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CAPITOLO 4

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OSTITUZIONE”

4.1 SI PUO’ MODIFICARE L’ART. 138COST?

Le modifiche, così come gli stessi interventi derogatori, nei confronti dell’art. 138Cost. sono certamente un aspetto molto delicato, che ha suscitato da sempre grande interesse. In particolare, ci si è chiesti se fosse o meno possibile intervenire, andando a modificare il testo dell’art. 138Cost, variando quindi in modo, più o meno aggravato, il procedimento di revisione costituzionale previsto da questo articolo. Tra le varie componenti del testo costituzionale, le formule di revisione, ossia, appunto le modalità previste per apportare una modifica dello stesso testo, rappresentano una vera e propria proiezione del potere e della volontà costituente, considerata da molti, proprio per questo motivo, come la parte che più rapidamente invecchia del testo costituzionale, necessitando di continui aggiornamenti: tale schieramento sostiene, infatti, che il progressivo mal funzionamento dell’art. 138Cost. sia un aspetto genetico e necessario, nel senso che il procedimento ex art. 138Cost. fu concepito in un momento di convergenza unitaria delle concezioni costituzionali, e presuppone quindi come sempre esistente tale convergenza tra le forze politiche53. Tuttavia col passare del tempo, si dovrà

necessariamente verificare il naturale mutamento dei rapporti politici, e proprio tale mutazione farà venir meno tutti quegli equilibri e quella convergenza unitaria, su cui appunto l’originaria disciplina dell’art. 138Cost. poneva le proprie basi.

53 S. Panunzio, “Riforma delle istituzioni e partecipazione popolare”, Pag. 557: tratta sulle cause del difficile utilizzo dell’art. 138, nell’allontanarsi dal momento costituente e al continuo mutare dei rapporti politici

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106 È proprio in quest’ottica, che più volte nell’esperienza repubblicana, e in particolare nel 1993 e nel 1997, ritenendo la procedura ex art. 138Cost. obsoleta e quindi inefficace, si è pensato di percorrere vie alternative, derogatorie, per giungere all’approvazione di riforme, in particolare organiche, della Costituzione, ritenendo la via della modifica o della deroga, proprio l’unica alternativa rispetto all’ormai irriproducibile compromesso costituente.

Tuttavia, la corrente opposta, che ritiene illegittima qualsiasi modifica allo stesso procedimento di revisione, sostiene che proprio tale possibilità di modifica incontra due ordini di difficoltà, uno di tipo pratico, uno di tipo teorico.

Anzitutto, sul piano pratico, è assai difficile che, laddove non si riesca a trovare l’accordo per realizzare le revisioni della Costituzione ritenute necessarie, si sia, invece, in grado di raggiungere un compromesso, ben più delicato, sulla modifica della formula di revisione costituzionale: in un sistema bloccato, che non riesce a decidere, è assai improbabile che si possa assumere una decisione così centrale, così rilevante, per la forma dell’unità politica quale quella relativa alla modifica della disciplina ex art. 138Cost.

Molto probabilmente, infatti, in uno scenario politico caratterizzato da equilibri tali da riuscire a prendere questa importante decisione, sarebbe possibile anche raggiungere il compromesso su singole ipotesi di revisione.

Sul piano teorico, l’aggiornamento della formula di revisione costituzionale al fine di adeguarla alla evoluzione dei rapporti politici in continua mutazione tra i soggetti dell’ordinamento incappa nel celebre “Paradosso di Ross”, riguardo alle norme giuridiche autoreferenziali.

Secondo l’originaria impostazione di questo autore, poiché le regole del mutamento di una norma appartengono naturalmente al presupposto di questa, ne consegue che la regola che stabilisce le condizioni del mutamento si colloca ad un livello di efficacia superiore a quello della norma da modificare.

Egli considera la norma sulla revisione come la vera norma fondamentale dell’ordinamento, nella quale si incarna il potere costituente stesso, per cui ogni alterazione di tale formula comporterebbe una nuova manifestazione del potere costituente. Ogni modifica, dunque, della formula di revisione, sia che questa avvenga conformemente appunto alle stesse regole di revisione, oppure attraverso procedure alternative, comporterebbe necessariamente, la nascita di un nuovo ordine giuridico, creato in virtù di un nuovo esercizio del potere costituente, che va automaticamente a sostituirsi al precedente: ed è per questo che ogni intervento di modifica sarebbe da ritenersi assolutamente illegittimo. Il tema dei limiti alla revisione della formula di revisione costituzionale, vivo da molti anni nella dottrina italiana, e che ha trovato particolare approfondimento a seguito del messaggio alle Camere del Presidente della Repubblica del 26 giugno 1991, sulle riforme istituzionali e sulle procedure idonee a realizzarle, ha letteralmente spaccato la dottrina stessa in due correnti fortemente

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107 contrapposte: secondo la maggior parte degli autori, i quali respingono il paradosso di Ross, la modifica dell’art. 138Cost. attraverso la procedura in esso prevista sarebbe ammissibile, purché nel rispetto del principio di rigidità, con la conseguenza che risulterebbe ammissibile non solo un aggravamento delle stesse procedure di revisione, ma addirittura l’abrogazione dello stesso art. 138Cost.54;

altri, invece, sostengono che non solo il principio di rigidità, ma tutte quelle regole che danno concretezza a questo stesso principio, siano parte integrante del patto costituzionale e non possano, quindi, essere toccate senza incidere sul patto stesso: in tale prospettiva, dunque, dovrebbero essere considerati elementi non rivedibili dell’art. 138Cost, alcuni elementi di rilievo fondamentale, come per esempio il “carattere parlamentare della procedura” (evidenziato anche dalla Corte costituzionale con la sentenza 496/2000), così come la presenza degli strumenti previsti a tutela delle minoranze55.

4.2 LA DEROGA ALL’ART. 138COST.

Perché, in particolare a partire dagli anni ‘90, si è più volte sentita la necessità, in sede di revisione della Costituzione, di fare ricorso a percorsi diversi, derogatori rispetto al procedimento delineato dall’art. 138Cost.?

Per rispondere a questa domanda, e per cercare, dunque, le motivazioni che hanno spinto verso scelte alternative, è sicuramente necessario fare un passo indietro.

Partendo dalle origini della nostra Costituzione, in Assemblea Costituente, durante il dibattito sull’art. 130 del progetto di Costituzione, risultò fondamentale il richiamo ad un “criterio di ragionevolezza” e alla necessità di una soluzione, la quale, incentrata su un procedimento “rallentato/raffreddato” non avesse condotto ad un eccessivo ruolo delle minoranze. Il tema centrale del dibattito era proprio la necessità di trovare, come sostenuto da Perassi, un equilibrio stabile, un contemperamento tra rigidità formale e rigidità assoluta56.

54 Così, ad es., Sandulli, “Fonti del diritto”, in Novissimo digesto, VII, Torino, 1961, Pag. 527; Modugno, “Il problema dei limiti alla revisione costituzionale”, in “Giurisprudenza costituzionale”, 1992, Pag. 1649 e ss.; Ruggeri, “Fatti e norme nei giudizi sulle leggi e le “metamorfosi” dei criteri ordinatori delle fonti”, Torino,1994; Panunzio, “Riforma delle istituzioni e partecipazione popolare”, Pag. 564; Cuocolo, intervento nel dibattito sul messaggio presidenziale del 26 giugno 1991, in “Giurisprudenza costituzionale”, 1991; Luciani, intervento nel dibattito sul messaggio presidenziale del 26 giugno 1991; Resta poi distinta la posizione di Contini, 1971, secondo il quale è ammissibile qualunque modifica all’art.138, anche la sua abrogazione.

55 Già Mortati aveva sottolineato la necessità di “valutazioni da effettuarsi di volta in volta, con riferimento ai valori ai quali esso (il mutamento delle norme sulla revisione) è collegato”. 56Perassi, nella seduta dell’Assemblea costituente del 3 dicembre 1947 affermava: “Si tratta … di contemperare questi due concetti: da una lato la rigidità della Costituzione, e dall’altro la sua non immodificabilità. Questi due criteri determinano il problema legislativo che dobbiamo ora risolvere”.

