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Gli esordi di “Cinema Sud”: gli anni 1958-1959 I

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Gli esordi di “Cinema Sud”: gli anni 1958-1959

I

niziamo a scoprire “Cinema Sud” attraverso un percorso approfondito sui numeri relativi ai primi due anni della rivista, in cui Camillo Marino, Giacomo D’Onofrio e i loro collaboratori creano le fondamenta del loro progetto neorealista irpino. È possibile avere un quadro delle tematiche affrontate sulle pagine di “Cinema Sud” e durante tutta la battaglia culturale portata avanti dagli esponenti del Neorealismo irpino. In questo senso il regesto di “Cinema Sud” è il mezzo più funzionale per capire meglio il taglio editoriale della rivista, obiettivi redazionali e il rapporto con la stampa nazionale e il l’ambiente culturale e intellettuale irpino. Il materiale preso in esame è prezioso, in quanto le copie originali di “Cinema Sud” relative ai primi cinquanta numeri attualmente reperibili e conservate sono davvero molto rare.

NUMERO I, ANNO PRIMO, GENNAIO 1958

• Editoriale “Saluto ai lettori” (pag 1):

La redazione presenta in poche e chiare parole l’urgenza della nascita di “Cinema Sud” nella sua identità di rivista di nicchia e dichiaratamente controcorrente. Apertamente in opposizione allo strapotere e all’ingerenza nella cultura delle personalità politiche ed intellettuali legate alla sfera “borbonica” conservatrice, la redazione di “Cinema Sud”, dichiara di portare avanti una battaglia di apertura verso il nuovo e che dia voce a quanti vogliano emergere dal clima di “patriarcale mediocrità” in cui vive la cultura nel Mezzogiorno. Consapevoli delle difficoltà economiche in cui il progetto

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8 “Cinema Sud” prende vita, gli editorialisti della rivista, si appellano a quanti vogliano sostenerli, consci di non poter garantire una tiratura da centinaia di copie tantomeno collaborazioni con grandi nomi a scopo pubblicitario. “Pertanto - così si dichiara in questo primo editoriale - affinché, anche, nel nostro Sud, vi sia una parola chiara, aperta e libera, ci rivolgiamo agli amici tutti che ci sostengano. Soltanto dal loro aiuto, dal loro contributo dipenderà la vita della rivista. L’indipendenza, la libertà che ci animerà nella battaglia culturale che andremo a intraprendere, saranno il vero indice della sicura vitalità di Cinema Sud in tutte le regioni del nostro Mezzogiorno”.

• “Le notti bianche di un Visconti surrealistico” (Dario Persiani, pag 3): In quest’articolo si mette a paragone il film di Luchino Visconti “Le notti bianche” con il racconto omonimo di Dostoevskij. Dall’analisi emerge che il film tradisce lo spirito del racconto dostojevskijano e se ne discosta in pieno, tanto da essere definito in quest’articolo “uno dei prodotti più deteriori che Visconti abbia mai firmato”. Questo è giustificato dal fatto che il film è pervaso dagli umori e dalle vicissitudini di costume dell’epoca del regista. Non c’è alcuna affinità fra il protagonista del film e il protagonista del racconto. Emerge che Visconti non abbia compiuto un’adeguata opera critica sul testo per rendere la sua trasposizione cinematografica quantomeno credibile.

Probabilmente il regista è stato attratto e stimolato dal tema del sogno, dalla magica tensione del racconto, ma come semplice materia che meglio si prestava al suo gusto per le divagazioni, per le parentesi simboliche e decorative. Il fatto che, il film di Visconti sia stato calorosamente applaudito da quasi tutta la critica militante e salutato perfino come una “svolta”, la dice

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9 lunga sulla simpatia e sulla solidarietà o su una certa ingenua e sprovveduta soggezione a cui gli intellettuali guardano al ritorno di certi miti.

• “Vedi Napoli e non muori!” (Achille Fabrizio, pgg 7/9):

Uno dei fatti che più tristemente addolorano è l’attacco contro la grandezza e la bellezza del cinema italiano del realismo. Il Neorealismo come massima espressione di questa corrente ha vissuto negli ultimi una fase di oscuramento. Questa fase di declino dettata da ragioni politiche e da un nuovo gusto estetico, rivolto ad opere d’evasione dai toni più leggeri e appetibili al pubblico, non sminuisce né tantomeno porta alla scomparsa del realismo, per via della sua stessa essenza, fatta d’umanità, di persone, di vita. Si potrebbe dire a ragion di ciò che il realismo sta all’umanità come una macchina fotografica sta alla luce, tale per cui le rispettive componenti non possono esistere l’una senza l’altra. Il cinema realista è dunque fatto di umanità, è intriso di quelle storie e di quei personaggi che quotidianamente vediamo scorrere di fianco a noi. Questo humus umano, dunque, l’immanente condizione umana è ciò da cui nei suoi capolavori il Neorealismo alza gli squilli della sua grandezza, le immagini della sua bellezza, istituisce il fondamento stesso della sua libertà e della sua gloria. Dove si legge “umanità”, si legge universalità e immortalità e il Neorealismo è destinato a restare una grande pagina del cinema italiano.

• “Carrellata su una provincia del Mezzogiorno” (Camillo Marino, pgg 10/13):

Ad Avellino è viva la tradizione dei caffè come luogo di ritrovo dopo una giornata di lavoro o nel tempo libero e nei quali è possibile incontrare personaggi anche bizzarri a commentare gli avvenimenti e i fatti portati all’ordine del giorno.

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10 Gennaro il cameriere, Maria la proprietaria del locale, Vincenzo l’impiegato comunale, Pasquale lo sportivo e infine Francesco il filosofo e l’artista, alcuni dei personaggi osservati e presi in rassegna da Marino, personaggi che si muovono all’interno di questo microcosmo che bene descrive la realtà della piccola città di provincia. Uomini e donne che,come molti altri, riescono appena a sopravvivere e passano qualche ora si svago al bar, luogo di aggregazione per antonomasia, dove giocare a carte o commentare i risultati delle partite con gli amici. Variegata è l’umanità che si sussegue in questi caffè e che suscita la simpatia di Marino, ma soprattutto è la fotografia della realtà che anima una città piccola come Avellino, ma che poi si posso facilmente riconoscere nelle commedie e nei film di stampo realista che attingono a questo ricco crogiolo personaggi e di drammi popolari.

• Rubrica “Quattro paesi film” (Antonio Castagnola, pag 14/15):

 Inghilterra: il regista David Lean gira in Malesia, le cui foreste fanno da sfondo alla tetra e abominevole guerra fra l’esercito inglese e quello giapponese nel secondo conflitto mondiale. Tratto da fatti realmente descritti dal romanziere Piere Boulle.

 Francia: “Montparnasse 19”, film di Jacques Becker, ripercorre le tappe essenziali della vita del grande pittore Modigliani, interpretato da Gerard Philippe. La droga, l’alcool, le donne, la vita infernale, Becker ha saputo tratteggiare con tatto e verità la vita dell’artista, rilanciando non solo la sua figura, ma il valore economico delle sue stesse opere.

 Unione Sovietica: da un romanzo di Michele Cholokhov molto popolare in U.R.S.S., il regista Guerassimov ha tratto un gigantesco e grandioso film epico. Il film si svolge attorno alla vita di un gruppo di cosacchi dei quali si conosceranno le avventure, gli amori, le cavalcate.

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11  Germania: “La famiglia Trapp” è la storia autentica di una famiglia austriaca che ha dato vita ad uno dei più celebri cori degli Stati Uniti. La storia della famiglia Trapp prende spunto da una storia vera, meravigliosamente raccontata a colori da Wolfgang Lebeneiner. Il cinema tedesco, grazie anche a questo film gradevolissimo, sta dando prova di notevoli capacità nello scenario cinematografico europeo.

• “Dalla canzone di Masaniello a quella di Garibaldi” (Antonio Castagnola, pgg 16/21):

La storia di Napoli, almeno quella popolare, fa tutt’uno con la canzone napoletana. La canzone può quasi definirsi la voce musicale dei massimi avvenimenti politici di questa città, devastata e sconvolta dal passaggio barbarico di troppi dominatori. Il popolo rievoca Masaniello, attraverso le strofe di “Michelemmà” e di “Fenesta ca luciva”, commemora l’epopea del 1799 con i “canti di libertà” e le monche strofe di qualche canzonaccia dei lazzaroni della “Santa Fede”, rivive gli entusiasmi del quarantotto con i versi ingenui e le patetiche note di “Te voglio bene assaje” e rinnova i deliri del sessanta, rivede Garibaldi alle balaustre di Palazzo d’Angri. Queste canzoni sono memorabili, non solo per la loro intima virtù di cose d’arte, ma perché segnano tante date gloriose e belle.

