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INDICE

1. JIM CRACE: UN’INTRODUZIONE

1.1. Una narrativa tra poetica e politica p. II

1.2. La ricezione p. XXIV

1.3. New British Fiction? Crace nel dibattito critico

contemporaneo p. XXX

2. PROBLEMI DI STILE

2.1. Una prosa ritmica e densa di significato p. XLIV

2.2. La magia della narrazione p. XLVII

2.3. La narrazione al presente p. LVII

2.4. Analisi stilistica p. LXVII

3. RELIGIONE E MAGIA p. LXXVIII

4. ANALISI TRADUTTOLOGICA p. XCIII

5. BIBLIOGRAFIA p. CXVIII

6. APPENDICE: AN INTERVIEW WITH JIM CRACE p. CXXV

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JIM CRACE: UN’INTRODUZIONE

1.1. Una narrativa tra poetica e politica

Jim Crace, nato nell’Hertfordshire nel 1946, è cresciuto a Londra, alla cui Università ha studiato Letteratura Inglese, e vive a Birmingham. Dopo aver fatto volontariato in Sudan col VSO (Voluntary Service Overseas), ha lavorato per la BBC e, quindi, si è dedicato all’attività di giornalista freelance. Nel 1974 pubblica un racconto per The New Review dal titolo «Annie, California Plates». Nel 1986, in seguito a una controversia a sfondo politico avuta col Sunday Times, esce il suo primo romanzo, Continent. Consiste di sette racconti collegati fra loro e situati in un immaginario settimo continente (come recita il titolo della traduzione italiana), nei quali si descrive in chiave umoristica sia l’atteggiamento dell’Occidente verso il Terzo Mondo, sia il rapporto fra sviluppo e sottosviluppo. Con quest’opera Crace ha vinto il Whitbread First Novel Award, il premio per la narrativa del Guardian e il premio per la narrativa David Higham.

Il suo secondo romanzo, The Gift of Stones (1988), raffigura una comunità costiera nell’Età della pietra minacciata dalla tecnologia dell’Età del Bronzo, mentre Arcadia (1992) è ambientato in una città britannica immaginaria del futuro. Signals of Distress (1994) esplora gli eventi che

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III

ruotano intorno al naufragio di una nave sulla costa della Cornovaglia intorno al 1830; il romanzo vince il Winifred Holtby Memorial Prize.

Quarantine (Il diavolo nel deserto, 1997) è una rielaborazione del passo biblico che narra dei quaranta giorni trascorsi da Gesù nel deserto. Del 1999 è invece Being Dead (tradotto in italiano col titolo Una storia naturale dell’amore), che tratta della morte di una coppia di zoologi i cui corpi giacciono su una spiaggia remota. Gli episodi che narrano la loro vita si alternano col resoconto della loro decomposizione fisica. Il romanzo ha vinto il Whitbread Novel Award, lo statunitense National Book Critics’ Circle Fiction Award ed è stato nominato per il Booker Prize e l’International IMPAC Dublin Literary Award.

Nel 2001 Crace pubblica The Devil’s Larder (La dispensa del diavolo), 64 frammenti che ruotano attorno al tema del cibo; alcuni estratti erano già stati pubblicati nel 1995 col titolo The Slow Digestions of the Night. Il romanzo Six (pubblicato in Italia col titolo La città dei baci), del 2003, fa un resoconto della vita sessuale dell’attore Felix Dern, la cui esistenza, apparentemente perfetta, è segnata dal fatto che ogni donna con la quale ha un rapporto rimane incinta. Seguono nel 2007 The Pesthouse (tradotto in italiano col titolo Tutto ciò che abbiamo amato), un romanzo sul «futuro medievale dell’America», come lo stesso autore lo ha definito; On Heat, del 2008, contenente due storie, «On Heat» e «Sins and Virtues»; All That Follows (2010), in cui si racconta la storia di un uomo combattuto fra una scelta eroica e il silenzio, fra la vita pubblica e quella privata; e infine c’è quello che Crace afferma essere il suo ultimo romanzo, Harvest (2013), che gli vale l’ennesima nomina al Booker Prize e il Windham-Campbell Literaure Prize. Fra gli altri riconoscimenti gli viene assegnato il premio

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IV

E.M. Forster da parte dell’American Academy of Arts and Letters nel 1992, mentre nel 1999 diventa un membro della Royal Society of Literature1.

Crace cresce in un contesto estremamente stimolante dal punto di vista culturale. Come racconta lo stesso autore in un’intervista per The Paris Review2, il padre non aveva ricevuto alcuna istruzione, ed era un autodidatta. Nella sua famiglia c’è una certa vivacità intellettuale, che incoraggia la lettura di testi socialisti, ma anche di romanzi di tendenza, come La romana di Moravia, malgrado nell’ambiente culturale in cui vivevano si tendesse a considerare la narrativa un mezzo di espressione prettamente borghese. Il padre, inoltre, portava i figli a teatro e si interessava di musica jazz e classica. Come rivela l’autore:

I come from an intelligent North London working class background. I was the only boy from the flats who went to the grammar school, and felt a little bit of a fraud there. When I returned home I couldn’t say, «Hey! Guess what? Walt Whitman!» and «Hey! Jack Kerouac!» People wouldn’t have appreciated that3

.

Crace studia presso la Enfield Grammar School e, in seguito, presso il College of Commerce di Birmingham, frequentato anche da altri importanti autori contemporanei, quali Patrick McGrath e Gordon Burn.

Le ambizioni giovanili di Crace sono soprattutto politiche. Dopo aver apprezzato, durante l’adolescenza, scrittori beat come Kerouac e Ginsberg, a circa diciassette anni inizia a interessarsi ad autori più impegnati, come Orwell e Steinbeck, per via delle influenze socialiste dell’ambiente in cui è

1

Cfr. S. MATTHEWS, Jim Crace, in «British Council Literature», 2004, literature.britishcouncil.org/jim-crace

2 Cfr. A. BEGLEY, Jim Crace: The Art of Fiction No. 179, in «The Paris Review», 167, 2003,

www.theparisreview.org/interviews/122/the-art-of-fiction-no-179-jim-crace

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P. TEW, Interview with Jim Crace, «Westminster 1998 Interview», in P. TEW, Jim Crace, Manchester University Press, Manchester 2006, p. 8.

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V

cresciuto. Crace è uno dei pochi ragazzi del quartiere a frequentare il liceo, e questo non gli permette di confrontarsi coi suoi coetanei circa i propri interessi letterari. Per poter assecondare tali interessi, recepiti come «borghesi», senza il timore di essere criticato, Crace predilige letture di tema politico, che suscitano comunque il suo sincero interesse. Benché il giovane Crace legga molto, ami la letteratura, e vada sempre in giro con un taccuino su cui stendere le sue annotazioni, all’epoca non scrive nulla. Durante il periodo di volontariato in Sudan, tuttavia, è in qualche modo «costretto» a produrre qualcosa, in quanto parte del suo lavoro consiste nello scrivere testi per un progetto televisivo educativo. Tornato in Gran Bretagna, continua a scrivere testi educativi per la BBC e ciò gli fornisce lo stimolo giusto per scrivere alcuni racconti. Alcuni vengono pubblicati, come «Annie, California Plates»4. Da questo momento, molti agenti e case editrici gli propongono di scrivere un romanzo, ma egli preferisce continuare la carriera di giornalista, temendo che la strada del romanzo fosse troppo bourgeois. La sua carriera di giornalista si interrompe bruscamente a causa di un diverbio col direttore del Sunday Times per motivi politici, nel 1986: un suo articolo sui disordini della Broadwater Farm, a Tottenham, era stato alterato. Il contesto era quello dell’Inghilterra della Thatcher, l’epoca del libero mercato e dell’individualismo, ma anche di crescenti disparità sociali ed economiche, discriminazioni razziali e numerosi disordini. Nel frattempo, Continent stava iniziando a essere venduto in America, e ciò permette a Crace di abbandonare il giornalismo senza troppi problemi.

Per Crace il giornalismo è soprattutto un «atto politico»; egli ha sempre confidato nel fatto che i suoi articoli potessero far cambiare idea a

4

J. CRACE, «Annie, California Plates», in Introduction 6: Stories by New Writers, Faber and Faber, London 1977, pp. 79-89.