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108 La soluzione tecnica adottata, ovvero il procedimento aggravato ex art. 138Cost., conduceva alla garanzia della posizione delle minoranze come carattere naturale, la quale però non era affatto l’obiettivo maggiore perseguito, ma anzi fu subito percepito come un connotato da moderare. Né, tuttavia, sembravano immaginabili meccanismi opposti, ovvero idonei a troncare in radice il ruolo delle minoranze parlamentari nella garanzia della rigidità. In alternativa, infatti, si giunse, per esempio, a proporre l’introduzione in Costituzione del divieto, a carico del Presidente della Repubblica, di promulgare leggi incostituzionali, ma si convenne che una siffatta soluzione avrebbe condotto ad un diverso, ma egualmente non desiderabile, eccesso di ruolo: proprio quell’eccesso di ruolo che si voleva negare al corpo elettorale, in tal modo sarebbe stato attribuito al Capo di Stato, il quale avrebbe potuto incidere impropriamente sulle dinamiche della decisione politica attraverso l’uso strumentale di un potere volto alla garanzia della rigidità57.

Si venne così a delineare un procedimento legislativo parlamentare contrassegnato dalla tecnica dell’aggravamento, ma destinato ad essere applicato secondo alcune varianti, soprattutto in ragione dell’alternativa approvazione a maggioranza assoluta o qualificata, la cui armonia con il tessuto costituzionale sarà funzione delle formule elettorali, della fase storicamente determinata della forma di governo, dello specifico assetto partitico, della dimensione della revisione (puntuale, parziale, organica).

Ma, a prescindere dalle variabili in campo, non potrà, in ogni caso, alterarsi il punto di equilibrio tra esercizio della sovranità popolare attraverso i propri rappresentanti ed esercizio diretto di essa, poiché, nel modello delineato dalla Costituzione, il procedimento di revisione non è mai squilibrato verso la prevalenza della volontà popolare diretta e, dunque, non è mai aperto a esiti plebiscitari.

Il potere di revisione, infatti, è soprattutto un potere parlamentare. Ma qualora il Parlamento non si mostrasse in grado di deliberare con un’ampia maggioranza, lo spostamento del potere di revisione verso l’intervento diretto del popolo, che può valere sia come “proiezione” della garanzia delle minoranze soccombenti nel processo di decisione parlamentare sia come “legittimazione integrativa” della maggioranza ristretta coagulatasi in Parlamento, è sempre limitato dalle severe cautele previste dall’art. 138Cost. e in particolare dai presupposti necessari per la consultazione referendaria (approvazione a maggioranza assoluta; necessaria iniziativa referendaria da parte di minoranze parlamentari o da rappresentanze politiche regionali, o anche da un quorum di elettori).

È in questo punto di equilibrio tra deliberazione parlamentare e deliberazione popolare diretta che va individuato il nucleo intangibile e inderogabile dell’art. 138Cost.

57 Così Perassi, nel richiamo a un emendamento Preti: “Al Presidente spetta solo di accertare che, trattandosi di una legge costituzionale, questa sia stata votata secondo il procedimento stabilito dalla Costituzione. Ma, ciò posto, conviene arrivare a inserire espressamente nella Costituzione una disposizione che vieti al Presidente di far uso di questa facoltà? Io ritengo che non sia il caso di fare questa inserzione…Mi pare che sia una questione estremamente delicata, da lasciare alla prassi costituzionale”.

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109 Tale nucleo va necessariamente definito concettualmente, poiché solo la sua determinazione consente un giudizio giuridicamente fondato sugli orientamenti volti a «semplificare» la «riforma» della Costituzione, distinguendo quanto è potere di revisione da quanto è invece da considerarsi come eversione e dissoluzione dell’ordinamento costituzionale.

Nelle travagliate stagioni della storia repubblicana, del punto di equilibrio definito dall’art. 138Cost. è stata più volte prospettata, e anzi spesso invocata come unica ancora di salvezza, la c.d. rottura, attraverso, appunto, la previsione di una via derogatoria all’art. 138Cost.

In particolare, si è fatto riferimento a tale “ancora di salvataggio”, ogni qual volta, sotto l’impulso di una profonda “crisi di sistema”, dalla quale, appunto, si venuto ad originare quel desiderio di “riforma”58

della Costituzione, la norma costituzionale sulla revisione è stata presentata come un ostacolo insormontabile, uno strumento inadeguato, ritenuto come il residuo di una fase trascorsa e precedente alla crisi del sistema partitico e istituzionale italiano.

Questa inadeguatezza, quindi, si è fatta sentire soprattutto nei momenti in cui, a causa di una radicata crisi politico-istituzionale, si sia venuti a sentire il bisogno di una profonda ed incisiva revisione organica della Costituzione, revisione per la quale, a causa della cui ampiezza, è apparso assolutamente inidoneo il procedimento aggravato ex art. 138Cost., spingendo allora verso l’adozione di procedimenti derogatori.

È proprio in virtù di questa particolare necessità che si è giunti ad immaginare altri orizzonti, altre prospettive, con lo specifico scopo di lasciare spazio ad una nuova Costituzione, da costruire mediante l’appello diretto al popolo. Già dagli anni ‘80 cominciarono a delinearsi i primi tentativi di intervento alternativo (ne sono esempio i Comitati di studio Ruiz e Bonifacio costituiti previa intesa tra i Presidenti delle due Camere parlamentari e la “Commissione Bicamerale Bozzi” del 1983), ma, in particolare, a tale logica si ispirò il messaggio del Presidente Cossiga del 26 giugno 1991, con il quale si propose di sottoporre a revisione, anzitutto, lo stesso art. 138Cost., al fine di rendere necessario il referendum, sia che si volesse istituire una nuova assemblea costituente sia che si volesse attribuire il potere di “riforma” alle Camere, per statuire “anche in deroga ai limiti espressi o inespressi che si ritenessero essere contenuti nella Costituzione del 1948”.

Anche se questo si dimostrò solo un primo tentativo assolutamente velleitario, dunque, destinato al fallimento, rivelò tuttavia il diffondersi di una vera insofferenza nei confronti di quell’equilibrio pendente a favore della sponda parlamentare conseguito con l’art. 138Cost., con cui si va ad oscurare l’idea che la “sovranità popolare” si affermi nella maniera più genuina e compiuta proprio con la pronuncia diretta del popolo, (pronuncia, appunto, non prevista come obbligatoria dall’art. 138Cost).

58 Da porre in evidenza l’uso del termine “riforma”, e non “revisione”: la traslazione linguistica, che tornerà in particolare anche nel d.d.l. cost. n. 813, si effettua con l’intendimento di dare l’idea della grande dimensione degli interventi proposti.

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110 L’insofferenza verso una mancata previsione di un intervento a carattere necessario del corpo elettorale, si svilupperà in particolare, producendo importanti effetti, nel 1993 quando con la L.Cost. 1/1993 fu istituita la “Commissione De Mita-Iotti” e nel 1997, quando con la L.Cost. 1/1997 fu istituita la “Commissione parlamentare per le riforme costituzionali” presieduta da D’Alema.

In entrambe le occasioni, in cui, tra l’altro, si è previsto un procedimento parzialmente derogatorio rispetto al procedimento di revisione costituzionale ordinario, si è saldamente affermata l’idea secondo cui, non solo una Costituzione deve prevedere il procedimento per il proprio cambiamento normativo, ma deve, al contempo, garantire la partecipazione diretta del popolo, attraverso la decisione, l’esecuzione e il controllo del mutamento medesimo, risultando quindi fondamentale l’istituto giuridico del referendum, rappresentando quest’ultimo proprio lo strumento attraverso cui rendere possibile l’intervento del popolo, ritenuto necessario.

Nonostante il diffondersi di tale tesi, e i vari tentativi effettuati in tal senso, il totale fallimento dell’esperienza di entrambe le commissioni, comportarono l’abbandono della strada derogatoria negli immediati anni successivi, dove venne nuovamente intrapresa, al contrario, la strada prevista in via ordinaria dall’art. 138Cost., come dimostra anche l’avvenuta revisione del Titolo V della II parte della Costituzione del 2001, e la “grande” riforma dell’intera II parte della Costituzione del 2005-2006, poi non confermata dal corpo elettorale attraverso il referendum costituzionale.

Ma tale corrente, tuttavia, non svanì del tutto: la tesi sostenitrice del “rafforzamento del principio di sovranità popolare”, si è fatta nuovamente spazio molto recentemente, nel 2013, quando è stato elaborato il discusso d.d.l. cost. n. 813, con cui si è provato ancora una volta ad introdurre un processo alternativo a quello di revisione costituzionale, caratterizzato, in particolare, dalla possibilità di chiedere il referendum “anche qualora le leggi di revisione costituzionale fossero approvate con una larga maggioranza parlamentare”.

