organizzazione non governativa dedita all'elaborazione e alla pubblicazione di norme volontarie internazionali – inizialmente definite raccomandazioni – a supporto delle attività tecniche e commerciali. Vi aderiscono 162 Paesi per mezzo dei rispettivi enti nazionali di normazione (l'Italia è rappresentata dall'UNI che partecipa direttamente o tramite i propri enti federati), e spesso la stessa Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) fa riferimento

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all’ISO quale partner ideale per sviluppare gli accordi tra i Paesi su scala mondiale. Organi costitutivi della ISO sono l'Assemblea Generale che riunisce annualmente i vertici istituzionali, il Consiglio che ha funzioni di organo esecutivo e il Segretariato Centrale che ha sede a Ginevra e che funge da ponte di collegamento tra i molteplici Comitati Tecnici (Technical Committees) a ciascuno dei quali vengono affidate specifiche aree di pertinenza.

Sono proprio i Comitati Tecnici ad elaborare le norme, la cui approvazione avviene a suffragio fra tutti i partecipanti che hanno pari influenza ed il cui voto vale per uno; Inglese, Francese e Russo sono le tre lingue ufficiali nelle quali è pubblicata ogni nuova norma varata. Dalla sua fondazione, l'ISO ha emesso quasi ventimila standards i cui ambiti di applicazione spaziano all'interno di un range vastissimo: dalla qualità aziendale alla sicurezza alimentare, dalla responsabilità sociale al rispetto dell'ambiente, dall'assistenza sanitaria alle nanotecnologie, dai coloranti industriali alla fotografia, dall'equipaggiamento dei laboratori all'applicazione dei metodi statistici, dall'edilizia all'attrezzatura sportiva e così via! In effetti, escludendo quello elettrotecnico e quello delle tecnologie dell'informatica e delle comunicazioni, coperti rispettivamente dal già citato IEC e dall'International Telecommunication Union (ITU), si può tranquillamente affermare che non c'è settore economico votato alla produzione di qualsiasi tipo di bene o alla fornitura di qualsiasi tipo di servizio che non sia interessato da una norma ISO.

La ISO collabora attivamente con il CEN (Comité Européen de Normalisation) ovvero il suo omologo europeo, fondato nel 1961 come riferimento comunitario di tutti gli organismi normatori d'Europa, che ha lo scopo di armonizzare ed emanare regole tecniche europee (EN) in ottemperanza alle politiche dell'Unione Europea e dei Paesi aderenti all'European Free Trade Association (EFTA); nel Giugno del 1991, a Vienna, viene firmata la convenzione tra i delegati dei due enti che s'impegnano ad omologare le loro attività di standardizzazione. In altre parole, in tutti i casi possibili, il CEN fa propri gli standard provenienti dall'ISO i quali a loro volta devono essere approvati come standard nazionali dai vari AFNOR, DIN, UNI; d'altro canto al CEN viene comunque riconosciuta autonomia normativa in particolari casi di urgenza o quando una necessità a livello comunitario non si sia ancora manifestata in sede internazionale.

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3.2.2 Stesura di una norma

A prescindere dalla categoria di appartenenza (internazionale, europea, nazionale), la stesura del progetto di una nuova norma è cosa lunga e laboriosa causa la mole di punti di vista e di personale coinvolto; princìpi basilari per l'autorevolezza di una norma sono le sue quattro caratteristiche di democraticità, consensualità, trasparenza e volontarietà che devono animare l'intero corso dei lavori e che devono essere un costante riferimento per chiunque vi prenda parte.

Fase propedeutica è la messa allo studio di una bozza della norma in seguito a richieste esterne – provenienti da istituzioni pubbliche, associazioni di consumatori o dal mercato in genere – o dai Comitati Tecnici interni all'ente stesso; si tratta di una fase d'importanza strategica per valutare i benefici che potrebbero derivare dalla presenza della norma, le implicazioni socio-politico-economiche del suo inserimento nel mercato, le parti interessate da convocare e le relative competenze, le risorse necessarie, le probabili criticità che si potrebbero incontrare, la legislazione da osservare e le specifiche tecniche già esistenti nei settori correlati al campo di applicazione della nuova norma. Tutto ciò è reso possibile da un'inchiesta pubblica preliminare nella quale le coordinate generali del progetto di norma sono comunicate via Web alle parti interessate (stakeholders) per informarli circa l'intenzione di avviare lavori di normazione su specifici temi, e per dare la possibilità d'inviare commenti e dichiarare il proprio interesse alla partecipazione ai lavori di normazione; in ciò risiede la caratteristica di democraticità, tutte le parti interessate possono partecipare ai lavori e, soprattutto, ognuna è messa in grado di formulare osservazioni durante l'iter che precede la pubblicazione. In caso di riscontro positivo, si procede alla stesura vera propria del progetto che avviene all'interno del Comitato Tecnico competente, strutturato in gruppi di lavoro costituiti da esperti che rappresentano le parti economiche e sociali interessate (produttori, commercianti, centri di ricerca, consumatori, pubblica amministrazione); nella pratica, sono gli esperti esterni che elaborano il testo, l'ente normatore svolge più un lavoro di coordinamento, mette a disposizione la propria struttura organizzativa ed esercitando un ruolo super partes, garantisce l'osservanza del corretto modus operandi. Successivamente, si passa ad una seconda fase d'inchiesta pubblica che, diversamente dalla preliminare, non ha lo scopo di sondare il terreno circa l'interesse sull'argomento oggetto di norma, ma

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quello di raccogliere critiche e suggerimenti ulteriori da parte di categorie d'impresa o altre associazioni in genere che non hanno aderito al processo di redazione; un'ulteriore verifica utile ad allargare il consenso.

