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- Capitolo III - Quinto Lutazio Catulo e l'autobiografia “mancata”.

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Academic year: 2021

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- Capitolo III -

Quinto Lutazio Catulo e l'autobiografia “mancata”.

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A Quinto Lutazio Catulo è dedicata lʼultima parte di questo lavoro. Si tratta di un capitolo visibilmente ridotto rispetto ai precedenti, non perché non sussistano problematicità a proposito di questo personaggio, ma perché i frammenti tradizionalmente1 ritenuti autobiografici sono solo tre, tutti ugualmente provenienti dalla Vita di Mario. In realtà vedremo oltre come sia difficile persino sostenere che Catulo abbia scritto unʼautobiografia confrontabile con le opere di Marco Emilio Scauro e Publio Rutilio Rufo.

frammento 1 (1C=1P1 et 2)

Atteso il momento prestabilito dunque, schieratisi gli uni di fronte agli altri (sc. I Romani contro i Cimbri nella battaglia di Vercelli), Catulo aveva ventimilatrecento

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soldati, mentre quelli di Mario erano trentaduemila. Questi, distribuiti in due ali, circondavano Catulo che stava al centro, così come ha scritto Silla, il quale prese parte a quella battaglia. Dice inoltre che Mario sperava che le falangi arrivassero a scontrarsi soprattutto alle estremità, lungo le ali, così che la vittoria fosse in particolare dei suoi soldati e Catulo non si potesse confrontare con i nemici, finendo con il contenere nella sua schiera unʼinsenatura come è normale sui fronti estesi. Così (Mario ndt.) aveva disposto le forze . Raccontano che anche lo stesso Catulo si sia difeso su questi medesimi fatti, additando la grande malvagità di Mario nei suoi confronti.

frammento 2 (2C=2P1 et 2)

Erano così resistenti nel corpo ed esercitati alla battaglia (sc. I Romani contro i Cimbri nella battaglia di Vercelli), che non si vedeva un Romano sudato o ansimante, pur sotto una simile canicola e dopo la corsa allʼassalto, così come dicono che racconti Catulo magnificando i soldati.

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I soldati di Mario fecero razzìa delle ricchezze (sc. dei Cimbri) ma si dice che le spoglie, le insegne e le trombe furono portate al campo di Catulo; e questi si è servito soprattutto di tale prova per dire che la vittoria era sua. A quanto pare – sorta una contesa anche fra i soldati – scelsero come arbitri degli inviati di Parma che erano già là. Gli uomini di Catulo, portandoli fra i cadaveri dei nemici, mostrarono loro come fossero stati trafitti dai propri giavellotti: erano questi riconoscibili dalle lettere, poiché portavano inciso sul legno il nome di Catulo.

Questi sono i brani contenenti gli episodi che – secondo la tradizione critica – avrebbero trovato posto in uno scritto autobiografico di Quinto Lutazio Catulo. Le due edizioni del Peter (la prima del 1870, la seconda del 1914) raccolgono tutti i frammenti attribuiti a Catulo (tredici complessivamente) e seguono – pur con qualche decennio di distanza fra le due pubblicazioni – uno schema del tutto analogo: i primi tre frammenti sono quelli qui analizzati, provenienti da Plutarco, e classificati da Peter come

Quinti Lutatii Catuli de Consulatu et de Rebus gestis suis liber2. I frammenti 4 e 5 si trovano sotto la categoria denominata Versus, e constano appunto di alcuni distici elegiaci tramandati attraverso Cicerone3 e Aulo Gellio4. I frammenti 6 e 7 vengono attribuiti alle Communes

Historiae, altra opera riferita non senza controversie a Catulo, variamente impastata di

antiquaria, storia, mitologia, religione, costume ecc...5. Seguono quindi 6 frammenti (dallʼ8 al 13) che – nelle due edizioni – sono stati diversamente valutati: nel testo del 1870 il frammento 8 – proveniente dal commento serviano allʼEneide6 - è classificato come Incertae

sedis fragmentum, mentre quelli seguenti vengono tutti riferiti ad un Ex Lutatii Catuli Libro aliquo de antiquitatibus. Nellʼedizione novecentesca invece “scompare” lʼinafferrabile libro di