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VI

qualcuno5, poiché un giornale viene letto da un ampio ventaglio di persone aventi idee politiche diverse. Questa è la ragione per cui Crace ritiene che il buon giornalismo libero sia più efficace della letteratura. I lettori dei suoi romanzi invece, come sostiene l’autore, sono persone che, a grandi linee, condividono le sue opinioni, per cui il confronto diviene meno stimolante. Nella narrativa non esiste l’approccio diretto presente, invece, nel giornalismo, un aspetto di cui il Crace romanziere sente la mancanza:

When I spot people reading one of my novels, I can pretty accurately predict how they vote, what newspaper they read and how they feel about red meat. They are all versions of me. So what’s the point of preaching to them? They’re already on my side. But when I was a journalist, my articles would be seen by more than a million people every Sunday. Few of them were clones to me. Good journalism can make converts6.

Prima di trovare la propria voce letteraria, Crace si cimenta in diversi generi, quali il romanzo realista di stampo politico, sulla scia di Orwell e Steinbeck, e l’autobiografia. Prima di scrivere Continent, e quindi agli esordi della sua carriera di romanziere, infatti, Crace tenta di scrivere un romanzo ambientato in una periferia non dissimile da Moseley, il quartiere di Birmingham in cui lo scrittore tuttora vive7. Era il tipo di romanzo politico a cui avrebbe ambito da giovane, ma la sua stesura si rivela difficoltosa («garbage», lo ha definito l’autore)8. All’epoca, Crace stava

5 Cfr. S. CROSS, Jim Crace, author of Booker-shortlisted Quarantine, ‘I’m leaving Craceland’, in

«The Independent», 10/02/13, www.independent.co.uk/arts-entertainment/books/features/jim-crace-author-of-bookershortlisted-quarantine-im-leaving-craceland-8488415.html

6 E. HEWITT, Interview: Jim Crace, in «Cherwell», 15/11/13,

http://www.cherwell.org/culture/art-and-books/2013/11/15/interview-jim-crace

7

Cfr. A. BEGLEY, op. cit.

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VII

recensendo alcuni libri di García Márquez, tra cui La mala ora. Pur apprezzando la prosa dello scrittore colombiano, non la approvava, poiché Márquez non rappresentava la realtà, ma attingeva alla fantasia, un esercizio letterario che Crace trovava quasi banale, rispetto a una prosa di utilità sociale. Ma, proprio in virtù della sua incapacità di raggiungere, in tale ambito, dei risultati soddisfacenti, egli decide di tentare la strada della fiction e scrive così quello che sarebbe diventato il suo primo romanzo, Continent. Il suo esordio è dunque ben diverso da quello che il suo io diciassettenne avrebbe auspicato: una prosa ritmica, una narrativa borghese e moraleggiante.

Ma, mentre col tentato romanzo politico, Crace non riusciva a focalizzare l’evoluzione della storia, con Continent preconizza eventi di lì a venire e ulteriori sviluppi della propria narrativa. L’autore finisce quindi per accettare di essere più un narratore di favole, vicino al realismo magico, che uno scrittore politico. Il romanzo diventa, secondo una metafora dello stesso Crace, come un aquilone che funge da mediatore fra un bambino e il vento: l’uno non può mai controllare l’altro9

.

Molti anni dopo, Crace vorrà nuovamente mettersi alla prova con un genere distante dalle sue corde: la fiction autobiografica; ma, anche stavolta, il progetto fallisce. Lo scrittore ha sempre evitato il genere autobiografico ritenendo di non poter introdurre nei suoi romanzi alcun elemento della propria vita che potesse essere di interesse per il lettore:

Try pitching a story of happiness to your editors and their toes are going to curl up. Who’d want to read my autobiography? Contented childhood, never beaten by my father, never heard my parents swear or argue. One happy marriage that

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has lasted thirty years. Children who are talented and charming, good health, no debts or addictions, an optimistic nature with no depressive impulse – what kind of bloody book is that going to make10?

Come il romanzo politico, anche il romanzo autobiografico non sembra essergli congeniale: «There is […] something courageous and generous in writing about your alcoholism or your failed relationships. I felt that in some ways my novels lacked heart because of the distance between me and the subject matter»11.

Il titolo del romanzo avrebbe dovuto essere Archipelago, e avrebbe dovuto narrare il ricongiungimento dell’autore coi genitori defunti, «a Gulliver’s Travels kind of discovery to the places in the world we all go to find the people we have loved and lost», come ha affermato lo stesso Crace12.

Dopo aver scritto circa quarantamila parole, Crace abbandona il progetto: «For the first time in my life, I didn’t want to see the word processor. I hated getting up in the morning. I didn’t want to read those terrible, pretentious sentences»13.

Da questo esperimento fallito, tuttavia, in qualche modo nascerà Harvest. Per consolarlo del fallimento, la moglie lo porta a una mostra alla Tate Britain e, durante il viaggio in treno, Crace osserva dei campi lavorati a porca e solco, secondo un metodo risalente al Medioevo. Il paesaggio, benché affascinante, gli ricorda la questione delle enclosures, ovvero la

10 Ibidem.

11 N. WROE, Jim Crace: ‘At the Watford Gap it hit me that the English landscape was absolutely

drenched in narrative’, in «The Guardian», 16/08/13,

http://www.theguardian.com/culture/2013/aug/16/jim-crace-interview

12 S. HAMPSON, Author Jim Crace: it’s hard to be nice when you’re so clever, in «The Globe and

the Mail», 16/01/14, http://www.theglobeandmail.com/arts/books-and-media/author-jim-crace-its-hard-to-be-nice-when-youre-so-clever/article16366804/?page=all

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IX

recinzione delle terre demaniali a favore dei proprietari terrieri, avvenuta in Inghilterra dal Medioevo fino al XIX secolo, a scapito di un antico sistema in base al quale i contadini coltivavano degli appezzamenti di terra per il padrone, ma ne ricavavano anche i beni per il loro sostentamento. «It is beautiful […] but it actually tells the story of dispossession»14, pensa l’autore a quella vista. È un paesaggio che racconta una storia del passato: «It is the landscape giving you a story of lives that ended with the arrival of the sheep», afferma Crace in un’altra intervista15. Quella che lo scrittore chiama «the generosity of narrative»16 non si esaurisce qui: durante l’esposizione alla Tate Britain ammira un acquerello del XVIII secolo che mostra una veduta dall’alto di una enclosure. Durante il viaggio di ritorno in treno, legge sul Guardian un articolo sul problema della terra sottratta in Sudamerica ai contadini e agli allevatori, pagati per andarsene o allontanati con la forza, dai baroni della soia. Sempre più terreni vengono infatti destinati alla coltivazione della soia, richiestissima dalla Cina e dunque fonte di notevoli introiti17. Così, da questa vicenda attuale, Crace ha modo di riflettere sulla privazione della terra da parte dei potenti ai danni dei più deboli, e decide che sarà proprio questo il tema del suo romanzo. Prendendo spunto dalla vista del campo coltivato a porca e solco, decide di ambientare la vicenda in un remoto villaggio inglese medievale senza nome, che, nell’arco di una settimana, vedrà svilupparsi cambiamenti drastici che rivoluzioneranno per sempre le vite dei suoi abitanti. I mutamenti che intercorrono nelle vite di una qualche comunità è un tema ricorrente nell’opera di Crace. In questo caso specifico, Harvest è la storia di una

14 Ibidem.

15 N. WROE, op. cit. 16 Ibidem.

17

Cfr. J. WATTS, A hunger eating up the world, in «The Guardian», 10/11/05, http://www.theguardian.com/business/2005/nov/10/environment.china

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X

comunità che assiste impotente ai progetti di recinzione delle terre del padrone per accogliere un allevamento di pecore, progetti nei quali nessuno dei contadini sembra destinato ad avere un ruolo o una mansione, malgrado le rassicurazioni del padrone. Difatti, in un susseguirsi di eventi nefasti, tutti gli abitanti saranno costretti, in un modo o nell’altro, ad abbandonare il villaggio. I progetti prevedono il contributo di un individuo misterioso, che appare all’improvviso nel villaggio prendendo nota di ogni cosa. Ribattezzato Mr. Quill (signor Penna) dagli abitanti del villaggio, quest’uomo disegna una mappa del luogo visto dall’alto, esattamente come l’acquerello del XVIII secolo osservato da Crace al Tate Museum: «How was that possible at a time when no one could get higher than a treetop or a steeple?»18, si chiede l’autore a proposito di quell’opera pittorica. Ebbene, la mappa disegnata da Mr. Quill mostra il villaggio «as it is viewed by kites and swifts, and stars»19. Ma gli abitanti del villaggio non sono né nibbi, né rondoni, né stelle, di conseguenza «Mr. Quill’s true account of here and now is not as honest as he hopes. He’s coloured and he’s flattened us. No shadows and no shade. […] The land is effortless: a lie»20.

