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Sono stati identificati alcuni fattori genetici di suscettibilità al cancro al polmone coinvolti nel metabolismo degli xenobiotici quali: CYP1B1 Val432Leu (OR=1.74;

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Riassunto

Il cancro al polmone è una neoplasia maligna toracica molto comune. È noto che solo il 15% dei fumatori longevi sviluppano cancro al polmone entro l’età di 70 anni. Una possibile spiegazione è che fattori genetici possano essere alla base delle variazioni della dose interna di cancerogeni attivi. Questo potrebbe giustificare differenze nel rischio per individui che fumano un numero simile di sigarette. Un’altra spiegazione è che esista una variabilita’ genetica dei sistemi di riparazione del DNA, che porti a differenze nelle capacità di rimuovere le lesioni causate dai cancerogeni attivati, sottoponendo individui con simili dosi interne a differenti livelli di rischio per lo sviluppo della patologia. Molti geni coinvolti nel metabolismo degli xenobiotici, nei sistemi di riparazione e nei checkpoint del ciclo cellulare sono polimorfici. A tale scopo è stato messo punto un micro-array per la genotipizzazione di polimorfismi a singolo nucleotide (SNPs) potenzialmente implicati nella suscettibilita’ genetica al tumore polmonare. La metodica utilizzata, definita APEX (arrayed primer extention), ha permesso una genotipizzazione parallela di 233 SNPs in 99 geni del metabolismo di xenobiotici, ciclo cellulare e riparazione del DNA. E’ stato effettuato uno studio di associazione caso-controllo su 300 soggetti affetti da tumore polmonare, provenienti dall’Est Europeo di eta’ inferiore a 50 anni e 317 controlli. Le frequenze genotipiche relative a ciascun polimorfismo sono state analizzate mediante regressione logistica per identificare quali varianti sono associate con il rischio di contrarre la malattia.

Sono stati identificati alcuni fattori genetici di suscettibilità al cancro al polmone coinvolti nel metabolismo degli xenobiotici quali: CYP1B1 Val432Leu (OR=1.74;

1.05-3.3), CYP1A2 A-164C (OR=1.61; 1.12-2,32), CYP2A6 T-48G (OR=0.56; 0,34- 0,94), EPHX1 His139Arg (OR= 0,66; 0,45-0,97), GSTA2 S111T (OR=1,78; 1,05- 3,02), GSTM3 Val224Ile (OR=0.55; 0.31-0.99). Inoltre, i polimorfismi in ATM IVS48+238 (OR= 0.61; 0.41-0.90) e MLH1 Ile219Val (OR: 0.51; 0.27-0.99) sono associati con un diminuito rischio, mentre polimorfismi in XRCC1 Arg194Trp (OR:0.64; 0.39-0.94), MSH6 D180D (OR= 1.99; 1.03-3.85), LIGI –7 C>T (OR= 1.49;

1.03-2.17); IVS9-21 (OR= 1.65; 1.06-2.57) e XRCC4 Asn298Ser (OR= 1.62; 1.04-

2.53), sono associati con un aumento del rischio della neoplasia .

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1. Introduzione

1.1 Il cancro del polmone

Il carcinoma polmonare è divenuto nel corso del XX secolo uno dei principali problemi socio-sanitari dei Paesi industrializzati e in via di sviluppo (Schuller, 2002).

Costituisce il 12% di tutti i tumori maligni e determina il 17% delle morti per tumore in tutto il mondo (Parkin et al., 2002; Shibuya et al., 2002). Questo tipo di tumore è uno dei più aggressivi: al momento della diagnosi più dei due terzi dei casi presenta metastasi e a cinque anni dalla diagnosi la mortalità è di circa il 90% (Zeng et al., 1994). I tassi di incidenza del cancro del polmone variano molto da un’area geografica all’altra, in rapporto alle variazioni temporali nel consumo di tabacco e al grado di sviluppo del paese considerato, con un incidenza minima registrata in Africa. Nel resto del mondo, le popolazioni dei paesi dell’Asia Centrale, Pakistan e India, presentano un basso rischio, mentre il picco massimo è registrato tra i Maori della nuova Zelanda e tra i neri degli USA (Parkin et al., 2002). Negli Stati della Comunità Europea il tumore del polmone rappresenta il 27,9% di tutte le morti per cancro e il 20,7% di tutti i casi di neoplasia fra i maschi ove costituisce il tipo di tumore più diffuso. In entrambi i sessi l’incidenza prevalente si osserva nella fascia di età compresa tra 35 e 70 anni con un picco tra 55 e 65 anni (Bidoli et al., 2003).

Per effetto della campagna contro il fumo l’incidenza del tumore negli uomini è in declino in generale nella maggior parte dei paesi europei (con l’eccezione di Spagna e Francia) specie nel nord Europa, nel Regno Unito (in particolare Scozia) e negli USA, mentre è tuttora in ascesa tra le donne sopratutto in Cina e nell’Europa dell’Est, dove l’abitudine al fumo non accenna a diminuire. Negli USA l’incremento del fumo nelle donne ha fatto sì che il carcinoma polmonare, dal 1987, superasse l’incidenza del carcinoma mammario (neoplasia più diffusa nelle donne nei precedenti 40 anni), rappresentando attualmente la principale causa di morte sia per il sesso femminile (6,4

% in più dal 1991 al 1995) che per quello maschile (Shuller, 2002).

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1.2 Istologia del cancro al polmone

Il carcinoma broncopolmonare si sviluppa in oltre il 90% dei casi dall’epitelio endobronchiale compromettendo la corretta funzionalità dei polmoni. A causa della presenza di pochi e aspecifici sintomi, la diagnosi delle neoplasie broncopolmonari è spesso tardiva, ovvero quando la malattia si presenta già localmente avanzata (Bidoli et al., 2003).

Dal punto di vista istopatologico oltre il 95% delle neoplasie polmonari è riconducibile a quattro principali istotipi (Shuller, 2002) e precisamente:

1) Carcinoma a cellule squamose o epidermoide (SCC).

È il tipo di carcinoma polmonare più diffuso nei maschi (Parkin et al., 2002) ed è prevalentemente causato da fumo di sigaretta (Kiyohara et al., 2002). Origina nella parte centrale del polmone, dalle cellule basali dell’epitelio bronchiale che rivestono le vie respiratorie. La miglior prognosi di questo istotipo rispetto agli altri è attribuibile alla tendenza a svilupparsi lentamente e a rimanere intratoracico sino ad una fase relativamente tardiva della sua storia naturale. Spesso osservando la presenza di formazioni concentriche cornee è possibile stabilire il grado di differenziazione del tumore (cheratinizzazione evidente nei casi ben differenziati, difettosa nei casi poco differenziati).

2) Adenocarcinoma (AD o AC).

È l’istotipo predominante nelle donne Caucasiche e Afro-Americane (Zeng et al., 1994; Osann, 1991; Haugen, 2002) e nella popolazione orientale (Parkin et al., 2002).

Era in passato una rara forma di tumore del polmone, ma negli ultimi decenni si è avuta una drammatica crescita della sua incidenza che l’ha portato oggi ad essere il tipo di tumore polmonare più comune (Wynder e Muscat, 1995; Levi et al., 1997).

L’aumentata incidenza di questo istotipo è stato messo in relazione all’introduzione

delle sigarette con filtro e delle sigarette “light” senz’altro contenenti quantitativi

minori di idrocarburi policiclici aromatici e nicotina ma aventi quantità superiori di

nitrosamine tabacco specifiche che sono le maggiori responsabili dello sviluppo

dell’adenocarcinoma (Hoffman et al., 1997). Questo tipo di tumore origina dalle

cellule che secernono il muco dell’epitelio dei bronchi di calibro inferiore, quindi più

distali, rispetto a quelli in cui si insediano i carcinomi squamosi; pertanto la loro sede

è più comunemente periferica. Il fumo di sigaretta è il principale fattore di rischio per

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tutti gli istotipi di cancro polmonare, incluso quindi anche l’adenocarcinoma (Stellman et al., 2001; Lee, 2001). Tuttavia dei quattro principali istotipi di carcinoma polmonare, l’adenocarcinoma è l’ unico che si sviluppa frequentemente anche tra i non fumatori (Schuller, 2002). Dal punto di vista istologico è caratterizzato da un gruppo eterogeneo di tumori formati generalmente da strutture ghiandolari nel cui lume si può raccogliere un secreto mucoso eosinofilo (Bidoli et al., 2003).

L’adenocarcinoma metastatizza frequentemente infatti solo nel 15-20% dei casi non diffonde fuori dal torace. Inoltre è dei quattro istotipi quello maggiormente rappresentato in individui di giovane età (che hanno quindi meno di 50 anni) (Radzikowska et al., 2001).

3) Carcinoma a grandi cellule (LCLC).