La consensualità è la modalità di approvazione applicata in ogni fase della norma – dalla programmazione dei lavori alla ratifica finale – ad opera di tutte le parti coinvolte, e rappresenta il momento più delicato dell'intero processo di stesura poiché se da un lato è auspicabile mirare ad un consenso unanime, dall'altro poche volte esso è poi raggiunto davvero, soprattutto in tempi ragionevoli; il grado di efficacia di una norma sta nella sua capacità di dare risposte a tutti i soggetti economici che chiedono regole tecniche condivise e non solo a una maggioranza di essi per quanto grande e qualificata, e d'altra parte il prestigio di un ente normatore è dato proprio dalle pazienti argomentazioni tese a convincere i partecipanti della validità degli argomenti presentati durante le discussioni. Esistono differenze fra gli enti in termini di quorum accettati per la validazione di una norma: l'UNI vara i propri standard col 75% dei voti favorevoli mentre per il CEN la soglia scende al 71%; le norme ISO vengono pubblicate col raggiungimento di un quorum del 66% al netto degli astenuti, purché la percentuale dei contrari non superi il 25% e solamente dei Membri P (Partecipating Member), ovvero coloro che hanno preso parte attiva alla stesura dello standard a differenza dei Membri O (Observer Member) che non hanno diritto di voto.

Per trasparenza s'intende il diritto/dovere di conoscere le “regole del gioco”; in nessun caso sono ammesse deroghe al rispetto del processo di normazione, né scorciatoie o privilegi né alcun tipo di agevolazione; inoltre, con l’avvento delle tecnologie telematiche tali regole sono a disposizione di tutti e, grazie ad Internet, l’operato dei comitati è documentabile in ogni momento.

Infine,volontarietà è un concetto che nel mondo della normazione ha una valenza biunivoca perché se è vero che volontaria è l'adesione alla stesura del progetto di una norma, è altrettanto volontaria la sua implementazione da parte di quei soggetti pubblici o privati che ne hanno promosso lo sviluppo; la non cogenza è l'aspetto che contraddistingue nettamente una norma tecnica da una direttiva comunitaria o da

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una legge nazionale, la non cogenza rende una norma snella e flessibile, adatta a confarsi ai continui cambiamenti di un mercato autoregolamentato che detta al mondo dell'impresa tendenze sempre nuove in termini di competitività e customer satisfaction.

3.3 La certificazione

Le norme sono riferimenti, espliciti e codificati, che riguardano gli attributi di un prodotto, ma restringere il campo alle sole caratteristiche del prodotto finale non è sufficiente a spiegare l’esistenza di tutti gli standard che si trovano nel settore agroalimentare; occorre tener presente qualsiasi aspetto relativo al processo produttivo, ai soggetti implicati, alle condizioni di lavorazione degli addetti, all’equità nella distribuzione dei profitti lungo la filiera, ai rischi di impatto ambientale, al rispetto del benessere animale, e così via. Esistono standard utilizzati solo in contesti determinati e da soggetti con requisiti particolari, alcuni coprono piccole regioni, mentre altri hanno carattere nazionale, sovranazionale e perfino globale; alcuni hanno origine in ambito pubblico, altri sono il frutto dell’iniziativa privata, alcuni sono regolamentati da leggi nazionali, altri da regolamenti e da direttive europee, alcuni influiscono su un volume molto limitato di produzione agricola, altri ancora hanno una presenza universale.

Al di là del settore economico in cui viene utilizzato, pregio di ogni standard è la sua veste di base unificata e formalizzata per trasferire informazioni di vario tipo nel contesto di una transazione; ciò è tanto più vero in un settore come quello agroalimentare dove la globalizzazione – fra i numerosi effetti – ha avuto quello di aumentare fortemente il gap, tra chi produce all'inizio e chi consuma alla fine, riguardo a tutto quello che c'è da sapere sul prodotto in vendita, e dove questo tutto è a dir poco sconfinato. Nel paragrafo introduttivo si è accennato alla distinzione fra esigenze primarie ed esigenze accessorie ma, dal momento che nessuna delle due esclude l'altra, non si tratta di una vera e propria distinzione, piuttosto di condizioni necessarie e sufficienti: tornando alla precedente similitudine dell'insieme qualità, la sicurezza alimentare ne costituisce (quanto meno) un notevole sottoinsieme.

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La distinzione – a volerla trovare – è più culturale, legata a tradizioni storicamente diverse fra le aree rurali europee: un approccio nordico vede nel rispetto delle pratiche igieniche la componente fondamentale, se non addirittura esclusiva, della qualità, facendo sì che i due concetti vadano a sovrapporsi; un approccio mediterraneo tiene invece conto di attributi come origine e genuinità delle materie prime o la tradizionalità del processo produttivo, anche se ciò, come nel caso del lardo di Colonnata, ha creato più di un contrasto con Bruxelles.

Questo preambolo si rende necessario per chiarire fin da ora che, seppur non oggetto di questo lavoro, la qualità è ormai da molti anni così indissolubilmente legata alla sicurezza alimentare, che è impossibile trattare l'una senza fare riferimento all'altra.

Dare una definizione di qualità nel campo dell'agroalimentare è impresa ardua! La definizione ISO riportata nel paragrafo introduttivo fa da contenitore ad un'infinità di accezioni: accanto alla qualità intesa come conformità a precisi parametri oggettivi (e quindi verificabili), si sono aggiunte nel tempo – e continuano ad aggiungersi – nuove qualità (qualità ambientale, rispetto del bioritmo degli animali, tipicità, comportamento etico delle aziende) che, rispondendo alla percezione soggettiva del singolo individuo, è molto difficile ordinare su scale di valori. In questo senso un tentativo è rappresentato dal ricorso a tre categorie distinte nelle quali far confluire tutti gli elementi che concorrono alla formulazione del giudizio sulla qualità di un alimento da parte del consumatore:

• search - sono le caratteristiche rilevabili al momento dell'acquisto sulla base della rispondenza a criteri ben definiti;

• experience - sono le caratteristiche rilevabili attraverso l'uso del prodotto (quindi dopo l'acquisto) e che, nel caso di acquisti ripetuti, si consolidano nelle scale di giudizio;

• credence - sono le caratteristiche che non possono essere rilevate né prima né dopo l'acquisto, la cui presenza si fonda sulla fiducia del consumatore verso quanto dichiarato.