antiquaria, mentre i frammenti dallʼ8 al 13 rientrano tutti fra gli Incertae sedis fragmenta. La spiegazione la dà naturalmente lo stesso Peter7. Nel 1870 lo studioso disse chiaramente: «Da queste Historiae (le Communes Historiae di cui sopra, ndt) separo un certo libro di Lutazio Catulo, redatto a proposito di argomenti di antiquaria e grammatica, i cui frammenti fino a ora venivano inclusi fra quelli (delle Historiae, ndt.). Cosa che tuttavia non può esser fatta a causa della diversità di argomento». Peter ipotizza in sostanza lʼesistenza di un liber de

antiquitatibus, assolutamente distinto dalle Historiae, dove possono trovare comoda

collocazione i frammenti dallʼ8 al 13, apparentemente così lontani per argomento da unʼopera di carattere storico. Nella seconda edizione Peter fa però alcune nuove considerazioni sul termine Communis o Communes riferito ad unʼopera storiografica: «Mommsen ha stimato che in questo libro (sempre le Communes Historiae, ndt.) fossero trattate quelle questioni e quei racconti che sono comuni fra Italici e Greci. Poiché senza

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dubbio un simile interesse conobbe un incremento presso i Romani, ho preso a sospettare che Lutazio avesse mutuato lo stesso titolo dai Greci. Inoltre mi sono ricordato che da Polibio sono state messe in relazione la καθολικην καὶ κοινην ἱστορίανe le Storie di Timeo sono state definite κοινας ἱστορίας da Dionigi. Dallo stesso la storia di un solo popolo è stata contrapposta Te koinei historiai e ugualmente da Diodoro. […] Così o bisogna ipotizzare lʼesistenza di unʼaltra opera, o ricorrere ad unʼaltra spiegazione per il vocabolo». Insomma, nellʼedizione del 1914 Peter preferisce assumere una posizione più “prudente”, che non chiami in causa altre opere di Lutazio Catulo difficilmente ravvisabili, senza entrare troppo nel merito della definizione di Communis Historia. Rimane il fatto che i frammenti dallʼ8 al 13 non riportano alcuna citazione di opere particolari, ma solo il nome di un - peraltro non ulteriormente specificato - Lutazio (di un Catulus o Catullus per il solo frammento 10).

La Chassignet procede in modo differente. Isolati i tre frammenti dalla vita di Mario nella parte dellʼopera dedicata allʼautobiografia politica, la studiosa francese – tralasciati ovviamente i due brani in versi, non congrui per il suo studio – ha raccolto nel capitolo intitolato Lʼannalistique récente 12 frammenti e vengono tutti riferiti alle Communes Historiae. Rispetto alle edizioni del Peter compaiono 5 brani “nuovi” per così dire, tutti provenienti dallʼOrigo gentis Romanae, singolare opera di età imperiale attribuita – non senza diversi dubbi – a Sesto Aurelio Vittore8. Lʼopera riguarda, come il titolo suggerisce, le origini mitologiche di Roma, attraverso – soprattutto – numerosi confronti con lʼEneide.

Questi frammenti hanno contenuto mitografico e antiquario; da loro – come dagli altri riportati da Peter e Chassignet e attribuiti con qualche grado di certezza alle Communes

Historiae – nulla si può evincere su un eventuale scritto autobiografico di Quinto Lutazio

Catulo.

Tuttavia queste premesse sono necessarie per capire un tratto fondamentale dellʼautore: potremmo definirlo quasi un letterato di professione, uno che ha composto versi, ha scritto di storia e di antiquaria, ha prodotto orazioni9 e ha – infine – redatto un

liber de consulatu et de rebus gestis. Il personaggio presenta una certa differenza da Marco

Emilio Scauro e da Publio Rutilio Rufo. Di questi due, il primo scrisse effettivamente, a nostra conoscenza, la sola autobiografia; il secondo scrisse anche delle Storie in greco, che potevano peraltro comprendere anche sezioni autobiografiche. Lo stesso Rutilio – uomo colto, giurista e letterato – si occupò di un campo di studio comunque circoscritto. Gli interessi di Lutazio Catulo sembrano esser stati assai più vasti. Ma nella vastità degli interessi di questo ultimo personaggio non sembra trovare spazio unʼautobiografia vera e