 “Michelemma’!”: la prima rivelazione integrale di questa specie napoletana di componimenti, ancora ingenua e rozza di ciò che sarebbe diventata più tardi la canzonetta popolare napoletana, racconta la storia e la tragica fine di Masaniello.

 “Fenesta ca lucive”: coeva di “Michelemmà!” è rintenuta la più tenera e malinconica nenia napoletana. Salvatore di Giacomo rifà la storia di un’antica nenìa data alle stampe nell’anno 1854 per mano di Mariano

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12 Paolella, tipografo napoletano vissuto fra il 1835 e il 1868. In realtà la bella elegia lirica nasce ancor prima in Sicilia e pare sia stata estratta da un poemetto di un notaio palermitano, Matteo di Ganci, esistito nella seconda metà del Cinquecento, tale per cui si ritiene che Salvatore di Giacomo abbia riscritto le due sestine conclusive e che il Paolella, in effetti, abbia solo messo su carta la versione che oggi conosciamo. La storia raccontata è quella della drammatica storia della giovane baronessa di Carini e della sua uccisione per mano del padre.

 “Canti di libertà e di tirannide”: il secolo XVIII vede la sua caduta nei rivolgimenti politici del 1799. La repubblica partenopea ha vita breve e gloriosa. Il popolo si esalta nei “canti di libertà”, poi ritorna la tirannide borbonica, danze e funerali si alternano mentre i lazzaroni della Santa Fede si ubriacano di canzoni innominabili e sulle piazze vengono decapitati gli esponenti Borbonici.

 “Te voglio bene assaje”: una sera d’estate dell’anno 1835, don Raffaele Sacco, scienziato e ottico di Napoli, ha partorito questa canzone nell’allegra atmosfera dell’ ”Osteria del Siciliano”. In pochi giorni si è diffusa in tutta Napoli: teatri e baracche, caffè e osterie, saloni e salotti, piazze e vicoli echeggiavano delle note di questa canzone. I versi del Sacco erano fatti apposta per trovare un’eco immediata nell’anima dei napoletani.

 Il “48”: canzone patriottica.

 “ ‘A nocca”: le canzoni di attualità sono alternate a quelle dai toni più leggeri, di carattere sentimentale e burlesco, ma “A nocca, che vuol dire “coccarda”, è un nuovo componimento di stampo patriottico, composto nel 1860, che divampò fra il popolo napoletano.

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13 • “L’ultimo Wyler (Vittorio Caldiron, pgg 22/25):

Alla radice del “far cinema” di Wyler c’è l’amore per i suoi personaggi, cui lavora con la lena e l’applicazione di un maestro di bottega del tempo andato, che, poco sensibile alle troppo recenti novità, tira avanti con la sua vecchia maniera. Wyler non arriva alla poesia in virtù dell’esuberanza del temperamento per una improvvisa, brillante accensione lirica, bensì attraverso una lenta applicazione, che conduce, poco a poco, all’estenuazione dei tipici schemi commerciali, per introdurre in essi il senso di qualcosa di diverso. I personaggi dei film di Wyler non emergono subito nella loro umanità, non rivelano la loro virtù, ma vengono fuori nella loro complessità man mano che l’opera procede. “Friendly Persuasion”, ispirato all’omonimo libro di Jessamin West, racconta le vicende di una famiglia pacifista quacchera coinvolta, suo malgrado, nella Guerra di Secessione. Più idilliaco nella prima parte e più drammatico nella seconda, l’opera di Wyler mostra quel rigore “classico” tipico dei film di Ford. Il ritmo lento e disteso della narrazione sottende l’arco di una particolare maniera di vivere, in cui le ragioni strutturali nascono e s’illuminano da quelle morali. Un film di ampio respiro dunque, in cui sono rari i momenti di caduta. La cifra stilistica di “Friendly persuasion”, come la gran parte delle opere del regista, si colloca in una sorta di pacato realismo. Ad arricchire il tutto, l’uso per la prima volta del technicolor in un’opera di Wyler.

• Rubrica “Su Cinecittà” (pag 26): Roger Vailland lavora al film “La legge”, tratto dal suo omonimo romanzo.

 “I dieci comandamenti sbanca il botteghino nelle sale di prima visione milanesi con ben 30 milioni in 28 giorni.

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14  Folco Quilici gira in Argentina “Dagli Appennini alle Ande”.

 Firmato a Mosca un accordo che prevede la concessione di borse di studio nell’Unione Sovietica per esperti cinematografici egiziani e la realizzazione di un festival dedicato al cinema egiziano.

 Jean Ahnouilh gira un film su Molière tratto da “Mademoiselle Molière”.

 Un produttore francese offre a Orson Welles di interpretare il ruolo di Serge Diaghilev in un film sui balletti russi.

• Notizie varie dalla Sicilia e dalla Sardegna (pag 27/28):

Nasce la prima edizione della Biennale nuorese col “Premio Sardegna”. La manifestazione artistica ha dovuto superare ostacoli che sembravano insormontabili, ma si presenta con volto onesto e chiaro fin dalle lineari architetture dell’ambiente creato dal pittore Pirisi. Accogliente, semplice ed elegante crea un’atmosfera raccolta e spirituale. Dieci sale, oltre duecento opere, tutte di alto livello, sono attiva testimonianza delle tendenze pittoriche contemporanee, dalla riproduzione oleografica alla visione surrealista-impressionista, al linearismo astratto. È possibile incontrare forti personalità autoctone che contrastano apertamente con quelle dei fratelli continentali. Il tradizionalismo dei sardi è sforzo sfibrante di ricerca nella verità e nella poesia e prevale su un “modernismo” che resta ancora relegato al puro dilettantismo esibizionistico. Tra i sardi Mauro Manca, vincitore del “Premio Sardegna”, Floris, vincitore del “Premio città di Nuoro”, Thermes e Ricca. Tra i continentali invece annoveriamo la presenza di Kodra Ibrahim, Martina e Paolucci, Accatino e Montanarella, Ausinio Tanda e molti altri. Le opere migliori sono raccolte nella Galleria d’arte Moderna di Nuoro.

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15 NUMERO 2, ANNO PRIMO, MARZO 1958

• Editoriale “Un chiaro discorso” (pag 1):

Dopo il successo inaspettato del primo numero, i redattori della rivista rinnovano il desiderio di non deludere i lettori che hanno riposto fiducia nel loro progetto e ancora una volta ribadiscono la volontà di perseguire nella strada intrapresa, affrontando temi che offrano un quadro quanto più preciso ed esaustivo del Mezzogiorno. La linea editoriale su cui si fonda la rivista intende abbracciare la lotta ai pregiudizi e alla visione denigrante della realtà meridionale data da quei falsi registi che si sono asserviti alle logiche del mercato e dei potenti. “Cinema Sud” intende ribaltare questa prospettiva e creare uno stuolo di energie da convogliare verso tutto il paese, perché il Sud ha bisogno di una concorde unità per progredire. I redattori esortano gli esponenti illustri del nostro Mezzogiorno, quali Dino De Laurentiis e Goffredo Lombardo, a investire sui giovani tecnici e artisti della loro terra e questi ultimi a prender esempio da chi è riuscito a emergere da un contesto pieno di risorse ma ancora così poco valorizzato.

• “Letteratura e film” (Ruggiero Renna, pgg 3/6):

Una tipologia di soggetto cinematografico è l’adattamento di un’opera letteraria, una delle operazioni più difficili e delicate da mettere in atto. Il rischio più facile nel quale si può incappare nel compiere la trasposizione cinematografica di un testo letterario è quello di farne una copia banale e sterile e dal canto opposto, per scansare questo pericolo, vi è quello di rovesciare totalmente la struttura o il senso del testo di partenza. È pure vero che il codice letterario e quello filmico sono molto diversi e rispondono a dinamiche e regole rigide, tali per cui capita molto spesso che gli addetti del

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16 cinema giustifichino la poca aderenza al testo originario con le esigenze imposte dalla tecnica del film. Quantunque l’operazione della trasposizione necessitasse di una tale forzatura, il film tradirebbe la natura dell’opera a cui si ispira ed in questo caso perderebbe totalmente di credibilità agli occhi dello spettatore. I problemi dell’adattamento al cinema di un’opera scritta sono complessi e pressappoco insolubili e vi è sempre una perdita di materiale più o meno notevole nel trasferire un romanzo sullo schermo. Molti produttori sono spinti al ricorrere agli adattamenti, spesso di opere ancora sconosciute, per ragioni ovviamente commerciali, in cambio di un’apprezzabile pubblicità gratuita, e per ragioni di ordine estetico, in quanto i romanzi rappresentano una ricchissima fonte di materiale immediatamente spendibile.