Oggigiorno quest'ultima categoria acquisisce rilevanza crescente nel determinare i comportamenti del consumatore, guarda caso la più intrisa della forte asimmetria di

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conoscenze fra produttore ed acquirente: colore, dimensioni, aspetto esteriore, confezionamento di un alimento sono tutti attributi visibili, carica microbica e composizione nutritiva possono essere facilmente determinate con analisi di laboratorio, ma come si verifica se la sua effettiva provenienza è quella dichiarata? Chi assicura sull'effettivo metodo biologico utilizzato? Come si fa a sapere se l'azienda (o le aziende) ha effettivamente osservato comportamenti etici nei confronti del proprio personale, degli animali, dell'ambiente? Detto in altro modo, com'è possibile rendere controllabili le affermazioni riportate in etichetta?

Il consumatore rappresenta da sempre l'ultimo anello della food chain, essenziale nel fruire di ciò che viene prodotto (più prosaicamente, essenziale a tenere in piedi il mercato), malgrado ciò è come se in passato si sia trovato “costretto a subire” passivamente una proposta di qualità (e di sicurezza) un po' troppo autoreferenziale da un'industria alimentare che ha commesso il tragico sbaglio di dare un po' troppo tutto per scontato; con le crisi alimentari che hanno investito l'Europa a metà degli anni '90, arriva un dopo: la scoperta di possibili anomalie nocive legate alle produzioni agroindustriali ha impennato la soglia di attenzione del cittadino consumatore, ha ampliato la sua sete di sapere, lo ha maturato nei suoi valori, ha risvegliato in lui la consapevolezza del proprio ruolo, e nel renderlo più sensibile nei confronti della sicurezza di un alimento e del suo intero ciclo produttivo, ne ha riscoperto le intransigenze; tale è stato il coinvolgimento di massa critica in seguito a quegli eventi che le istanze di sicurezza non sono state un punto d'arrivo, quanto l'innesco di una reazione a catena che da stimolo per le istituzioni pubbliche, intervenute con le prime realmente efficaci disposizioni (soprattutto a livello comunitario), è passata ad indicare una nuova strategia al mondo dell'impresa, preludendo al punto d'incontro tra ricerca di sicurezza e ricerca di qualità: l'importanza per il consumatore di avere informazioni!

È questa la fase in cui s'inserisce la certificazione ossia “l'atto mediante il quale una terza parte indipendente dichiara che, con ragionevole attendibilità, un determinato prodotto, processo o servizio è conforme ad una specifica norma o ad altro documento normativo” (ISO UNI CEI EN 45020:1998); il suo essere indicazione dell'esistenza di un meccanismo di controllo e di verifica offre una rassicurazione schematica che sopperisce all'assenza di una piena capacità di giudizio da parte di

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colui che ha bisogno di tale rassicurazione, il consumatore. Come già anticipato in precedenza, essa consiste nel riconoscimento – in seguito a verifiche ispettive – dell'effettiva osservanza dei dettami imposti da uno standard o altro documento normativo implementato da un'azienda; questo processo può coinvolgere l'intera filiera produttiva o una determinata parte di essa. La certificazione presuppone l'esistenza di standard che stabiliscano regole produttive specifiche per le imprese, e modalità adeguate con le quali informare i consumatori in merito ai processi produttivi e alle caratteristiche che presenta il prodotto; gli standard di sicurezza e qualità alimentare possono essere promulgati in una varietà di forme istituzionali che differiscono per il “grado” di obbligatorietà, o per la natura pubblica o privata dell'istituzione incaricata della definizione ed applicazione degli stessi.

A tal proposito la certificazione può essere obbligatoria, regolamentata o volontaria.

Quella obbligatoria riguarda i prodotti che rientrano in specifiche disposizioni comunitarie le quali forniscono i requisiti minimi per la sicurezza dei lavoratori, dei consumatori e per la tutela dell’ambiente; il rispetto degli standard di sicurezza – attestata dal marchio CE – è condizione essenziale per il commercio dei prodotti nell’eurozona; la certificazione regolamentata è quella che fa riferimento a leggi nazionali o regolamenti comunitari, come ad esempio i Regolamenti Ce n. 509/2006 e n. 510/2006, i quali – per i prodotti agroalimentari – disciplinano le Denominazioni di Origine Protetta (DOP), le Indicazioni Geografiche Protette (IGP) e le Specialità Tradizionali Garantite (STG) o il Regolamento Ce n. 843/2007 sui prodotti Bio; la decisione di aderire o meno a questa certificazione è facoltativa da parte del produttore, ma una volta effettuata la scelta egli non può derogare dalla normativa pubblica prevista. Si parla, invece, di certificazione volontaria propriamente detta qualora non solo vi sia una libera adesione alla certificazione, ma le norme tecniche di riferimento siano di derivazione privatistica.

Come si desume dal titolo, il presente capitolo è dedicato alla trattazione di quest'ultimo tipo di certificazione.

La ragione di fondo della certificazione di conformità di un prodotto è quello della fiducia nello scambio commerciale, fiducia tra i soggetti economici coinvolti e fiducia

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nella “bontà” del prodotto oggetto di scambio; le istituzioni pubbliche svolgono l'importante funzione di definire il sistema di regole che bada alla produzione e alla commercializzazione dei prodotti alimentari, a garanzia e tutela sia degli operatori economici che dei consumatori finali: come visto nel capitolo precedente, sicurezza igienico-sanitaria e correttezza nell'informazione sono le principali aree d'intervento del soggetto pubblico (nazionale o comunitario), alle quali – per mezzo dei regolamenti summenzionati – si è affiancata una politica di governance della qualità, mirata sì alla differenziazione di prodotti provvisti di peculiarità uniche, ma pur sempre con i piedi ben saldi sulla strada verso un Mercato Unico la cui realizzazione passa anche dalla valorizzazione dell'ampio e variegato panorama alimentare di un intero continente.

Accanto a quella cogente e regolamentata, vi è, come detto, la certificazione volontaria dove i requisiti da rispettare non sono definiti in direttive o regolamenti o decreti governativi, ma in norme tecniche e come tali non imposte per legge; d'altronde, piaccia o no, è più esatto dire che laddove non arriva l'attività legislativa dello Stato, subentrano sempre più spesso le regole del mercato, e in questo senso l'agroalimentare non fa eccezione. La non nocività rappresenta la condizione base per lo smercio di beni alimentari, è un prerequisito e non certo un fattore competitivo; ciò che rappresenta invece una scelta strategica per l'impresa è l'offerta di qualità – nelle sue molteplici declinazioni – dal momento che la moltitudine di standard volontari concepiti per il suo raggiungimento, pongono l'azienda nella reale possibilità di differenziarsi dai quei competitors che si limitano ad osservare i requisiti minimi stabiliti dalle norme pubbliche.