Il nome deriva dalle grandi cellule tondeggianti che si evidenziano quando si esamina un campione bioptico al microscopio. È costituito infatti da cellule di grandi dimensioni con nuclei vescicolari e abbondante citoplasma. Dal punto di vista istologico questo tipo di tumore si presenta in strutture cordonali compatte prive di lume, senza evoluzione cornea. A volte sono anche visibili cellule giganti in divisione mitotica atipica; in questo caso la prognosi del tumore è peggiore. Caratteristica comune di questo istotipo è il fatto che si sviluppa con massa periferica e/o sottopleurica senza interessamento bronchiale ma con la tendenza ad estendersi nel parenchima polmonare adiacente e nello spazio pleurico. Ha una tendenza alla diffusione a distanza analoga all’adeno-carcinoma (Bidoli et al., 2003).

4) Carcinoma a piccole cellule o microcitoma (SCLC).

Cosiddetto dalla forma caratteristica delle cellule che lo costituiscono. È un tumore a

prevalente localizzazione centrale, si sviluppa in sede sottomucosale e presenta

caratteristiche neuroendocrine ed epiteliali. È caratterizzato da un’estrema

aggressività infatti spesso già all’esordio presenta metastasi regionali o a distanza

(linfonodi superficiali, scheletro, midollo osseo, fegato, sistema nervoso). Per questo i

pazienti molto raramente sono sottoposti ad operazione chirurgica (Irshad e Ravanel,

2004). È una neoplasia prevalente nel sesso maschile e la sua insorgenza è fortemente

influenzata dal fumo di sigaretta (Bidoli et al., 2003).

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In base alle caratteristiche clinico biologiche i primi tre istotipi vengono generalmente raggruppati sotto il nome di carcinoma polmonare non a piccole cellule (NSCLC). Il carcinoma a piccole cellule (SCLC) infatti ha uno sviluppo una prognosi e una risposta ai trattamenti molto diversa dagli altri istotipi (Forgacs et al., 2001; Irshad e Ravanel, 2004).

Il tipo istologico influenza la sopravvivenza dei pazienti: migliore nel carcinoma epidermoide seguito dall’adenocarcinoma, dal carcinoma a grandi cellule e dal microcitoma. La corretta diagnosi istopatologica è pertanto di estrema importanza ai fini di una adeguata programmazione terapeutica.

L’incidenza dei carcinomi a piccole cellule stimata in cinque continenti è del 20%

dei casi, mentre il carcinoma a cellule grandi si ha nel 9% dei casi (Parkin et al., 2002). Per gli altri tipi istologici di tumore polmonare si hanno delle differenze in base al sesso: il carcinoma a cellule squamose comprende il 43% dei casi di cancro al polmone negli uomini, e il 26% nelle donne, mentre l’adenocarcinoma comprende il 28% nei maschi e il 44% nelle donne (Parkin et al., 2002) (Fig. 1).

NEGLI UOMINI

SCLC 20%

LCLC 9%

SCC 43%

AD o AC 28%

SCLC LCLC SCC AD o AC

Fig 1a. Incidenza dei quattro principali istotipi di carcinoma polmonare negli uomini

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NELLE DONNE

AD o AC 44%

SCC 26%

LCLC 9%

SCLC 21%

SCLC LCLC SCC AD o AC

Fig 1b. Incidenza dei quattro principali istotipi di carcinoma polmonare nelle donne.

1.3 Fattori di rischio

Il fumo di tabacco è il più importante fattore di rischio per l’insorgenza del tumore e si ritiene che sia responsabile di quasi tutti i casi di tumore polmonare, più precisamente del 90% negli uomini e dell’80% nelle donne (Blot e Fraumeni, 1996).

L’esposizione professionale o ambientale ad agenti cancerogeni può rappresentare

un importante fattore di rischio per gruppi specifici di popolazioni. Molte sostanze di

impiego lavorativo infatti (asbesto, cromo, arsenico, berillio, cloruro di vinile,

idrocarburi policiclici aromatici, clorometiletere, radon) sono cancerogeni polmonari,

che dimostrano talora effetto additivo o sinergico con il fumo di tabacco moltiplicando

il danno indotto dalle sostanze in esso contenute a livello del tessuto broncogeno

(Boffetta et al., 1995). Tra questi fattori di rischio, la causa più frequente di neoplasie

occupazionali è l’asbesto (amianto) usato nella fabbricazione di materiale isolante, per

la produzione di freni e frizioni, nei prodotti per l’edilizia, come sostanza inerte per

plastiche e vernici, per la fabbricazione di filtri per vino e birra ecc.

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Anche il rischio ambientale è stato oggetto di molteplici studi con risultati non sempre concordanti. Contrariamente ad una opinione diffusa, non esiste alcuna prova convincente, di tipo scientifico o epidemiologico, che l’inquinamento atmosferico sia responsabile di una quota significativa dei tumori polmonari, laddove si tenga conto del consumo individuale di tabacco (Bidoli et al., 2003). Sta di fatto, però, che almeno dieci idrocarburi aromatici presenti nell’atmosfera si sono dimostrati cancerogeni nell’animale. Il tasso di alcune di queste sostanze è presente sempre in maggiore quantità nell’aria delle grandi città e presenta differenze di concentrazione tra i mesi estivi e quelli invernali a causa del riscaldamento domestico. I suddetti idrocarburi sono contenuti nelle fuligini, prodotti della combustione incompleta di materiali organici quali oli e fumi di scappamento dei motori a scoppio ed hanno la caratteristica di permanere a lungo nei polmoni in ragione della loro stabilità e della difficile eliminazione.

Infine, anche difetti nutrizionali come carenza di vitamine o una dieta troppo ricca di grassi, possono stabilire un sinergismo in senso negativo insieme al fumo di tabacco (Fabricius e Lange, 2003). Il fumo di sigaretta contiene radicali liberi ossidanti la cui azione dannosa è aggravata da un regime dietetico carente di sostanze antiossidanti portando ad un incremento del danno cancerogeno. I maggiori antiossidanti sono appunto alcune vitamine C, A, E , il beta carotene, quasi esclusivamente contenute nella frutta, nelle verdure e nell’olio di oliva, il quale ultimo contiene anche acidi grassi monoinsaturi, tioflavonoidi e fenoli (Tsai et al., 2003). La vitamina A e la vitamina C hanno la capacità di interferire con il legame tra il benzopirene ed il DNA evitando il danno che poi potrebbe portare allo sviluppo del cancro.

1.4 Fumo di sigaretta

Il fumo di sigaretta è unanimemente considerato uno dei principali problemi per la

salute pubblica. Il tabagismo rientra tra le malattie sociali e interessa un elevato

numero di persone. Le numerose malattie causate o aggravate dal fumo, come le

bronchiti croniche, l'enfisema polmonare, gli incidenti cardiovascolari, i tumori

polmonari e molti altri tipi di tumori, causano ogni anno milioni di decessi: 3 milioni

l'anno (una vittima ogni 10 secondi). L'abitudine al fumo si è diffusa nel mondo solo

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alla fine del 1800 grazie alle macchine per la manifattura del tabacco che hanno portato ad un aumento della produzione di sigarette (Sasco et al., 2004). La successiva pubblicità del "prodotto" attraverso i "mass media" ha contribuito a crearne la domanda dove prima non esisteva. Numerosi studi sperimentali e clinici sono concordi nel confermare la stretta correlazione esistente tra fumo ed insorgenza di neoplasie polmonari (Sasco et al., 2004). I primi studi epidemiologici su larga scala che dimostrarono che il fumo di tabacco è un cancerogeno del polmone risalgono al 1950 e furono condotti in Inghilterra e negli USA (Doll e Hill, 1950; Wynder e Graham, 1950). Nei decenni successivi queste osservazioni non soltanto vennero avvalorate da tantissimi altri studi, ma anche dalla sperimentazione sugli animali che dimostrò come nei topi l’incidenza di cancro aumentasse con le dosi di esposizione al fumo a cui venivano sottoposti (Wynder et al., 1953; Wynder et al., 1957). Inoltre iniziarono ad essere identificati i cancerogeni contenuti nel fumo di tabacco (Doll, 1998; Hoffmann et al., 1993). Nel 1985 non solo fu confermata ancora una volta la cancerogenicità del fumo per il polmone ma si stabilì anche un’associazione positiva tra il fumo di sigaretta e altri tipi di cancro: quello della cavità orale, faringe, laringe, esofago, pancreas, vescica urinaria e bacino renale (IARC, 2004). Successivamente un altro gruppo di ricerca stabilì che il fumo di tabacco causa cancro in molti altri organi inclusi cavità nasali e paranasali, nasofaringe, fegato, stomaco, cervice uterina, rene e aumenta il rischio di leucemia mieloide cronica (IARC, 2004). Per questo motivo viene considerato il maggiore cancerogeno e mutageno sistemico (DeMarini, 2004).