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propria. Mai – nei testi di Plutarco – si fa riferimento ad unʼopera titolata in questo modo. Il titolo di cui sopra (Liber de consulatu) lo dobbiamo a Cicerone, che nel Brutus10, oltre a individuare Catulo come uomo di profonda cultura letteraria, parla di: «una purezza incorrotta della lingua latina, che può facilmente essere còlta da quel libro sul consolato e sulle sue imprese – scritto con uno stile delicato, degno di Senofonte – che egli (sc. Lutazio, ndt.) indirizzò al poeta Aulo Furio, suo amico; questo libro non è per niente più noto di quei tre di cui ho parlato prima, i libri di Scauro». Le parole di Cicerone sono estremamente chiare: nel lodare lo stile di Catulo, stile morbido, scorrevole, degno di Senofonte, cita lʼopera dalla quale – a suo parere – meglio si può cogliere la finezza di questo stile: un libro sul consolato e sulle gesta personali. Non si parla in effetti di autobiografia. É giusto tuttavia fare attenzione alle ultime parole citate nel passo: Cicerone ricorda quanto ha detto poco prima (si tratta di unʼaltra frase del Brutus già analizzata a proposito dellʼautobiografia di Marco Emilio Scauro11) a proposito del De uita sua di Scauro, in tre libri: è unʼopera di grande utilità ma che nessuno legge. Viene da sé la conclusione a cui Cicerone vuole arrivare: esistono opere oratorie e autobiografiche di grande valore12 – anche stilistico – che nessuno al tempo dellʼArpinate legge già più; il libro di Lutazio Catulo, ben scritto e di scorrevole composizione, non è più noto dei capitoli dellʼautobiografia di Scauro, quos nemo legit. In definitiva è Cicerone a creare il problema: è lui che accosta con estrema naturalezza lʼopera di Lutazio Catulo a quella di Scauro (che sappiamo per certo essere unʼautobiografia).

Del resto unʼopera de consulatu et rebus gestis suis - per quanto non sappiamo se questo fosse effettivamente il titolo13- avrà evidentemente avuto una forte connotazione autobiografica. Ma come fa notare Bates14, il “colore” più forte dellʼopera di Catulo potrebbe essere quello apologetico e non quello autobiografico. Certamente la differenza è sottile, tuttavia non si può negare la forte caratterizzazione autodifensiva dei frammenti 1, 2 e 3.

Nel primo abbiamo una specie di rivendicazione: se è vero che ad aver cambiato le sorti della guerra cimbrica furono i soldati mariani, è pur vero che Mario – dalle parole di Plutarco - dispose lʼesercito appositamente, già con lʼintento di impedire a Catulo persino di combattere, con lo scopo di prendersi tutto il merito della vittoria. Per esigenze della trattazione, le osservazioni su questo frammento saranno esposte più avanti.

Il secondo è una lode alla resistenza fisica dei Romani. Secondo le parole di Plutarco, riprendendo un racconto relativo a Silla: «Partito lʼattacco, coloro che raccontano le gesta di Silla dicono che Mario subì una vendetta divina: sollevatasi infatti – comʼè naturale – unʼimmensa nube di polvere e nascosti gli eserciti lʼuno allʼaltro, quello di Mario, gettatosi per primo allʼinseguimento, trascinata tutta la truppa, non si scontrò con i nemici, ma passando accanto alla falange si sperse nella pianura per diverso tempo. Per caso dunque