La mappa è una rappresentazione della realtà, non è la realtà stessa. Ogni rappresentazione, essendo mediata, non può essere fedele al cento per cento. Forse la mappa è anche una metafora della concezione stessa della letteratura per Crace: il perfetto rispecchiamento della realtà non è possibile, o, perlomeno, non gli è possibile. Questa bugia, «a lie», è la bugia stessa che costituisce il presupposto fondamentale per la creazione della letteratura. «It is after all the job of a novelist to make the lies seem real or at least to blur the interfaces between what is actual and what is invented»,

18 N. WROE, op. cit. 19

J. CRACE, Harvest, Vintage Books, New York 2013, p. 35.

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XI

afferma Crace durante un’intervista21. È una bellissima bugia, come bellissima e ricca di colori è la mappa («But it is beautiful, nevertheless»)22. E il fatto che sia una bugia non significa che non possa essere un mezzo, per quanto straniante, di raccontare il reale. Questa bellissima mappa è tanto lontana dall’oggetto rappresentato quanto i romanzi di Crace sono distanti dallo spunto che ha dato loro l’impulso iniziale.

Crace, difatti, rifugge quasi sempre gli spazi, per così dire, «domestici». Il suo intento non è di collocare il lettore in un ambiente familiare, ma di dislocarlo. Non è uno scrittore di romanzi realistici e si definisce un autore tradizionale, più che convenzionale23.

Come egli stesso ha affermato nell’intervista di Stephanie Cross per l’Independent24, Harvest è evidentemente ambientato nella campagna inglese. Tuttavia, l’autore ha cercato in ogni modo di evitare di fornire dati spazio-temporali: se proprio la storia deve avere una collocazione, essa sarà ambientata nei pressi della Foresta di Arden. È un modo dello scrittore per dire che ha voluto creare una sorta di universo parallelo di tipo shakespeariano25.

Harvest «is a stunning ode to place»26, afferma Sarah Hampson, ed è proprio un’ode a costituire l’epigrafe del romanzo, a confermare l’attaccamento viscerale alla terra, altro tema del romanzo:

Happy the man, whose wish and care A few paternal acres bound,

21 J. SELF, Jim Crace Interview, in «The Asylum», 14/04/10,

http://theasylum.wordpress.com/2010/04/14/jim-crace-interview/

22 J. CRACE, Harvest, cit., p. 122. 23 Cfr. A. BEGLEY, op. cit. 24 Cfr. S. CROSS, op. cit. 25

Cfr. N. WROE, op. cit.

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XII

Content to breathe his native air In his own ground27.

E non è un caso che il personaggio più affascinante del romanzo, secondo Clare Sestanovich, sia proprio colui che disegna delle mappe, ovvero Mr. Quill28.

Il paesaggio è molto importante nell’opera di Crace. Spesso si impone con la forza di un personaggio: la mappa di Mr. Quill, ad esempio, sembra il profilo di un uomo: «Now I know the village is a profile of a brawny-headed man – a bust, in fact»29.

Come scrive Philip Tew: «The rythmic insistence of Crace’s style often prioritizes the strong presence of landscape as a characterized presence, rather than a sense of internal subjectivity. Images serve to mediate between people and the objective world»30. E ancora, «The underlying sense of a primeval, natural quality of the environment recurs throughout Crace’s fiction, permeating his symbolic sense of the objective world […] This repeated trope counters the anthropomorphic view of the human world»31.

Con Harvest, Crace non intendeva scrivere un romanzo storico, e il suo timore era proprio che la critica non arrivasse a capirlo. In un’intervista per The Guardian cita Hilary Mantel32, il punto di riferimento odierno per gli scrittori di romanzi storici. La Mantel indica alcune regole imprescindibili per la scrittura del romanzo storico: la prima è che non bisogna includere

27 A. POPE, «Ode on Solitude», in J. CRACE, Harvest, Vintage Books, New York, 2013. 28 Cfr. C. SESTANOVICH, Logs vs. Dead Donkeys: The Tweet That Helped Me Make Sense of

Jim Crace, in «The Atlantic», 10/09/13,

http://www.theatlantic.com/entertainment/archive/2013/09/logs-vs-dead-donkeys-the-tweet-that-helped-me-make-sense-of-jim-crace/279487/

29 J. CRACE, Harvest, cit., pp. 120-121.

30 P. TEW, Jim Crace, Manchester University Press, Manchester 2006, p. 6. 31

Ibidem, p. 7.

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XIII

dei fatti dei quali non si abbiano prove. Crace, invece, non è interessato ai fatti, ma all’invenzione di una storia che gli permetta di illustrare il tema che gli interessa. La seconda regola per un buon romanzo storico è che non bisogna applicare una sensibilità moderna a un contesto storico. Crace, al contrario, vuole esattamente proiettare tale sensibilità sulle storie che inventa, poiché esse devono riflettere tematiche del ventunesimo secolo.

Infatti, i mondi che Crace crea per i suoi romanzi sono quasi sempre immaginari e autosufficienti, tuttavia instaurano col mondo reale una relazione problematica, di dialogo e di parallelismi33. L’universo dalle coordinate spazio-temporali indefinite tipica della sua scrittura è stata denominata «Craceland» da critici e lettori. Lo spazio-tempo non ha importanza: ce l’hanno piuttosto gli argomenti trattati, che sono sempre attuali e dunque senza tempo, universali. I suoi mondi astratti sono delle allegorie della società contemporanea, e, attraverso l’atto estetico, si attua una forza redentrice34. La vaghezza gli consente di liberare la sua immaginazione. I suoi romanzi devono essere come dei dipinti, non come delle fotografie, ed evidenziare una certa critica politica. In un’intervista a proposito di Harvest, Crace afferma:

The time period isn’t at all specific, in fact. I wasn’t trying to write a novel that was medieval or Tudor or Jacobean. If the novel has a «setting» at all then it’s Shakespeare’s England. […] But, if the exact time and location of the story are not important to me, the subject matters are. And the subject matters are timeless. Small farmers all over the world are still being forced from their land,

33 Cfr. S. MATTHEWS, op. cit. 34

Cfr. R.J. LANE, The Fiction of Jim Crace: Narrative and Recovery, in R.J. LANE, R. MENGHAM, P. TEW (eds.), Contemporary British Fiction, Polity, Cambridge 2003, p. 37.

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XIV

edged out by timber sharks or soy barons or coffee magnates or housing developers35.

Come afferma Sean Matthews: «Crace’s work has consistently evoked imaginary, self-sufficient fictional worlds which are in teasing or troubling parallel relations to the “real” one(s) we inhabit. This is not, however, a matter of fantasy or fable for its own sake. Crace is, crucially, addressing the vital and essential themes of contemporary life, and is in this sense a powerful political writer»36.

Philip Tew elenca le tematiche tipiche dell’opera di Crace, definendole «familiari»:

Crace’s major aesthetic and thematic dynamics are familiar: a crisis of faith and meaning, the elusive quality of love, an interrogation of the essentials of identity within a broader social context, a consideration of the crises of modernity in terms of its mercantile/ capitalist instincts, and an awareness of the human narrative impulse37.