Come il tema sulla possibilità di apportare modifiche alla disciplina prevista dall’art 138Cost., anche il delicato problema sulla possibilità o meno di introdurre percorsi derogatori allo stesso articolo ha suscitato molte discussioni.

Ancora una volta, da un lato è possibile fare riferimento a quella parte della dottrina che parte dal presupposto della tesi sostenuta da Alf Ross, secondo la quale, un progetto derogatorio, introdotto che sia da una legge costituzionale o da un disegno di legge, dovrebbe comunque considerarsi illegittimo, perché diretto a modificare una procedura di revisione costituzionale, quella appunto sancita dall’art. 138Cost., che, invece, in quanto logicamente sovraordinata alla stessa Costituzione, dovrebbe restare esclusa da ogni intervento di revisione. In linea con la posizione, quindi, le deroghe “una tantum”, ossia temporanee, previste col fine di consentire modifiche alle quali, altrimenti, sarebbe molto più complesso pervenire, sarebbero da considerare assolutamente inammissibili, configurando queste una vera frode alla Costituzione, attraverso l’aggiramento, dettato in quel preciso

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111 momento da ragioni politiche contingenti, delle norme sulla revisione costituzionale.

I sostenitori di questa tesi non si limitano alle teorie di Ross, e in particolare fanno riferimento ad un’altra questione delicata, quella della forma di stato. Una volta riconosciuto che nella formula di revisione si specchia la forma di Stato, in quanto in essa si riflettono le forze fondatrici della Costituzione, una qualsiasi modifica o deroga alla formula di revisione prevista, tale da mutare il quadro di riferimento delle forze a cui è chiesto il consenso per cambiare la Costituzione, potrebbe comportare un mutamento della forma di Stato stessa, e sembrerebbe proprio questo il rischio insito nelle stesse procedure di revisione introdotte, in deroga all’art.138 Cost., con le due leggi costituzionali del 1993 e1997.

Esse, infatti, soprattutto poiché rendono obbligatorio il referendum sulla legge di revisione, potrebbero deformare la natura pattizia della Carta costituzionale, “consentendo che le riforme vengano deliberate dalla sola maggioranza parlamentare e confermate dalla sola maggioranza elettorale”, andando quindi a interferire su quell’equilibrio tra intervento parlamentare e intervento popolare delineato dal Costituente.

In altri termini, il problema della modifica o della deroga delle formule di revisione costituzionale, non sembrerebbe tanto un problema di “limiti formali” alla revisione, ma attiene pienamente al piano dei “limiti sostanziali”, al contenuto del testo costituzionale come un prodotto tipico e irripetibile, e quindi immodificabile, del potere costituente. Per questo motivo, tutte le volte in cui si applica un intervento derogatorio o una modifica complessiva della formula di revisione, che non costituisca dunque un semplice ritocco, si va necessariamente ad incidere su quel nucleo intangibile della Costituzione stessa, voluto dai Costituenti, il cui cambiamento determinerebbe, anche se operato secondo le forme legali, un vero e proprio nuovo esercizio del potere costituente, ovvero un esercizio di tale potere considerato illegale ed inammissibile.

Tuttavia, questi tesi, ponendosi contro ogni intervento derogatorio, secondo molti autori, a causa della sua assolutezza, non può essere accolta, ed anzi è stata rigettata dai più autorevoli costituzionalisti del nostro paese (Mortati, Crisafulli, Paladin ed altri ancora), soprattutto in quanto, da un lato, le norme sul procedimento di revisione sarebbero da considerare (al contrario di quanto sostenuto da Ross) gerarchicamente e materialmente pari-ordinate, e non sovraordinate, alle altre norme costituzionali, e, dall’altro, perché detta tesi porterebbe all’effetto paradossale di impedire anche modifiche in melius, dirette a rafforzare la rigidità costituzionale, a rendere cioè meno agevoli le modifiche della Carta.

Con ciò, ovviamente, tali autori, non vogliono sostenere l’ipotesi completamente opposta, ossia quella della “assoluta modificabilità” dell’art. 138Cost.

Questi, infatti, intendono sostenere una posizione intermedia, secondo cui una deroga a tale articolo, se, da un lato, viene riconosciuta come legittima, soprattutto perché rappresenta uno strumento dal carattere meno invasivo rispetto ad una radicale modifica, dall’altro è da

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112 considerare come tale (legittima) solo a certe condizioni, ed in particolare trova, in ogni caso, un limite invalicabile, seppur inespresso, nel rispetto di particolari princìpi, senza i quali la garanzia della rigidità costituzionale diverrebbe irrealizzabile, quali, ad esempio, la pubblicità, la trasparenza, la discussione, la parlamentarizzazione, ovvero principi tutti espressivi dell’effettività della partecipazione democratica.

4.3 I CONCRETI TENTATIVI DI DEROGA

Come già esposto in precedenza59, spesso e volentieri, per

l’introduzione di modifiche costituzionali, è stata in concreto intrapresa la via derogatoria rispetto al percorso aggravato delineato dall’art. 138Cost.

A partire dagli anni ‘8060, sono molti i casi in cui si è cercato, tra l’altro

senza mai ottenere un risultato concreto e positivo, di giungere all’approvazione di una revisione costituzionale attraverso un procedimento derogatorio, proprio perché, in quel determinato contesto, era stato ritenuto inadatto il procedimento di revisione costituzionale “ordinario”. Qui di seguito vengono analizzati i casi più rilevanti in cui si è preferito, appunto, agire in via derogatoria.

1983 – Commissione Bicamerale Bozzi

Questa prima esperienza in realtà non rappresenta una vera ipotesi di deroga al procedimento di revisione di cui all’art. 138Cost., ma risulta molto significativa in quanto, per la prima volta, fu prevista la composizione di una specifica Commissione interparlamentare con la precisa funzione di elaborare un progetto organico di revisione del testo costituzionale. Una scelta particolare, quella di formare una Commissione ad hoc, che verrà ripresa soprattutto negli anni ‘90, caratterizzando i due più rilevanti tentativi di deroga verificatesi dal 1948 ad oggi.

L’Italia, nel periodo a cavallo tra gli anni ‘70 e gli anni ‘80, presentava una scena politica molto particolare, dove a farla da padrone erano soprattutto la fortissima instabilità di governo, che rendeva i vari esecutivi molto deboli e destinati a “morire” in brevissimo tempo, nonché il c.d. “multipartitismo estremo” in Parlamento, considerato proprio la principale causa della stessa instabilità.

Questo particolare scenario politico, assolutamente fallimentare, creò il rapido diffondersi di una particolare volontà, ovvero quella di cercare, quanto prima, di modificare l’intero sistema costituzionale che si era venuto a creare grazie alle disposizioni costituzionali del 1948, rivelatesi, nel tempo, del tutto inefficaci.

59 Cfr. Cap. 1; paragrafi 1.6.3 e 1.6.4.

60 Negli anni ‘80, come già detto precedentemente, hanno rappresentato, tra gli altri, particolari interventi alternativi per la preparazione di un progetto di lette costituzionale, i due Comitati di studio Ruiz e Bonifacio, costituiti previa intesa tra i Presidenti delle due Camere parlamentari.

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113 Se quindi, da un lato cominciarono a svilupparsi correnti che si ponevano il semplice obiettivo di una razionalizzazione del regime parlamentare, lasciandone quindi inalterati gli aspetti e gli elementi fondanti (compreso il sistema elettorale), da raggiungere attraverso alcune determinate modifiche puntuali, dall’altro, cominciò a diffondersi quella corrente che si poneva un obiettivo molto più ampio, mirando, infatti, ad alterare, o meglio a stravolgere l’intero sistema politico, attraverso un grande intervento di riforma costituzionale ed istituzionale, colpendo dunque gran parte dello stesso testo costituzionale.

Una volta che, in sede parlamentare, fu accolta questa seconda prospettiva, si pensò inoltre di percorrere per la prima volta una via particolare, caratterizzata dalla presenza di un nuovo istituto, che sarebbe divenuto il principale protagonista del processo di revisione costituzionale, ovvero una “Commissione parlamentare per le riforme istituzionali” formata in seno alle due Camere.