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avvenne che i Barbari si scontrassero soprattutto con Catulo, e che la lotta avvenisse maggiormente contro di lui e i suoi soldati, fra i quali Silla dice di essere stato schierato; e dice anche che il caldo e la luce del sole – che abbagliava i Cimbri – finirono con essere alleati dei Romani. (I Barbari ndt.) erano infatti abituati a resistere al freddo e cresciuti comʼerano in luoghi ombrosi e gelati – come ho detto – erano sconvolti dalla calura [...]»15. Insomma, dal racconto di Plutarco sembra che lʼesercito di Catulo abbia sì combattuto vittoriosamente contro i Cimbri, per quanto Mario avesse cercato di avocare a sé la vittoria. Ma la buona performance dellʼesercito di Catulo sarebbe dovuta essenzialmente a fatti contingenti, a coincidenze e non alla particolare preparazione fisica declamata dal generale. Questi aneddoti forse provengono tutti da una fonte assolutamente antimariana, come dovette essere la Vita di Silla. In realtà, come già rilevato16, la visione di Plutarco non è integralmente né mariana né antimariana. A voler vedere un accento antimariano in questo racconto, certamente un esercito esperto come quello di Gaio Mario che si perde nella pianura a causa del polverone sollevato da sé medesimo non dà una bella dimostrazione di abilità strategica. Tutto sommato un fatto del genere – considerato anche il grido di Mario, colmo di ὕβρις e la conseguente nemesi divina, punizione per un atto empio – avrebbe potuto trovare una collocazione adeguata anche in uno scritto di Catulo, oltre che in uno di Silla. Fermo restando però che – dal poco che sappiamo dal liber de consulatu – il console del 102 tendeva ad enfatizzare il valore dei suoi soldati e la malignità di Mario nei suoi confronti, piuttosto che a puntare il dito contro una non ben chiara incapacità tecnica del suo nemico personale.

Il terzo frammento qui preso in esame è grossomodo divisibile in due episodi: per prima cosa Plutarco ricorda la razzìa ai danni dei Cimbri da parte dei soldati di Mario. Gli uomini di Catulo comunque si erano aggiudicati sul campo alcuni oggetti significativi per indicare come si fosse conclusa la battaglia (spoglie, insegne e trombe); e di questi oggetti Catulo “si servirà come prova”, letteralmente, per attribuirsi il merito della vittoria. In secondo luogo è narrato lʼepisodio degli arbitri di Parma, chiamati a risolvere una querelle nata tra i soldati e portati tra i cadaveri dei nemici per constatare che erano stati trafitti da giavellotti marchiati con il nome di Catulo. Il tema è sempre lo stesso: per Catulo la vittoria è da attribuire prevalentemente ai propri uomini.

La battaglia è notoriamente quella cosiddetta dei Campi Raudi o di Vercelli17, vinta di grande misura dai Romani a breve distanza dalla sconfitta colossale subita sul campo dal solo esercito di Catulo18. A proposito di questi avvenimenti, appare interessante la visione di una fonte abbastanza tarda, Eutropio:

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«[...] in quarto consulatu collegam habuit Q. Lutatium Catulum. Cum Cimbris itaque conflixit et duobus proeliis CC milia hostium cecidit, LXXX milia cepit et ducem eorum Teutobodum, propter quod meritum absens quinto consul est factus. Interea Cimbri et Teutones, quorum copia adhuc infinita erat, ad Italiam transierunt. Iterum a C. Mario et Q. Catulo contra eos dimicatum est, sed a Catuli parte felicius. Nam Proelio quo simul ambo gesserunt CXL aut in pugna aut in fuga caesa sunt, LX milia capta. Romani milites ex utroque exercitu trecenti perierunt. Tria et triginta Cimbris signa sublata sunt; ex his exercitus Marii duo deportauit, Catuli exercitus XXXI. Is belli finis fuit; triumphus utrique decretus est»19.

Eutropio segnala una migliore riuscita di Catulo in battaglia rispetto a Mario. Tuttavia si tratta di una fonte lontana dagli avvenimenti e viene da pensare che la lettura di Eutropio dipenda soprattutto al dato antiquario; infatti é segnalato addirittura il numero delle insegne accaparrate dallʼesercito, con maggiore precisione rispetto al dato fornito da Plutarco: ben trentuno insegne a Catulo, solo due a Mario; ragion per cui alla fine – come dice Eutropio – triumphus utrique decretus est. Al di là dellʼattendibilità dei dati della fonte, sembra che Eutropio trovi la motivazione di una migliore riuscita dellʼesercito di Catulo nel maggior numero di insegne conquistate. In realtà Plutarco – nel frammento 3 – fa trapelare una visione leggermente diversa: è mediante lʼostentazione massiccia delle spoglie, delle insegne e delle trombe che Catulo cerca di dimostrare il valore della sua impresa.

Nessuno dei due autori aveva presente direttamente un testo di Catulo. Tuttavia sappiamo che Plutarco apprese questi aneddoti per averli letti da Silla e per essere stato sicuramente più vicino nel tempo ai fatti in questione.