I temi dell’attualità che vengono traslati in storie di pura invenzione non sempre risultano immediatamente riconoscibili. Ad esempio, in The Gift of Stones, lo spunto per il romanzo nasce da un contesto storico individuato, ovvero dalla crisi subita dal settore industriale, e in particolar modo quello automobilistico, a Birmingham, in seguito al «thatcherismo» e alla recessione38. Uno scrittore non realista come Crace deve però trovare il modo di dislocare l’argomento entro una storia che abbia una valenza

35 L. GUIDARINI, An interview with Jim Crace, in «BookBrowse», march 2013,

http://www.bookbrowse.com/author_interviews/full/index.cfm/author_number/1836/jim-crace

36 S. MATTHEWS, op. cit. 37

P. TEW, op. cit., p. 24.

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XV

universale. Egli sceglie quindi di collocarlo entro l’Età della pietra, in cui il momento di crisi coincide con l’avvento di un materiale più resistente e leggero della pietra: il bronzo, che mette a repentaglio l’esistenza dei protagonisti in quanto fabbricanti di armi e di strumenti in pietra. Il tema che Crace vuole sottoporre all’attenzione del lettore è quello del cambiamento e dello sviluppo, un tema, come si è detto, ricorrente nella sua opera. Il cambiamento avviene spesso sotto forma di nuove tecnologie o di nuovi assetti sociali che stravolgono la vita di una comunità, con la transizione da una società «tradizionale» a una «moderna»39, ed è proprio ciò che avviene in The Gift of Stones, così come in Harvest: quest’ultimo non è solo il racconto di un paradiso perduto, ma qualcosa di più sfumato. L’idea alla base del romanzo, afferma Crace, è quella junghiana per la quale: «everything new worth having is paid for by the loss of something old worth keeping»40.

Qualcosa di simile avviene anche in Continent, in cui un continente fittizio lotta contro l’evoluzione e il progresso e la figura del «conta peccati», antico ruolo di grande rilievo sociale, diventa inutile, ma viene poi trasformato in una fonte di lucro dagli Europei in cerca di manufatti etnici. Crace intende esprimere in tal modo il proprio dissenso dal sistema capitalistico.

Anche in Arcadia il tema del cambiamento è intrecciato a una critica del sistema capitalistico. Nel romanzo, infatti, le forme di commercio pre-capitalistiche vengono soppiantate dallo sterile sfruttamento commerciale della nuova era.

39 S. MATTHEWS, op. cit. 40

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XVI

Quarantine è, sì, una meditazione sulle origini del Cristianesimo e della fede, ma, inserita all’interno di questo filone principale vi ritroviamo la storia di un mercante, Musa, che sfrutta la figura di Gesù come un «prodotto», rendendo così possibile la nascita della nuova religione, quella cristiana.

L’ispirazione per Quarantine, peraltro, proprio come in The Gift of Stones, nasce da circostanze inaspettate, ovvero dall’osservazione di un ostello chiamato Palm Court, situato nel quartiere di Moseley, a Birmingham. Si trattava di un ostello per persone affette da problemi di salute mentale. Il governo Thatcher aveva infatti disposto che non venisse più fornita assistenza ospedaliera ai malati mentali, al fine di risparmiare denaro, e che essi venissero «riassorbiti» nella società, vivendo in ostelli. Ciò significava ovviamente che non avrebbero ricevuto né medicine né trattamenti. Crace decide dunque di scrivere un romanzo in cui ogni personaggio vive una crisi, proprio come queste persone relegate ai margini della società. Prendendo spunto dal racconto biblico dei quaranta giorni nel deserto trascorsi da Gesù prima di iniziare il suo ministero, Crace immagina che non sia stato solo Gesù a recarsi nel deserto per meditare e confrontarsi con i propri demoni; ma che ogni persona che stesse vivendo una crisi o che avesse un problema – una coscienza sporca, un cancro, un problema mentale – si recasse nel deserto per trovare isolamento. Inizialmente, Gesù doveva essere una figura secondaria, utile solo per collocare la storia in un certo spazio-tempo, ma nel processo di scrittura essa diventa sempre più rilevante. A questo punto, malgrado la critica al mercantilismo permanga, i riferimenti al thatcherismo si fanno più sfumati.

La dislocazione del contesto originario strania il narrato in base a una precisa volontà di Crace, secondo il quale la narrativa è necessariamente

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XVII

equivoca e ambivalente41. Tale ambivalenza gli consente di mettere in atto il suo maggior diletto nella scrittura: l’invenzione. Questo aspetto ludico è ciò che maggiormente lo attrae del suo mestiere, ed è ciò che gli permette di esprimere idee sempre diverse, talvolta persino discordanti o quantomeno lontane dal suo pensiero. In Six, ad esempio, la periferia rappresenta, per il protagonista, un compromesso: egli ha accettato di vivere nel quartiere lussuoso della città, in una casa regalatagli dai ricchi suoceri, rinunciando in parte ai suoi principi politici di gioventù e al sogno di vivere in centro, luogo fertile dal punto di vista culturale e politico. Ma il lusus della letteratura consentirà a Crace di trattare i rapporti fra centro e periferia in modo totalmente diverso in un altro romanzo. In un’altra occasione può essere la città a rappresentare il compromesso borghese, o quantomeno la realizzazione di una società capitalistica, come avviene nella contrapposizione fra città e campagna in Arcadia. La letteratura fa sì che i romanzi di Crace siano più reazionari o persino più spirituali di lui, che si autodefinisce un ateo post-darwiniano: Quarantine, ad esempio, è stato apprezzato da molti credenti, malgrado reinterpreti la nascita della religione cristiana come un fenomeno commerciale, conseguenza della speculazione sulla figura di Gesù da parte del mercante Musa. In Being Dead Crace lascia poco spazio al lettore sulla possibilità di una vita ultraterrena. Dopo la morte non c’è niente, afferma più e più volte. E la voce del narratore sembra fondersi a quella, interiore, dei due protagonisti brutalmente assassinati, Joseph e Celice, i due zoologi che, forti delle loro nozioni scientifiche, faticano a dar credito alle superstizioni. La terra è fatta solo di passato e di presente, il futuro non si può prevedere e il particolare canto emesso dal vento fra le dune di Baritone Bay (anch’esso un luogo fittizio

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XVIII

facente parte di «Craceland»), sede del loro primo rapporto amoroso come del loro assassinio, trent’anni dopo, non è foriero di presagi oscuri, malgrado la credenza popolare. Eppure il racconto li smentisce tutti quanti: il canto da baritono delle dune anticipa la tragedia chiave del romanzo, l’incendio in cui morirà una collega dei due zoologi, Festa. Questo incidente segnerà la vita di Celice, convinta che la causa dell’incendio sia da attribuire a una sua negligenza.

Being Dead è un romanzo in cui la narrazione opera come una vera e propria autopsia dei due cadaveri, descrivendo minuziosamente le cause della loro morte e le fasi della loro decomposizione, ma mantenendoli in vita attraverso tale processo descrittivo42, con una cura per il dettaglio che è stata definita «microrealistica» da Patricia Merivale43. Dall’accurata descrizione dei due corpi, peraltro, emerge anche l’interesse amatoriale di Crace per le scienze naturali.

La volontà dell’autore è comunque quella di chiudere Being Dead con una nota di ottimismo e l’ordine cronologico viene sovvertito proprio per raggiungere questo fine: parallelamente alla decomposizione dei corpi, la narrazione ripercorre all’indietro il giorno dell’assassinio di Joseph e Celice fino a chiudere il romanzo nel momento in cui entrambi dormono al sicuro nei loro letti; un tentativo, dunque, di riportarli in vita attraverso il cosiddetto «rito dello scuotimento» (quivering, nell’originale), inventato da Crace, ovvero un momento di lutto e di raccoglimento in cui si ricorda il defunto e che, nel romanzo, si estrinseca attraverso la narrazione. Il rito ricorda il tentativo di espiazione operato appunto in Atonement, di Ian McEwan, col quale, tramite l’atto narrativo, la protagonista-narratrice

42 Cfr. R.J. LANE, op. cit., p. 35. 43

P. MERIVALE, Understanding Tim Parks (review), in «University of Toronto Quarterly», University of Toronto Press, Toronto 74 (2004/2005), 1, pp. 598-599, qui p. 599.

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XIX

Briony vuole riportare in vita le due persone che ha contribuito a separare, alterando il corso delle loro vite: la sorella Cecilia e il suo innamorato Robbie. Sono due romanzi in cui i piani temporali sfalsati mirano a conferire un lieto fine a due vicende aventi una conclusione tragica, se considerate nel loro ordine cronologico.