Così, nel settembre 1983, fu istituita la prima Commissione bicamerale, presieduta dal deputato e costituzionalista liberale Aldo Bozzi.

La "Commissione Bozzi" è composta, oltre che dal Presidente designato, da venti deputati e venti senatori, nominati dai Presidenti dei due rami del Parlamento, in modo da rispecchiare la proporzione tra i gruppi parlamentari e rappresenta il primo organismo bicamerale appositamente creato per affrontare il tema delle revisione costituzionale.

Le sue attività, almeno inizialmente, non furono particolarmente agevoli: il 14 aprile del 1983, Camera dei Deputati e Senato della Repubblica approvarono due analoghi documenti61 attraverso cui

prevedano appunto la costituzione di una Commissione Bicamerale con il compito di “formulare proposte di riforme costituzionali e legislative, nel rispetto delle competenze istituzionali delle Camere e senza interferire sull'iter delle attività legislative in corso, su oggetti maturi ed urgenti, quali la riforma delle autonomie locali, l'ordinamento della Presidenza del Consiglio, la nuova procedura dei procedimenti d'accusa".

Tuttavia, lo scioglimento anticipato delle Camere impedì di dare avvio alle attività della Commissione, che però non dovette comunque aspettare molto, in quanto già durante la successiva IX legislatura, nelle sedute del 12 ottobre 1983, sia la Camera sia il Senato, consapevoli dell’importanza e della delicatezza della questione, approvarono nuovamente due mozioni di analogo contenuto con le quali andavano a rinnovare la precedente deliberazione.

Secondo il programma iniziale la Commissione avrebbe dovuto presentare le sue conclusioni ai Presidenti delle due Camere entro un anno dalla sua prima seduta, tenutasi il 30 novembre 1983. Tuttavia, quando il termine stava per scadere, nelle sedute del 28 e del 29 novembre 1984, rispettivamente, la Camera dei Deputati e il Senato della Repubblica prorogavano il termine per la presentazione della relazione conclusiva della Commissione, che scadeva, appunto, il 30 novembre, di ulteriori sessanta giorni.

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114 Terminata la discussione preliminare di carattere generale, prima dalla Commissione e poi dall’'Ufficio di Presidenza, (allargato ai rappresentanti dei gruppi, costituito in gruppo di lavoro con il compito di esaminare le proposte che il Presidente avrebbe poi sottoposto alla Commissione plenaria per le scelte definitive), furono minuziosamente affrontati ed esaminati tutti i temi “caldi” concernenti il Parlamento, il Governo, le fonti normative, il Presidente della Repubblica, i partiti, il sistema elettorale.

I lavori, che si articolarono in una cinquantina di sedute plenarie, terminarono, grazie alla suddetta proroga, nel gennaio 1984, e la relazione finale fu presentata da Bozzi alle Camere il 29 gennaio 1985. La relazione finale, che prevedeva nel suo complesso la revisione di ben 44 Articoli della Costituzione, fu approvata dai membri della commissione rappresentanti dei partiti DC, PSI, PRI, PLI, con l'astensione dei rappresentanti dei gruppi comunista e socialdemocratico, ed il voto contrario dei gruppi MSI-DN, Sinistra indipendente, Democrazia Proletaria e Union Valdotaine.

Purtroppo, questa prima esperienza fallì il proprio obiettivo, in quanto il concreto avvio da parte delle due Camere dell’esame relativo alla relazione presentata dalla Commissione bicamerale dipendeva concretamente dall'iniziativa dei gruppi politici in Parlamento, che però non riuscirono a raggiungere un sufficiente accordo in merito, tanto che le proposte della Commissione una volta assegnate alla Commissione Affari costituzionali della Camera, non furono mai sottoposte ad esame da parte di quest’ultima.

Tuttavia, se da un lato, è vero che nell’immediato i lavori della Commissioni non produssero effetti particolari a causa della mancata discussione in seno alle due Assemblee, dall’altro tali risultati saranno molto importanti negli anni a venire, in quanto saranno più volte ripresi come punto di partenza in sede di successive proposte di modifica.

Per quanto riguarda i risultati raggiunti, ed in particolare le proposte di revisione effettuate, la Commissione suggerì:

Composizione delle due Camere: anzitutto, si prevede per entrambe le Camere una riduzione del numero dei parlamentari. Per quando la Camera dei Deputati la modifica principale è quella che colpisce l’art. 56Cost. prevedendo che la ripartizione dei seggi tra le circoscrizioni si effettui dividendo il numero degli abitanti della Repubblica, in base all'ultimo censimento, per il numero dei seggi da assegnare, anziché per il numero fisso di 630. Per quel che riguarda il Senato si prevede, col nuovo testo dell'art. 57Cost., che possano diventare senatori di diritto e a vita anche gli ex Presidenti delle Camere per almeno una legislatura e gli ex Presidenti della Corte Costituzionale per almeno un mandato presidenziale. Inoltre, con l’abrogazione dell’art. 59Cost., si limita il numero complessivo dei senatori a vita ad otto. Infine, con il nuovo testo dell'art. 69Cost., si afferma che il legislatore dovrà prevedere una disciplina dettagliata sulla democrazia interna ai partiti, e quindi in relazione agli statuti, alle elezioni primarie, nonché ai limiti delle spese che i candidati potranno affrontare in sede di campagna elettorale.

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Funzione Legislativa: si prevede un’importante correzione del bicameralismo perfetto tramite la previsione di funzioni differenziate tra le due Assemblee e l’introduzione del c.d. principio del "silenzio-assenso”. In particolare, quindi, tale funzione verrà esercitata in modo congiunto, da entrambe le Camere solo per alcune determinate tipologie di leggi, tra le quali si possono elencare ad esempio le leggi costituzionali ed elettorali, le leggi sull'organizzazione ed il funzionamento delle istituzioni costituzionali, le leggi di bilancio o tributarie, le leggi che prevedono sanzioni penali restrittive della libertà personale, le leggi che tutelano le minoranze linguistiche. Per tutte le altre leggi, non richiamate in questo elenco, la funzione legislativa sarà esercitata dalla sola Camera, salvo la possibilità per il Governo o per un terzo dei senatori di richiedere, entro quindici giorni dall'approvazione, che il progetto sia esaminato anche dal Senato, il quale entro i tenta giorni successivi dovrà rinviare il progetto con le proposte di modificazione alla Camera, che dovrà a sua volta pronunziarsi entro i successivi trenta giorni. In caso, invece, di silenzio entro il suddetto termine da parte di Governo o Senato, la legge si intende come approvata definitivamente.

Governo e Presidente del Consiglio: pur mantenendo intatta la forma di governo parlamentare ed il necessario rapporto fiduciario con il Parlamento, si prevede la revisione degli articoli 92, 93, 94 e 96 della Costituzione. Si tende ad un rafforzamento dei poteri del Presidente del Consiglio, attraverso, in particolare, la previsione della concessione della fiducia al solo Capo del Governo, espressa mediante mozione motivata e votata per appello nominale, e attraverso il riconoscimento nei suoi confronti di un espresso potere di nomina e revoca dei Ministri. Per quanto riguarda la costituzione e la risoluzione del rapporto fiduciario, il nuovo testo dell'articolo 94 prevede che le due Camere accordino o revochino la fiducia in seduta comune.

Presidente della Repubblica: viene proposta l’eliminazione del c.d. "semestre bianco" dando quindi al Capo dello Stato la possibilità di sciogliere le Camere anche trovandosi negli ultimi sei mesi del suo mandato;

Altri importanti interventi: si prevede il rafforzamento degli istituti di democrazia diretta, in particolare attraverso la razionalizzazione dell’istituto referendario. Si prevede l’attuazione dell’art. 39Cost. relativo all’organizzazione sindacale.

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116 1993 - Commissione Bicamerale De Mita – Iotti

Come nel 1983, anche alle origini di questa seconda esperienza “derogatoria” ci sono una serie di questioni ed eventi davvero particolari che sconvolsero notevolmente la scena politica, andando a scalfire tutti quegli equilibri politici che si erano sviluppati sino a quel momento. In particolare sono due i motivi che, originando la rottura di tali equilibri e scatenando un’irreversibile crisi politica, hanno indirizzato l’attenzione dell’intera classe politica nuovamente verso una modifica costituzionale organica da attuare in via derogatoria: lo scandalo “Tangentopoli”62 e l’approvazione delle nuove leggi elettorali.