Innanzitutto si nota come Plutarco dia una descrizione abbastanza dettagliata di cosa viene rubato ai nemici e da chi: protagonisti esclusivi sembrerebbero esser stati i soldati di Mario, che “saccheggiarono”, “strapparono” (quale altro significato dare allʼaoristo di διαρπάζω?) i beni presenti nellʼaccampamento nemico. Si parla naturalmente di χρήματα, termine abbastanza generico che può esser tradotto correttamente con “ricchezze”. Qui forse il significato preciso lo si comprende per opposizione: le prime due frasi del frammento sono coordinate mediante una costruzione “τα μεν... τα δε...”.

Χρήματα è quindi qualcosa di diverso e volutamente separato da “…λάφυρα...λάφυρον” sembrerebbe indicare le spoglie, gli oggetti dei soldati ormai morti. Potrebbe indicare anche in generale il bottino, ma non avrebbe senso contrapporlo così chiaramente a Χρήματα. Σημαία e σαλπιγξ poi sono oggetti assolutamente individuabili, che dovevano trovare

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spazio soprattutto nel corteo trionfale.

Plutarco non lo dice esplicitamente, ma non va dimenticato uno degli avvenimenti principali del periodo: la cosiddetta – e tanto discussa – riforma dellʼesercito da parte di Mario. Mario testò inizialmente proprio sui suoi soldati il nuovo assetto, che prevedeva tra lʼaltro la possibilità per i combattenti di fare razzìa e tenere per sé ciò su cui riuscivano a mettere le mani. In seguito gli altri generali capiranno la forza di questo provvedimento e acquisiranno questo stesso modo di fare. Ma forse non è ancora il momento, forse questa prassi non è ancora consolidata, forse Quinto Lutazio Catulo non segue questa procedura.

Cʼè una differenza sostanziale, unʼopposizione netta fra due comportamenti: fra la ruberia – da parte dei soldati mariani – perpetrata a danno di un nemico sconfitto, e la condotta dellʼaltro esercito: le insegne sono state strappate al nemico nella foga della battaglia e sono state necessariamente strappate dai soldati di Catulo, i quali certamente non combatterono da soli ma, proprio in virtù di quelle insegne – addirittura trentuno secondo Eutropio, a fronte delle due ottenute da Mario – potevano attribuirsi un ruolo di primissimo piano in quello scontro.

Il frammento numero 1 – il più lungo conservato – contiene il racconto della “beffa” di Mario ai danni di Catulo, il tentativo cioè – reale o solo percepito – di lasciare in ombra i soldati del secondo per poter attribuire la vittoria solo al primo.

In questa trattazione ci soffermeremo solo su unʼespressione: ἀπολογεῖσθαι περὶ τούτων.

A proposito del liber de consulatu, è significativo quanto detto da R.L.Bates20: «Lʼautobiografia spesso tende a diventare unʼapologia camuffata. Abbiamo visto tracce di questa tendenza nel lavoro di Scauro, e tutto ciò sembra aver avuto un accento particolarmente pronunciato negli scritti di Rutilio. Cionondimeno, nonostante la natura frammentaria della prova, quel che rimane suggerisce che sia Scauro che Rutilio siano riusciti a mantenere questa tendenza sotto controllo: le loro vite e il contesto temporale erano i temi principali, mentre lʼautodifesa era solo un filo della trama, non lʼintero tessuto. Infatti, personaggi già impegnati con delle laudes sui è improbabile che si mettano a scrivere unʼapologia pro vita

sua. Con Quinto Lutazio Catulo ad ogni modo lʼautodifesa diviene il tema dominante. Nel liber de consulatu et rebus gestis suis si fa a meno dellʼintera narrazione della vita di Catulo; il

raggio dʼazione è chiaramente limitato al suo ruolo negli affari pubblici e militari».

