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2.3. L’uscita dal dubbio: il

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Academic year: 2021

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2.3. L’uscita dal dubbio: il cogito

Proprio dal dubbio iperbolico scaturisce la prima verità incontrovertibile, la prima indubitabile certezza: “Vi è un impostore estremamente potente, estremamente astuto, che si adopera ad ingannarmi sempre. Dunque, non vi è dubbio che anch’io esisto, se egli mi inganna; e mi inganni quanto può, tuttavia non sarà mai in grado di far sì che io non sia nulla, finché penserò di essere qualcosa. Di modo che, esaminata attentamente ogni cosa più del dovuto, in definitiva si deve ritenere saldamente che questa proposizione io penso, io esisto è necessariamente vera ogniqualvolta viene da me espressa o concepita con la mente”.

Io posso dubitare di tutto, non del fatto stesso che io dubiti, cioè del fatto che io possa pensare che una certa cosa è falsa. E se anche io dubitassi di dubitare, questo sarebbe ancora un dubitare.

L’atto di dubitare, dunque, è indubitabile. Ma dubitare significa pensare, sia pure per mettere in dubbio il contenuto pensato. Di qui, l’intuizione di Cartesio: penso, dunque sono, esisto (cogito, ergo sum). Se non altro come pensiero. E’ questa la prima verità fondamentale.

Il mio esistere è lo stesso che il mio pensare; è una presa di coscienza da parte della mente del carattere indubitabile del nesso esistente tra il mio pensare e il mio esistere.

“Io penso”, “io esisto” sono oggetto di un unico atto di conoscenza (che dunque è intuitiva, simplici mentis intuitu, afferma Cartesio) e di un’unica certezza; il fatto di pensare significa immediatamente il fatto di esistere.

Il superamento del dubbio universale e la scoperta di una base certissima su cui sia possibile fondare in modo rigoroso il nostro sapere sono rese possibili dall’evidenza del cogito, cioè dall’immediatezza con cui esso si presenta come un contenuto chiaro e distinto alla mente.

L’indubitabilità del cogito si basa dunque sulla piena e immediata evidenza (richiamo alla prima regola del Discorso sul metodo) del fatto che per pensare è necessario esistere.

In parole semplici: è del tutto evidente che, se io sono qui a pensare, magari anche soltanto a pensare di essere ingannato da un genio maligno, io ci sono, io esisto (e sono consapevole di esserci): “sono certo di essere una cosa pensante”.

Sulla possibilità di estendere la regola generale o principio dell’evidenza oltre la certezza dell’io pensante grava tuttavia l’ipotesi, non ancora dissolta, di un dio ingannatore.

Per quanto possa essere tenue la ragione di dubbio che poggia su questa opinione, non potrò essere certo di alcun’altra conoscenza se non avrò risposto a questi interrogativi fondamentali: esiste dio? Ammesso che esista, può ingannare e ingannarmi?

L’indagine su dio e sulla sua esistenza, si inquadra in un contesto più generale di ricerca:

“esistono fuori di me” – cosa pensante che ha delle idee, cioè delle rappresentazioni derivanti dalle cose esterne – “alcune delle cose di cui ho in me le idee?”.

L’affermazione dell’esistenza di una realtà esterna all’io pensante parte dunque dall’esame delle idee.

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Cartesio perverrà alla constatazione dell’esistenza di un tipo particolare di idea nel soggetto, ossia l’idea di dio, di qui all’esistenza di quell’ente che l’idea di dio esprime (dio stesso) e da qui ancora all’esistenza del mondo esterno, di cui dio è garante.

Conclusione in sintesi:

• Cartesio, interrogandosi sulla validità del conoscere umano, sul grado di certezza relativo al conoscere (indagine metafisica), ricerca una prima verità indubitabile.

• Per fare ciò deve dubitare di tutto fino a trovare qualcosa che resista al dubbio.

• Con l’ipotesi del genio cattivo si arriva a dubitare di tutto ciò che appare indubitabile, cioè non solo dell’esistenza del mondo, ma anche della verità delle operazioni matematiche.

• Il cogito (l’io penso) si salva dal dubbio e costituisce la prima certezza, una prima nozione, proprio perché non è qualcosa di esterno al pensiero stesso; posso dubitare del mio corpo e dell’esistenza del mondo, ma l’attività del pensare appare indubitabile nel momento in cui si dubita della verità del suo contenuto (il mio corpo e il mondo).

• Tuttavia, sulla possibilità di estendere la regola generale o principio dell’evidenza oltre la certezza dell’io pensante grava l’ipotesi di un dio ingannatore.

• Non potrò essere certo di alcun’altra conoscenza se non avrò risposto a questi interrogativi fondamentali: esiste Dio? Ammesso che esista, può ingannare e ingannarmi?

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3. Dal cogito a Dio e al mondo esterno 3.1. La res cogitans e le idee

A questo punto della ricerca cartesiana è possibile affermare soltanto l’esistenza dell’io come “cosa pensante”: io esisto (e solo io, per ora), ed esisto solo come pensiero e in quanto pensiero.