Subito dopo aver concesso la fiducia al governo Amato, in Parlamento, come avvenuto nel 1983, viene fatta una singolare proposta per giungere alla revisione costituzionale, considerata assolutamente necessaria per riconferire efficienza e credibilità all’intero assetto politico italiano: non seguire il cammino previsto dall’art 138Cost., ma provare attraverso una strada differente, che in particolare si sarebbe basata sull’istituzione di una “Commissione Bicamerale per le Riforme Istituzionali” con il compito di formulare anzitutto un progetto di revisione specifico degli art 55-137Cost., ossia un progetto relativo a tutta la seconda parte della Costituzione, nonché due progetti di legge ordinaria sull’elezione delle due Camere e dei Consigli Regionali. La commissione, la cui presidenza fu inizialmente attribuita a Ciriaco De Mita, e dal 10 marzo 1993 a Nilde Iotti, composta da trenta senatori e trenta deputati, fu istituita con due mozioni parallele delle Camere. Inoltre, contestualmente, fu presentato un progetto di legge di revisione dell’art. 138Cost., con cui si prevedeva la temporanea deroga allo stesso articolo: si introduceva un particolare processo di revisione costituzionale, il quale, a differenza di quanto sancito dai Costituenti, prevedeva anzitutto, che fossero conferiti alla stessa Commissione poteri referenti nei confronti delle Camere per la formulazione delle proposte definitive di revisione costituzionale, ed inoltre, che sul testo di revisione approvato in via definitiva dal Parlamento si sarebbe comunque svolto il referendum popolare, a prescindere dal quorum di approvazione del progetto ottenuto in sede di seconda deliberazione, trasformando, così, il referendum costituzionale da eventuale/oppositivo a necessario/confermativo. La legge di revisione temporanea, L.Cost.1/1993, fu però pubblicata definitivamente solo nel maggio del 1993, quindi solo dopo lo svolgimento del referendum relativo alla legge elettorale del Senato, svoltosi il 18 aprile. I risultati di tali referendum ebbero decisivi risvolti sull’attività della commissione De Mita-Iotti: anzitutto, comportò la definitiva sottrazione ad essa della riforma elettorale che spettava ormai alle Camere, come atto costituzionalmente dovuto, dopo l’esito della consultazione popolare, lasciando quindi alla Commissione il solo compito di preparare un progetto di revisione costituzionale; in secondo luogo, ovviamente, i risultati referendari, assieme alle inchieste della magistratura e al significativo numero di

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117 parlamentari indagati, sconvolsero tutti gli equilibri politici: in questo nuovo clima, il Parlamento si sentiva ormai sostanzialmente delegittimato ed era semplicemente in attesa di quello scioglimento anticipato che necessariamente sarebbe seguito proprio agli adempimenti governativi relativi all’approvazione delle nuove leggi elettorali ormai dovute in seguito al referendum. I lavori della Bicamerale terminarono dunque alla fine del 1993, poco prima dello scioglimento anticipato del Parlamento, non senza però che la stessa Commissione riuscisse a presentare le proprie articolate proposte di revisione.

Risultati molto interessanti furono anzitutto prodotti circa la “forma la di Stato”, soprattutto per quel che riguarda le autonomie territoriali: le Regioni avrebbero assunto competenze che almeno in riferimento alla sfera legislativa, si ponevano al limite del federalismo, andando a rovesciare le competenze previste dagli articoli 70Cost. e 117Cost., attribuendo allo Stato competenze legislative predefinite solo laddove si necessitava di una disciplina unitaria e prevedendo materie assegnate alla competenza legislativa esclusiva delle Regioni. Da sottolineare, come tali particolari proposte andranno poi a rappresentare un punto di riferimento essenziale prima per la “Commissione D’Alema” del 1997, ed in seguito, per le riforme costituzionali del 1999 e del 2001, attuate in via ordinaria e non derogatoria, e, quindi, attraverso il procedimento di revisione costituzionale di cui all’art. 138Cost.

Per quanto riguarda, invece, le conclusioni relative alla forma di governo, la Commissione optò per una soluzione tradizionalista a proposito di bicameralismo e di composizione del Senato. Contro le opinioni di uno schieramento che proponeva un bicameralismo fortemente differenziato, articolato in un’assemblea nazionale e in una camera delle regioni eletta dai Consigli Regionali, la maggioranza preferì mantenere l’attuale sistema bicamerale, anche se con l’introduzione di alcune modifiche procedimentali tali da rendere solo eventuale l’approvazione delle leggi da parte della seconda Camera. In sostanza, l’attuale bicameralismo perfetto veniva mantenuto soltanto per il procedimento di formazione delle leggi ritenute più importanti (quelle costituzionali, quelle elettorali, di bilancio etc.).

Per ciò che riguarda la struttura di governo, il rapporto tra l’esecutivo e il Parlamento ed i poteri del Capo dello Stato, la Commissione era volta ad una razionalizzazione della vecchia forma: prendendo atto in maniera definitiva della crisi irreversibile di quel modello di governo, ereditato dal periodo statuario fondato su collegialità, ministerialismo, e preminenza politica del premier, si cercò rimedio attraverso l’adozione di una forma attenuata della forma di governo del cancellierato propria della Germania. Dal cancellierato, in sostanza, si proponeva di recepire il procedimento di formazione del Governo: in sede di prima designazione il Presidente della Repubblica sulla base di candidature sottoscritte da almeno un terzo dei membri dell'assemblea avrebbe designato un candidato primo ministro che il Parlamento in seduta comune avrebbe eletto a maggioranza assoluta dei componenti,

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118 non prima però di un dibattito su un documento politico-programmatico; in caso di fallimento in sede di prima designazione, entro il mese successivo, il Capo di Stato sarebbe dovuto procedere ad una seconda, ed in caso di ulteriore fallimento le Camere sarebbero state sciolte con conseguente ritorno alle urne.

Al Primo ministro spetta invece il potere di nominare e revocare i ministri e i viceministri. È previsto l’istituto dell’incompatibilità delle funzioni di ministro e viceministro con il mandato parlamentare. Per quanto riguarda il rapporto fiduciario, il Parlamento avrebbe potuto sfiduciare il Governo solo con una mozione di sfiducia costruttiva, approvata con maggioranza assoluta e apportando il nome del successivo candidato.

Il nuovo testo dell'art. 92Cost. prevede che del Governo facciano parte, oltre al Primo ministro ed ai Ministri, anche i viceministri, che il testo in esame propone di sostituire alla figura dei sottosegretari. Viene poi posto un limite massimo al numero dei ministri che non può essere superiore a diciotto.

Per quanto riguardo funzioni e poteri del Capo dei Ministri si riprende, con parziali modifiche il testo dell’art. 95Cost. confermando comunque che il Primo Ministro deve dirigere la politica generale del Governo e ne è responsabile. Egli inoltre promuove e coordina l'attività dei ministri, assieme ai quali sarà responsabile, collegialmente, degli atti del Consiglio dei Ministri, mentre, ovviamente, degli atti dei singoli dicasteri rispondono esclusivamente i relativi ministri.

È inoltre demandato alla legge ordinaria il compito di provvedere all'ordinamento del Governo e alla determinazione della disciplina relativa alle attribuzioni e all’organizzazione dei singoli ministeri. È molto facile, dunque, notare come tutte queste scelte relative alla posizione del Presidente del Consiglio e, in particolare, quella relativa ad un avvicinamento all’istituto del cancellierato tedesco, vogliano rispondere all’esigenza, molto diffusa, di ricomporre nel Primo Ministro quell’unità e quella omogeneità di governo, che da sempre, nella storia repubblicana italiana, è risultata mancante.

Tuttavia, i lavori della Commissione e il conseguente progetto di revisione presentato, furono travolti dallo scioglimento anticipato delle camere del 1994, e dunque accantonato definitivamente, anche se, proprio come avvenne nel 1983, le conclusioni di tale progetto risultarono di assoluta importanza, tanto che saranno riprese nei dibattiti politici ed istituzionali di tutte le successive legislature.

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119 1997 – Commissione Bicamerale D’Alema.