Segue grossomodo la stessa linea anche G.Marasco21: «Fra i suoi scritti (di Catulo ndr.), particolare interesse presenta lʼapologia che egli compose per difendere il proprio operato nella guerra contro i Cimbri, nota in particolare da una testimonianza di Cicerone e

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da tre frammenti conservatici in Plutarco […]. Il carattere fortemente apologetico dellʼopera è comunque indicato già dalla dedica a Furio, generalmente identificato con A.Furio Anziate, autore di Annales dei quali ci sono stati conservati pochi versi. Si può quindi ritenere che Catulo abbia indirizzato il suo scritto a Furio per fornirgli materiale per gli

Annales, nei quali aveva ogni interesse a veder elogiata la propria azione. Questo elemento

non vale comunque ad infirmare il carattere di autobiografia dellʼopera, ove si consideri che anche Silla indirizzò in seguito la propria autobiografia a Lucullo perché se ne servisse come materiale per la stesura di unʼopera storica. Converrà piuttosto sottolineare che la testimonianza di Cicerone indica che la narrazione di Catulo era circoscritta al proprio consolato e agli eventi della guerra cimbrica, a cui si riferiscono – in effetti – tutti i frammenti rimasti; lo scritto deve quindi essere considerato appartenente al genere della letteratura memorialistica dedicata ad eventi particolari , della quale non mancano certo esempi nella letteratura latina».

Sia Bates che Marasco si basano per le loro affermazioni sulla valutazione complessiva dei frammenti. In effetti le notizie di cui disponiamo, soprattutto il citato frammento del Brutus22, portano a propendere per lʼidentificazione di unʼopera a carattere monografico. Non si tratta, nella notizia di Cicerone, di valutare solo il titolo proposto. Sempre Marasco23 ha osservato in proposito: «Non mi sembra sicura la conclusione che il titolo dellʼopera fosse effettivamente Liber de consulatu et de rebus gestis, dal momento che solo Cicerone vi accenna; e, del resto con tali parole Cicerone può ben aver inteso semplicemente indicare il contenuto dello scritto» - ed annota24 - «Si ricordino in proposito le notevoli divergenze delle fonti greche e latine circa lʼautobiografia di Silla»; Marasco fa in particolare riferimento agli studi di E.Valgiglio25 e G.Pascucci26. In effetti, Cicerone nel

Brutus dice anche qualcosa di più: parla di liber, al singolare, in netta contrapposizione con

gli illi tres […] Scauri libri27. Per non parlare degli almeno cinque libri di Rufo, ipotizzabili dal frammento 528. A meno di non immaginare lʼesistenza di unʼopera autobiografica completa che si esaurisce però in un solo libro, o di un rotolo di dimensioni eccezionali, bisogna concludere che il liber in questione se non era strettamente monografico poco ci manca. Ma il fatto che Catulo scelga un solo “capitolo” della sua vita è sufficiente per annoverarlo tra gli iniziatori dellʼautobiografia politica a Roma? In realtà, non esistono ragioni sufficienti per escluderlo del tutto. Si può solo concludere che la sua opera non trattò, con ogni probabilità, tutte le fasi della sua vita, dalla nascita, allʼeducazione, al cursus honorum... ma solo una parte che egli considerava – naturalmente – la più significativa. Ciò non rende il suo scritto “meno autobiografico” di quelli di Scauro e Rufo, solamente “più monografico”.

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non è affatto semplice.

Come per gli scritti di Scauro e Rufo, è logico anche per Catulo concludere che unʼopera di carattere autobiografico non potesse che avere accenti apologetici: quale personaggio mai – in un simile contesto storico e politico – avrebbe scritto un racconto sulla propria vita senza sottolineare gli elementi positivi che lo hanno condotto nelle scelte e negli vicissitudini principali? Un tono accusatorio – assolutamente controproducente e già utilizzato dai detrattori – o neutrale – più adatto a generi quali la biografia e lʼannalistica – sono ovviamente da escludere. Il tono apologetico è insito nellʼautobiografia, ma quanto possa avere avuto il sopravvento sullʼintero carattere dellʼopera può difficilmente essere valutato dai pochi frammenti a disposizione.

Volutamente dunque si è parlato poco fa di accenti e tono apologetico, e non di apologia vera e propria. Ciò per almeno due motivi: soprattutto davanti ad opere frammentate, voler incasellare a tutti i costi gli scritti entro un preciso genere – più o meno conosciuto – è unʼoperazione inutile oltre che sbagliata. In secondo luogo, anche volendo dare allo scritto di Catulo il titolo Liber de consulatu et rebus gestis suis e volendo ammettere che fosse un racconto della guerra cimbrica dal punto di vista di Catulo, non sussistono nelle fonti argomenti sufficienti per concludere che si trattasse di unʼapologia in senso stretto: nel caso, non lo fu per la concezione contemporanea che abbiamo del termine. Appare condivisibile la posizione di M.Von Albrecht, che – parlando di Catulo, ma anche di Marco Emilio Scauro e Publio Rutilio Rufo – definisce la loro una “ricca letteratura di memorie”, utilizzando a bella posta il termine memoirs29.