Fatti salvi gli adempimenti obbligatori, l'azienda agroalimentare può decidere autonomamente di far certificare da un organismo di parte terza determinate caratteristiche legate al proprio prodotto o ai propri processi produttivi, e questo per comunicare al cliente che la qualità che egli percepisce nel consumare il suo prodotto non è frutto del caso, quanto piuttosto di un preciso impegno a operare secondo criteri e specifiche che hanno permesso di conseguire quel risultato; affinché la certificazione abbia valore, è essenziale che i requisiti verificati siano misurabili e ovviamente restrittivi rispetto a quelli cogenti.

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3.4 Il Codex Alimentarius

Principale organismo deputato all'elaborazione di standard a livello internazionale per il settore agroalimentare è il Codex Alimentarius.

Il Codex Alimentarius è una raccolta di standard e norme adottate dall'omonima Commissione; creato nel 1963 da due istituzioni in seno all'ONU – Organizzazione per l’Alimentazione e l’Agricoltura (FAO) e Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO) – esso ha il compito di elaborare un corpo di norme tese ad uniformare, nei diversi Paesi, la produzione ed il commercio dei prodotti alimentari, al fine di:

• facilitare gli scambi internazionali, assicurando transazioni commerciali corrette;

• garantire ai consumatori un prodotto sano e igienico, non adulterato oltre che correttamente presentato ed etichettato.

Attualmente sono membri della Commissione del Codex Alimentarius 185 Paesi più l'Unione Europea in veste di una Organizzazione di Integrazione Economica Regionale, che insieme rappresentano più del 98% della popolazione mondiale; la Commissione del Codex Alimentarius costituisce un essenziale forum d’incontro internazionale in materia di sicurezza alimentare e commercio dei prodotti alimentari. Si riunisce con cadenza annuale (fino ad alcuni anni fa si riuniva una volta ogni due anni) ed è assistita da un Segretariato con sede presso la FAO, a Roma; nell’intervallo delle sessioni della Commissione, opera un Comitato Esecutivo formato dal presidente, dai vicepresidenti e dai rappresentanti delle diverse zone geografiche di tutto il mondo. Le decisioni assunte dal Comitato sono successivamente ratificate dalla Commissione, il cui operato si esplica attraverso vari organi sussidiari: i Comitati e i Gruppi Di Lavoro intergovernativi speciali; i Comitati a loro volta si distinguono in:

• Comitati orizzontali per le problematiche generali (General Subject Commettee) che abbracciano l’intero settore agroalimentare, svariate tipologie di alimenti e sviluppano raccomandazioni per la sicurezza e salute del consumatore;

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Esistono, inoltre, sei Comitati regionali di coordinamento ai quali è demandato il compito di definire le problematiche e i bisogni specifici delle diverse aree mondiali (Africa, Asia, Europa, America Latina, Nord America, Estremo oriente).

Aspetti di primaria importanza come i progressi scientifici nel campo dell’alimentazione, l’evoluzione del comportamento dei consumatori, i nuovi metodi di controllo degli alimenti, le responsabilità dei governi e dell’industria alimentare, la continua evoluzione di concetti come la qualità e la salubrità alimentare costituiscono per la Commissione del Codex Alimentarius settori d'indagine sempre nuovi che richiedono standard continuamente aggiornati; a tal riguardo, il lavoro dei Comitati orizzontali volti alla protezione dei consumatori è destinato ad assumere sempre maggior importanza, mentre le norme verticali per prodotto rivestiranno un ruolo sempre più marginale.

La Commissione esamina l’uso delle biotecnologie nel trattamento degli alimenti e nella produzione delle materie prime e si rivolge ad elaborare nuovi sistemi, che mirano ad assicurare idoneità al consumo e protezione dai rischi sanitari derivanti. Nel 1999 sono stati istituiti tre Gruppi Intergovernativi speciali che lavorano con le stesse procedure dei Comitati permanenti, ma con un mandato limitato nei contenuti e nel tempo; in ogni caso, la programmazione delle sessioni degli organi sussidiari è curata dal Segretariato della Commissione in consultazione con i Paesi ospitanti.

Il Codex Alimentarius contempla al proprio interno una pluralità di attori, o meglio di gruppi d'interesse, coinvolti nel sistema produttivo alimentare che partecipano direttamente o col ruolo di osservatori o attraverso l’invio di esperti, all’elaborazione degli standard che la Commissione del Codex dovrà varare; allo scopo di formare un consenso su basi solide e attenuare l’eventualità di conflitti, il Codex Alimentarius invita alle sessioni tutti i possibili interessati nel ruolo di osservatori affinché possano partecipare ai lavori di stesura, come ad esempio l’EFSA allorquando vengano esaminate questioni di sicurezza alimentare, oppure ONG del calibro dell’International Federation for Animal Health.

È giusto peraltro rimarcare che la presenza dei giganti della produzione agroalimentare mondiale è sproporzionatamente massiccia. [Wallach et al., 2003]

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Il meccanismo di approvazione delle procedure segue la logica del tipo “agenda” dei lavori, con un ordine del giorno che viene inviato tramite lettere circolari ai governi e alle organizzazioni per eventuali pareri e contributi, e i tempi di risposta previsti vanno dai tre ai quattro mesi; i criteri di scelta dell’ordine del giorno hanno un'influenza diretta sugli standard oggetto di discussione e sulle velocità di approvazione degli stessi.

L’organo decisionale del Codex Alimentarius è la Commissione, che durante l’incontro annuale delibera in merito all’adozione delle norme, codici di pratica e linee guida, le cui approvazioni si basano sull'unanime consenso; esiste una procedura di votazione a maggioranza non utilizzata di frequente, il cui ricorso è giustificato da decisioni più controverse e problematiche (come per il caso degli ormoni nelle carni). L’adozione di una nuova norma (o l’aggiornamento di una norma esistente) da parte della Commissione del Codex Alimentarius è il risultato di un processo articolato in otto tappe.