I soggettisti conoscono bene la differenza importante che esiste tra un personaggio fresco e quello che è noto da tempo al lettore e che per tale ragione oltre ad essere fonte di richiamo sono portatori di una struttura ben solida e vivida a supporto del film stesso.

Ad avvalorare queste considerazioni vi è il successo del film “Vittoria amara”, realizzato dal regista Nicholas Ray e tratto dal libro francese di Rene Hardy, che ha collaborato anche al soggetto del film stesso, in modo che gli sceneggiatori rispettassero lo spirito del suo lavoro.

L’adattamento di un lavoro letterario è un po’ un gioco d’azzardo: degli uomini di ottima qualità possono portare tutte le cure le cure all’adattamento di un capolavoro, possono restare fedeli all’autore, applicarsi a rispettare lo spirito e l’atmosfera dell’originale e tuttavia arenarsi anche con gli onori. • Rubrica “Su Cinecittà” (pag 7): Dino De Laurentiis conclude con la

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17 Lattuada e produce il nuovo film di Marilyn Monroe, tratto dal soggetto di John R. Michael.

 Nasce a Napoli la “Lauro-Amoroso Cinematografica”, dal progetto promosso dal Comandante Achille Lauro e Roberto Amoroso.

 In preparazione il nuovo film della “Cines”, “Grand Hotel”, con Marcello Mastroianni e Alberto Sordi.

 Silvana Mangano e Marlon Brando girano insieme il film “Bolivar”.

 Sophia Loren, Ingrid Bergman e Katherine Hepburn recitano in un adattamento delle “Tre sorelle”, di Cechov diretto da George Cukor.

 “Il grido” di Antonioni è escluso dai nomi candidati ai “Nastri d’Argento”.  Ugo Pirro inizia le riprese del nuovo film ad Atene.

 Pietro Nelli è al lavoro con Cesare Zavattini per girare “L’uomo che vende un occhio”.

• “Neorealismo e cinema di provincia” (Domenico Allescia, pgg 8/9): L’arretratezza culturale in cui vegeta la nostra provincia penalizza anche la diffusione di un certo cinema di maggiore interesse culturale.

Il pubblico avellinese, infatti, concepisce il cinema come luogo di svago e la fetta colta della città è ben ristretta per poter influenzare i gusti della massa molto più folta interessata invece ad un tipo di prodotto leggero e di facile fruizione. Ovviamente le preferenze del pubblico orientano le scelte dei proprietari delle sale cinematografiche, che puntano a proporre pellicole di scarso valore artistico, ma che gli assicurano un cospicuo ritorno economico, alimentando così un gusto deteriore già così radicato in una città senza respiro e calore culturale. La stampa, che potrebbe orientare l’opinione pubblica se ne sta in disparte e per mancanza di preparazione e per un certo sottinteso accordo a far passare tutto

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18 per buono. I giornali stessi non fanno che pubblicizzare i film ai proprietari dei locali, senza mai farne un’analisi più approfondita.

Anche nelle scuole non vi è occasione di affrontare in maniera meno superficiale il dibattito attorno al film in quanto gli stessi insegnanti sono ancorati ad un’impostazione accademica di vecchio stampo. Manca quindi assolutamente chi possa orientare il pubblico, dare nuove idee, orientare le correnti del gusto. La cultura è allo stadio di nozione elementare, nozione scolastica travisata per via di continue esercitazioni e vive solo di reminiscenze, non è certo palpitante espressione di vita.

D’altro canto l’entusiasmo del pubblico che accorre ad affollare le sale cinematografiche, che diventano unico luogo d’incontro e di raccolta collettivo, è tutt’altro che negativo. Una critica consapevole avrebbe quindi facile modo di penetrare nella coscienza de pubblico se fosse sostenuto da una politica dirigenziale più consapevole e mirata ad investire nel cinema senza limitazioni preconcette e senza un preliminare discernimento di arte e non arte. Solo in questo modo potrebbe nascere una fioritura di vita culturale fervida di attualità in una forma che sarebbe la più naturale o la più possibile in mancanza di altre. • “Contro Brancati si accanisce la censura” (Gennaro Savarese, pgg

10/11):

“Una donna di casa”, dello scrittore Vitaliano Brancati, viene colpito dalla censura e ritorna attualissimo il suo scritto “Ritorno alla censura” che apre un aspro dibattito su questo tema e sulla controversa figura del Brancati, fine satireggiatore dell’imperitura retorica italiana.

La sua arte tra moralistica e caricaturale si oppone chiaramente ai fasti del regime fascista e “Ritorno alla censura” ne è un esempio lampante. Quest’opera nasce in difesa della cultura e della libertà di pensiero sopra ogni cosa e per

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19 questo ed è uno di quei testi che dovrebbe trasmettere fra i lettori, soprattutto in tempi di “democrazia”, a testimonianza di un’epoca, ma soprattutto per svegliare le coscienze. Purtroppo ben conosciamo il destino riservato agli autori e alle opere “scomode”: l’oblio!

Oggi come ieri una commedia come “Una donna di casa” fa arricciare il naso perché descrive spregiudicatamente e coraggiosamente il nostro paese malsano e corrotto, senza indulgenze, con la dissimulata superiorità dell’artista creatore che è anche in tal caso un moralista. Non si capisce che un’opera d’arte di tal genere è una prova e una lezione di coraggio, un invito a chiamare le cose per il proprio nome. Sbrancati costituisce un patrimonio culturale meridionale e la rivista ne prende le parti ad ogni costo contro tutti i censori di questo paese, che non hanno mai capito e mai amato il Mezzogiorno.

• “La camorra vesuviana nella ‘sfida’ di Rosi” (St., pag 12):

Francesco Rosi, aiuto regista di Visconti, di Antonioni e altri autori emeriti del nostro cinema, presenta la sua prima opera “La sfida”, una storia coraggiosa, ispirata a episodi che la cronaca di questi anni ha sovente registrato a Napoli attorno ai problemi legati alla Camorra.

Il giovane regista napoletano ritiene di aver creato ai personaggi veri su uno sfondo che egli ama e in un quadro che rispecchia incontestabilmente la realtà del nostro paese in una porzione non indifferente di vita.

Rosi ritiene che realizzare questo film abbia compiuto un atto di responsabilità nei confronti della sua arte e degli spettatori in un momento in cui il cinema si trova in piena crisi. “La sfida” ha trovato un produttore intelligente che col suo appoggio ha creato a un soggetto coraggioso, ma non sono sempre così perché i produttori, ovviamente, fanno i propri interessi economici e sono difficilmente propensi a puntare su film poco spendibili. Questa strategia è spesso dettata da

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20 manovre politiche che non fanno altro che declassare la produzione cinematografica italiana. Agli autori tocca così per emergere stringere i denti e cercare di arginare con determinazione gli ostacoli in cui la cinematografia italiana versa.

• Rubrica “Risposta a un professore” (Camillo Marino, pag 13):

Con grande risentimento il direttore della rivista Camillo Marino comunica pubblicamente che il prof. Italo Freda non intende collaborare alla rivista in quanto non si trova d’accordo con l’indirizzo editoriale impostatole.

• Rubrica “Al critico la parola” (Carlo Spruna, pag 14/18):

 “Orizzonti di gloria” (Kubrick): il film, carico di polemica contro la casta militare, mostra tutti gli orrori della guerra. Il problema più serio che pone il film non è quello della requisitoria antimilitarista, ma è quello che nasce nell’animo dello spettatore di fronte al conflitto sul dovere dell’obbedienza. La coercizione rudimentale della disciplina viene metafisicamente consacrata in nome di una “morale” che è tale solo per convenienza sociale. La storia dell’uomo da millenni tenta di spostare la dignità individuale alle esigenze collettive e il coraggioso film di Kubrick ci porta a riflettere sulla rapidità con la quale svanisce nella memoria dell’uomo l’eco della crudeltà e come l’ossequio “all’etica della patria” consenta a galantuomini di partecipare a nuovi massacri pensando di avere le mani pulite.