Nonostante i fallimenti verificatesi in ognuno dei casi in cui si è provato ad intervenire in modo veramente incisivo e ampio sulla Costituzione, e magari anche attraverso un percorso derogatorio, tuttavia rimase sempre ben presente per l’intera classe politica, come anche nella stessa opinione pubblica, quella consapevolezza che l’ormai irreversibile crisi del sistema politico italiano, che aveva caratterizzato l’intera vita repubblicana del nostro paese, e che neppure la rivoluzione in campo elettorale nei primi anni ‘90 riuscì a fermare, poteva essere combattuta solo andando a modificare le base, gli elementi portanti dell’assetto politico costituzionale delineatosi col tempo, cercando quindi di modificare la natura, i poteri, le funzioni dei vari istituti ed organi costituzionali, che col tempo non avevano fatto altro che mettere in risalto esclusivamente i propri difetti e la propria inefficienza.

Nell’ambito della XIII legislatura, l’intera classe politica, nonché il Governo Prodi, sono consapevoli dell’assoluta necessità di un intervento di revisione organica della Costituzione, necessario a ridare efficienza e credibilità alle istituzioni, e nonostante i completi fallimenti precedenti, si sceglie, ancora una volta, di percorrere una via alternativa rispetto al procedimento aggravato di revisione costituzionale ex art. 138Cost.

Il 24 gennaio 1997 fu, a tale scopo, approvata la L.Cost. 1/1997 la quale prevedeva, come già avvenuto nel 1983 e nel 1993, la formazione di una “Commissione Parlamentare per le riforme costituzionali. La Commissione, composta da 35 senatori e 35 deputati, aveva il compito di elaborare una serie di progetti di revisione della Seconda Parte della Costituzione, "in particolare in materia di forma di Stato, forma di governo e bicameralismo, sistema delle garanzie".

Il 5 febbraio successivo, si procedette all’elezione del Presidente della Commissione, incarico conferito a Massimo D'Alema, allora segretario del PDS, eletto con 52 voti su 70 con l'appoggio di Forza Italia e dei centristi del Polo. Vennero poi eletti i tre vicepresidenti: Leopoldo Elia (PPI), Giuliano Urbani (Forza Italia) e Giuseppe Tatarella (AN).

La L.Cost. 1/1997 oltre a prevedere appunto il ricorso a tale Commissione, delineava, momento per momento, tutte le varie fasi da percorrere per giungere alla definitiva approvazione delle modifiche delle parti interessate della Costituzione: il 30 giugno dello stesso anno, la Commissione avrebbe dovuto presentare alle Camere il progetto di riforma della Seconda Parte della Costituzione, con allegata la relazione illustrativa e le eventuali relazioni di minoranza. Una volta depositato il testo del progetto della Commissione, i parlamentari di ciascuna Camera avrebbero così potuto presentare le relative richieste di emendamento.

Dopo l'esame dei vari emendamenti, la Commissione potrà presentare alle Camere uno o più progetti di revisione costituzionale e i testi potranno così essere esaminati dalle due Assemblee. Il progetto sarà adottato da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e saranno approvati articolo per

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120 articolo dalle Camere senza voto finale su ciascun progetto, ma con voto unico sul complesso degli articoli.

L’aspetto certamente più importante del procedimento delineato con tale legge costituzionale, oltre ovviamente alla previsione dell’intervento di una commissione bicamerale, è rappresentato dal fatto che, ancora una volta, sempre in deroga all’art. 138 Cost., si introduce una disciplina speciale per quel che riguarda il referendum costituzionale: si prevede, infatti, che la legge costituzionale, una volta approvata con la doppia deliberazione di ciascuna Camere, a prescindere dalle maggioranze raggiunte in sede di approvazione, sarà sottoposta ad un unico referendum popolare, da svolgersi entro tre mesi dalla pubblicazione, e sarà promulgata se al referendum avrà partecipato la maggioranza degli aventi diritto e sia stata approvata dalla maggioranza dei voti validi.

Anche in questo caso, dunque, si va a snaturare l’istituto del referendum costituzionale, modificando la sua funzione rispetto a quella prevista dal Costituente con l’art. 138Cost: se, infatti, questo articolo, permette, solo a determinate condizioni, il ricorso alla consultazione referendaria, considerandolo, come strumento ultimo di tutela e difesa delle minoranze, nel caso, invece, del 1997 il referendum vede mutare due aspetti fondamentali: anzitutto il suo carattere eventuale, in quanto anche in virtù del fatto che si sta procedendo ad una revisione veramente ampia della Costituzione si sostiene sia preferibile, in ogni caso e quindi senza condizioni, permettere al corpo elettorale di esprimere la propria volontà favorevole o contraria. In secondo luogo, come conseguenza della prima mutazione, vede modificata anche la sua funzione da oppositiva a confermativa delle scelte fatte in sede parlamentare.

In realtà le vicende seguiranno solo in parte la via tracciata dalla L.Cost. 1/1997. La prima fase procede regolarmente: vengono anzitutto costituiti quattro Comitati per occuparsi rispettivamente di forma di governo, forma di Stato, Garanzie, Parlamento e fonti normative. Effettuata una lunga serie di audizioni di esperti e rappresentanti di parti sociali, si passa alle prime votazioni decisive. Proprio in una di queste, la Commissione si trova a dover scegliere una fra le due ipotesi di forma di governo prospettate dal relatore Salvi: quella detta del "premierato", prevalentemente sostenuta dai partiti di governo dell'Ulivo, e quella, poi risultata vincente, del "semipresidenzialismo", più gradita al Polo (appoggiato anche da Lega Nord, che sino a quel momento, per vicende politiche, non aveva voluto prendere parte ai lavori di revisione).

Un evento importante, anche se avvenuto fuori dal contesto istituzionale, fu il c.d. “incontro della crostata" avvenuto, il 18 giugno 1997, presso la residenza di Gianni Letta, in cui PDS, PPI, AN e Forza Italia raggiunsero finalmente la decisiva intesa per l’introduzione di un Presidente di garanzia e una legge elettorale a doppio turno di coalizione.

Il 30 giugno, come previsto, la Bicamerale espone il testo al Parlamento, accompagnato da circa quarantamila emendamenti presentati da vari Senatori e Deputati. Il 16 settembre la Commissione si riunisce di nuovo e finalmente il 4 novembre presenta

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121 il progetto definitivo in Assemblea, che avvia le discussioni nel gennaio 1998.

Sin da subito, però, durante tale dibattito cominciarono a crearsi molte differenze di vedute e ampi dissensi tra le forze politiche, così dopo molti colpi di scena, dovuti al rapido susseguirsi tra nascita e disfacimento di inediti accordi fra partiti di destra e sinistra, il 1º febbraio 1998, Berlusconi sorprende tutti ribaltando la posizione concordata precedentemente, con la richiesta del “cancellierato” e di un sistema elettorale proporzionale. A tale richiesta, lo stesso Berlusconi fece seguire un ultimatum il 27 maggio 1998, con l'effetto di rovesciare completamente il tavolo delle trattative.

In seguito a questo evento, la procedura non ha potuto far altro che bloccarsi fino a che, il 9 giugno, l'esame del testo proposto dalla Commissione non verrà definitivamente cancellato dal calendario dei lavori della Camera dei Deputati, a seguito della dichiarazione diramata dal Presidente della Camera, Luciano Violante, con la quale annuncia che Massimo D'Alema gli ha appena comunicato che in quella stessa mattinata “l'ufficio di presidenza della Commissione ha preso atto del venire meno delle condizioni politiche per la prosecuzione della discussione".

Riguardo, alle proposte presentate dalla Commissione, il progetto introduceva, in vari ambiti, molti e specifici interventi di modifica, cercando, in generale, di muovere l’intero progetto di revisione verso una riforma in senso federale: anzitutto, per quanto riguardo le autonomie territoriali, si assegnava alle Regioni la potestà legislativa nelle materie non espressamente riservate alla potestà legislativa dello Stato e si riconosceva l’autonomia finanziaria degli enti locali; in secondo luogo, circa la forma di governo, si introduceva una forma semipresidenziale, con forte incremento dei poteri di garanzia del Presidente, accompagnata dal rafforzamento dell'esecutivo rispetto al Parlamento e dalla differenziazione del bicameralismo, che perdeva il suo carattere “perfetto”: veniva prevista, infatti, una distinzione fra leggi bicamerali paritarie (ipotesi in cui le Camere hanno ugual peso), non paritarie ( per le quali in caso di contrasto tra le due Assemblee avrebbe deliberato in via definitiva la Camera dei deputati),e monocamerali (approvate solo da una delle due Camere).