Vi è una relazione diretta tra l'intensità dell'esposizione al fumo e il rischio di

tumore che si esprime con un chiaro rapporto dose-effetto. Per i fumatori infatti il

rischio di sviluppare questa neoplasia aumenta in funzione del numero e del tipo di

sigarette fumate. Tale rischio è senz’altro minore per le sigarette con filtro e a basso

contenuto di nicotina, ma pur sempre di gran lunga più elevato del rischio che corrono

i non fumatori. È stato calcolato che un fumatore di 20 sigarette al giorno ha una

probabilità su otto di morire di cancro polmonare. Tale rapporto aumenta a 60 a 1 con

un consumo medio di oltre 40 sigarette al giorno e, ovviamente, quanto più

precocemente si è iniziato a fumare (Bidoli et al., 2003). Se un fumatore smette di

fumare il rischio di carcinoma polmonare si riduce sensibilmente e dopo una

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quindicina d’anni le possibilità che si ammali di cancro sono circa uguali a quelle di un individuo che non ha mai fumato (Parkin et al., 2002).

Sembra inoltre accertato che il fumo passivo, ossia l’inalazione del fumo delle sigarette che sono fumate da altri individui, innalzi il rischio di cancro fino al 30% e di altre patologie polmonari (Sasco et al., 2004). Inoltre in accordo con quanto avviene nei fumatori, anche in questo caso il rischio aumenta con l’aumentare dell’esposizione (Sasco et al., 2004). La composizione del fumo inalato dai fumatori passivi è differente rispetto a quella del fumo inalato dai fumatori attivi, tuttavia contiene ugualmente cancerogeni e sostanze tossiche come la nicotina (Sasco et al., 2004). A questo proposito è interessante considerare che la concentrazione di nicotina nelle urine di coloro che sono esposti al fumo passivo sono simili a quelle di fumatori moderati (1-10 sigarette) (IARC, 2004; Sasco et al., 2004).

Il processo di cancerogenesi polmonare richiede un lungo periodo di esposizione, con un intervallo minimo di 20 anni e un picco di incidenza di 40-50 anni dopo l’inizio dell’abitudine al fumo (Bidoli et al., 2003). Tale latenza spiega il ritardo che si osserva tra i mutamenti di abitudini sociali e i loro effetti sull’incidenza di tumori legati al fumo e rende più difficile una reale percezione del rischio (Sasco et al., 2004 ).

1.5 Il fumo come xenobiotico

Il fumo è un agente xenobiotico costituito da un aerosol contenente 10¹º particelle/ml

(Hoffmann e Hecht, 1990). 4800 sostanze chimiche differenti sono presenti nella fase

gassosa che rappresenta il 90% del totale e 3500 composti nella fase corpuscolata che

rappresenta il 10% del totale (Hecht, 1999). Molte di queste sostanze hanno dimostrato

chiare proprietà cancerogene per le cellule in coltura e per gli animali di laboratorio, e

60 di queste sono state riconosciute dallo IARC (International Agency for Research on

Cancer) come agenti cancerogeni (Hoffmann et al., 2001; Schuller, 2002). Tra di esse

composti tossici come nicotina, ossidi d’azoto, monossido di carbonio, nitrosamine,

idrazina, cloruro di vinile, acrilonitrile, cresoli, formaldeide, acetaldeide, acroleina, e

gli idrocarburi policiclici tra i quali benzopirene, benzoantracene, e fluoroantrene, i

composti contenenti nickel e cromo, i radicali tossici dell'ossigeno.

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I più forti cancerogeni per il polmone sono gli idrocarburi aromatici policiclici (PHAs) come il benzo(a)pirene e le nitrosamine tabacco specifiche che derivano dalla nicotina: N’-nitrosonornicotine (NNN) e 4(metilnitrosamino)-1-(3-piridil)-1-butanone (NNK) anche conosciuto come nitrosaminochetone (Hecht, 1999; Hecht, 2002). Il NNK è in grado di indurre nel topo elevata incidenza di adenocarcinomi polmonari (Hoffmann et al., 1993; Schuller et al., 1990; Hecht et al., 1986; Hoffmann et al., 1981). Questi composti sono presenti in piccole quantità tipicamente di 5-200 ng per sigaretta. I più abbondanti cancerogeni sono invece le aldeidi e altri composti come benzene e butadiene che sono contenuti in quantità di 10-100 µg per sigaretta (Hecht, 2002).

Gli xenobiotici vengono definiti come sostanze estranee alla cellula e rappresentano tutti quei composti esogeni a cui siamo costantemente esposti (farmaci, additivi, contaminanti ambientali, composti chimici di varia natura, derivati industriali ecc) che entrano nell’organismo per ingestione, per iniezione, inalazione o assorbimento per via cutanea. Tali sostanze sono per la maggior parte liposolubili e tendono ad accumularsi nelle cellule dove interferiscono nelle loro funzioni. La risposta dell’organismo a tali composti esogeni è quella di cercare di eliminarli.

Esistono per questo varie vie metaboliche che competono nella detossificazione e che

fanno capo a due principali batterie di enzimi: quelli della attivazione o

funzionalizzazione, che sono anche indicati come enzimi di FASE I e quelli della

coniugazione o di FASE II. Il primo gruppo di enzimi è rappresentato dai citocromi

P450, monossigenasi che partecipano all’ossidazione di molte di queste sostanze e

attraverso l’aggiunta di un gruppo ossidrilico le rendono più polari e quindi più solubili

nell’ambiente cellulare ricco di acqua (Hecht, 2002). Alla categoria degli enzimi di

fase I appartengono anche: flavoproteine monossigenasi, monoammine ossidasi, alcool

deidrogenasi, aldeide deidrogenasi, arilesterasi, colinesterasi, epossido idrolasi e le

nitroriduttasi. Le sostanze xenobiotiche modificate (o attivate) o non modificate dagli

enzimi di FASE I possono essere alterate chimicamente ad opera di numerosi sistemi

enzimatici di FASE II che catalizzano reazioni di coniugazione formando prodotti

meno tossici che possono essere facilmente eliminati dall’organismo. La reazione di

coniugazione consiste nell’introduzione di un gruppo idrofilico (acetile, glutatione,

metile, sulfidrile, glucuronide) rendendolo idrosolubile e quindi favorendone

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l’escrezione per via renale o biliare. Le principali famiglie di enzimi della fase II sono:

glutatione S- transferasi, le N-acetiltransferasi, N-aciltransferasi, UDP-Glucoronil transferasi, le sulfotranferasi, metiltranferasi e le epossido idrolasi transferasi (Fig. 2).

Funzionalizzazione o Fase I

Coniugazione O Fase II

Monossigenasi citocromo P450 Glutatione S-transferasi

Flavoproteine monossigenasi N-acetil-transferasi

Monoammine ossidasi N-acil-transferasi

Alcool deidrogenasi Sulfotransferasi

Aldeide deidrogenasi UDP-Glucoronil transferasi

Arilesterasi Metiltransferasi

Colinesterasi Epossido idrolasi

Epossido idrolisi

Nitroriduttasi

Fig. 2. Principali enzimi di Fase I e di Fase II coinvolti nel metabolismo degli xenobiotici

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Il metabolismo cellulare può diventare un prerequisito per l’attività tumorigena di parecchi cancerogeni. Infatti il citocromo P450 nello svolgere i processi di detossificazione può, paradossalmente, trasformare alcune sostanze chimiche estranee e di per se poco pericolose in specie estremamente tossiche e altamente reattive, come gli epossidi, capaci di attaccare macromolecole nucleofile come proteine, RNA o il DNA a cui si legano covalentemente.

Il legame al DNA porta alla formazione di addotti specifici, pericolosi per la cellula e a modificazioni, che sono direttamente coinvolte nell’insorgenza dei tumori (Hecht,1999; Tang et al., 2001). Se la loro formazione è inibita o bloccata lo è anche la cancerogenesi. Se invece gli addotti del DNA sfuggono i meccanismi di riparazione e persistono, possono risultare in mutazioni geniche o cromosomiche permanenti (Fig.

3).

DANNO

Funzionalizzazione AL DNA

Metabolita

attivato

(Fase I)

Coniugazione (Fase II) Xenobiotico

Prodotto idrosolubile

Coniugazione (Fase II)

ESCREZIONE

Fig. 3. Metabolismo degli xenobiotici

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Cellule con danno al DNA possono essere eliminate con apoptosi o morte cellulare programmata. Se una mutazione permanente si verifica in una regione critica come un oncogene o un gene soppressore tumorale, può portare all’attivazione dell’oncogene o al silenziamento di un gene soppressore tumorale. Molti eventi di questo tipo conducono alla formazione di cellule mutanti con un controllo anormale della crescita e che sfocia alla fine nella formazione del cancro (Wogan et al., 2004).