 “I Dritti” di Mario Amendola: sulla scia di “Poveri ma belli” e di “Belle, ma povere”, sotto il comun denominatore della giovinezza di periferia, gaia e spensierata, il film di Mario Amendola, “I dritti”, è una nuova covata di bulletti. Questo banalizzazione della vena realistica ha trovato un suo nome: “neobozzettismo”. Nonostante i momenti i gustosi e i giovani interpreti, che danno un piglio di freschezza e d’improvvisazione, il film su questa gioventù da

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21 borgata di cui ormai sappiamo tutto, non aggiunge nulla di nuovo né al cinema tantomeno allo spettatore.

 “Una partigiana” di Boisrond: commediola brillante con un’avvenente Brigitte Bardot coinvolta in una parata di situazioni semi-piccanti, piccanti interamente nell’edizione originale non riveduta dai nostri censori.

 “Un giorno di vacanza” di Bojer: tratto dal romanzo di Gabriel Chevallier, che è anche autore della sceneggiatura del film, “Un giorno di vacanza”, si presenta come un filmetto senza pretese, nonostante l’interpretazione di qualità di Fernandel. Il regista Jean Boyer non è al massimo della forma e non smentisce la sua fama di regista “arruffone”.

 “La banda degli angeli” di Walch: tratto da un romanzo di Warren e interpretato da Clark Gable e Sidney Poitier, il film regala un racconto piuttosto risaputo, che non sfrutta affatto le possibilità storiche del soggetto e che l’anziano Walch conduce malamente in porto con una regia fiacca e disordinata, senza che gli attori possano portarvi rimedio. Triste tramonto di un idolo e di un bravo attore: Clark Gable.

 “Delitto senza scampo” di Oswald: condotto con perizia tecnica e buon uso della suspense, entro i confini d’una produzione meramente commerciale, il film è accettabile. La scelta degli interpreti è determinante. Invecchiata, raggrinzita, adunca, Barbara Stanwych disperde col suo gran mestiere ogni sospetto d declino e certi suoi primi piani son d’una intensità esemplare. Bravissimo Sterling Hayden nella parte del marito ingannato con buona intenzione.

 “ Alto comando operazione uranio” di Guest: farsetta che mitemente canzona burocrati e militari, strappando qualche risata, ma in cui la tensione si scarica presto.

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22  “ I diffamatori” di Rowland: il film non risulta all’altezza del tema trattato, rimanendo a mezza strada tra il giallo e il drammatico con un pizzico di patetico, qualche goccia di sentimentale e abbondanti dosi di psicanalisi. “I diffamatori” ha solo il merito di una corretta regia firmata da Rowland.

• “ Un clima di sospetto Kafkiano grava sul documentario nazionale” (G, Fratti, pgg 19/20):

La vita del documentario in Italia è messa a dura prova dalle rigide regolamentazioni di tipo burocratico che ne impediscono la distribuzione. Enzo Nasso, presidente dell’ Associazione Produttori Indipendenti, dichiara che l’attività del documentario si fa sempre più assurda da un punto di vista economico, in quanto non esiste un vero mercato e conseguentemente la possibilità di ottenere credito, come per una qualsiasi altra industria. L’Associazione nasce proprio per arginare lo strapotere delle grandi case e a tal proposito propone di creare un albo dei documentaristi, come strumento di qualificazione professionale e di difesa della categoria. Nasso poi ritiene necessario promuovere un accordo fra tutti i produttori onde evitare gli eccessi di produzione e al fine di garantire anche la qualità.

Altro argomento scottante è quello relativo alla programmazione obbligatoria, in merito alla quale l’Associazione Produttori Indipendenti propone un’azione legale contro gli esercenti, perché rispettino la legge sulla programmazione obbligatoria. Gli esercenti dal canto loro si giustificano dicendo che il pubblico non ama il documentario se non quello di stampo sportivo.

Secondo Giulio Questi una soluzione potrebbe essere quella di escludere dalle sale cinematografiche, così come avviene in Francia da anni, la pubblicità coprendo il metraggio stabilito dalla legge col giornale d’attualità o col documentario. In Italia una vera scuola documentaristica non c’è mai stata,

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23 secondo Guesti, ed è molto difficile per chi voglia intraprendere questa strada potervi riuscire senza non dover approdare prima o poi a quella del lungometraggio “esotico” con balli di donne nere seminude e lotte all’ultimo sangue di animali feroci.

• “A proposito delle ‘Notti Bianche’, crisi dell’uomo e della speranza” (V. Caldiron, pgg 21/23):

Mario, il protagonista del film di Visconti, interpretato da Marcello Mastroianni, nasce dalla sconfitta di una società, dalla crisi e dal suo tramonto. Qui il “fatalismo” di Visconti raggiunge le sue punte più crudeli e inesorabili, ma, in sede estetica, viene superato nella complessità del respiro e nella sofferta partecipazione quanto di schematico poteva sussistere in quella dimensione. Tutto il film si muove nella dialettica interna di molteplici prospettive che s’intersecano e si rifrangono. Visconti non si ferma a una “negazione”, a un pessimismo assoluto e nullificatore. La presa di coscienza della precarietà dell’esistenza si accompagna a indicazioni luminose, a uno scenario aperto su un senso geloso ma vivido della speranza e della possibilità umana. Il regista avverte profondamente l’esigenza di trasformare la negazione in invocazione, ma allo stesso manca nel film quell’impegno verso l’uomo che il realismo si era assunto, quel rapporto non mistificato e non equivoco, ma autentico e immediato con la realtà. Il rapporto con il reale qui è il punto d’arrivo e non di partenza, non è dato, ma cercato. L’uomo entra sullo schermo con tutto se stesso, col travaglio del suo vivere e del suo soffrire, con i problemi assillanti e perentori della sua esistenza. Del resto la conquista, forse più duratura del neorealismo, il senso più vivo della concretezza, di una dimensione essenzialmente storica, rivive nello storicismo di Visconti. Per tutti ora si tratta di vedere chiaro nella continuità col neorealismo, di far fruttare compiutamente

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24 la sua lezione, di arrivare cioè alla sutura tra i problemi del singolo e i problemi della comunità. I migliori registi mostrano di essere su questa strada e di aver compreso che non è possibile dimenticare che la funzione del cinema, come quella della letteratura, è quella di aiutare l’uomo a rendere il mondo sempre più umano. Il neorealismo, in conclusione, non muore, ma trasfigura.

• “Un nostro ringraziamento” (pag 24):

La redazione ringrazia “Il Mondo”, “La Stampa”, “L’Unità”, “Il Roma”, “Il Paese”, “Il Mattino”, “La Voce Socialista” per aver salutato la nascita di Cinema Sud.

NUMERO 3-4, ANNO PRIMO, APRILE-MAGGIO 1958 • Editoriale: “Una cultura passiva” (pag 1/2):

La crisi culturale che ha invaso il paese tutto, aumenta di tono e d’intensità nelle regioni meridionali che sembrano essersi risollevate dopo la guerra e si respira soprattutto nelle province. Gli incassi scendono del cinquanta per cento nei cinema di Napoli, Palermo, Bari, Catania, Cagliari a testimonianza del basso livello economico di queste città e quindi della particolare e grave situazione dell’industria cinematografica. Nemmeno le sorti della canzone napoletana sono rose. I sistemi della Rai-Tv e delle case discografiche e musicali di Milano hanno avuto il loro peso decisivo sulla scelta e sugli inviti dei compositori al Festival di Napoli,il quale avrebbe veramente dato dimostrazione di serietà e imparzialità se non avesse ceduta l’Associazione della Stampa alle imposizioni degli industriali della canzone e alle vessazioni di quanti pensano di circoscrivere entro modesti confini le doti naturali e spontanee delle giovani speranze meridionali.

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25 • “Fellini e Tobino, due anime misteriose” (Giorgio Tinazzi, pgg 3/7):

La notizia che Fellini era intenzionato a trarre un film da “Le libere donne di Marigliano”, di Mario Tobino, ci ha spinti a mettere a confronto il regista con lo scrittore, che pur nella rispettiva diversità, per certi versi ci sembrano affini. Un tema comune a entrambi è il “bisogni di vivere” e l’amore stesso che li porta anche ad avvicinarsi agli “irregolari”. Il loro mondo patetico ne è intriso, perché per essi l’amore è il superamento della solitudine, l’apertura verso la comunicatività, è il ritorno all’innocenza, all’infanzia, a Dio. In Tobino però ha qualcosa di più umano, di meno “filtrato”, forse, che in Fellini, ma ciò non impedisce davvero di farci comprendere che il regista sente l’amore come l’esigenza prima dell’animo umano.