La Commissione decide di elaborare la norma sulla base di una proposta motivata, da parte di un Paese membro o di un Comitato sussidiario, tenendo conto dei criteri stabiliti per determinare la priorità dei lavori; essa viene accordata in base a diversi fattori, tra i quali l’interesse manifestato e la portata del problema in termini di rischio di frode per il consumatore, tenuto conto di quali sono i paesi coinvolti.

Per prima cosa, la Commissione designa il Comitato incaricato di intraprendere il lavoro (fase 1), successivamente il Segretariato, direttamente o attraverso un Paese membro o altro organo incaricato, predispone un progetto preliminare di norma (fase 2); il testo viene poi fatto circolare per raccogliere le osservazioni dei Paesi membri e delle organizzazioni internazionali che partecipano ai lavori del Codex Alimentarius (fase 3). Tali osservazioni si riferiscono a tutti gli aspetti della norma e, in particolare, a quelli che essa potrebbe avere sulla salute dei consumatori, nonché sugli interessi economici di ogni parte interessata; le osservazioni sono comunicate al Comitato pertinente che, sulla base delle risultanze, modifica il progetto preliminare di norma (fase 4). Il progetto così modificato è sottoposto all’esame della Commissione o del Comitato Esecutivo perché venga adottato come progetto di norma (fase 5); il Segretariato cura la divulgazione del nuovo testo ai Paesi membri e alle

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organizzazioni e raccoglie le relative osservazioni (fase 6). Le ulteriori osservazioni ricevute sono trasmesse al Comitato o ad altro organo sussidiario che riesamina e modifica nuovamente il progetto di norma (fase 7). La norma, corredata di tutte le proposte di emendamento dei Paesi e delle organizzazioni interessate viene, infine, trasmessa alla Commissione per la sua adozione (fase 8). Per motivi di eccezionale urgenza, la Commissione può optare per una procedura accelerata che consente la soppressione della sesta e settima fase.

Da quanto detto sopra, il Codex Alimentarius è innegabilmente un prodotto della cultura della normazione!

Trattandosi di un’organizzazione intergovernativa, le delegazioni dei governi che s'incontrano con la Commissione del Codex sono i soli membri con il diritto di voto – oltre ai gruppi di lavoro – secondo il principio “one country one vote” ed hanno generalmente il diritto di parlare prima degli osservatori presenti. Gli “osservatori” sono gli organismi governativi, associazioni commerciali, gruppi scientifici e professionali, associazioni di consumatori (questi ultimi solo a livello internazionale come Consumers International, niente Altroconsumo o Codacons) che non intervengono direttamente nel procedimento di stesura di uno standard.

La Commissione e i suoi organi sussidiari rivedono, se necessario, le norme Codex, al fine di garantire la loro compatibilità e la loro conformità alle conoscenze scientifiche del momento; tutti i membri della Commissione sono tenuti a presentare al Comitato competente ogni nuova informazione scientifica che possa giustificare la revisione delle norme esistenti; l’aggiornamento avviene su richiesta in maniera informale o tramite sottoposizione all’attenzione della Commissione di un documento di discussione.

La procedura di revisione è identica a quella utilizzata per l’elaborazione della norma: se l’aggiornamento è particolarmente semplice la procedura può essere abbreviata.

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3.5 La certificazione di prodotto

In ambito agroalimentare, particolare importanza riveste la certificazione volontaria di prodotto che si configura come lo strumento ad hoc per garantire al consumatore la presenza nell'alimento di precise caratteristiche qualitative; la scelta di implementare particolari norme o disciplinari di prodotto consente di differenziare, e quindi valorizzare, il prodotto certificato da prodotti analoghi qualitativamente più carenti, e di poter dichiarare – mediante un marchio o un'etichetta – l'assenza di sostanze indesiderate (ad esempio OGM), particolari parametri tecnici (ad esempio metodiche di pastorizzazione del latte), o provenienza di materie prime.

La certificazione di prodotto si basa su norme e regole tecniche volontarie o su documenti definiti dall’impresa e descrittivi delle caratteristiche oggetto della certificazione; tale tipologia di certificazione ha come obiettivo fondamentale quello di attestare e valorizzare le caratteristiche qualitative e le peculiarità di un prodotto o di un gruppo di prodotti, e può coinvolgere tutti gli attori della filiera alimentare (dal produttore agricolo fino all’azienda di trasformazione).

Le finalità della certificazione sono riassumibili in:

• qualificazione e il riconoscimento dell’origine del prodotto;

• caratterizzazione degli ingredienti considerabili genuini e di alto livello qualitativo;

• valorizzazione di alcune caratteristiche di prodotto dovute essenzialmente ad un processo produttivo distintivo, per cui saranno le modalità di produzione a qualificare il prodotto;

• evidenziazione dell’assenza di alcune componenti o elementi nocivi, o percepiti come tali, per la salute del consumatore, fornendo così garanzia di salubrità e di sicurezza; la garanzia della rintracciabilità del prodotto finale dal primo anello della filiera, assicurando la conoscenza e la responsabilità di tutti i partecipanti alla stessa.

Le caratteristiche che conferiscono caratteristiche peculiari al prodotto sono univocamente definite in un disciplinare, che diviene documento condiviso dall’azienda e dall’ente di certificazione, e costituiscono l’oggetto del controllo da parte di chi lo produce e da parte dell’ente, al fine di assicurare un’eccellenza

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garantita; la procedura d'implementazione di una certificazione di prodotto comprende la seguenti fasi fondamentali:

• stesura del disciplinare;

• validazione del disciplinare di produzione;

• verifica iniziale (con esecuzione di audit in campo per verificare l’applicazione del disciplinare validato e prove di laboratorio);

• piano di sorveglianza.