1.6 Suscettibilità genetica

Fermo restando che l’esposizione al fumo di sigaretta, è la più importante causa del tumore al polmone, la variabilità genetica può influenzare il rischio individuale di contrarre la malattia quando vengono superati i sistemi di difesa cellulari e/o dell’intero organismo. Infatti dobbiamo sottolineare che solo il 15% dei fumatori longevi sviluppano il cancro ai polmoni entro i 75 anni di età (Peto et al., 2000; Tsai et al., 2003). Una possibile spiegazione è che fattori genetici possano essere alla base di ampie variazioni del livello interno della dose di cancerogeni a cui un individuo è soggetto che porta differenze nel rischio per individui che fumano un numero simile di sigarette (Shields, 1999). La variabilità genetica governa infatti i processi di assorbimento, trasduzione del segnale, metabolismo degli xenobiotici come pure la riparazione del DNA, il ciclo cellulare e il suo controllo, l’apoptosi, l’infiammazione e altri processi che sono probabilmente responsabili delle differenze di suscettibilità tra un soggetto ed un altro (Kiyohara et al., 2002). Molti geni coinvolti nel metabolismo degli xenobiotici sono polimorfici, ovvero sono presenti nella popolazione forme differenti di uno stesso gene (ciascuna con una frequenza maggiore dell’ 1%) che corrispondono ad enzimi con attività funzionali diverse. Anche piccolissime variazioni all’interno dei geni del metabolismo quali i cambiamenti di un singolo nucleotide possono portare infatti delle differenze nell’efficienza dei trascritti che può aumentare o diminuire. Inoltre diverse combinazioni delle varianti alleliche possono essere alla base di differenti capacità metaboliche e quindi di diverse risposte di fronte ad agenti asogeni. Si potrebbe assumere quindi che le caratteristiche genetiche stabiliscano il grado di suscettibilità individuale verso un determinato tipo di tumore.

Nel caso del tumore al polmone esisterebbero quindi soggetti assai più sensibili di

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altri all’azione cancerogena del fumo sui bronchi. Individui con un’alta attività per gli enzimi di fase I e bassa attività per quelli di fase II presumibilmente sono portati a produrre una quantità maggiore di intermedi reattivi e quindi sarebbero più soggetti a subire danni al DNA, mentre individui con una minor attività catalitica degli enzimi di fase I e una più alta attività per quelli di fase II avrebbero una minore probabilità di incorrere in danni al DNA.

1.7 Effetti del fumo

Il fumo di sigaretta è in grado di modificare l'equilibrio tra le diverse attività enzimatiche presenti nel tessuto polmonare, aumentandone l'attività ad azione favorente l'insorgere del tumore (come l'aril-idrocarburo idrossilasi) o inibendone altre ad azione protettiva (come la glutatione transferasi). Tra le sostanze responsabili ci sono il monossido di carbonio e alcuni composti che sono in grado di determinare induzione trascrizionale di specifici citocromi.

Gli idrocarburi policiclici aromatici si legano per esempio al recettore degli idrocarburi arilici (Ah) formando un complesso che viene traslocato nel nucleo ed è coinvolto nel legame con le regioni regolatrici a monte dei geni per il citocromo P450 (Shen e Whitlock, 1992; Lusska et al., 1993). È stato dimostrato infatti che una seconda proteina (con struttura helix-loop-helix), detta traslocatore nucleare del recettore Ah o proteina Arnt interagisce con il recettore Ah legato al ligando (Reyes et al., 1992; Fukunaga et al., 1995). L’eterodimero nel nucleo è in grado di riconoscere e legare il proprio specifico elemento di risposta nel DNA (Denison e Whitlock, 1995).

Queste sequenze nucleotidiche sono indicate come elementi di regolazione xenobiotica, o XRE (Devlin, 1997; Reyes et al., 1992; Fukunaga et al., 1995).

Esistono però anche delle sostanze in grado di inibire i citocromi. Tra di esse un metabolita capace di interagire fortemente con i citocromi e bloccarne l’azione è il CO anch’esso presente nel fumo. Il CO inibisce aspecificamente la maggior parte dei citocromi P450 legandosi al ferro eminico al posto dell’ossigeno con affinità molto maggiore (Devlin, 1997).

L’azione della complessa serie di enzimi del metabolismo il cui scopo è quello di

eliminare le sostanze tossiche dall’organismo può diventare spesso un prerequisito per

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l’attività tumorigena di parecchi cancerogeni. È noto infatti che la maggior parte dei cancerogeni del tabacco richiede una attivazione metabolica per esercitare i suoi effetti cancerogenici (Wogan et al., 2004). Tra di essi le nitrosamine, gli idrocarburi aromatici ed il benzo(a)pirene che è stato attentamente studiato. Esso si lega al recettore degli idrocarburi aromatici e induce la sintesi dei citocromi P450 della sottofamiglia 1A1 e 1A2, favorendo così il proprio metabolismo. Di per sé il benzo(a)pirene è un modesto agente cancerogeno, ma come molti altri composti di questo tipo, che presentano cioé una elevata densità elettronica come nel benzoantracene e nel 3-metilcolantrene, si verifica la formazione di intermedi molto reattivi e più tossici della sostanza iniziale. Il benzo(a)pirene una volta arrivato al tessuto polmonare infatti, viene metabolizzato da diversi citocromi P450 che lo trasformano in epossidi e fenoli (Hecht, 2002). Gli epossidi possono a loro volta riarrangiarsi spontaneamente a fenoli o essere sottoposti ad idratazione grazie all’epossido idrolasi, che porta alla formazione di dioli. Uno di questi dioli, benzo(a)pirene-7,8-diolo viene rapidamente ossidato a 7,8-diol-9,10-epossido in una reazione catalizzata dal citocromo P450 o da altri enzimi (Fig. 4).

Questo composto è l’epossido del benzo(a)pirene che presenta la più alta attività

di cancerogeno, infatti è cancerogeno per gli animali e mutageno per i batteri e

reagisce con il DNA in vitro e in vivo producendo la maggior parte degli addotti, nei

quali la posizione 10 del 7,8-diol-9,10-epossido si lega al gruppo aminico esociclico

della deossiguanosina nel DNA. I cancerogeni chimici preferiscono legarsi in

corrispondenza di una guanina, la posizione specifica della base con cui interagiscono

dipende dalle proprietà chimiche del cancerogeno. Il benzo(a)pirene ad esempio si

lega preferenzialmente nella posizione N² della Guanina.

(16)

Fig. 4. Metabolismo del benzo(a)pirene e formazione di addotti al DNA.

Il bilancio tra l’attivazione e la detossificazione differisce tra individui e influenza il rischio di cancro. Sono presenti comunque nell’ambito cellulare dei sistemi difensivi rappresentati ad esempio dalle GST che coniugano l’epossido con il glutatione facilitandone l’uscita dal compartimento microsomale e quindi l’eliminazione (Hecht, 2002). La cancerogenicità del benzo(a)pirene sembra anche legata all’anione superossido e alle specie reattive di ossigeno, come acqua ossigenata, radicale idrossile e ossigeno singoletto che vengono prodotte in seguito al suo metabolismo.

Altre due sostanze che richiedono un attivazione metabolica per legare il DNA ed

esprimere i loro effetti cancerogeni sono le NNK e le NNN, le più importanti

nitrosamine tabacco specifiche (TSNAs) (Schuller e Orloff, 1998). L’ultimo composto

del loro metabolismo può essere trovato nelle urine ed è un buon indicatore

dell’esposizione alle NNK. In tessuti esposti a TSNAs sono state trovate basi N ed O

metilate e modificazioni specifiche del DNA. Gli addotti del DNA che derivano dalle

(17)

NNK si conoscono però solo parzialmente. Il NNK è inoltre in grado di attraversare la placenta (Lackmann et al., 1999). Questa osservazione e numerosi studi sul topo (Schuller et al., 1993), hanno portato a ipotizzare che madri che fumano durante la gravidanza potrebbero far aumentare nei loro figli il rischio di sviluppare adenocarcinomi polmonari o pancreatici in giovane età (al di sotto di 50 anni) (Shuller, 2002). Quando le NNK vengono introdotte nell’organismo uno dei principali eventi metabolici ai quali vanno incontro è la conversione del gruppo carbonilico dell’NNK ad un alcol con la formazione di 4-(metilnitrosamino)-1-(3-pyridyl)-1-butanol (NNAL) (Hecht, 1998). La reazione di riduzione rappresenta la principale via di detossificazione dall’ NNK, infatti l’ NNAL a sua volta è metabolizzato tramite glucuronidazione dell’alcol e dell’anello di piridina e quindi escreto (Maser, 2004).

Sia l’NNAL che il suo glucuronide si trovano nelle urine dei fumatori, ma anche in quelle dei fumatori passivi (Carmella et al., 1993; 2002). Sono stati identificati cinque diversi enzimi che catalizzano la riduzione del gruppo carbonilico di NNK ad NNAL.

Questi enzimi sono l’ 11-b-idrossisteroide deidrogenasi di tipo I (11b-HDS-1), una reduttasi citosolica carbonilica (CR) e tre diverse aldochetoreduttasi (AKR1C1, AKR1C2, AKR1C4) (Maser, 2004). La loro azione viene inibita dall’alcol e da una sostanza contenuta nella liquirizia, l’acido gliciretinico (GA). La liquirizia è stata frequentemente utilizzata come additivo nella fabbricazione delle sigarette per la sua caratteristica di alleviare l’irritazione delle mucose data dal fumo (Carmines, 2002). In realtà la presenza di GA è in grado di potenziare l’effetto cancerogeno dell’NNK (Paolini et al., 1999; Maser, 2004) (Fig. 5).