La follia altro tema fondamentale per entrambi: Tobino, in quanto medico, si avvicina al mondo dei pazzi con occhio clinico, come chi va alla ricerca di un terreno vergine, ove i sentimenti si palesano in tutta la loro forza e sincerità, ove si coglie la schiettezza e l’innocenza delle anime. Anche Fellini sente che la pazzia “non rappresenta ottusità e tenebre, ma uno stato ricco di illuminazioni, di fede, di percezioni sovrumane”, tale da spingerlo a girare un film tratto da “Le libere donne di Marigliano”.

Entrambi gli autori sentono e vivono una profonda comunione dell’animo umano con la natura e più in generale con la bellezza, talvolta carica di malinconia. L’amara consapevolezza del tempo che fugge e della caducità delle cose porta entrambi ad un sentire vivido della morte, in Tobino con drammatica freddezza e in Fellini come una proiezione di questa vita sull’eterno.

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26 Sulle pagine della rivista “Cinema Nuovo” per diversi mesi ha avuto luogo una polemica fra critici “revisionisti” e critici “dogmatici” spesso rivelatasi totalmente sterile, in quanto non ha dato risultati utili, né ha portato vantaggio alcuno, né ha offerto materiale utile di discussione a quanti sono vivamente interessati alla cultura cinematografica.

Non si può non rivelare il fatto che alcuni critici, nell’intento di orientare gli artisti e i registi verso temi determinati, abbiano commesso errori di valutazione che hanno avuto effetti negativi e hanno lasciato tracce profonde nella produzione cinematografica. Alla critica militante spetta un importante compito nel campo della creazione artistica, soprattutto quando le idee a riguardo sono confuse, mutevoli e complesse. Essa non deve certo essere più accondiscendete, ma non deve nemmeno privare l’artista della sensazione della sua indipendenza, della convinzione che egli ha qualcosa da dire al mondo.

I critici spesso cascano nella convinzione che esistano dei canoni di valutazione astratti dalla pratica della creazione, invece occorre rendersi conto che le norme e i sistemi estetici nascono dai concreti fenomeni di creazione allo stesso modo che le norme legali nascono dallo sviluppo dei rapporti sociali. Troppo spesso, per questa ragione, la critica ha avvalorato delle correnti di pensiero e d’espressione a scapito di altre più innovative o meno consolidate, sostenendo i grandi registi a scapito di quelli giovani ed emergenti. L’obiettivo invece dovrebbe esser quello di trovare nuovi mezzi d’espressione che valorizzino tutti gli aspetti culturali dei movimenti che si son battuti ieri per il progresso. Per questo motivo sosteniamo il Neorealismo come corrente ancora in auge, che “non muore, ma trasfigura”, come sosteneva

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27 Caldiron. In tal modo si salderà finalmente anche il legame fra cinema e paese, tra scrittori e pubblico, tra cineasti e critica.

• Rubrica “Occhio su Cinecittà” (pag 10): Cinque film italiani e sette coproduzioni, ecco il magro bilancio della produzione nel 1958. Il cinema italiano potrebbe essere raffigurato così: una immensa sterpaglia sulla quale si ergono due o tre grattacieli modernissimi, dei supercolossi, al posto dei quali basterebbe costruire tante casette a rendere meno squallido il paesaggio del nostro cinema italiano.

• Monicelli inizia a Roma le riprese del film “Le madame” con Mastroianni, Gassman e Carla Gravina.

• “Le mani delicate di un illuminista” (Vittorio Caldiron, pgg 11/14):

Nelle pagine delle riviste “Contemporaneo” e “Cinema Nuovo”, dal 1954 al 1957, è stato prevalente il discorso critico sul Neorealismo. Questo movimento che ha avuto come punto di partenza l’ansia di conoscere e di capire, la partecipe disponibilità verso la realtà, il fervore e l’entusiasmo di chi aveva raccolto il testamento spirituale della Resistenza, viene rivendicato nei suoi autentici valori estetici, contro l’accusa di piatta riproduzione della realtà. Il suo valore consisterebbe nella riscoperta della forza espressiva del cinema, in un senso istintivo del mezzo cinematografico.

Chiarini ritiene che il fatto estetico non può esaurire la funzione della critica, la quale ha imparato ad allargare il proprio orizzonte per approfondire sempre di più i modi della dialettica cinema-società, a studiare il film, soprattutto quello spettacolare, come documento di esigenze e di caratteristiche di una particolare società in uno specifico momento della sua storia.

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28 Chiarini avverte con acuta sensibilità la gravità del momento presente e la necessità per l’intellettuale di assumere le proprie responsabilità di fronte alla realtà e alla storia. Il suo atteggiamento è polemico nei confronti di ogni chiusura e secondo Chiarini non è possibile fare critica seria “gettandosi dietro le spalle i conflitti ideologici, morali e sociali del proprio tempo. In tale prospettiva appare l’invito ad attenersi alla critica della forma”.

L’opera di Chiarini risulta quindi espressione di grande chiarezza e lucidità. La sua stessa poetica del film non è altro che la poetica di chi crede “nella forza diciamo pure miracolosa della realtà, che un artista ha il potere di cogliere in una forma più immediata che non sia la trasfigurazione attraverso le parole, le linee e i colori o il marmo”. Il tono dei discorsi, nella sua pacatezza e coerenza, si direbbe quasi “illuminista” e non sembra tanto azzardato avvertire nell’idealista Luigi Chiarini intonazioni e istanze di tipo neo-illuminista, considerando il rilievo che ha nella poetica dell’autore la preoccupazione per la funzione sociale dell’arte e l’impegno di rendere il mondo più umano e razionale.

• “Controluce a Mezzogiorno: I campatori del retroterra” (Camillo Marino, pgg 15/17):

L’italiano ha usurpato, in materia di cavalleria, galanteria e savoir faire, una fama così diffusa all’estero che è impossibile oggi demolirla, pure essendo egli lungi del tutto da quelle forme specifiche che contraddistinguono il tipo di cavaliere e di “viveur” di vecchia data. Gli italiani hanno notoriamente fama di uomini galanti, educati, edulcorati, precisi ed eruditi sul tema cavalleresco, ma col tempo il “Casanova” ha perso quell’aura nobile e romantica, apparendo più un volgare “campatore” che un cavaliere d’altri tempi, più caloroso negli affetti, avido di donne belle, ricche e spenderecce, più amante

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29 di guasconate che di disciplina morale. Sono i bulli, i vitelloni, i campatori da annoverarsi più nella schiera dei “conquistatori” che hanno scritto la storia di amori consumati dai fumi dell’alcool e degli stupefacenti. C’è stato un tale rovesciamento dei valori in ognuno da chiamare eroi quello sparuto gruppo di giovani che ancora non ne fraintenda il significato. Maldicenza, vizio e lascivia negli affetti come negli affari serpeggiano nelle città. Su questo terreno nasce e si sviluppa l’abito mentale del giovane che si appresta a giocare le sue carte nella cittadella dell’amore falso, amorale, incontrollato, viscido, pseudo- passionale, irrazionale e peccaminoso. Resta ben poco del fascino cavalleresco e galante di cui il conquistatore” italiano si avvaleva un tempo.

• “Marco postino sfortunato (Francesco Pendibene, pgg 18/19):

Marco è un nuovo tipo di eroe, è il martire reale del lavoro non riconosciuto, una vittima innocente di un sistema che tarda a farsi seppellire definitivamente per far libero posto al mondo della giustizia. Marco era un umile impiegato postale che in trent’anni ha percorso quaranta chilometri al giorno a piedi con un salario di tremila lire mensili. Qualche anno prima della sua scomparsa, l’istituzione di un pubblico autoservizio tra lo scalo ferroviario e il suo paese mandò Marco a spasso: niente più quaranta chilometri, niente più tremila lire, niente buonuscita, niente pensione, nemmeno un “grazie” da quella amministrazione che gratuitamente aveva servito per trent’anni. Alcuni protestarono per lui e dopo un anno di disoccupazione la direzione delle Poste offrì a Marco un incarico provvisorio di postino in uno dei più sperduti comuni d’Irpinia, fatto di casolari sparsi per i campi. L’ironia della sorte ha però voluto che, non appena raggiunta una nuova e insperata condizione di benessere, passando dalle tremila alle ventottomila lire mensili, il sogno del

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30 povero Marco si sia spezzato con la sua prematura morte e lasciando nella miseria la famiglia. Oltre al danno la beffa, in quanto alla vedova del povero Marco non è rimasto nulla, nessun tipo di pensione o sussidio. Terribilmente vera e passata del tutto inosservata, questa è la storia del povero Marco Capobianco, originario di Monteverde.