3.5.1 Rintracciabilità di filiera: la norma ISO 22005:2007

Pur non rientrando tecnicamente nella categoria delle certificazioni di prodotto – in quanto certificazione di sistema – tra le certificazioni più ricercate dal mercato internazionale, spicca quella di rintracciabilità di filiera, a fronte della norma ISO 22005:2007 – “Traceability in the feed and food chain – General principles and basic requirements for system design and implementation (che in Italia – recepita come UNI EN ISO 22005:2007 – ha sostituito le le norme UNI 10939 – “Sistema di rintracciabilità nelle filiere agroalimentari” e UNI 11020 – “Sistema di rintracciabilità nelle aziende agroalimentari”), ossia lo standard internazionale sui sistemi di gestione della rintracciabilità di filiera che completa la serie ISO 22000 sulla sicurezza alimentare.

La ISO 22005 non è un disciplinare di prodotto, tuttavia ha come oggetto la mappatura dell'intero percorso produttivo di ogni alimento destinato al consumo umano e animale.

Essa ha armonizzato a livello internazionale tutto il know how in materia di rintracciabilità volontaria, consentendo di seguire la movimentazione di ogni alimento destinato al consumo umano e animale; è un valido strumento confacente alla tutela della sicurezza alimentare e della qualità dei prodotti, di cui è possibile documentare non solo la natura e l’origine (territorialità, peculiarità degli ingredienti), ma anche la collocazione sul mercato, così da facilitarne un eventuale ritiro. Implementare un sistema di rintracciabilità consente di adempiere agli obblighi previsti dal regolamento 178/2002 e contemporaneamente documentare storia e provenienza di un prodotto, fattore questo di considerevole importanza per tutti quei prodotti che fanno del

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legame al territorio d'origine una forte componente distintiva. I benefici derivanti dall'implementazione di questa norma possono essere di varia natura:

• supportare il sistema che l’azienda ha implementato per garantire il rispetto dei requisiti igienico sanitari e di qualità del prodotto;

• rispondere alle richieste esplicite del consumatore; • definire la storia e l’origine del prodotto;

• facilitare eventuali ritiri o richiami;

• identificare le responsabilità di ciascun operatore della filiera;

• facilitare il controllo di specifiche informazioni che riguardano il prodotto agroalimentare;

comunicare specifiche informazioni a stakeholder e consumatori;

• adempiere ad eventuali obblighi imposti da normativa locale, nazionale o internazionale;

• aumentare il rendimento la produttività e i guadagni dell’organizzazione.

Naturalmente, e questo in linea col regolamento 178/2002, il sistema di rintracciabilità da solo non è in grado di garantire la sicurezza del prodotto alimentare, ma di sicuro può dare un valido ed importante contributo in tal senso; qualora ci si trovi di fronte ad una difformità di tipo igienico, il sistema consente da un lato di risalire al punto della filiera in cui si è originato il problema, e dall'altro di procedere, se necessario, con il ritiro immediato del prodotto.

Per la progettazione e la realizzazione di un sistema di rintracciabilità, la norma suddetta prende in considerazione aspetti essenziali come obiettivi, normativa e documenti applicabili al sistema di rintracciabilità, prodotti e/o ingredienti, posizione di ciascuna organizzazione nella filiera, flussi di materiali, informazioni che devono essere gestite, procedure e documentazione ed, infine, modalità di gestione della filiera.

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3.5.2 La certificazione volontaria privata: gli standard BRC e IFS

Fra le prime ad aver accusato il colpo derivante dal crollo dei consumi che ha seguito la bufera delle mucca pazza, c'è senz'altro la Grande Distribuzione Organizzata.

Come risposta, nei Paesi del centro e nord Europa (alla cui concezione della qualità si è già accennato) si è assistito alla proliferazione di standard business to business, non orientati, cioè, al consumatore ma a soggetti più a monte come i fornitori, finalizzata a scegliere i più affidabili per garantire la totale salubrità dei prodotti alimentari a marchio proprio; nel giro di pochi anni sono apparsi sulla scena BRC (British Retail Consortium) e IFS (International Food Standard) tuttora i principali strumenti operativi le cui certificazioni di parte terza rappresentano il lasciapassare per i fornitori della GDO nordeuropea. Si tratta di strumenti applicati nei rapporti tra le imprese e, teoricamente, non conosciuti dal consumatore, anche se, in qualità di strumenti di gestione della responsabilità civile per danni alimentari, assolvono alla funzione di protezione della marchio e, quindi, di creazione e mantenimento della reputazione [Green, 2007].

BRC e IFS sono stati sviluppati dalle associazioni di categoria di cui fanno parte i maggiori retailer europei (come si vedrà nel prosieguo per ciascuno di essi) per favorire un'adeguata selezione dei fornitori nella GDO in base alle loro capacità di fornire prodotti sicuri e di qualità, conformi non solo alle specifiche contrattuali ma anche ai requisiti di legge che regolano il settore. I requisiti previsti da entrambi gli strumenti si coniugano perfettamente con:

• i requisiti dei Sistemi di Gestione per la Qualità – che fa riferimento alla norma UNI EN ISO 9001:2008,

• la metodologia HACCP.

E' bene fin da ora chiarire che l'applicazione degli standard non riguarda le attività connesse a:

• vendita all’ingrosso; • importazione;

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• distribuzione;

• immagazzinamento.

L’applicazione di uno o di entrambi gli standard permette quindi agli operatori della filiera agroalimentare di conseguire numerosi vantaggi, tra i quali la possibilità di:

• implementare e attuare un sistema di gestione che permetta all’azienda di controllare il rispetto di qualità, sicurezza e vincoli di legge;

• disporre di uno strumento che migliori le performances dell’azienda in generale ma soprattutto permetta di migliorare il controllo e il monitoraggio dei fattori critici presenti al suo interno;

• ridurre le probabilità di spreco, di richiamo o di ritiro del prodotto in modo da diminuire, se non eliminare, una voce di costo importante;

• limitare i possibili rischi di insorgenza di incidenti; attuarli contemporaneamente e in modo sinergico così da permettere alle aziende di evitare inutili sovrapposizioni.