L’NNAL se non viene prontamente glucuronidato ed eliminato, può comunque

diventare un potente agente cancerogeno. Sia l’NNK che l’NNAL possono essere

infatti metabolicamente attivati tramite idrossilazione del carbonio adiacente al gruppo

N-nitroso (α-idrossi-NNK e α-idrossi-NNAL), portando alla formazione di addotti del

DNA o modificazioni nelle basi azotate (Hecht, 1999).

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4-metilnitrosamino-1- 3-pyridil-1-butano ne 11B-HSD-1CR

AKRC1 AKRC2 AKRC4

aia ia

ESCREZIONE

P450 P450

Metilazioni del DNA (O6MeG)

Pyridyl oxobutil-DNA Pyridyl

oxobutil-DNA

IDROSSILAZIONI DEL CARBONIO METILICO E DEL CARBONIO METILENICO

Alcol e acido glicilretinico

Fig. 5. Metabolismo delle nitrosamine.

L’idrossilazione del carbonio metilico produce addotti piridilossobutil-DNA, mentre l’idrossilazione del carbonio metilenico produce addotti metil-DNA (Hecht, 2002). Quando i sistemi di riparazione non sono totalmente efficienti alcuni addotti possono persistere nel DNA e portare errori durante la replicazione che si tramutano in mutazioni.

Per esempio, quando la posizione O

6

della deossiguanosina nel DNA è metilata dopo l’attivazione metabolica dell’NNK, il risultante addotto del DNA (O

6

- metilguanina) è letto dalla DNA Polimerasi come deossiadenosina, e viene inserita una timina durante la replicazione. La conseguenza è la conversione permanente di una coppia di basi G-C in una A-T. Queste mutazioni ed altre possono attivare oncogeni come RAS o inattivare geni soppressori tumorali come P53 (Hecht, 1999).

Il fumo di tabacco contiene anche radicali dell’ossigeno e specie nitrogeno attive

che impongono uno stress ossidativo nei tessuti del fumatore (Hecht, 1999). I radicali

liberi possono interagire con gli acidi nucleici innescando una serie di eventi implicati

nella modifica delle basi puriniche e pirimidiniche e nella scissione delle catene

(19)

polinucleotidiche con eventuale formazione di ponti. Le modificazioni chimiche delle basi azotate causano alterazioni nella codificazione dell’informazione genetica per cui si possono verificare mutazioni, fenomeni di cancerogenesi oppure morte cellulare.

L’effetto tumorigeno dei radicali e di alcuni cancerogeni inoltre sembra essere collegato alla perossidazione lipidica delle membrane. I prodotti di degradazione perossidativa degli acidi grassi poliinsaturi possono essere intermediari tra il processo perossidativo e i fenomeni di mutagenesi e cancerogenesi. In particolare la malondialdeide è un composto relativamente polare che può penetrare nei cromosomi e formare dei ponti a livello dei gruppi amminici del DNA presumibilmente attraverso la formazione di basi di schiff. La malondialdeide è particolarmente reattiva verso la guanina e la citosina (Bindoli, 2003).

1.8 La nicotina

La nicotina è un alcaloide del tabacco e rappresenta l’agente responsabile che crea dipendenza nel fumatore (Hecht, 2002). È un’ammina terziaria formata da un anello di piridina ed uno di pirrolidina (Schuller e Orloff, 1998; Fischer et al., 1990). La nicotina come tale non è considerata un agente cancerogeno anche se può indurre tumori in condizioni di iperossia (Schuller et al., 1995). Tuttavia dalla nicotina derivano delle sostanze che vengono considerate tra i più potenti agenti cancerogeni del fumo: le NNK e le NNN (Hecht e Hoffman, 1988). (Fig. 6).

Fig. 6. Struttura della nicotina e di due nitrosamine cancerogene, NNN e NNK.

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NNN e NNK si formano durante il processamento e la conservazione del tabacco e all’interno dell’organismo grazie alla presenza di particolari enzimi (Schuller e Orloff, 1998; Maser, 2004; Hecht, 1998; Carmella et al., 1997). La formazione della NNN coinvolge la nitrosilazione dell’anello di pirrolidina della nicotina dopo la perdita di un gruppo metilico (Fischer et al., 1990). Le NNK si formano sempre dalla nicotina tramite nitrosilazione dopo l’apertura dell’anello di pirrolidina (Fischer et al., 1990;

Schuller e Orloff, 1998)

La nicotina e le nitrosamine sono assorbite rapidamente dai polmoni ed entrano nel sistema circolatorio attraverso il quale vengono distribuite ai tessuti dell’organismo (Armitage et al., 1975; Carmella et al., 1990). La nicotina, una volta assorbita ha una vita relativamente breve di circa 2,6 ore (Benowitz e Jacob, 1993, 1994). Infatti subisce rapidamente l’azione di diversi enzimi con la conseguente formazione di svariati prodotti. È metabolizzata principalmente tramite C-ossidazione a cotinina, N- ossidazione a dare nicotina N-1’-ossido per il 7,6% grazie ad una flavina monossigenasi (Benowitz e Jacob, 1997; Murfhy et al., 1999), N-demetilazione e N- glucuronidazione (Tricher, 2003) (Fig. 7).

Fig. 7. Schema del metabolismo della nicotina. I composti nei riquadri rettangolari si trovano principalmente nel sangue, mentre quelli racchiusi nei riquadri ovali sono i metaboliti principali escreti nelle urine.

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Il metabolita più abbondante e che ha una emivita di circa 15-17h è la cotinina. Infatti quasi l’80% della nicotina viene trasformato in questo prodotto (Benowitz e Jacob, 1994). La trasformazione della nicotina a cotinina avviene attraverso due step, il primo dei quali è la C-ossidazione della nicotina a nicotina delta

1’(5’)-

iminium ione che viene trasformato rapidamente a cotinina da un’aldeide ossidasi citosolica (Fig. 8).

Fig. 8. Reazione di trasformazione della nicotina in cotinina. La reazione ha luogo in due passaggi il primo catalizzato dal CYP2A6 porta alla produzione di un intermedio che viene metabolizzato da parte dell’aldeide ossidasi che lo trasforma in cotinina.

La cotinina successivamente può essere ulteriormente metabolizzata a norcotinina

oppure tramite N-ossidazione trasformata a cotinina N-1-ossido, può subire N-

glucuronidazione o tramite idrossilazione essere convertita a trans-3’-idrossicotinina e

5’-idrossicotinina (Tricher, 2003). La trans-3’-idrossicotinina viene subito

metabolizzata tramite O-glucuronidazione. La C-ossidazione della nicotina come pure

le reazioni di idrossilazione che subisce la cotinina sono quasi totalmente a carico di

un particolare enzima P450, il CYP2A6 (Benowitz e Jacob, 1997; Murphy et al., 1999)

(Fig. 9).

(22)

Fig. 9. Reazioni del metabolismo della nicotina catalizzate dal CYP2A6.

1.9 Altri effetti biologici del fumo

L’effetto del fumo come abbiamo visto è dovuto all’azione combinata di una serie di

sostanze ad azione cancerogena diretta o promuovente. La nicotina, il cui dosaggio è

accuratamente controllato nel processo di lavorazione del tabacco, oltre ad essere esso

stesso un composto cancerogeno, svolge il ruolo specifico di mantenere lo stato di

dipendenza dal fumo. Tale azione è mediata da particolari recettori nicotinici neuronali

(23)

acetilcolinici (nAchRs), canali ionici a controllo di ligando presenti nel sistema nervoso centrale e periferico (Itier e Bertrand, 2001). Recentemente si è scoperta la presenza di questi recettori anche in cellule non neuronali (Minna, 2003). Si pensa che la nicotina e le nitrosamine contenute nel fumo di tabacco possano legarsi direttamente ai recettori portando attraverso un meccanismo di trasduzione del segnale, al blocco dell’induzione di apoptosi e tramite fosforilazione all’attivazione di fattori di regolazione cellulare come AKT (Minna, 2003). Il recettore della nicotina infatti, una volta legato il suo ligando provoca una depolarizzazione di membrana alla quale consegue la liberazione di catecolamine (Mousavi et al., 2001; Li et al., 1996). Le catecolamine si legano a loro volta a dei recettori β-adrenergici nelle cellule epiteliali polmonari dove segnalano sinergicamente con il NNK la proliferazione cellulare (Shuller, 2002). Infatti grazie alla sua struttura simile a quella dell’adrenalina e della noradrenalina (Fig. 10), l’ NNK è in grado di legare direttamente i recettori β- adrenergici e di stimolare il rilascio di acido arachidonico dai fosfolipidi delle membrane cellulari e la sintesi del DNA favorendo così lo sviluppo di adenocarcinoma polmonare (Schuller et al., 1999).

Fig. 10. Struttura dell’adrenalina della noradrenalina e dell’ NNK.

Un altro ruolo della nicotina che ne rafforza gli effetti tumorigeni inoltre è quello che la vede implicata nella stimolazione dell’angiogenesi (Heeschen et al., 2001, 2002).