Unico elemento a favore di una classificazione di questo tipo è ἀπολογεῖσθαι

utilizzato da Plutarco per il frammento 1. Il significato è proprio “parlare in difesa”30, e il successivo περὶ τούτων si riferisce naturalmente agli argomenti contestati a Catulo, andando ancor più a delineare questo scenario accusa-difesa. Altrimenti nulla avrebbe vietato a Plutarco di utilizzare altre espressioni assai meno specifiche.

Nel caso di Catulo, a differenza di quanto accaduto per Scauro e Rufo, non si può certamente parlare di un processo vero e proprio; quantomeno non fece in tempo a subirne uno, dato che si diede la morte31. In realtà della morte di Catulo Cicerone e Plutarco forniscono versioni leggermente diverse.

Ad ogni modo, avviandosi al suicidio per scelta o per costrizione, ciò che è fuori da ogni dubbio è che non ebbe – evidentemente – né il tempo né la necessità di istruire alcuna difesa giudiziaria. Non ci sarà per lui nessuna vecchiaia da dedicare allʼotium, nessun buen

retiro per ripercorrere e rileggere i fatti salienti della propria vita. Fino allʼultimo vivrà il

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probabilmente è solo un “libello” apologetico, dove si mostra quanto il suo nemico del momento – Mario – abbia in realtà poco di cui gloriarsi. Rimasto fino allʼultimo sulla scena politica, ma relegato – prima – al ruolo di comprimario, - poi – a quello di spettatore, Catulo non potrà fare altro che affidare a uno scritto – breve – la sua versione di alcuni dei fatti che hanno portato Gaio Mario al punto in cui si trova. Trattandosi di avvenimenti che lo hanno avuto come protagonista, è ovvio che lo scritto sia di contenuto autobiografico. Ecco però che qua si potrebbe verificare unʼinversione di prospettiva rispetto alle opere di Scauro e Rufo: questi ultimi hanno scritto opere De uita sua, ripercorrendo le fasi della loro vita per leggere sotto una luce favorevole le vicende in cui sono rimasti coinvolti. Catulo scrive una difesa personale e – al tempo stesso – unʼaccusa allʼuomo che sta per toglierlo di mezzo; e per farlo non può fare a meno di narrare i fatti che li hanno visti entrambi protagonisti. Per Catulo vale il ragionamento di Bates32: il suo liber de consulatu fu probabilmente proprio un breve scritto apologetico “camuffato” da autobiografia. Che si tratti di una tendenza complessiva del genere autobiografico è difficile dimostrarlo; diciamo che – nellʼinterpretazione del lavoro di Catulo – una grande impronta deve averla data Cicerone, citando il liber de consulatu a breve distanza e in analogia con i De uita sua libri tres di Scauro33.

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1 Vedi infra nota 10.

2 H.PETER, Historicorum Romanorum Reliquiae, Lipsia, 1° ed.1870, 2° ed. 1914, pp. 190 e sgg. in entrambe le edizioni.

3 CIC., De natura deorum, 1,28,79. 4 GELL., 19,9,14.

5 A.LA PENNA, Sulla Communis Historia di Lutazio. Studi su Varrone, sulla retorica, storiografia e poesia latina. Scritti in onore di Benedetto Riposati, Rieti, 1979, pp 229 e sgg.

6 SERV., ad Aen. IX 710.

7 H.PETER, op. cit. supra nota 2, prima edizione p. CCLXXIV, seconda edizione p. CCLXVII e sgg.

8 Le informazioni qui riportate sono tratte dallʼedizione dellʼOrigo gentis Romanae curata da G.DʼANNA per la Fondazione Lorenzo Valla, 1992.

9 Di Lutazio Catulo non è conservata alcuna traccia di orazione. Tuttavia celebrano le sue qualità oratorie CICERONE: De Orat.II, 28. III; De Off. I, 133; Brut. 132-134. 259, e QUINTILIANO, XI, 3, 35.