3.5.2.1 Il British Retailer Consortium

3.5.2.1 Il British Retailer Consortium

3.5.2.1 Il British Retailer Consortium

3.5.2.1 Il British Retailer Consortium

Lo standard BRC è nato nel 1998 dalla collaborazione dei principali soggetti che operano nella GDO inglese, il British Retail Consortium che rappresenta i maggiori rivenditori britannici e l'UKAS, il principale organismo di accreditamento britannico, con l’intento di condividere esperienze sul tema della sicurezza alimentare al fine di sviluppare insieme un sistema solido di ispezione sui fornitori. BRC è quindi considerato una delle principali certificazioni di prodotto a livello internazionale in tema di sicurezza alimentare ed è stato accettato dal GFSI (Global Food Safety Iniziative), associazione internazionale composta da più di 50 Paesi nel mondo avente lo scopo di rafforzare e promuovere la sicurezza alimentare lungo l’intera catena di fornitura.

La sesta versione dello standard è stata pubblicata nel Luglio 2011 ed è entrata in vigore il 1° Gennaio 2012 a seguito di un periodo l ungo di consultazione da parte dei membri; all’interno dello standard sono definiti dei requisiti, alcuni dei quali “fondamentali” rimasti gli stessi rispetto alla versione precedente:

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• l’impegno della Direzione e il miglioramento continuo; • il Piano di sicurezza alimentare basato sul sistema HACCP; • gli audit interni;

• le Azioni Correttive; • la tracciabilità;

il layout, il flusso del prodotto e la segregazione; • la sanificazione e l’igiene;

• la gestione degli allergeni; • il controllo delle operazioni; • la formazione.

La nuova versione ha apportato numerose novità, incentrate più sulla semplificazione circa l’applicazione dei requisiti piuttosto che su cambiamenti radicali; le principali possono essere riassunte nel seguente modo:

• l’introduzione di un nuovo sistema di audit non annunciati (denominato “opzione)

• la semplificazione dei requisiti presenti all’interno della checklist attraverso l’eliminazione o l’accorpamento di alcuni di essi;

• l’introduzione per ciascuna clausola dello standard della “dichiarazione di intenti”, che stabilisce il grado di conformità al requisito;

• la crescente attenzione nei confronti delle Good Manufacturing Practices (GMP);

• la possibilità di ottenere un riconoscimento per i siti che hanno sviluppato il sistema di sicurezza alimentare ma ancora non hanno ottenuto la certificazione.

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Una delle principali novità dello standard riguarda senza dubbio gli audit non annunciati: le aziende possono richiedere all’Ente di Certificazione di essere sottoposte a verifiche non annunciate e opzionali, che possono essere svolte in qualsiasi momento, almeno dopo tre mesi dall’ultima verifica; la sesta versione ha previsto due opzioni, entrambe volontarie, per le verifiche non annunciate:

• opzione 1 - l'intera verifica non viene annunciata;

• opzione 2 - la verifica non annunciata è suddivisa in due parti:

• opzione 2 (parte 1) - audit non annunciato, in anticipo sulla data di scadenza, che consiste nell’andare a verificare le attività del processo produttivo e le GMP;

• opzione 2 (parte 2) - audit pianificato che consiste nell’andare a verificare la parte documentale, le procedure e le registrazioni e che viene effettuato alla normale data di scadenza.

La revisione dello standard ha riguardato anche la checklist: gli estensori, durante il periodo di consultazione, hanno deciso di rivedere i requisiti presenti all’interno della tabella, eliminandoli o accorpandoli; lo scopo è stato quello di semplificare le attività di verifica degli auditor così che essi possano dedicare più tempo alla verifica delle GMP, dei processi produttivi, del controllo dei corpo estranei, dell’igiene, della pulizia e degli allergeni rispetto ai requisiti dedicati alla documentazione. Nello specifico, la checklist è stata suddivisa in due parti, una verde per le verifiche sulle registrazioni e sulla documentazione, e una arancione per le verifiche sulle attività nelle aree di produzione e sulle GMP; questa suddivisione permette di facilitare il lavoro degli auditor e di coloro che devono tenere sotto controllo l’intero sistema.

La nuova versione dello standard BRC ha formulato, per ciascun requisito, la “dichiarazione d'intenti”, ovvero un breve paragrafo che spiega in maniera sintetica gli obiettivi da raggiungere all’interno della sezione di appartenenza; alcune dichiarazioni di intenti, già presenti nella versione 5, sono state riformulate con lo scopo di far comprendere a pieno al lettore l’obiettivo della sezione e dei relativi requisiti. Il mancato rispetto di una dichiarazione di intenti relativa ad un requisito fondamentale può comportare la non certificazione (in caso di primo audit) oppure la

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revoca (per gli audit successivi); in quest’ultimo caso, l’azienda dovrà sostenere di nuovo un audit completo per dimostrare il nuovo possesso dei requisiti di conformità. L’altra importante novità della sesta versione dello standard è rappresentata dalla crescente attenzione nei confronti delle GMP: è stata prevista una durata maggiore delle verifiche presso le aree di produzione, in modo da soffermarsi più a lungo sulla valutazione e l’applicazione delle GMP legate alle pratiche e ai metodi di lavoro, all’igiene, alle condizioni di lavoro in fabbrica; rispetto alla versione precedente dello standard, sono aumentati i requisiti dedicati alle “buone pratiche di lavorazione” e ciò è riscontrabile proprio all’interno della checklist in relazione ai requisiti indicati con il color arancione.

Nel corso della fase di consultazione, gli estensori sono andati incontro anche alle esigenze di tutte quelle aziende che ancora non hanno ottenuto la certificazione BRC; questa fase è stata denominata Enrolment Scheme; la nuova revisione fornisce uno specifico percorso allo scopo di concedere il riconoscimento a quelle organizzazioni che stanno ancora sviluppando il sistema di sicurezza alimentare ma non sono in grado di certificarlo. È stato sviluppato un sistema di punteggio ad hoc che permette di riconoscere lo status dell'azienda e quindi di capire quali sono i passi da intraprendere per migliorarsi e per arrivare all’ottenimento della certificazione finale.