Tale effetto sempre mediato dai recettori nAchRs probabilmente è legato

all’attivazione di fattori di crescita di angiogenesi nell’endotelio. Ad esempio è stato

dimostrato che sia la nicotina che la cotinina portano una sovra-espressione dei fattori

VEGF nelle cellule endoteliali (Conklin et al., 2002). Tutto ciò alla fine risulta quindi

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in una diminuzione dell’apoptosi, mentre si ha aumento dell’angiogenesi e della trasformazione e proliferazione cellulare. Questi cambiamenti possono accrescere gli effetti della miscela di cancerogeni, promotori tumorali e cocancerogeni del fumo (Wogan et al., 2004) (Fig. 11).

Fig. 11. Stimolazione indiretta di adenocarcinomi polmonari in fumatori da parte della nicotina.

(25)

Le sostanze chimiche contenute nel fumo di tabacco sono inoltre in grado di indurre una risposta del sistema immunitario e una delle prime reazioni di questo sistema è quello di incorporare agenti in reazioni infiammatorie (Emmendoerffer et al., 2000).

La prima linea di difesa del tessuto polmonare è costituita dai macrofagi alveolari che rappresentano il 95% delle cellule del sistema immunitario presenti appunto nei fluidi bronchiali in condizioni normali. Quando il tessuto polmonare viene in contatto con sostanze esogene, vengono richiamate dall’azione delle chemochine altre cellule del sistema immunitario e il tessuto si arricchisce di eusinofili e linfociti ma in particolar modo di granulociti neutrofili (Mantovani, 1999). Questi arrivano tramite il sistema circolatorio e il loro reclutamento è facilitato dalla vasodilatazione indotta dai granulociti basofili (Bindoli e Cavallini, 1980). I macrofagi alveolari, eosinofili e neutrofili quando vengono attivati sono capaci di produrre alte quantità di intermedi reattivi dell’ossigeno (Emmendoerffer et al., 1994) come l’anione superossido, l’acqua ossigenata, il radicale idrossile e l’ossigeno singoletto (Bindoli e Cavallini, 1980).

Questo processo di attivazione viene chiamato “respiratory brust” perchè è caratterizzato appunto da un elevato consumo di ossigeno e di glucosio. In vitro è stato dimostrato che vari agenti chimici oltre che biologici sono in grado di indurre tale attivazione; essa consiste nello stimolo di una particolare via metabolica, altrimenti silente con la formazione di prodotti altamente tossici derivati dalla riduzione dell’ossigeno (Bindoli e Cavallini, 1980). In seguito alla stimolazione il superossido viene rilasciato in grande quantità all’esterno della cellula (Bindoli e Cavallini 1980).

Tutto ciò non fa altro che aumentare lo stress ossidativo già causato dai radicali prodotti durante il metabolismo di alcuni cancerogeni attivati dai CYP e da FMO.

Queste molecole reattive modificano le proteine intracellulari, inducono addotti del

DNA e perossidazione lipidica (Petrusta et al., 1992). Il contributo dei fagociti agli

eventi mutageni è stato mostrato per la prima volta da Weitzman e Stossel (1981,

1982, 1984) che ha chiaramente dimostrato che i fagociti attivati portano mutazioni in

cellule procariotiche ed eucaristiche attraverso la liberazione di radicali. Studi recenti

hanno suggerito che in seguito all’infiammazione cronica derivante dalla continua

esposizione ai componenti del tabacco le cellule epiteliali brinchiali e le cellule

immunitarie attivate vengono stimolate alla produzione e liberazione di citochine

come l’interleuchina-1β i quali effetti si aggiungono a quelli di alcuni cancerogeni e

(26)

della nicotina portando alla stimolazione della proliferazione cellulare e dell’angiogenesi. Infatti le citochine a loro volta attivano fattori di trascrizione come NF-κB con la conseguente sopra-espressione di vari geni legati all’infiammazione come interleuchina-6, l’ interleuchina-8 e la cicloossigenasi-2 (COX-2) (Martey et al., 2004; Brown et al., 2004; Ono, 2004). Le cicloossigenasi sono enzimi che mediano la produzione di prostaglandine dall’acido arachidonico. L’acido arachidonico e i suoi derivati, si pensa siano alla base della promozione della crescita, dell’angiogenesi e della metastasi (Watson e Pritchard, 2000; Hudson et al., 1999).

Intorno agli anni sessanta, gli scienziati scoprirono la presenza di radioattività nel tabacco di sigarette. Il radionuclide più importante, dal punto di vista radioprotezionistico, contenuto nel tabacco, è il Polonio-210 (Po-210) che è un noto alfa emittente. Le radiazioni alfa hanno un elevato potere ionizzante e, di conseguenza, sono particolarmente dannose quando entrano in contatto con i tessuti viventi. La pericolosità del Po-210 è legata al fatto che, alla temperatura di combustione della sigaretta (600-800°C) volatilizza, viene inalato in parte libero ed in parte tramite la componente corpuscolata con una deposizione rapida sui tessuti dell'apparato respiratorio. Una parte, variabile a seconda dei vari autori, viene anche ritrovata nel fumo ambientale (Skwarzec et al., 2001; Peres et al., 2002; Cohen et al., 1985;

Martell, 1983). Tuttavia è ancora da stabilire con sicurezza se effettivamente il

Polonio-210 e in che quantità è presente nel fumo attivo e passivo, e se realmente

possa essere considerato un significativo promotore di neoplasie nell'epitelio

bronchiale dei fumatori di sigarette.

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1.10 Sistemi di riparazione del DNA.

Reazioni chimiche, che possono anche verificarsi spontaneamente, o essere indotte dai cancerogeni sopra menzionati possono modificare la struttura di alcune basi del DNA o distruggere i legami fosfodiesterici e causare la rottura dei filamenti di DNA (Lindahl et al., 1993). Errori possono aver luogo anche durante i processi di replicazione e ricombinazione del DNA, causando l’inserimento nel filamento neosintetizzato di una o più coppie di basi errate (Kolodner et al., 1996). Altre cause di modificazioni permanenti del DNA comprendono cambiamenti risultanti dall’inserzione o dalla perdita da un filamento di sequenze nucleotidiche più o meno brevi durante la ricombinazione del DNA (Kolodner et al., 1996). Anche l’intercalazione di certe molecole aromatiche contenenti anelli planari può causare l’inserzioni di nucleotidi (Lu et al., 2001).

Il moltiplicarsi di danni al DNA causerebbe l’accumulo di proteine non funzionali e porterebbe gradualmente alla perdita della funzionalità cellulare o a una proliferazione incontrollata, caratteristica delle cellule maligne.

Esistono differenti meccanismi di riparazione del DNA, ognuno dei quali è specializzato per un certo tipo di danno, sebbene alcuni meccanismi siano meno specifici di altri (Moses et al., 2001). La riparazione del DNA dipende dall’esistenza di due filamenti complementari. Danni o imperfezioni su un filamento di DNA possono essere corretti, poiché il filamento complementare fornisce l’informazione necessaria per una precisa riparazione.

I meccanismi di riparazione postreplicativa dipendono invece da un altro processo, la ricombinazione del DNA; questa utilizza filamenti omologhi di DNA, cioè filamenti di DNA che hanno una sequenza simile al filamento contenete il tratto di DNA danneggiato, per realizzarne la riparazione (Devlin et al.1997).

Mismatch repair (MMR):

Questo sistema di riparazione è capace di riconoscere e riparare basi male appaiate e

piccole inserzioni o delezioni prodotte durante la replicazione del DNA. Gli errori nella

replicazione del DNA sono difficilmente riconoscibili poiché i disappaiamenti

consistono in errori di basi e non in modificazioni chimiche di queste. Il sistema di

(28)

riparazione dipende dall’esistenza di altri segnali entro l’elica che permettono di

identificare il filamento neosintetizzato, l’unico che per definizione può contenere

errori replicativi. In E. Coli, tali segnali sono forniti da una reazione di metilazione

catalizzata dalla Dam metilasi, che modifica sequenze palindromiche 5’ GATC

introducendovi un gruppo metilico nella posizione N-6 dell’adenina, permettendo così

di distinguere i filamenti parentali da quelli neosintetizzati, che verranno metilati solo

dopo un certo intervallo di tempo (Au et al., 1992). Il sistema di riparazione dei

disappaiamenti in E. Coli comprende componenti proteici diversi, che riparano gli

appaiamenti errati in prossimità della sequenza GATC in base alle regole di

complementarietà dettate dalle sequenze delle basi del filamento parentale metilato. Le

proteine che catalizzano questo processo di riparazione sono note come MutS, MutH e

MutL (Lamers et al., 2000). Il processo inizia con il legame di MutS alla zona

disappaiata e, successivamente, attraverso una reazione ATP-dipendente, con la

formazione di un complesso MutS-MutL-MutH (Allen et al., 1997). MutL è un sito di

interazione molecolare capace di legare insieme MutS e MutH. MutH, che è anche una

endonucleasi, riconosce la sequenza GATC metilata e taglia il filamento non metilato

(neosintetizzato) sul sito 5’ della base G della sequenza GATC (Junop et al., 2001). A

questo punto l’elicasi II, l’esonucleasi I e la proteina SSB-BP rimuovono il segmento di

filamento non metilato consistente nel tratto di DNA neosintetizzato compreso tra il

sito tagliato da MutH e un punto localizzato subito dopo la base disappaiata (Mechanic

et al., 2000). Infine la DNA polimerasi e la DNA ligasi provvedono alla risintesi del

filamento riparato e alla sua saldatura (Marti et al., 2002). (Figura 12).