Inizialmente, inoltre, tra le materie di cui si doveva occupare la Commissione non figurava la “riforma della giustizia”, che venne invece successivamente trattata dalla stessa Commissione, la quale presentò a riguardo, non senza molte proteste e malcontenti63, alcune

importanti novità: venivano aumentati i c.d. "membri laici" del CSM; circa le carriere di giudici e pubblici ministeri, si prevedeva un comune status per tutti i magistrati, e pur non prevedendo la separazione delle carriere, si cercava d'impedire una sovrapposizione nelle funzioni; si prevedeva, infine, l’aumento dei membri della Corte Costituzionale da quindici a venti componenti, i cui cinque in più sarebbero stati nominati da rappresentanti degli enti locali.

63 In molti sostengono che proprio uno dei motivi che portarono allo scatenarsi dei contrasti e dei dissensi tra le varie forze politiche, le quali in precedenza avevano invece raggiunto importanti accordi, comportando quindi il completo fallimento del progetto di revisione presentato dalla Commissione D’Alema, fu che “l'agenda venne surrettiziamente allargata includendo la riforma della giustizia, all'inizio non prevista” – così Paolo Sylos Labini in “La Repubblica” del 27/04/2001.

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122 Nonostante l’ennesimo fallimento, dovuto ad un iter interrotto ancor prima del voto del Parlamento e del referendum popolare, le proposte della Commissione D’Alema giocarono un ruolo davvero rilevante per le successive legislature, trattando temi e proponendo interventi di riforma che sarebbero stati oggetto delle linee programmatiche di tutti i successivi Governi.

A causa comunque di questo ulteriore fallimento e degli scarsi risultati ottenuti nelle esperienze derogatorie precedenti, almeno negli immediati anni successivi, viene abbandonata la scelta di percorrere un procedimento derogatorio, tornando quindi al procedimento di revisione previsto dall’art. 138Cost., come avvenuto nei due interventi di revisione effettuati nel 2001 e nel 2005-2006, dove sono state percorse, perfettamente e senza alcuna deroga, tutte le fasi prescritte dal testo costituzionale.

2013 – Il D.D.L Cost. 813.

Il Consiglio dei Ministri, il 5 giungo 2013, ha approvato il disegno di legge costituzionale col titolo “Istituzione del Comitato parlamentare per le riforme costituzionali ed elettorali e disciplina del procedimento di revisione costituzionale” con cui, il Governo Letta ha inteso introdurre una deroga temporanea alla procedura di revisione costituzionale delineata dall’art. 138 Cost., con un oggetto predefinito e molto ampio: il Comitato avrebbe avuto infatti il compito di riscrivere i titoli I, II, III e V della seconda parte della Costituzione relativi a Parlamento, Presidente della Repubblica, Governo, Regioni, Province e Comuni.

Per la prima volta, dopo la duplice e positiva64 esperienza del 2001 e

del 2006, dove in entrambi i casi, per giungere all’approvazione definitiva del progetto di revisione costituzionale, si era scelto di seguire passo passo il procedimento ex art. 138Cost., nel 2013 si è preferito fare un passo indietro, riprendendo come esempio le scelte già effettuate negli anni ’90, optando nuovamente per un percorso derogatorio. E proprio come nelle due precedenti ipotesi del 1993 e del 1997, anche in questo caso fu preferito percorrere questa via a causa dei particolarissimi e delicati eventi che stavano caratterizzando la scena politica del momento: la profonda crisi economica, le dimissioni del Governo Monti nel dicembre 2012, le elezioni del febbraio 2013 da cui uscì particolarmente rafforzata la componente “antipolitica” del Movimento 5 Stelle, l’assoluta impossibilità, a causa dei forti contrasti tra i vari partiti politici, sia di scegliere il nome del nuovo Presidente della Repubblica (tanto che per la prima volta nella storia della repubblica fu rieletto il Presidente uscente, ovvero Giorgio Napolitano) sia di indicare, in seguito alle elezioni una figura di spicco, in grado di accontentare la maggioranza dei partiti, a cui affidare il compito di formare il Governo, che dallo stesso Napolitano, dopo accesi dibattiti e quando ormai sembrava necessario un clamoroso ritorno alle urne, veniva affidato all’allora vicesegretario nazionale del PD Enrico Letta. 64 Queste due esperienze sono considerate “positive” in quanto in entrambi i casi le Camere sono riuscite a portare a termine il procedimento previsto dall’art. 138Cost., anche se poi nel caso del 2005-2006, il corpo elettorale, tramite il referendum costituzionale, si è opposto all’intervento di revisione.

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123 È proprio in questo momento, che grazie a queste due figure, Napolitano e Letta, cominciano a porsi le basi per quello che rappresenterà un nuovo tentativo di revisione in deroga all’art. 138Cost., altrimenti definito dalle forze di opposizione, che cercheranno di sbarrare in ogni modo la strada a tale procedura, come un “illegittimo attacco” alla Costituzione.

Sin dall’inizio della XVII Legislatura, la questione delle riforme costituzionali, affiancata da quella relativa alla legge elettorale, è sempre stata al centro dell’attenzione dei piani politici di tutte le fazioni politiche.

Il Presidente della Repubblica Napolitano, già in occasione del giuramento per il suo secondo mandato, nel discorso pronunciato il 22 aprile 2013 dinanzi al Parlamento in seduta comune, sottolineò la necessità di interventi in tale direzione, affermando, in particolare, “come non si possa più, in nessun campo, sottrarsi al dovere della proposta, alla ricerca della soluzione praticabile, alla decisione netta e tempestiva per le riforme di cui hanno bisogno improrogabile per sopravvivere e progredire la democrazia e la società italiana”, facendo proprio riferimento alla necessaria riforma costituzionale, istituzionale ed elettorale.

A confermare, inoltre, l’interesse da parte del Capo di Stato nei confronti di queste delicate questioni, lo stesso Presidente, il 30 marzo 2013, nel corso delle attività finalizzate alla formazione del nuovo Governo, istituì due gruppi di lavoro, a composizione mista (parlamentari e non parlamentari), con il compito “di formulare, su essenziali temi di carattere istituzionale e di carattere economico-sociale ed europeo, precise proposte programmatiche che possano divenire in varie forme oggetto di condivisione da parte delle forze politiche”.

Tali gruppi di lavoro, ribattezzati successivamente “Comitati dei Saggi”, presenteranno, in particolare in materia istituzionale, già il successivo 12 aprile 2013 una relazione riguardante le proprie proposte di riforma costituzionale, in cui, inoltre, veniva auspicata l’istituzione di una particolare commissione composta da parlamentari e non parlamentari, dotata di funzioni addirittura redigenti, col fine unico di preparare una progetto di riforma costituzionale.

Anche il Presidente del Consiglio Letta non fu da meno, e seguendo le orme di Napolitano, il 29 aprile 2013, nel proprio discorso programmatico alla Camere, sottolineò marcatamente l’assoluta necessità delle riforme costituzionali, delineando tra gli obiettivi fondamentali di tali interventi, da raggiungere anche con la partecipazione delle forze di opposizione, il rafforzamento dell’esecutivo, il miglioramento dell’efficienza ed efficacia del processo legislativo, il perfezionamento della riforma del Titolo V, ovviamente non tralasciando assolutamente l’urgente riforma elettorale.

Letta però, sulla questione, ovvero sulle riforme, ed in particolare sulle possibili modalità da adottare per centrare tale obiettivo, sosteneva un’idea singolare: egli infatti manifestò la volontà di effettuare questo necessario e profondo intervento di revisione attraverso una procedura derogatoria dell’art. 138Cost., da un lato al fine di sottrarre le

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124 discussioni relative alla revisione stessa alle varie e insuperabili contrapposizioni dei vari schieramenti politici evitando scontri e conflitti65, e dall’altro, per cercare di accorciare i tempi e fare in modo,

dunque, di approvare quanto prima questa urgentissima ed organica revisione costituzionale.

In particolare, per rispondere alla prima esigenza, e quindi per cercare di presentare in aula un progetto “pronto”, elaborato da rappresentanze dei vari schieramenti, cercando, quindi, di ridurre il più possibile l’inconveniente dei dibattiti in seno alle due Camere, che avrebbero comportato lungaggini e scontri, egli propose di fare ricorso ad un’apposita Convenzione, aperta anche alla partecipazione di autorevoli esperti non parlamentari, con la funzione di elaborare una serie di proposte da presentare poi in Parlamento, tenendo conto sia delle attività parlamentari della precedente legislatura sia delle conclusioni presentate dal Comitato dei Saggi istituito dal Capo dello Stato.