Nessuno si è accorto della sua esistenza, nemmeno la stampa di provincia, perché ancora non si denunciano le ingiustizie in cui versa la classe lavoratrice.

• “Lezione dall’America” (U.G, pgg 20/21):

Al convegno “Scrittori e Cinema”, tenutosi a Milano, lo scrittore cineasta Cesare Zavattini dichiara di essere rimasto colpito dal film “Orizzonti di gloria” e di aver sentito un profondo senso di vergogna verso il cinema nazionale, che ha perduto ogni coraggio civile.

Il cinema italiano che si era imposto in tutto il mondo, facendo incetta di premi ai festival internazionali e che aveva portato la costernazione negli ambienti dell’alta finanza hollywoodiana, negli anni s’ è ridotto ad andare a scuola dai suoi allievi d’oltreoceano, da quei registi che si sono ispirati alla lezione morale ed artistica del Neorealismo, mentre in patria il Neorealismo, invece di proteggerlo come patrimonio culturale più prezioso del secondo dopoguerra, è stato semplicemente ammazzato. Tabù sono i problemi, tabù la politica, tabù la storia recente e passata, si producono sempre meno film di denuncia sociale a favore di filmetti evasivi e sempre più volgari, ma certamente più remunerativi. Molte sale sono costrette a chiudere per la minore affluenza di pubblico al cinema.

Dunque la cinematografia italiana vive una fase di decadimento che la mette in ridicolo di fronte a tutte le nazioni europee. I film americani, anche quelli

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31 prodotti dalle case di Hollywood, appaiono paradossalmente rivoluzionari, anche su temi militari. Tutte queste considerazioni devono essere per gli autori monito e lezione di dignità e coraggio da cui prendere esempio.

• Rubrica: “ Nel mondo della canzone” (pag 21):

 Gianna Maritati, soprano della Scala di Milano, è stata ingaggiata per girare un film col regista del documentario “Pavia di notte”.

Renata Tebaldi ha ricevuto il massimo riconoscimento musicale riservato agli interpreti del teatro lirico, il “Premio Viotti”.

 Clara Petrella è la voce di Ingrid Bergman in un’opera lirica.

 In cantiere le riprese di “The Gene Krupa story”, film sull’omonimo batterista e direttore d’orchestra.

 Nat King Cole, il noto cantante-pianista di colore, ha accusato di razzismo gli agenti pubblicitari e ha dichiarato di essere stato costretto ingiustamente a sospendere il programma televisivo che egli curava da ben sessantaquattro settimane.

• Rubrica “Al critico la parola” (pgg 22/24):

 “L’uomo di paglia” di Germi: dopo il successo de “Il ferroviere”, con cui Germi torna all’attenzione della critica e del pubblico grazie alla sua meritevole prova non solo di regista, ma anche d’attore, esce nelle sale “L’uomo di paglia” a consolidarne l’affermazione.

Di nuovo una storia con personaggi semplici e uomini umili (da qui il titolo) che arrivano al cuore della gente, nobilitati da una regia che, di sequenza in sequenza, è sempre più matura e sicura.

 “Sayonara” di Logan: sulla scia di Pearl Harbour, un film sul capitolo americano in Giappone con un’ottima interpretazione di Marlon Brando.

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32  “Timbuctù” di Hathaway: technirama a colori, non fa troppo onore né al suo regista (Hathaway) né al suo sceneggiatore (Ben Hecth). Vi si racconta un viaggio nel Sahara con coinvolgimenti psicologici con Sophia Loren nella parte di un’ex prostituta, con John Wayne nella parte di una scanzonata guida del deserto e con Rossano Brazzi, un ricco straniero alla ricerca del padre disperso anni prima nel deserto.

Caratteri, episodi e dialoghi sono da fumetto e, tolta, qualche vibrazione nella sequenza della città morta, la falsità del racconto è più forte del mestiere del regista e degli attori.

 “Missili umani” di Gilling: la vita e l’addestramento degli allievi di un’accademia aeronautica. Avvincenti le riprese aviatorie e buoni gli interpreti.

NUMERO 5, ANNO PRIMO, LUGLIO 1958 • Editoriale “Vitalità di una rivista” (pgg 1/2):

La redazione ringrazia i lettori per la fiducia accordata alla rivista e per l’attenzione di manifestazioni cinematografiche nazionali come quelle di Montecatini e di Venezia. Non poche sono le difficoltà che “Cinema Sud” deve affrontare in una delle terre più problematiche d’Italia. Nata dalla caparbietà di tre o quattro giovani provenienti dalle più svariate esperienze culturali e politiche, mossi dall’urgenza di produrre idee ed essere parte attiva della scena culturale campana, “Cinema Sud” riesce, dopo soli quattro numeri, ad essere tangibile forma di vita, una realtà concreta protesa in avanti a coinvolgere tutte le regioni meridionali in un progetto comune.

• “Nuovi temi e nuovi lavori per un Neorealismo ‘trasfigurato’” (Dario Natoli, pgg 3/7):

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33 Si parla ancora di Neorealismo, movimento attorno a cui aleggia una certa confusione, soprattutto sulle ragioni che l’hanno portato ai margini della cultura cinematografi a farlo scomparire. Sicuramente una ragione che abbia influito in maniera considerevole è la mancanza di unità di vedute mai raggiunta sul Neorealismo. Questa disparità di atteggiamenti deriva dal fatto che non è esistita una vera e propria scuola, piuttosto un’unicità d’intenti e di metodi che ha accomunato i vari registi e li ha condotto all’elaborazione di opere, spesso diverse tra loro formalmente e ideologicamente, seppur legate dal medesimo impegno morale. Il Neorealismo nasce sul terreno delle lotte popolari della Resistenza, da una sete di rinnovamento, di riscoprire il popolo e la realtà italiana e soprattutto dall’esigenza di aderire al modo di pensare e di vivere della gente comune. Il periodo di nascita e della maturità del Neorealismo è contrassegnato dall’ansia di liberarsi dagli schemi di una cultura provinciale e patriottarda. Dopo la svolta politica del 1948, le cose cambiano e il Neorealismo viene pesantemente attaccato e osteggiato dal nuovo clima politico, a cui gli artisti, animati dall’illusoria speranza di una rinascita nazionale, tentano di opporre le proprie forze fino manifestare nel febbraio del 1949 in Piazza del Popolo a Roma. Dopo alcuni anni vita segnati da innumerevoli difficoltà e costellati da memorabili successi quali, fra i tanti, ad esempio, “La terra trema” di Visconti del ’48 o “Ladri di biciclette”, firmato nello stesso anno dalla coppia De Sica- Zavattini, dal 1951 inizia la parabola discendente del Neorealismo. Alcuni registi come Rossellini abbandonano del tutto il movimento, altri vi aderiscono solo superficialmente, altri ancora come Germi, Lizzani e De Santis, tentano di “rinnovare il Neorealismo”, indicando ognuno una strada diversa. Con la nuova organizzazione sociale reazionaria l’impeto costruttivo del

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34 Neorealismo si esaurisce e si svuota. La nuova situazione economica della società italiana, sviluppatasi su basi ben diverse da quelle che si aspettavano gli intellettuali dopo la Resistenza, ha contribuito enormemente nel processo di sgretolamento dell’ideologia neorealista, ritenuto da alcuni fazioso e di stampo comunista, ma ancor più ha pesato la tagliola della censura e le limitazioni poste agli autori.

Il Neorealismo ha comunque lasciato una traccia precisa a cui molti registi negli anni successivi hanno fatto riferimento. Sicuramente Fellini guarda al Neorealismo e ne fa tesoro, come possiamo notare nel suo film “La strada”, ma è pur vero che ne prende le distanze seguendo una sua precisa poetica che si sviluppa secondo una direzione che si allontana totalmente dalla scuola neorealista. Visconti stesso, uno dei maggiori esponenti del movimento, con “Senso” e “Le notti bianche” se ne allontana. Potremmo dire che dal Neorealismo si approda al Realismo.

L’unico regista che sembra non essere ricorso a questo cambio di rotta è Germi, ma a ben vedere, egli ha conservato la sua coerenza narrativa, come Visconti e Fellini, ma sono scomparsi tutti quegli elementi caratterizzanti la poetica neorealista che potevano far pensare a film come “Roma città aperta”.