Inoltre, il «quivering» vuole essere una risposta atea alla ritualità cristiana. Parlando della morte del padre, ateo, e della sua dipartita senza il rito di un funerale, Crace rivela un aspetto di Being Dead:

I was jealous of the comforting rituals, the false narratives of organized religions for once. So, to some extent, Being Dead is my attempt to discover a narrative of comfort in the face of death in an increasingly godless universe44.

Infatti in Being Dead si estrinseca un altro motivo ricorrente dell’opera di Crace, ovvero la manifestazione del rapporto contrastato fra sacro e secolare, evidente anche in Quarantine, che propone la riscrittura di un passo biblico, o nella ritualità di facciata dei contadini di Harvest.

Malgrado Crace non nutra illusioni circa la forza politica dell’arte nella società britannica odierna, c’è comunque dell’impegno sociale nelle sue opere, così come nella sua vita. The Devil’s Larder, ad esempio, rappresenta un ulteriore tentativo di scrivere un romanzo politico il cui tema apparente fosse il cibo. Crace era rimasto molto colpito dalle Città invisibili di Calvino e dal Sistema periodico di Primo Levi. In un tentativo di scrivere le sue personali Città invisibili, l’autore ricorre al tema del cibo in quanto legato alla paura della malattia e all’immagine problematica del proprio corpo; avrebbe avuto la possibilità di parlare di politica senza toccarla

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XX

direttamente. Tuttavia, nel processo di scrittura, il romanzo diventa, più che politico (o gastronomico), un testo sulla famiglia, sugli affetti, sulla morte, sull’amore, sulla memoria, sulla ritualità del cibo e sul modo in cui le relazioni si intrecciano e vengono mediate davanti a una tavola imbandita. Crace definisce questa sua opera come un romanzo «patchwork» o come una «sequenza di storie», accomunate dall’unità del tema principale45

. Crace ha affermato più volte che Harvest sarà il suo ultimo romanzo:

As things stand, I have no plans to write any more fiction, though if the mood takes me I might write a stage play, some essays on natural history and a children’s book (called Boa). […] Sitting in front of a computer with no colleagues is not a healthy lifestyle. There are walks begging to be taken. I want a better garden. My tennis and my painting could improve. I have not been as politically engaged as I’ve wanted to be. There are demonstrations to attend and riots to foment. My grandson needs attention. My bike needs exercise. I need to brush up my French and my Arabic. I want to stay in bed. I think I’ll have a beer46

.

Il progetto di ritirarsi risale a molto tempo prima che Crace tentasse di scrivere Archipelago. In un’intervista precedente alla pubblicazione di The Pesthouse, afferma: «Three books from now there’ll be this last book […] I’m 59 in a couple of weeks, and then another 6 years, sixty five seems to be a good time to get out, before the bitterness»47. Oltre al desiderio di dedicarsi ad altre attività, c’è in Crace la volontà di smettere di scrivere in

45 D. GREEN, Jim Crace Peels Off the Labels, 10/10/06,

www.powells.com/blog/interviews/jim-crace-peels-off-the-labels-by-dave/

46 L. GUIDARINI, op. cit. 47

A. LAWLESS, The Poet of Prose: Jim Crace in Interview, «TMO magazine», 01/02/05, http://www.threemonkeysonline.com/the-poet-of-prose-jim-crace-in-interview/

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XXI

un momento in cui la sua opera possa lasciare un ricordo positivo per i suoi lettori:

If you look around you, most writers when they start writing, what can they expect? Well, most of them can expect to not be published, and those that are published can expect to not be successful, and those that are successful can expect to not be successful for very long. I’ve been immensely lucky. I’m not claiming to be Philip Roth, or Ian McEwan, with a very long span and a promising future. Or Margaret Atwood or J.M. Coetzee. Those writers are almost beyond being criticised. I’m not one of those writers. Most of the writers I see who’ve been partially successful, and continue to write, and perhaps even to improve, reach the point where they’re no longer read! I mean, how many books by me can you read? You know the sort of stuff you’re going to get. I’m sure they’ll go out of fashion, if it hasn’t already started. You don’t want to get to 67 writing a novel feeling bitter and marginalised48.

Col suo ritiro, Crace non vuole chiudere le porte all’attività artistica. Dopo Harvest, l’autore vuole scrivere per il gusto di farlo, e non per contratto: «There is some extent to which I worried that I was writing for the contract, and not for the impulse of the thing itself»49.

Oltre al progetto già menzionato di un’opera teatrale (una riscrittura del mito di Teseo)50, Crace medita di scrivere dei saggi ludici alla Borges, che traggano spunto da alcuni aspetti di Archipelago. L’aspetto ludico è tipico della sua narrativa: «Craceland» è disseminata di citazioni ed epigrafi di autori di fantasia. I suoi lettori assidui familiarizzano ben presto con nomi

48 Ibidem. 49

Ibidem.

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XXII

quali quelli di Abraham Howper, Emile dell’Ova, Sherwin Stephens, il poeta Mondazy.

Un altro tema caro a Crace è il rapporto fra la città e la campagna. I problemi dell’Inghilterra odierna – razzismo, disoccupazione, produzione e trattamento dei rifiuti – si esemplificano in città e non in campagna. Per lo scrittore, nel vizio delle città c’è qualcosa di molto più produttivo e stimolante rispetto alla virtù rurale51. I problemi del mondo, per Crace, vengono affrontati e risolti in città come Birmingham, dalle quali è possibile intravedere il futuro, e non indugiare nel passato.

Nell’intervista rilasciata per The Paris Review52, Crace nega l’influenza, nei suoi romanzi, di un corpus di storie che ognuno di noi, in qualche modo, assorbe e introietta, un corpus che costituisce l’esperienza che abbiamo del mondo della parola scritta. Secondo l’autore, infatti, fare riferimento a storie scritte in precedenza è insensato: fino a un migliaio di anni fa non esistevano storie scritte, e questo, in termini evoluzionistici, è quasi niente. Inoltre, il romanzo convenzionale è arrivato solo alla fine del diciottesimo secolo. Crace nega quindi l’eredità dell’esperienza del mondo scritto («I don’t think you need to call upon previously written stories»)53 e rivendica semmai l’eredità di migliaia di anni di narrativa non scritta, ovvero di tradizione orale. Da qui il suo stile così declamatorio e la sua prosa così ritmica. Il suo è un linguaggio musicale e vibrante, ottenuto, pare, quasi senza sforzo, grazie a quello che sembra un vero e proprio istinto musicale della prosa.

Proprio dalla longeva tradizione orale Crace trae la certezza che la narrativa sia una capacità innata, poiché presente nell’uomo da più di

51 Cfr. A. BEGLEY, op. cit. 52

Ibidem.

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XXIII

duemila anni. L’arte di raccontare storie è un’abilità specifica della nostra specie. Di tutte le creature del mondo, solo il genere umano è così profondamente narrativo: reinventa costantemente il passato e immagina il futuro: «Narrative […] confers on us a huge advantage for Darwinist reasons, it allows us to play out our future in order to make better choices»54. Dello stesso avviso era anche Malcolm Bradbury: «We are all fiction-making animals, laying our words and meanings over the changing world outside us»55. Bradbury, però, a differenza di Crace, attribuisce ben altro valore alla letteratura, mezzo di conoscenza morale e metafisica e di sistematizzazione della nostra storia incompleta:

In our present commodity culture, novels can be, and frequently are, trivial, toy-like and self-serving, cheap stories hawked for profit or celebrity. But they can equally be amongst the most fundamental explorations of contemporary experience – essential means by which we come to a moral and metaphysical understanding of our situation, discover the nature of our cultural belonging, give some order and shape to our far from completed history56.

E, ancora: «The novel (is) […] a serious form of knowledge, of linguistic and narrative experiment and moral and philosophical meditation»57.

«I don’t write out of other books»58, ribadisce Crace durante un’altra intervista, tuttavia egli viene spesso paragonato a scrittori diversissimi fra loro, come Calvino, Nabokov, Kafka o Sebald, o ad autori sudamericani quali García Márquez e Borges, le cui influenze sono palesi; in effetti lo stesso Crace ha spesso riconosciuto l’impatto, sulla sua opera, del «realismo

54 A. LAWLESS, op. cit.

55 M. BRADBURY, The Modern British Novel, Penguin, London 1993, p.462. 56 Ibidem, p. 421.

57

Ibidem, p. 457.