(29)

Figura 12. Meccanismo del Mismatch repair in E. coli.

Negli eucarioti sono stati identificati sistemi analoghi di riparazione. Sia le cellule di

lievito che quelle umane codificano due complessi proteici eterodimerici omologhi alla

proteina MutS di E. Coli: MSH2-MSH6 (MutSα) e MSH2-MSH3 (MutSβ)

(Marsischky et al., 1996). Alcuni studi effettuati su fenotipi mutatori causati da

mutazioni in geni di Saccharomyces cerevisie, suggeriscono che il complesso MSH2-

MSH6 sia responsabile della riparazione di basi male appaiate e che il complesso

MSH2-MSH3 sia invece responsabile della riparazione di inserzioni o delezioni

(Kolodner et al., 1996). Una delle regioni più conservate di MSH2, MSH3, MSH6 è

una sequenza consenso ATPasica: mutazioni in questa sequenza in entrambe le

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subunità del complesso MSH2-MSH6 provocano la riduzione della loro attività ATPasica e, quindi, una diminuizione della capacità di iniziare il MMR. Tuttavia, non si sa se, la riduzione dell’attività ATPasica riduca la formazione del complesso o se aumenti la sua dissociazione (Drummond et al., 1995).

E’ stato identificato anche un complesso eterodimerico omologo a MutL, MLH1- PMS1, che interagisce con MSH2-MSH6 e MSH2-MSH3 (Prolla et al., 1994) come in E.coli. Poiché, nel sistema di riparazione eucariotico, mancano proteine omologhe a MutH, il ruolo del complesso MLH-PMS1 è anche quello di analizzare il DNA alla ricerca di tagli e di degradare il filamento inciso a partire dal sito di taglio, estendendo la propria azione oltre il sito del disappaiamento (Habraken et al., 1997).

Negli eucarioti, altre proteine sono implicate nel mismatch repair: sono state identificate la esonucleasi1, FEN1 (RAD27), la DNA polimerasi δ e ε, RPA (replication protein A), PCNA e RFC (replication factor C) (Kolodner et al., 1999).

L’esonucleasi1 ha attività 5’-3’ che è specifica per la degradazione del doppio filamento di DNA, perciò non è richiesto l’utilizzo di una DNA elicasi come invece avviene nel MMR di E. coli (Tishkoff et al., 1998).

FEN1 (RAD27) è un endo/esonucleasi che ha un ruolo importante nel processamento dell’estremità 5’ del frammento di Okazaki (Murante et al., 1995) e nella riparazione di danni di alchilazione al DNA (Barnes et al., 1996). Mutazioni in RAD27 causano difetti nel MMR (Johnson et al., 1995).

Il ruolo di PCNA nel mismatch repair non è ancora ben chiaro: alcuni studi indicano che questa proteina è implicata nell’assemblaggio di un complesso sulla base disappaiata e che quindi sia necessaria per l’inizio del MMR (Gu et al., 1998).

La perdita di funzione di questo sistema di riparazione è associata con instabilità di

microsatelliti: aumento o diminuizione nel numero di ripetizioni sono frequenti in

cellule di pazienti con cancro colon-rettale ereditario senza poliposi e con numerosi tipi

di tumori sporadici inclusi cancro del polmone, dell’endometrio, del seno, del colon,

dello stomaco e della prostata (Jackson e Loeb, 1998). (Figura 13).

(31)

Figura 13. Meccanismo del Mismatch repair negli Eucarioti.

Riparazione per escissione di nucleotidi (NER):

Con questo meccanismo si rimuovono dimeri di timina e grossi addotti indotti da

sostanze chimiche, quali benzopirene, aflatoxina o N-acetossi-2-acetylaminofluorene

(Van Hoffen et al., 2003). Difetti del NER sono la causa di diverse patologie: lo

Xeroterma pigmentoso (XP), una malattia genetica recessiva caratterizzata da

ipersensibilità alla luce solare, in particolare alle radiazioni ultraviolette; la Tricotia

distrofica (TTD), causata da un difetto in proteine che portano zolfo e che provoca

fragilità dei capelli e ritardo psicomotorio; la sindrome di Cockayne (CS), che colpisce

il sistema nervoso provocando demilienizzazione delle fibre nervose (Bootsma et al.,

1998). Alcuni studi dimostrano che otto geni appartenenti a questo sistema di

riparazione sono implicati in XP: XPA – XPG e XPV (variante XP) (Hwang et al.,

1999).

(32)

La NER è un processo complesso ma conservato ed è caratterizzato da quattro distinte tappe successive:

1. Riconoscimento del danno del DNA attraverso un complesso di proteine che include anche XPC (xeroterma pigmentosum complementary group C);

2. Svolgimento del DNA attraverso il complesso TFII che include XPD;

3. Rimozione del singolo filamento danneggiato (usualmente circa 27-30 bp) attraverso molecole che includono il complesso XPF- ERCC1 (X-ray repair cross- complementing group 1) ;

4. Sintesi del frammento eliminato attraverso DNA polimerasi;

Nelle cellule eucariotiche il processo del NER comprende più di 30 proteine diverse (Van Hoffen et al., 2003).

La riparazione per escissione di nucleotidi può avvenire secondo due diverse vie: la riparazione globale del genoma (GGR) e la riparazione accoppiata con la trascrizione (TCR).

Nella GGR il riconoscimento della lesione sul DNA avviene grazie a due complessi proteici: la proteina XPC che lega HR23B e DDB (proteina legante il DNA danneggiato), eterodimero, costituito da p48 e p127 (proteine di XPE) (Venema et al.,1991). Il complesso XPC-HR23B ha molta affinità per il DNA danneggiato legando direttamente la lesione ed è essenziale per la formazione del complesso di incisione (Volker et al., 2001).

DDB è implicato invece nella riparazione di una moderata distorsione dell’elica di DNA danneggiata. Il riconoscimento del danno del DNA da parte del complesso XPC- HR23B è facilitato dalla proteina DDB. (Datta et al., 2001).

La TCR dipende dall’attività della RNA polimerasi I e II nel guidare la trascrizione e viene usata dalla cellula preferenzialmente quando il danno è in un gene trascritto:

quando la RNA polimerasi incontra il DNA danneggiato nel filamento stampo, si

blocca perché non può usare le sequenze danneggiate come stampo per dirigere

l’appaiamento complementare delle basi (Bradsher et al., 2002). Tuttavia danni

nell’altro filamento non impediscono il progresso della RNA polimerasi. Il

riconoscimento del danno, in questo caso, dipende dal prodotto dei geni CSA e CSB.

(33)

Il gene CSB codifica una proteina di 168 kDa contenente un dominio elicasico.

Mutazioni in questa proteina potrebbero abolire la TCR e causare persistenza del blocco della RNA polimerasi dovuto al danno del DNA (Eisen et al., 1995).

Successivamente si utilizzano fattori comuni sia per la GGR che per la TCR. Un interessante aspetto della riparazione del DNA nell’uomo è la partecipazione di un ulteriore complesso enzimatico consistente di otto differenti subunità proteiche, noto come fattore generale di trascrizione TFIIH (Volker et al., 2001). Questo fattore è essenziale per l’inizio della trascrizione e per la riparazione per escissione di nucleotidi.

In effetti, due delle otto subunità di TFIIH sono le elicasi XPB e XPD, che non agiscono solo nel processo di riparazione per escissione ma catalizzano anche l’apertura del DNA necessaria per l’inizio della trascrizione (Schaeffer et al., 1993, 1994).

Il fattore TFIIH interagisce con XPC : l’intero complesso viene reclutato ad opera di XPA sul sito danneggiato, dove viene unito per mezzo dell’endonucleasi XPG. A questo punto, viene reclutata un’altra endonucleasi, XPF, che si trova in forma di complesso con ERCC1. La proteina XPG pratica il taglio a livello del terzo legame fosfodiesterico in posizione 3’ rispetto alla lesione e XPF incide a livello del 25°

legame fosfodiesterico in posizione 5’ rispetto alla lesione. Il ruolo di TFIIH è,

presumibilmente, quello di svolgere la doppia elica a livello del sito danneggiato

favorendo l’attività delle endonucleasi (Sijbers et al., 1996). Una proteina associata con

la DNA polimerasi δ, la PCNA (proliferating cell nuclear antigen) rilascia le subunità

del complesso precedentemente formatosi, insieme all’oligomero tagliato. Infine, la

DNA polimerasi δ e ε e la ligasi completano la riparazione (Shivji et al., 1992). (Figura

14).

(34)

Figura 14. Meccanismo del NER.