Il certificato BRC ha validità annuale e può essere di tre gradi, A, B o C a seconda del numero di non conformità maggiori e minori rilevate; il grado D – previsto nella versione precedente – è stato eliminato mentre è stato aggiunto il grado superiore A+, massimo livello raggiungibile ed ottenibile da tutte quelle aziende in grado di sostenere in maniera positiva gli audit non annunciati. I livelli di non conformità sono rimasti tre:

• livello critico - nel caso in cui subentri una lacuna critica nell’ottemperare ad una richiesta di tipo legale o che riguardi la sicurezza alimentare;

• livello maggiore - nel caso in cui subentrino lacune o scostamenti nel far fronte alle richieste formulate nelle dichiarazioni di intenti o a qualunque altro requisito dello standard e/o nel caso in cui sorga una situazione di dubbio sulla conformità del prodotto;

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• livello minore - nel caso in cui non sia raggiunta la piena conformità alla dichiarazione di intenti o ad un requisito ma, sulla base di evidenze oggettive, la conformità del prodotto non sia in dubbio.

Quali i vantaggi della certificazione BRC?

• aumento della riconoscibilità internazionale in materia di sicurezza alimentare; • ampliamento del ventaglio clienti;

• maggior tutela della salute del consumatore finale;

• maggiori garanzie sull’azienda che immette i prodotti sul mercato; • calo del il numero di audit di parte seconda;

• sfruttamento degli elementi comuni ai sistemi di gestione qualità; • riduzione dei tempi e dei costi degli audit

3.5.2.2 L'International Food Standard

3.5.2.2 L'International Food Standard

3.5.2.2 L'International Food Standard

3.5.2.2 L'International Food Standard

L'IFS è lo standard internazionale di prodotto più diffuso nei Paesi del Centro Europa ed è stato sviluppato nel 2002 dai principali retailer della Grande Distribuzione Organizzata tedeschi e francesi; nato su ispirazione del BRC, scopo dell’IFS è stato quello di favorire l’efficace selezione dei fornitori della GDO nel settore food sulla base delle loro capacità di fornire prodotti sicuri, conformi alle specifiche contrattuali e ai requisiti di legge.

Così come lo standard BRC, anche l’IFS è stato riconosciuto dal GFSI e si applica in particolare a tutte quelle aziende del comparto alimentare che effettuano la lavorazione e/o il confezionamento di prodotti sfusi.

La sesta versione dello standard, entrata in vigore il 1° Luglio 2012, prevede in sintesi le seguenti novità:

• introduzione di un nuovo metodo per il calcolo della durata degli audit sulla base di numero totale di persone in azienda, numero di scopi e/o categorie di prodotto e numero di fasi di processo (P fasi);

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di prodotti stagionali in modo da inserire, in un certificato IFS preesistente, un prodotto stagionale supplementare senza dover effettuare una nuova verifica o, nel caso di aziende multi-sito, in modo da ridurre il dispendio di tempo e di denaro;

• un nuovo grado di valutazione, pari a D, prevedendo un declassamento di punteggio;

• maggiore attenzione ai requisiti legati alla qualità del prodotto finito (oltre alla sicurezza alimentare) e a quelli relativi al packaging;

• messa a punto di nuovi criteri per tutti quei prodotti oggetto di commercializzazione da parte dell’azienda;

• introduzione del concetto di “Integrity Program – Assicurazione della Qualità” al fine di monitorare, attraverso azioni preventive, le performance degli auditor e degli Enti di Certificazione oltre a quelle delle aziende verificate, gestire, come azione correttiva, qualsiasi reclamo indirizzato ad IFS;

• introduzione del concetto di Food Defense con l’obiettivo di proteggere la catena alimentare da attacchi esterni (bioterrorismo, contaminazioni e contraffazioni).

Rispetto alla versione precedente, lo standard ha ridefinito scopi e/o categorie di prodotto, passando dalle 18 della quinta versione, alle 11 della nuova revisione; l’IFS prevede che le aziende che hanno deciso di implementarlo adottino un Sistema HACCP secondo i principi del Codex Alimentarius e un Sistema di Gestione per la Qualità ai sensi della norma UNI EN ISO 9001:2008); come nella versione precedente, gli estensori hanno suddiviso il documento in sei capitoli:

• Responsabilità della Direzione;

• Sistema di Gestione della Qualità e Sicurezza dei prodotti alimentari; • Gestione delle risorse;

• Pianificazione e processo di produzione; • Misurazioni, analisi, miglioramento; • Food Defense e ispezioni esterne.

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La graduatoria del punteggio assegnato va da A cui corrisponde la completa rispondenza al requisito, a D ossia requisito completamente non soddisfatto.

All’interno dello standard sono anche definiti alcuni requisiti denominati fondamentali e che sono indicati all’interno della checklist come KO, il cui mancato soddisfacimento esclude categoricamente la possibilità di raggiungere la certificazione; sono in numero di 10 e vertono su:

• Responsabilità della Direzione;

• Sistema di monitoraggio per ogni CCP; • Igiene del personale;

• Specifiche relative alle materie prime; • Conformità alla ricetta;

• Gestione dei corpi estranei; • Sistema di Rintracciabilità; • Audit interni;

• Procedura di ritiro e richiamo dei prodotti; • Azioni Correttive.

Ultimata la verifica presso lo stabilimento, in modo da avere il quadro complessivo del posizionamento dell’azienda nei confronti dello standard, l'auditor assegna un punteggio finale con le relative spiegazioni per ciascuna valutazione assegnata.

L’azienda, entro due settimane dal ricevimento del rapporto preliminare di audit e della richiesta del Piano d'Azione, dovrà inviare il documento compilato all’Ente di Certificazione affinché lo verifichi e lo approvi; il Piano di Azione dovrà essere considerato parte integrante del Rapporto finale di audit. Nel caso in cui l’azienda ottenga il certificato, la sua validità è annuale.

Quali i vantaggi della certificazione IFS?

• miglioramento della comunicazione tra la Direzione dell’azienda e le aree addette alla produzione;

• miglioramento del controllo dei requisiti legislativi richiesti dal settore alimentare;

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• miglioramento l’efficienza delle risorse;

• riduzione del numero di ispezioni di parte seconda, cioè quelle effettuate per conto dei clienti sull’azienda, in modo da diminuire i costi (diretti e indiretti) da sostenere;

• miglioramento dell’immagine aziendale a livello internazionale e possibilità di rispondere alle richieste provenienti da tutta Europa.

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