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XXIV

magico», inizialmente attraverso Rushdie59. Gli aspetti formali, estetici ed etici della sua scrittura lo distanziano dagli altri scrittori inglesi contemporanei e la sua scrittura riecheggia proprio autori dell’Europa continentale. Del resto, gli scrittori che Crace più ammira sono Gunther Grass, Italo Calvino, Primo Levi e, in generale, gli scrittori appartenenti al filone del realismo magico latino-americano.

La particolarità della prosa di Crace e la sua distanza dal romanzo inglese convenzionale, realista e autobiografico, vengono spiegati da Sean Matthews in questi termini:

The peculiarity of Crace’s position is that this place has been secured with writing which bears no obvious relation to the prevailing currents and concerns of his peers. His career as a writer has been marked by a set of formal, ethical and aesthetic interests which set him apart from the mainstream of writing in English60.

Per quanto Crace non sia un autore autobiografico, la sua opera riflette, com’è ovvio, i suoi interessi: sono evidenti aspetti ricorrenti come speculazioni sul paesaggio, sulla storia naturale, la natura moralistica delle storie; si evince anche il suo orientamento politico: il mondo del commercio è spesso oggetto di satira, come in Quarantine, Arcadia o Signals of Distress, nelle rappresentazioni dei vari mercanti in Continent. Crace è ostile al commercio e al capitale. È, evidentemente, un liberal progressista.

Parlare del proprio mestiere di scrittore non è semplice per Crace: la letteratura ha per lui una valenza istintiva; non riesce ad analizzare il suo lavoro come farebbe un critico o un lettore. Proprio come accade ai

59

Cfr. S. MATTHEWS, op. cit.

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giocatori di tennis, afferma l’autore61 servendosi di una similitudine sportiva che ci riporta alla mente i suoi numerosi hobby, i commentatori e gli spettatori riconoscono la tecnica del giocatore, i suoi punti deboli e di forza, mentre il giocatore li mette in pratica in maniera istintiva, inconsapevolmente. Ecco perché Crace non riesce a parlare in maniera approfondita di letteratura: sente di essere un giocatore, e non un commentatore.

1.2. La ricezione

Il lavoro di Crace è spesso apprezzato sia dai critici (accademici e giornalisti letterari), sia da un pubblico fedele di lettori, accordo non sempre facile da raggiungere. Mancano invece approfonditi studi accademici su di lui, cosa che viene motivata da Philip Tew in questo modo: «Critical acceptance has been limited, although reviewers have identified Crace’s originality, but the diversity of his work may have inhibited widespread recognition, since it is difficult to situate»62.

L’accoglienza critica dei romanzi di Crace è stata piuttosto variegata. Signals of Distress è stato forse il romanzo di Crace meno apprezzato. Come lo scrittore ha rivelato ad Adam Begley durante un’intervista63 per The Paris Review, con questo romanzo Crace si è cimentato in qualcosa di insolito: ricreare l’idioma dell’epoca vittoriana e ricorrere ampiamente al dialogo. In romanzi come Quarantine, ambientato nella Giudea di duemila

61 Cfr. A. BEGLEY, op. cit. 62

P. TEW, op. cit., p. 23.

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anni fa o in The Gift of Stones, ambientato alla fine dell’Età della pietra, non sarebbe stato possibile ricreare la lingua dell’epoca, infatti, in questi romanzi, non c’è grande dialogo. In Signals of Distress, invece, Crace ha utilizzato la lingua dell’Ottocento e, potendo giocare su questo aspetto, ha fatto ricorso all’umorismo, realizzando quello che egli ritiene il suo romanzo più divertente. I critici, tuttavia, non hanno condiviso questa opinione e hanno consigliato a Crace di tornare a concentrarsi solo su romanzi non realistici, malgrado, secondo lo scrittore, Signals of Distress non sia un romanzo così realistico come essi immaginano. È, comunque, per certi versi autobiografico: si tratta infatti di una critica dell’egocentrismo e dell’alta considerazione di sé da parte di un’intera generazione di liberal progressisti, moralistici, giudici sprezzanti, e, a volte, insensibili. Nel romanzo si evidenzia il contrasto fra il liberale colto ed elitario e i locali, impulsivi, ignoranti, che possono non padroneggiare il latino, ma conoscono verità ben più grandi.

Quarantine, invece, è stato uno dei romanzi più apprezzati di Crace. Frank Kermode, in un’entusiastica recensione per il New York Times, associa Crace a William Golding («The writer of the recent past whom Crace most resembles is William Golding»)64, in riferimento alla forma di romanzo-fiaba da lui usata. Lo stile di Crace viene inoltre definito «cristallino» nello stesso articolo:

Crace’s way is closer to what Iris Murdoch distinguished as «crystalline» construction, the end of the fiction spectrum where the novel is most like a poem, most turned in on itself, most closely wrought for the sake of art and internal cohesion – the other pole being the social or even, at the extreme, journalistic, a mode to be preferred if the writer’s purpose is to develop studies

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XXVII

of characters in a larger modern society, given the degree of freedom to act and decide that such a society allows. There are distinguished novels of both kinds.

Anche Being Dead ha riscosso un notevole successo di critica. Susan Balée, nel saggio Maximalist Fiction, lo ha definito un tour de force di originalità, in cui il tema della morte viene trattato con estrema ironia, quando non con humour nero65. Per Balée, Crace costituirà senz’altro un modello per le generazioni a venire.

Le recensioni di The Devil’s Larder, una «sequenza di storie», in base alla definizione dello stesso Crace, sono piuttosto contrastanti. Adam Phillips, sul New York Times Book Review, lo ha definito un libro straordinario, anche per gli standard di Crace. Questi è, per Phillips, uno scrittore dalla prosa poetica, meticolosa e creativa. Proprio come nelle parabole di Kafka o nelle Ficciones di Borges, i personaggi delle storie presentano una logica ineccepibile, pur nascondendo sempre qualcosa di bizzarro, ineluttabile e convulso66. Michael Dirda, sul Washington Post Book World, ha sostenuto che la scrittura risulta piacevole ma, nel complesso, il libro risulta un po’ monotono. Malgrado l’evidente talento di Crace, per Dirda è come se la lettura lasciasse un senso di insoddisfazione, come se si restasse affamati, in cerca di qualcosa di più sostanzioso delle pur eleganti parabole e poesie in prosa, eccessivamente elaborate e raffinate; esse sono carenti di vivacità e salacità. Come alcuni lettori di Milton o Henry James sanno, continua Dirda, si può ammirare un’opera letteraria e trovarla comunque noiosa67.

65 Cfr. S. BALÉE, Maximalist Fiction, in «The Hudson Review», The Hudson Review Inc., New

York 53 (2000), 3, pp. 513-520, qui p. 518.

66 Cfr. A. PHILLIPS, «The Devil’s Larder»: Jim Crace’s Parables of Knowingness, in «The New

York Times», 21/10/01, http://www.nytimes.com/2001/10/21/books/review/21PHILIPT.html

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XXVIII

Neanche Six è stato particolarmente apprezzato. D.J. Taylor ne evidenzia le pecche in un articolo sul Guardian:

Technically, Six is an odd mixture of obliquity and heavy emphasis. While the urban backdrops, with their hints of danger and unrest, are sketched in with the lightest of touches, much of the foregrounded psychology, though highly acute, looks over-explained68.

L’idea di partenza, per Taylor, è buona, ma non si va al di là di questo: «Stylishly done, and full of well-concealed trickery, Six is like everything Crace has written: a glossy and elegant conceit but, in the end, not much more than that»69.