La speranza che il Neorealismo possa ritornare alla luce in un futuro è sempre viva, in molte produzioni straniere c’è un vivo interesse attorno a questo movimento, ma non resta che constatare con un certo rammarico che gli autori di casa nostra sembrano orientati a seguire altre piste.

• Rubrica: “Occhio su Cinecittà” (pag 8): nel 1957 il cinema giapponese ha prodotto 443 film e i suoi spettatori hanno superato il miliardo.

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35 Il Centro Sperimentale bandisce un concorso permanente per soggetti cinematografici dal titolo “Bianco e Nero”.

• Scuola e cinematografo” (Filippo De Iorio pgg 9/11):

Anche a Roma, come nelle grandi capitali europee, già dall’inizio degli anni Cinquanta, si può notare la diffusione di corsi di studi legati al cinema, come ad esempio la Facoltà Universitaria del Magistero, che s’interessa del cinema come strumento di educazione, del cinema culturale e scientifico, del cinema come punto di partenza e come banco di prova dell’addestramento critico e morale delle masse. A tale rinnovamento corrisponde un’evoluzione delle coscienze che, tuttavia, ha portato solo in parte all’evoluzione della vita scolastica vera e propria, rimasta bloccata a causa della guerra, ma che lentamente si è rimessa in moto poco a poco in modo che il metodo didattico potesse stare al passo con l’argomento e la tecnica cinematografica.

• “La Spagna: la sua cultura e i suoi registi” (Domenico Allescia, pgg 12/13):

Il cinema spagnolo ha avuto negli anni Cinquanta un rilievo notevole. L’emergere della realtà spagnola a livello internazionale è ascrivibile, più che all’originalità o all’innovatività delle tematiche e delle modalità con cui vengono affrontate, quanto per la necessità di leggere e interpretare in maniera immediata e spontanea la fisionomia di una società e sensibilizzare la nazione a problemi vivi e attuali. In questo senso la cosa più importante di questo cinema è che si sia sviluppato su di un piano chiaramente polemico, con atteggiamento critico e con tono profondamente drammatico. Chiara è agli occhi della critica nostrana un’ evidente ispirazione del cinema spagnolo all’insegnamento neorealista. Il fatto di aver preso a modello, da parte degli autori spagnoli, la scuola neorealista costituisce un merito per loro e un

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36 onore alla nostra tradizione cinematografica, a quella attitudine realista che non ha caratterizzato tanto l’Italia di un determinato periodo, quanto tutto il cinema conferendogli quelle attitudini a cogliere la realtà con un’efficacia che la cultura moderna meccanizzata e dinamica non poteva ottenere con altri mezzi.

• Rubrica: “A passo ridotto” (pgg 14/16):

 “Cineamatorismo e cinema professionale” (a cura di Pietro Corrado):

il cinema è un’arte giovane e nuova ed è in continua evoluzione. Accanto alle grandi produzioni commerciali, si diffonde un tipo di formato cinematografico più breve e meno riconosciuto, ma molto interessante dal punto di vista artistico, che è quello del cortometraggio amatoriale. In genere si tratta di film brevi, di una decina di minuti, girati con pochi mezzi, da appassionati slegati dal circuito dello smercio commerciale e dal circuito professionale, ma intrisi di contenuti e della vera essenza del fare cinema. Di solito il lavoro si avvale di un testo stringato, privo di fronzoli e di inutili lungaggini, reso con quel numero essenziale di immagini oltre il quale si cadrebbe nel prolisso, contrappuntato da suono, parole e rumori nella misura giusta. È ovvio come in tale lavoro il ruolo principale venga coperto dalle immagini e ad essa va attribuita quasi tutta la bontà del film. In tale dimensione, ogni inquadratura, ciascun movimento ha una sua propria funzionalità espressiva, tale per cui il film del cineamatore va principalmente visto più che udito. Per finire va dato risalto allo sperimentalismo che rappresenta il carattere peculiare del cinema d’amatore. L’amore per l’arte e l’assoluto disinteresse per ogni forma di commercio permettono all’amatore la più ampia libertà di movimento e di pensiero, proprio perché svincolato dagli schemi che regolano il circuito professionale.

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37  “Cineamatorismo nel sud” (a cura di Angelo Garruso): il cineamatorismo è senza dubbio un fatto di cultura e come tale non dovrebbe presentare “zone depresse” e problemi meridionali, non dovrebbe cioè seguire la sorte degli altri fenomeni politici, economici e sociali che affliggono il nostro paese. Purtroppo ciò accade anche in ambito artistico e il cinema amatoriale, che nel nord del paese annovera numerosi appassionati, nel Sud ha minore diffusione, pur se quei pochi cineamatori presenti si sono rivelati capaci di realizzazioni notevoli. A sostegno di questo modo di far cinema è l’insorgere nelle varie province del sud Italia di numerosi cine club dove appunto i cineamatori posso avere spazio e collocazione nel panorama cinematografico. Da ciò si deduce che nel meridione esistono le basi culturali e poetiche per poter fare non solo del cineamatorismo, ma del cineamatorismo d’avanguardia, frutto di idee nuove e di innovative.

• Controluce a Mezzogiorno : “ Chi cambia cielo cambia fortuna” (Antonio Prospero, pgg 17/18):

Da Savignano arriva una storia dal finale lieto e insolito. Come tanti giovani inoccupati , Giovanni Capobianco, giovane povero e di buona famiglia, è costretto a lasciare il paese natio per sbarcare il lunario e sostenere la famiglia. Il ragazzo emigra, come tanti altri, a Prato nel 1955 per trovar miglior fortuna lavorando in un’industria di cenci, impiego umile riservato ai “Marocchini” provenienti dal meridione. La buona sorte però vuole che il 22 dicembre del 1957 mentre sfodera un paio di pantaloni americani, Giovanni Capobianco trova nelle tasche tre fogli da mille dollari l’uno, molto più di quanto avrebbe guadagnato nei tre anni trascorsi a selezionare stracci e sfoderare giacche vecchie. I sogni di un modesto lavoratore, proveniente

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38 dalla montagna, d’un tratto si realizzano. Una conclusione del tutto inaspettata e piena di gioia per uno dei tanti giovani sottratti alla nostra terra. • “Sogni in cartolina” (Livio De Felice, pgg 19/20):

Rinvenire vecchie cartoline ricevute nel corso del tempo, riporta alla mente non solo luoghi lontani, ma soprattutto storie e riflessioni sulle persone che le hanno scritte e sui ricordi che ci legano ad esse. Anche un mucchio di cartoline, apparentemente insignificante, può acquistare nel tempo un valore inestimabile a testimonianza della nostra storia passata e degli avvenimenti accaduti in un’intera società.

• Rubrica: “Al critico la parola”: (Vittorio Caldiron e Carlo Spruna, pgg 21/24):

 “Testimone d’accusa” di B. Wilder (V.C.): il genere poliziesco ha avuto nel cinema hollywoodiano una storia meno lineare e coerente del western. Con “Testimone d’accusa” di Billy Wilder, invece torna in auge il giallo classico, a dispetto degli action movies ritmati da sparatorie e inseguimenti. È la storia di un processo per omicidio, che un grosso avvocato inglese riesce a vincere nonostante tutte le apparenze siano contro il suo cliente. In fondo ci sono tre finali a sorpresa, uno più eclatante dell’altro, nel caso lo spettatore non si accontenti di uno solo. Wilder in questo film non si propone di rivoluzionare il genere poliziesco, bensì di diverte a lavorare di cesello sui personaggi convenzionali. Per creare un’irresistibile galleria di figure e figurine si serve delle sue doti superiori di arguzia, di tocchi svelti e appena accennati, ma anche di una schiera di attori e di caratteristi di grande valore. Tipico film d’evasione, “Testimone d’accusa”, non riesce ad eguagliare la grandezza dei capolavori di Wilder, quali “Viale del tramonto” o “Giorni perduti”.

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39  “Fortunella di De Filippo” ( C.S.): Fortunella è una donnetta romana che vive vendendo roba vecchia a Porta Portese. Con lei vive anche una specie di socio, metà ladro e metà sfruttatore, cui lei, nonostante tutto, è stranamente attaccata. Ma non è quest’uomo la sua ragione di vita: lavorando, sgobbando, trascorrendo le ore nei più umili mestieri, Fortunella si culla nella singolare illusione di non essere una qualunque: trovatella sì, ma figlia di un principe che ha il suo bel palazzo proprio al centro del quartiere in cui lei abita; quel palazzo, pensa Fortunella, un giorno sarà suo perché il principe presto o tardi la chiamerà e le riconoscerà tutti i suoi diritti. Il nuovo lavoro di Eduardo De Filippo ha tutta l’aria di un film felliniano, così in bilico fra sogno e realtà, forse grazie anche alla presenza di Giulietta Masina. Il film però complessivamente non spicca.