10 CIC., Brutus, 132: «Incorrupta quaedam Latini sermonis integritas, quae perspici […] potest […] facillime ex eo libro, quem de consulatu et de rebus gestis suis conscriptum molli et Xenophontio genere sermonis misit ad A.Furium poetam, familiarem suum; qui liber nihilo notior est quam illi tres, de quibus ante dixi, Scauri libri».

11 Brutus 112, vedi supra p. 30.

12 Brutus 112-116. Cicerone parla in questa sezione degli stili oratori di Scauro e Publio Rutilio Rufo, evidenziandone i pregi e ripercorrendo, per sommi capi, le caratteristiche e le vicende dei personaggi. 13 Osservazione già fatta da M.CHASSIGNET, op. cit. supra cap. I, nota 2, p. XCVII nota 502.

14 R.L.BATES, op. cit. supra cap. I, nota 89, pp. 207 e sgg. 15 Plut., Mar., 26, 5-8.

16 Cfr. supra. p. 128

17 Come noto, non si tratta della città piemontese. Probabilmente Vercellae era una località non meglio identificata nel nordest italiano, nei pressi della valle dellʼAdige. Cfr. J.ZENNARI, I Vercelli dei Celti nella Valle Padana e lʼinvasione cimbrica della Venezia, in “Annali della Biblioteca Civica di Cremona”, 4 (1951), 3, pp. 1-78. Idem, La battaglia dei Vercelli o dei Campi Raudi, ibidem, 11 (1958), 2. F.MUCCIOLI, Dopo la vittoria dei Campi Raudii: Mario terzo fondatore di Roma?, in “Atene e Roma”, 39 (1994), 4, pp. 192-205.

18 LIVIO, Per. LXVIII, 6.

19 OROSIO V, 16 14-20: «Durante il quarto consolato (Mario ndt) ebbe come collega Q. Lutazio Catulo. Dunque quando venne allo scontro con i Cimbri e in due battaglie uccise duecentomila nemici, ottantamila ne fece prigionieri e catturò lo stesso comandante dei Barbari, Teutobodo, per questo merito fu eletto console per la quinta volta mentre era ancora lontano, Frattanto i Cimbri ed i Teutoni, le cui schiere erano fino ad allora immense, erano discesi in Italia. Nuovamente ci fu uno scontro fra C. Maio e Q. Catulo e loro, meglio tuttavia per la parte di Catulo. Infatti furono uccisi – nel combattimento o durante la fuga – centoquarantamila Barbari e sessantamila furono catturati. Perirono invece trecento soldati Romani di entrambi gli schieramenti. Furono razziate trentatre insegne dei Cimbri; di queste, due furono prese dallʼesercito di Mario, trentuno da quello di Catulo».

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21 L'apologia di Q. Lutazio Catulo e la tradizione sulla guerra cimbrica, in “Giornale filologico ferrarese”, anno VII, n°3 (Settembre 1984), pp. 75 e sgg.

22 Cfr. ivi nota 9.

23 op. cit. supra nota 21, p. 76. 24 Idem, p. 76 nota 5.

25 Lʼautobiografia di Silla nelle biografie di Plutarco, in Atti del convegno: Gli storiografi latini tramandati in frammenti (Urbino 9-11 Maggio 1974, “Studi Urbinati”, 49, 1975, pp. 251-6.

26 I Commentarii di Silla, Ibidem, pp. 627 sgg. 27 Cfr. supra nota 10.

28 M.CHASSIGNET, op. cit. supra cap. I, nota 2, p. 165 e supra p. 107.

29 M.VON ALBRECHT, A history of Roman Literature, Leida-New York-Colonia, 1997, p. 383:«The historians […] belonging to the time of the Gracchi and to the Sullan period, bring us to the generation of Cicero. Here we encounter a rich literature of memoirs. Apart from C.Gracchus and Sulla himself, M.Aemilius Scaurus, P.Rutilis Rufus and Q.Lutatius Catulus must be mentioned».

30 Per la riflessione su questa espressione cfr. Greek-English lexicon di H.G.LIDDELL e R.SCOTT, 1973, alla voce απολογεόμαι.

31 Cic. De Orat. III, 9 e Plut. Mar., 44, 8.

32 R.L.BATES, op. cit. supra cap. I, nota 89, p. 207 e sgg. 33 Vedi supra pp. 137-8 e nota 10.

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