The Pesthouse è un romanzo ambientato in una futura America post-apocalittica, ricco, secondo Rebecca Johns70, di elementi ironici e satirici: l’America, da sempre considerata terra promessa, cede il suo ruolo all’Europa, verso la quale tendono tutti i protagonisti, che tentano di migrare nel vecchio continente per sfuggire a una piaga che appesta il loro paese. Il tempismo di Crace, però, è stato piuttosto sfortunato, secondo la Johns: The Pesthouse, infatti, è stato pubblicato a poca distanza da The Road di Cormac McCarthy, un altro romanzo distopico in cui la strada (le highway americane, in particolar modo) gioca un ruolo fondamentale; il romanzo di Crace ha notevolmente risentito del successo di The Road. Eppure, The Pesthouse, più che del futuro dell’America, sembra narrarne il passato, ed è questo l’aspetto più ironico: riporta l’involuzione di un Paese

68 D.J. TAYLOR, Gone to seed, in «The Guardian», 06/09/03,

http://www.theguardian.com/books/2003/sep/06/featuresreviews.guardianreview17

69 Ibidem.

70 Cfr. R. JOHNS, The Pesthouse by Jim Crace, in «Harvard Review», Houghton Library, Harvard

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XXIX

la cui influenza, un giorno, dovrà inevitabilmente cessare. Adam Begley parla di The Road come di un resoconto post-apocalittico molto più efficace di The Pesthouse, il quale invece risulta piuttosto fuori fuoco, sbiadito: «The Pesthouse […] is curiously unfocussed; it gives the impression of a talent adrift»71. Secondo Susan Balée, tuttavia, il romanzo di Crace non è affatto fuori fuoco: semplicemente, non segue il cammino obbligato dell’allegoria. Anzi, in molti modi il romanzo di Crace è per lei ben più ricco e complesso di quello di McCarthy:

Where The Road has only one mood, one path, different angles on one small dark picture, Crace actually tries to envision larger issues, more people, a more encompassing perspective. The Pesthouse reverses the old American narrative of the westward movement as manifest destiny.72

All That Follows è il tentativo, non del tutto riuscito da parte di Crace, secondo Adam Mars-Jones73, di scrivere un thriller. I suoi romanzi, per il critico, sono eccessivi, pomposi, magniloquenti e moralistici; la sua prosa procurerebbe persino l’emicrania.

Harvest, l’ultimo romanzo di Crace, candidato al Booker Prize del 2013, ha ricevuto invece ottime recensioni e, in genere, l’apprezzamento degli addetti ai lavori. In un villaggio senza nome in cui gli abitanti vivono in uno stato di semi paganesimo bucolico, tre giovani contadini scapestrati danno fuoco alle stalle del padrone; la colpa verrà scaricata su tre forestieri appena arrivati. Quando uno di loro morirà strangolato alla gogna, il senso di colpa

71

A. BEGLEY, Jim Crace’s Version Of American Apocalypse, in «New York Observer», 05/01/07, http://observer.com/2007/05/jim-craces-version-of-american-apocalypse/

72 S. BALÉE, Jim Crace’s Violent Verities, in «The Hudson Review», The Hudson Review Inc.,

New York 60(2007), 3, pp. 517-524, 526-527, qui p. 520.

73

Cfr. A. MARS-JONES, All That Follows by Jim Crace, in «The Guardian», 11/04/10, http://www.theguardian.com/books/2010/apr/11/all-that-follows-book-review

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XXX

aleggerà sul villaggio, assieme alla sete di vendetta della signora Beldam, figlia della vittima, chiamata così dai contadini per la sua bellezza e la sua aria misteriosa e quasi stregonesca. Nel frattempo, i contadini sono minacciati da un nuovo padrone che prenderà possesso delle terre che lavorano da innumerevoli generazioni, ma non riescono a dare una svolta alla situazione, né a mostrare gesti di generosità e di solidarietà disinteressata nei confronti di chi è estraneo al loro piccolo mondo. Quello che sembrava un idillio si trasforma man mano in un inferno, suggellato dagli incendi che divampano nel corso della narrazione.

Il Sunday Times riscontra in Harvest una scrittura sapientemente punteggiata da parole arcaiche, dal linguaggio esatto, talvolta poetico e talvolta crudo, che rende questo libro degno di essere paragonato all’influsso maggiore di Crace, William Golding74.

Philip Womack, sul Telegraph, definisce Harvest «a book of frustration», in quanto ogni personaggio si dimostra impotente di fronte agli eventi che lo soverchiano. Walter Thirsk, il protagonista, è incapace di prendere alcuna decisione. Nota Womack:

Crace has a great gift for clarity, his prose precise and heartfelt, achieving a timeless, polished quality. Which makes it all the more sadder that it feels as if he is straining towards some deeper truth, some epiphanic understanding75.

Secondo il critico, infatti, il giudizio universale presagito e paventato da Walter Thirsk non arriva mai. In effetti, il finale lascia un certo senso di

74 P. KEMP, Harvest by Jim Crace, in «The Sunday Times», 10/02/13,

http://www.thesundaytimes.co.uk/sto/culture/books/fiction/article1208704.ece

75 P. WOMACK, Review: Harvest by Jim Crace, in «The Telegraph», 27/02/13,

http://www.telegraph.co.uk/culture/books/bookreviews/9885432/Review-Harvest-by-Jim-Crace.html

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XXXI

irrisolutezza, o quantomeno la sensazione di un climax inespresso, un’implosione, una miccia che non arriva a esplodere malgrado le aspettative disseminate nel romanzo. La tensione non sfocia pienamente, ma solo parzialmente, col fuoco appiccato dalla signora Beldam al villaggio saccheggiato e deserto. L’evento più eclatante è l’assassinio del signor Penna, che viene però liquidato senza troppe spiegazioni.

Altro tema di Harvest, oltre a quello della terra sottratta ai lavoratori e del cambiamento da un tipo di società a un’altra, è quello della xenofobia. L’uomo, per formare un gruppo o una società ha bisogno di schierarsi contro qualcosa o qualcun altro e delimitare i confini del proprio spazio. Nel caso di Harvest, gli abitanti del villaggio fanno fronte comune contro i nuovi arrivati, prima, e contro Walter Thirsk poi, non appena notano in lui una mancanza di allineamento agli atteggiamenti e ai comportamenti del gruppo.

1.3. New British Fiction? Crace nel dibattito critico contemporaneo

Nel tentativo di riunire sotto una stessa definizione una serie di romanzi e romanzieri britannici, O’Donnell parla di «New British Fiction», una definizione che solleva forse più dubbi che certezze76. Ci si chiede ad esempio cosa si intenda per «nuovo» in un ambito come quello del romanzo, perennemente in cambiamento e soggetto a continue innovazioni. Anche «britannico» diventa un aggettivo problematico, in quanto un numero sempre maggiore di autori compresi sotto questa «etichetta»

76

Si veda P. O’DONNELL, New British Fiction, in «MFS Modern Fiction Studies», The John Hopkins University Press, Baltimora 58(2012), 3, pp. 429-435.

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XXXII

provengono da un contesto sempre più cosmopolita, multirazziale e plurilinguistico. È una letteratura scritta dopo l’era della Thatcher e dopo l’ultima battaglia dell’impero britannico nella guerra delle Falkland (2 aprile 1982 – 14 giugno 1982), in seno all’era digitale ricca di vari «ismi»: multiculturalismo, postmodernismo, terrorismo, post-nazionalismo. Ed è una letteratura che pare stia espandendosi, più che contrarsi, in modi che suggeriscono che l’aggettivo «britannico», in quanto cornice concettuale di tale produzione culturale, sia sempre più inadeguato. Agli inizi degli anni Novanta, il mondo del dopoguerra è finito. Come afferma Malcolm Bradbury, a lungo ci si è trovati in una sorta di post-dopoguerra, un pre-ventunesimo secolo, un mondo amorfo e ricco di incertezze che rappresenta una sfida per tutti gli scrittori77.