 “Il ponte sul fiume Kwai” di David Lean (V.C.): Il film premiatissimo di Leane è una chiara critica alle crudeltà della guerra, ma soprattutto un’accurata analisi delle questioni riguardanti l'etica militare applicata ai vari gradi di comando all'interno dell'esercito sia inglese che giapponese. Si tratta di un ottimo film di guerra e opera prestigiosa per la rara sapienza del ritmo narrativo e per la sagace compostezza dell’uso della macchina da presa.  “La storia di James Dean di George e Altman” (C.S.): opera sul giovane divo

scomparso prematuramente, questo documentario pone a confronto la vita con la leggenda di James Dean, attraverso l’uso di materiale fotografico e cinematografico , anche inedito.

 “Le signore preferiscono il mambo” di B. Borderie (C.S.): un ex ufficiale di marina, caduto in basso per via della droga e rifugiatosi in Sud America viene ingaggiato da un losco riccone per portare a spasso un gruppo di turisti per mare. Ma dietro il pretesto della caccia allo squalo si nasconde un

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40 traffico di stupefacenti, che l'abbrutito ma onesto ex ufficiale riesce a sgominare. Eddie Constantine è l’incontrastato protagonista di questo film.

NUMERO 6, ANNO PRIMO, NOVEMBRE 1958 • Editoriale: “Gli adulatori di Ammanati”(pag 1):

La redazione di “Cinema Sud” critica aspramente la Mostra del Cinema di Venezia nell’operato del direttore Floris Luigi Ammanati, più attento agli ammiccamenti degli adulatori che a dare riconoscimento a chi davvero ne mostra meritevole. Delusione per Francesco Rosi, presente a Venezia con “La Sfida”, che solo in parte salva il tono del Festival e per un programma alquanto vacuo e ridicolo.

• “Una mostra senz’anima” (Vittorio Caldiron, pgg 2/5):

Decisamente sottotono la XIX Mostra del Cinema di Venezia, dei quattordici film in concorso metà deludono.

Il primo è “Piccolo campo” di A. Mann, tra i film americani insiema a “Orchidea nera” di Martin Ritt.

Svezia e Russia sono presenti con “Luci della notte” di Lars-Eric Kjel Igren e “ La vedova di Otar”, entrambe pellicole di alcuna rilevanza né alcun interesse. Si distingue però “L’ottavo giorno della settimana” di Aleksander Ford, anziano regista polacco, in auge dagli anni ’20 e sempre attento ai problemi della società polacca.

La Francia è in concorso con ben tre titoli: “Una vita”, di Astruc, “In caso di disgrazia” di Claude Anton Lora, “Gli amanti” di L. Malle.

Il Giappone ha presentato in concorso una delle selezioni più belle, anche se il film a cui è andato il “Leone d’Oro”, “L’uomo del riksciò”, non è il migliore dei due giapponesi. Altra cosa, infatti, è “La leggenda di Norayoma” di

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41 Keisuke Kinoshita, il cui merito maggiore risiede nel coraggio morale, nella spregiudicatezza con cui il regista guarda ai problemi secolari della sua terra, ai dolori e alle sofferenze della sua gente.

L’Inghilterra e la Germania federale, L’Italia e la Cecoslovacchia hanno presentato le opere di più dichiarato interesse.

“La bocca della verità”, unico film inglese, diretto da Ronald Neome, è un’opera godibilissima e saporosa che porta il divertimento su un piano di una disincantata cultura e di un preciso gusto, in una parola dell’intelligenza. L’Italia, presente con un solo film, non sfigura certo. “La sfida” di Franco Rosi è uno degli esordi più promettenti degli ultimi anni. La lezione del Neorealismo non è andata perduta, considerando anche che il regista è stato assistente di Visconti e la lezione neorealista appartiene alla sua formazione. Con il film cecoslovacco “La fossa del lupo” di Jiri Weiss arriva il miglior film della rassegna. Il tono greve di un ambiente senza schiarite, immerso in una indolenza morale in cui i sentimenti si sfaldano o si raggrumano ha trovato nel regista un evocatore sottile e sagace.

Il bilancio della XIX Mostra del Cinema di Venezia è dunque non clamoroso, ma dignitoso, così come il verdetto, tutt’altro che soddisfacente, ma per niente disastroso. Il premio al Miglior Film va a “L’uomo del riksciò”, ma “La fossa del lupo” avrebbe di gran lunga meritato la vittoria sul film giapponese, imponendosi per coerenza e maturità espressiva su tutti gli altri. La rassegna si conclude quindi con l’amaro in bocca e con una speranza aperta sulla prossima edizione.

• “Un panorama mondiale: la sezione Informativa” (Giorgio Tinazzi, pgg 6/7):

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42 La sezione “Informativa” della mostra nasce nel 1958 con lo scopo di fornire, al di fuori dei film in concorso, un quadro per quanto possibile esauriente della produzione mondiale dell’annata. Sono queste opere già presentate ad altre manifestazioni, ma che meritano di essere offerte alla platea veneziana, in quanto dotate un loro notevole interesse per vari motivi.

Il premio della Critica, assegnato da una Commissione composta da Guido Aristarco, Pietro Bianchi, Vinicio Marinucci, Morando Morandini, Angelo Solmi, va all’unanimità a Ingmar Bergman (Svezia) per “Alla fine del giorno” e a Morris Engel (USA) per “Matrimoni e bambini”, il cui stile è ispirato al nostro migliore Neorealismo. Questo di Engel è il migliore fra quelli americani al Lido.

Possiamo annoverare anche “La dea” di J. Cromwell, “Gli sfidanti” di S. Kramer, di recente premiato a Berlino. Ottimo l’ungherese “La casa ai piedi della roccia” di Karol Makk.

L’Italia, dopo aver esordito con “Ballerina e buon Dio” di Leonviola,

ha presentato “I soliti ignoti” di Monicelli. Un’altra opera da citare è sicuramente “Le beau Serge” di Claude Chabrol. La sezione “Infomativa” risulta quindi di notevole interesse.

• “Una lettera da Venezia” (Paolo Vaccaro, pgg 8/9):

Il racconto di una giornata di Festival dell’inviato di “Cinema Sud” a Venezia fra divi, feste in terrazza e i contorni mondani della chermesse cinematografica.

• “I ventisei anni del Festival veneziano” (V.C, pgg 10/15):

1932: la prima edizione del Festival del cinema nasce all’interno della XVIII Biennale di Venezia a scopi turistici, ma il successo culturale è enorme. Vince “Verso la vita” di Ekk.

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43 1934: si replica il successo della prima edizione e vede la partecipazione di artisti come Vylly Forst, Jacques Feyder, Frank Capra e Gerard Rutten. 1935: la mostra diventa annuale, ma fa le prime grinze.

1936: apposite norme cominciano a disciplinare il funzionamento della manifestazione mantenendone il coordinamento con l’Ente Autonomo Esposizione Biennale Internazionale d’Arte di Venezia. Il primo premio va a “Kermesse eroica” di J. Feyder.

1937: il nuovo clima politico inizia a mostrare le sue ingerenze anche nella kermesse cinematografica, fino ad influenzarne la scelta del vincitore. Dato per favorito “La grande illusione” di Renoir, film poema del pacifismo, alla fine il premio è andato a “Carnet di ballo” di Duvivier. Grande successo per “Scipione l’africano” di Carmine Gallone.

1938: le interferenze della politica sono ormai in primo piano. Su quarantotto film presenti si distribuiscono trentasette premi, nonostante pochissime opere degne di nota. La premiazione ha suscitato grande malumore premiando il film tedesco “Olimpya”.

1939: “Alba tragica” di Carnè e “L’angelo del male” di Renoir riconfermano il prestigio del cinema francese, in cui i critici più seri trovano preziose indicazioni per un cinema realista. Intanto con “Abuna Messias” di Alessandrini continua la serie coloniale.

1940: la Mostra si riduce a una triste rassegna di film italiani e tedeschi. 1941: tra i film dei soliti Blasetti, Mattoli, Alessandrini, Mastrocinque si nota “La nave bianca” di De Robertis in cui ha una parte preponderante Rossellini.

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