Riparazione per escissione di basi (BER):

La riparazione per escissione di base è importante nel rimuovere dal DNA basi modificate. I gruppi amminici di citosina, adenina e guanina possono essere perduti spontaneamente, mentre vari agenti chimici tendono a modificare le basi puriniche, per esempio metilandole oppure aprendone l’anello. L’apertura dell’anello può anche essere l’effetto dell’esposizione a radiazione ionizzanti. Anche le specie radicaliche dell’ossigeno possono modificare le basi. Le basi deaminate, metilate o ossidate, vengono allontanate per idrolisi ad opera di enzimi noti come DNA glicosilasi che creano, in questo modo, siti apurinici o apirimidinici (AP) (Lindahl et al., 1993). Un esempio è dato dalla formazione dell’8-oxo-7,8-diidroguanina (8oxoG) che è il più stabile prodotto del DNA danneggiato da specie reattive dell’ossigeno. Una specifica DNA glicosilasi, OGG1, rimuove l’8-oxoG dal DNA (Bjoras et al., 1997). E’

necessario inoltre che la glicosilasi MYH corregga l’appaiamento errato dell’ adenina

con l’8-oxoG che si può verificare dopo la replicazione a causa della persistenza della

guanina modificata (Slupska et al., 1996). I siti AP vengono generati anche in assenza

(35)

di DNA glicosilasi, come nel caso dell’idrolisi spontanea delle purine (depurinazione), una reazione frequente nel DNA (Loeb et al., 1986).

Una volta che è stato prodotto un sito AP, l’enzima AP endonucleasi (APE1) taglia idroliticamente, attraverso un meccanismo Mg

2+

-dipendente, lo scheletro fosfodiesterico a livello del sito depurinizzato eliminando il residuo zucchero fosfato e lasciando un gruppo 3’idrossilico e un gruppo 5’deossiribosio fosfato (dRP) fiancheggiante il taglio nucleotidico (Aspinwall et al.,1997).

Dopo l’incisione, la poly (ADP-ribosio) polimerasi (PARP-1) lega il sito abasico sostituendosi all’endonucleasi AP, proteggendo il DNA tagliato dalla degradazione e dalla ricombinazione (Lindahal et al., 1995).

A questo punto, la riparazione del DNA può seguire due diverse vie che coinvolgono enzimi diversi e possono sostituire uno (short-patch pathway) o più (long-patch pathway) nucleotidi (Lindahal et al., 1999).

Entrambe le vie richiedono l’utilizzo della DNA polimerasi, la quale aggiunge un nucleotide all’estremità 3’ del DNA tagliato (Podlutsky et al., 2001). Nel caso di un normale sito AP, è coinvolta la DNA polimerasi β (Pol β ), che rimuove anche il gruppo 5’ zucchero-fosfato (Matsumoto et al., 1995), permettendo al complesso DNA ligasi III/XRCC1 di legare le estremità del DNA per completare lo “short-patch pathway”. In questa via la Pol β ha un ruolo importante e entrambe le attività, DNA polimerasica e dRP ligasica, sono essenziali e non possono essere sostituite da altri enzimi cellulari (Podlutsky et al., 2001).

Nello ” short” e nel “long-patch” sono implicate due diverse DNA polimerasi (Frosina et al., 1996): infatti, nel “long-patch pathway”, dopo che la Polβ ha addizionato il primo nucleotide, viene sostituita dalle polimerasi δ e ε le quali continuano la riparazione (Dianov et al., 1999). Queste DNA polimerasi richiedono, per una sintesi efficiente, la proteina PCNA con la quale formano un complesso capace di riconoscere il nucleotide aggiunto precedentemente dalla Pol β. In questo caso, il gruppo 5’-dRP viene rimosso dalla proteina FEN1, prima che il DNA venga saldato dalla DNA ligasi 1 (Dianova et al., 2001).

Sono state dimostrate molte interazioni tra le proteine che partecipano alla riparazione

per escissione di basi: APE1, quando si lega al DNA, interagisce fisicamente anche

con XRCC1 (Vidal et al., 2001), FEN1 and PCNA (Dianova et al., 2001; Masson et

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al., 1998). La proteina XRCC1, inoltre, interagisce con la DNA polimerasi β e con APE1 (Whitehouse et al., 2001). Infine FEN1 e la DNA ligasi 1 interagiscono con PCNA e APE1 (Montecucco et al., 1998).

Poiché non tutte le proteine del BER interagiscono direttamente, PCNA e XRCC1 risultano essere “l’impalcatura” rispettivamente nel “long-patch” e nello “short-patch”

(Cox et al., 1997; Cappelli et al., 1997).

E’ interessante evidenziare che non si conosce nessuna malattia umana causata da un difetto della riparazione per escissione di basi. Forse un tale difetto sarebbe letale.

Infatti, con questo meccanismo, viene corretta la maggior parte dei più comuni tipi di danni al DNA. (Figura 15).

Figura 15. Meccanismo di riparazione per escissione di basi.

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Riparazione postreplicativa.

I processi di riparazione presentati fino a questo momento vengono utilizzati quando il danno al DNA è su uno dei due filamenti e utilizzano l’altro filamento complementare come stampo per riparare il danno; questo si verifica prima che la replicazione del DNA lo trasformi in una mutazione permanente.

Questo sistema di riparazione, invece, è necessario per correggere rotture a doppio filamento causate da errori durante la replicazione e da agenti esogeni come radiazioni ionizzanti (Goode et al., 2002 ). Errori in questo tipo di riparazione, oltre a generare piccole delezioni o inserzioni, possono anche provocare traslocazioni cromosomiche e instabilità genomica (Elliot e Jasin, 2002).

Esistono due diversi tipi di riparazione di del doppio filamento: Homologous recombination repair (HRR) e nonhomologous end-joining (NHEJ). Un terzo tipo, single-strand annealing (SSA), condivide alcuni componenti con il NHEJ e con il SSA.

NHEJ ha un ruolo importante nella mitosi e durante la fase G1 e S del ciclo cellulare al contrario HRR risulta essere più importante nella meiosi e durante la fase S tardiva e la fase G2 del ciclo cellulare (Lee et al., 1997).

Nonhomologous end-joining (NHEJ):

Le proteine implicate in questo sistema di riparazione sono: KU, DNA-PKcs, DNA ligasi IV, XRCC4 (Chu, 1997) e probabilmente la DNA polimerasi µ e la polinucleotide chinasi/fosfatasi (PNKP) (Chappell et al., 2002; Huang and Dynan, 2002; Zhong et al., 2002), la tirosil-DNA fosfodiesterasi (TDP1) (Inamdar et al., 2002) e APE1 (Demple e Harrison, 1994).

La rottura del DNA, provocata da radiazioni ionizzanti, produce due doppi filamenti, di cui uno di questi avrà l’estremita 3’, in prossimità del sito di taglio, bloccata da un gruppo fosfoglicolato (PG), e l’altro avrà invece un terminale 3’fosfato e un terminale 5’- fosfato (Isildar et al., 1981).

E’ possibile riparare accuratamente questa rottura con un meccanismo che comprende

la rimozione del gruppo che blocca il 3’, la ristrutturazione del gruppo 5’ fosfato ,

appaiando i nucleotidi complementari, e il legame di essi.

(38)

Il primo stadio del NHEJ è costituito dal legame di KU, eterodimero formato dalle due subunità KU70 (70 kDa) e KU80 (86 kDa), alle estremità del DNA tagliato (Walker et al., 2001); l’azione combinata di altre due proteine, TDP1 e PNKP permette la rimozione del 3’ fosfoglicolato e del 3’ fosfato. A questo punto, KU recluta la DNA- PKcs, con la quale forma un complesso (DNA-PK) capace di fosforilare altre proteine che legano il DNA (Anderson and Lees-Miller, 1992). DNA-PKcs promuove la giustapposizione delle estremità del DNA e fosforila se stessa favorendo il suo rilascio dal DNA (Chan e Lees-miller, 1996).

Infine, si forma un complesso costituito da KU, XRCC4, DNA ligasi IV e DNA polimerasi (probabilmente la Pol µ), che catalizza l’allineamento delle basi e il loro legame, completando il processo di ripazione (Valerie e Povirk, 2003; Sibanda et al., 2001). (Figura 16).

Figura 16. Nonhomologous end-joining (NHEJ):

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Single-strand annealing (SSA):

.La SSA inizia presumibilmente con la generazione di sporgenze a singolo filamento su entrambe le doppie eliche di DNA che si sono formate dopo la rottura. Tale processo è dovuto all’azione del complesso MRN e di altre nucleasi, che degradano, in direzione 3’-5’, i filamenti opposti di DNA in prossimità del sito di rottura. Queste sporgenze vengono riconosciute dalle proteine Rad52 e RPA che appaiano le basi complementari dei filamenti opposti, dopo che le protuberanze terminali sono state eliminate dal complesso ERCC1/ XPF. A questo punto una ligasi ripristina il normale legame delle basi (Adair et al., 2000) (Figura 17).

Figura 17. Single-strand annealing (SSA):

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