Se il particolarismo è stato soppiantato dalla molteplicità osservabile ovunque nella letteratura contemporanea, britannica o meno, allora i punti di riferimento per comprendere cosa sta avvenendo nella «New British Fiction» devono essere adeguatamente ampi e superare i confini insulari. O’Donnell include in questo gruppo gli scrittori della generazione Y, ovvero la «millennial generation»: quegli scrittori che hanno iniziato la loro carriera, pubblicato romanzi e ottenuto visibilità a partire dal ventunesimo secolo. Questa generazione di scrittori segue quella di Salman Rushdie, Angela Carter, Ian McEwan, Martin Amis e A.S. Byatt, generazione che, a sua volta, era stata preceduta da quella di William Golding, Iris Murdoch, Kingsley Amis, Doris Lessing e John Fowles. Ovviamente il concetto di «generazione» è piuttosto malleabile (ci sono autori come Jeanette Winterson che spaziano almeno in un paio di generazioni) e bisogna comunque tener conto della particolarità della scrittura del singolo. Ma, in

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XXXIII

ogni caso, O’Donnell prende in considerazione una serie di autori britannici «del millennio» fra cui, ad esempio, Zadie Smith, David Mitchell, Tom McCarthy e Ali Smith. Oltre a tali scrittori della generazione Y, O’Donnell prende in considerazione anche altri autori che, più o meno, nella loro scrittura, rientrano nella categoria di «New British Fiction»: Mark Haddon, Kate Atkinson, Hari Kunzru e Jim Crace, con le sue ambientazioni apocalittiche (basti pensare a The Pesthouse).

Dire oggi in cosa consista esattamente il romanzo inglese è difficile, tuttavia, secondo Peter Childs, è possibile individuare una serie di dominanti e tendenze78: per esempio la maggior parte dei romanzi pubblicati agli albori del ventunesimo secolo vengono scritti in prima persona. Dal secolo scorso, infatti, è venuta meno la fiducia nella gerarchia della narrazione che vedeva l’autore al vertice, cosicché molti scrittori hanno preferito adottare un narratore in prima persona piuttosto che un narratore onnisciente in terza persona. Spesso un narratore di questo tipo è un individuo molto simile all’autore e la scrittura è autobiografica, condotta con uno stile meditativo e confessionale, dal quale, come sappiamo, Crace rifugge. Per Childs questo tipo di narrativa non adotta l’approccio tradizionale in base al quale si cerca di raccontare gli eventi nella loro interezza, ma mira semplicemente a riferire una storia; una storia che non offre la verità, dei significati profondi o delle fedi filosofiche, ma che si limita a rappresentare aspetti del mondo moderno attraverso la vita e le esperienze degli individui. Peraltro, continua Childs, la caratteristica più notevole della narrativa inglese è la varietà. Essa dà forza e immaginazione alla narrativa inglese ed è evidente dall’ampio ventaglio di autori aventi caratteristiche e tratti stilistici molto diversi fra loro. Quelli menzionati da

78

Cfr. P. CHILDS, Contemporary Novelists: British Fiction since 1970, Palgrave, Houndmills 2005, p. 13.

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XXXIV

Childs sono Iain Sinclair, Adam Thorpe, Sarah Waters, Jim Crace, Monica Ali, Hari Kunzru, Lawrence Norfolk, Rachel Cusk, David Mitchell, Andrew Miller, Diran Adebayo79.

In uno scambio di idee fra O’Donnell e lo scrittore Tom McCarthy80, il primo ha fatto notare al secondo che la narrativa britannica attuale mostra tratti di varietà ed energia paragonabili solo alla narrativa sperimentale americana degli anni Sessanta e Settanta, ovvero l’epoca della «metafiction», fondamentale per la comprensione del postmodernismo. McCarthy si è mostrato restio a paragonare epoche o movimenti, ma, in base alla sua opinione, l’energia del suo lavoro e di quello altrui deriva dall’eccitazione generata da una sorta di interdisciplinarità estetica nella quale egli sente la libertà di muoversi fra il testuale e il visivo. Ovviamente, sostiene O’Donnell, il primato del visuale e la reperibilità delle informazioni tipica dell’era digitale è la cornice per ogni considerazione della letteratura contemporanea. Per gli scrittori citati poc’anzi, però, la tendenza è quella di guardare alla sperimentazione postmoderna come a una cassetta degli attrezzi; la loro scrittura è ibrida, e si barcamena fra rinnovate forme di realismo e giochi linguistici, onorando le tradizioni e storpiandole al contempo con un approccio parodico. Ciò non vuol dire che si sia superato il postmodernismo: un’affermazione del genere sarebbe insensata, proprio come lo sarebbe affermare che si è superato il modernismo. Il punto è che, per molti degli scrittori qui considerati, il bisogno di definirsi come facenti parte di un certo movimento è scomparso. Gli autori della «New British Fiction» condividono le preoccupazioni postmoderne circa la formazione dell’identità, la storia e la storiografia, la relazione fra estetica e politica, ma nel frattempo sviluppano nuovi modi di affrontare questioni di

79

Cfr. ibidem, p. 14.

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genere, identità, linguaggio, e altresì temi emergenti riguardanti l’ambiente, la globalizzazione e la tecnologia.

Anche il background londinese potrebbe aver svolto un ruolo in tutto ciò: Londra è la città che più è cambiata negli ultimi due decenni al mondo, seconda forse solo a Berlino o a Dubai. Alcune di queste trasformazioni sono, ad esempio, l’apertura della Tate Modern e del Millennium Bridge nel 2000, o la selezione di Londra per le Olimpiadi estive del 2012. È così che la città è diventata una delle principali mete del turismo metropolitano del ventunesimo secolo. Tutto ciò è avvenuto in contrapposizione alla controversa ristrutturazione delle Docklands, il simbolo più evidente della disparità fra ceti alti e bassi accentuata dalla politica della Thatcher. A cambiare i connotati di Londra ha contribuito anche l’attentato avvenuto in metropolitana il 7 luglio 2005, evento che, per la Gran Bretagna, ha avuto un effetto pari a quello dell’11 settembre per gli Stati Uniti: generare la paura collettiva del terrorismo. Il sistema di controllo panoptico e la sorveglianza costante sono stati di conseguenza recepiti come un aspetto della vita quotidiana. Un accenno va fatto anche al multiculturalismo della Gran Bretagna e di Londra. Secondo un rapporto del 2007 sull’immigrazione, vent’anni di immigrazioni senza precedenti hanno rafforzato l’economia londinese rendendola flessibile e versatile81. Sempre secondo questo rapporto, il 29% dei posti di lavoro, a Londra, sono occupati da persone nate al di fuori del Regno Unito. Eppure il rovescio della medaglia è costituito dal fatto che non si sono attuate politiche di immigrazione costruttive, né in Europa, né negli Stati Uniti: la conseguenza è che ci sono disparità economiche e intransigenze culturali, com’è evidente dalle rivolte del 6-10 agosto 2011, nate a Londra ed espansesi rapidamente

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Si veda I. GORDON, T. TRAVERS, C. WHITEHEAD, The Impact of Recent Immigration on

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fino a Manchester e Birmingham. Sulla scia di questi avvenimenti troviamo tutti quegli aspetti di cui si nutre la «New British Fiction»: immigrazione, multiculturalismo, ibridismo culturale, terrorismo (e i connessi nazionalismo e paranoia culturale), il contrasto fra tradizione e rinnovamento culturale, il turismo, le divisioni politiche.

Londra peraltro aveva già costituito interessanti spunti per la narrativa inglese degli anni Ottanta: fu per la Gran Bretagna un periodo pieno di dubbi, di profezie nefaste e di sentimenti apocalittici fra molti dei suoi artisti e intellettuali. Molti scrittori dell’epoca thatcheriana videro questi anni come un momento di divisione, decadenza, incuria e integrità perduta. Un’epoca di violenza, di frammentazione, di disordine, in una Gran Bretagna multiculturale ma incoerente. Secondo Malcolm Bradbury82, lo spirito dell’apocalisse urbana riappare nella narrativa inglese, così come in quella americana, dopo essere stato il motore dei romanzi del Naturalismo e del Decadentismo un centinaio di anni prima. Londra è la grande protagonista, la città turbolenta che ispira diversi autori: Hawksmoor (1985), di Peter Ackroyd, in cui si narra di una serie di delitti in una metropoli gotica; Gabriel’s Lament (1986), di Paul Bailey, che ricrea una Londra di intensità e profondità dickensiane; London Fields (1989), di Martin Amis, che dipinge Londra come una mancata Arcadia, una metropoli spettrale alla vigilia del disastro ecologico.

Ed è proprio Arcadia il titolo ironico del romanzo del 1992 di Crace in cui vengono analizzati i rapporti fra la campagna e una città distopica e che, come afferma Bradbury, è un ritratto poetico di una città moderna e universale con le sue luci e le sue ombre.

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