Il 20 maggio, il Presidente della Repubblica Napolitano riceve il Ministro per le riforme costituzionali, Quagliariello, con i Presidenti delle Commissioni Affari Costituzionali dei due rami del Parlamento, Finocchiaro e Sisto. Lo scopo di questo primo incontro era quello di andare a verificare l’esistenza o meno di una comune volontà di avviare, senza indugio, in Parlamento un processo di puntuali modifiche costituzionali, in particolare relative a tutti quegli aspetti dell'ordinamento che richiedevano assolutamente di essere adeguati e migliorati, per garantire un più lineare ed efficace funzionamento dei poteri dello Stato.

Già due giorni più tardi, il Ministro per le riforme costituzionali Quagliariello viene ascoltato a Montecitorio dalle commissioni affari costituzionali di Camera e Senato per esporre le linee programmatiche dell’esecutivo proprio in materia di riforme. Tra gli aspetti, oggetto della futura riforma, sono evidenziati dal Ministro la forma di Governo, il superamento del bicameralismo paritario e simmetrico, la riduzione del numero dei parlamentari in coerenza con gli standard europei. Con riguardo invece al metodo da seguire per dare vita alle riforme, il Ministro auspica il raggiungimento di un ampio consenso in Parlamento, anche prospettando la possibilità di attivare una procedura pubblica di consultazione e la sottoposizione della legge di revisione costituzionale ad uno o più referendum confermativi popolari a prescindere dalla maggioranza ottenuta in sede parlamentare, attuando quindi una deroga all’art. 138Cost.

La svolta definitiva avverrà il 29 maggio, quando Camera e Senato giungono all’approvazione di due mozioni, di contenuto identico, con cui sanciscono l'avvio del percorso delle riforme costituzionali presentate dai Gruppi di maggioranza e da altri Gruppi.

65 Nell’effettuare questa scelta si fece tesoro delle esperienze avvenute in passato, quando in particolare nel 1997 la proposta di revisione presentata dalla Commissione D’Alema, non fu mai discussa, proprio a causa dei continui dissapori e alle continue spaccature tra le parti politiche che comportarono il venir meno di tutte quelle alleanza politiche alla base della proposta stessa.

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125 Con l’approvazione delle due mozioni, le Camere prendono atto dell’intendimento del Governo, già manifestato personalmente dallo stesso Letta, di avvalersi anche delle attività svolte dalla “Commissione dei Saggi” per l'approfondimento delle diverse ipotesi di revisione costituzionale e dei connessi profili inerenti al sistema elettorale e di estendere il dibattito sulle riforme alle diverse componenti della società civile, anche attraverso il ricorso ad una procedura di consultazione pubblica.

Per quanto riguarda il contenuto delle riforme, le due mozioni richiamano ovviamente le questioni già evidenziate da Quagliariello di fronte a Camera e Senato, a cui se ne aggiunge una di rilievo fondamentale, la riforma elettorale, la quale, come previsto dalle stesse mozioni, dovrà necessariamente essere coerente e contestuale con il complessivo processo di riforma costituzionale.

Infine sempre con le due mozioni si impegna il Governo a presentare alle Camere, entro il mese di giugno, un disegno di legge costituzionale per l’istituzione di una procedura straordinaria per l’approvazione delle riforme costituzionali in deroga a quella ordinaria di cui all’art. 138Cost.

Dalle parole si passerà, dunque, ai fatti quando, il 10 giugno, il Presidente del Consiglio Letta e i Ministri per le riforme costituzionali Quagliariello e per i rapporti con il Parlamento Franceschini, presenteranno al Senato, il Disegno di Legge Costituzionale n. 813 intitolato proprio “Istituzione del Comitato parlamentare per le riforme costituzionali”, con la particolare previsione che, in attesa dell’approvazione di tale disegno di legge da parte delle due Camere, il Comitato, nel frattempo, sarebbe potuto comunque essere costituito e cominciare i propri lavori, avviati, infatti, già il 12 giugno presso il Dipartimento per le Riforme Istituzionali.

L'11 luglio il disegno di legge per l’istituzione del Comitato parlamentare viene approvato, con modifiche, dal Senato e trasmesso alla Camera che ne avvia l'esame il 17 luglio e lo conclude con il voto favorevole dell'Assemblea il 10 settembre. Il 23 ottobre, il Senato approva il provvedimento in seconda deliberazione, trasmettendolo di nuovo alla Camera per la sua seconda e necessaria deliberazione, che sarebbe dovuta avvenire tra novembre e dicembre 2013.

L’ultima fase di approvazione fu tuttavia bloccata da quanto stava caratterizzando lo scenario politico italiano: anzitutto la riforma stava trovando sempre più oppositori, in particolare tra le file del M5S, che la consideravano come un vero sopruso verso la nostra Costituzione; ma, in particolar modo, stava ormai facendosi “prepotentemente” strada la figura di Matteo Renzi, diventato Segretario del PD nel Dicembre 2013, la cui “ombra” cominciò ad incombere sul Governo Letta, causandone la perdita di molti consensi, tanto che lo stesso Letta, dopo la votazione a larghissima maggioranza (136 favorevoli contro 16 contrari), da parte della Direzione del PD, di un documento che proponeva la sostituzione del Capo del Governo Letta con Renzi, fu costretto a rassegnare le dimissioni.

Con la caduta del Governo, il d.d.l. cost. n. 813, presentato da Letta, fu ovviamente accantonato.

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126 Il contenuto del D.D.L. Cost. n. 813

Il nuovo disegno di legge costituzionale, in particolare secondo i propri sostenitori, non arriva al punto di proporre così rilevanti modifiche alla procedura di revisione, come, invece, avvenne con le leggi costituzionali del 1993 e 1997. Il decreto infatti introduce importanti novità, prendendo però come modello il processo di revisione costituzionale ex art. 138Cost.

Il d.d.l. 813 presentato nel Giugno 2013 alle Camere, affinché queste si attivassero per la sua approvazione secondo il procedimento ex art. 138Cost., oltre all’istituzione di un Comitato Parlamentare per le riforme costituzionali ed elettorali (artt. 1 e 2 d.d.l. n. 813), prevede, quindi, l’introduzione di una procedura speciale per la revisione del testo costituzionale, derogatoria sia del procedimento di revisione ex art. 138Cost. sia di quello di formazione della legge ordinaria ex art. 72Cost.

In relazione a tale procedura alternativa secondo il d.d.l. 813:

Il progetto o i progetti di legge costituzionale sono adottati da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di quarantacinque giorni e sono approvati a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione.

La legge o le leggi costituzionali, approvate ai sensi della presente legge costituzionale, sono sottoposte, quando ne facciano domanda, entro tre mesi dalla loro pubblicazione, un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli Regionali, a referendum popolare anche qualora siano state approvate nella seconda votazione da ciascuna delle Camere a maggioranza dei due terzi dei suoi componenti e sono promulgate qualora al referendum siano state approvate dalla maggioranza dei voti validi.

Da quanto affermato dal disegno di legge, esaminando il procedimento introdotto, sono subito evidenti due rilevanti differenze rispetto al testo dell’art. 138Cost: pur partendo infatti dallo stesso modello di revisione, caratterizzato da una doppia deliberazione da parte di entrambe le Camere, si determina anzitutto un termine molto più breve (da tre mesi si passa a quarantacinque giorni) relativo all’intervallo tra la duplice approvazione delle Camere, nonché si prevede la possibilità di ricorrere al referendum costituzionale in ogni caso, a prescindere, dunque, dalla maggioranza raggiunta, assoluta o qualificata, in sede di seconda deliberazione.

Un ruolo certamente rilevante è quello svolto dal Comitato, la cui istituzione è prevista dagli artt. 1 e 2 del d.d.l. 813.: attraverso tali articoli si prevede l’istituzione di una Comitato parlamentare, ovviamente bicamerale, con il compito di esaminare in sede referente i progetti di legge tramessi da parte dei Presidenti delle due Camere66.

Il Comitato dovrà funzionare come una vera e propria “guida” di tutta l'attività parlamentare di riforma, essendo chiamato a svolgere appunto l'attività referente e ad intervenire anche in Aula.

66 Gli artt. 1 e 2 affidano al comitato la fase referente apportando una deroga al procedimento legislativo ordinario previsto dall’ art. 72 comma I.

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