La certezza del cogito (cioè dell’“io esisto in quanto pensiero”) non toglie tuttavia il dubbio, che come sappiamo investe tutto ciò che è esterno all’io: anche dopo l’intuizione del cogito-sum, le cose, il mondo, il mio stesso corpo restano oggetto del dubbio.

Questa indipendenza del cogito dal mondo esterno induce Cartesio a porre l’io come una sostanza per sé autonoma, che consiste nel pensare: una sostanza pensante (res cogitans). Questa sostanza è l’anima, che, per la sua estraneità alla materia e al mondo corporeo, è immortale.

La res cogitans (ma anche anima, mente, intelletto e ingegno, insomma: la vis cognoscens nettamente distinta dai sensi) resta però chiusa in se stessa, per così dire assediata dal dubbio che investe tuttora il mondo esterno e la stessa corporeità dell’uomo (si ricordi che la facoltà per mezzo della quale conosciamo le cose – ossia la res cogitans – è puramente spirituale e distinta da tutto il corpo – res extensa).

Per uscire dal proprio cerchio il pensiero deve trovare un ponte verso la realtà, altrimenti rischia di restare fermo all’autoriconoscimento di sé, in un atteggiamento solipsistico, privo di rapporti con la realtà esterna.

Potremmo dire che la soggettività, il punto di vista del soggetto sul mondo, è assicurata (cioè esiste un soggetto, io, in quanto pensiero), ma si fa ora problematico, a partire da questa, il recupero dell’oggettività (cioè l’affermazione dell’esistenza del mondo stesso).

Cartesio osserva allora che il soggetto è certo non solo della propria esistenza, ma anche dell’esistenza delle proprie idee, cioè delle rappresentazioni che egli ha in quanto pensa.

Cartesio ne individua tre tipi:

 le idee innate, cioè le idee che sembrano nate con me e che esprimono le verità raggiungibili attraverso il solo pensiero (l’idea di verità ad esempio, o quella di anima);

 le idee avventizie, che, come dice il loro nome (da ad-venire=sopraggiungere), sembrano provenire dall’esterno, come le immagini che si riferiscono agli oggetti (un rumore che occupa per un attimo la mente, il sole, il fuoco);

 infine le idee fattizie, prodotte dalla stessa mente umana riunendo insieme attributi di cose diverse (come nelle figure dell’ippogrifo, della sirena, della montagna dorata).

Cartesio individua nell’esame delle idee, a parte quelle palesemente formate o inventate dall’io, le idee fattizie, la “via per indagare se esistono altre cose fuori di me”.

Vediamo allora se tra le idee è possibile trovare quel principio primo necessario a garantire l’esistenza del mondo esterno.

Naturalmente, questa funzione non può essere svolta dalle idee fattizie, che, in quanto inventate o comunque formate dalla mente, non hanno alcun corrispettivo nella realtà; né può essere assicurata dalle idee avventizie, perché non è possibile sapere con sicurezza

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se davvero provengono dall’esterno o non siano invece il frutto, involontario e inconsapevole, di una capacità rappresentativa del soggetto.

Non restano che le idee innate, o almeno un’idea innata, quella di Dio.

Il passaggio al mondo esterno è mediato appunto dall’idea di Dio, l’esistenza del quale può essere dimostrata attraverso il ragionamento.

Si apre qui una fase della speculazione cartesiana in cui appare evidente il grado di consapevolezza con cui Cartesio utilizza l’armamentario filosofico del pensiero scolastico tradizionale, quello imparato nei nove anni di La Flèche.

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3.2. L’analisi delle idee e le prove dell’esistenza di Dio

Cartesio prende quindi a esaminare una serie di idee per vedere se ve n’è almeno una di cui la mente finita non possa ritenersi causa in modo assoluto: è questa la sola idea di Dio, ossia l’idea di “una sostanza infinita, eterna, immutabile, indipendente, onniscente, onnipotente, dalla quale sarei stato creato io stesso come ogni altra cosa, se qualcosa d’altro esiste. E tutte queste prerogative sono così grandi ed eminenti, che quanto più accuratamente le considero, tanto meno sembra possibile che siano derivate da me solo”.

La prima delle prove dell’esistenza di dio parte allora dalla:

1) constatazione che io ho in me l’idea, o la percezione chiara e distinta, di un essere perfetto;

2) ma tale idea di perfezione somma non può venire da me stesso, che sono imperfetto – come indica il mio dubitare – né da una qualche realtà del mondo, la cui esistenza è ancora tutta da dimostrare, né – essendo l’idea qualcosa di reale – può venire dal nulla;

3) dunque non può venire che da un essere perfetto, realmente esistente fuori di me, cioè da Dio stesso, come corrispettivo causale dell’idea di perfezione che è in me.

Si deve quindi “concludere da quanto detto che dio esiste necessariamente”.

L’idea di dio è una idea innata che mi si rivela nella esperienza della mia imperfezione e finitezza, quale è attestata dal mio dubitare, quel dubitare da cui è scaturita la prima verità irrefutabile: dubito, ossia, penso, quindi sono.

La consapevolezza della mia finitezza e imperfezione, quella mancanza che trovo non appena mi volgo con la mente a pensare me stesso, scoprendomi come cosa dubitante, mi deriva infatti dalla presenza in me dell’idea di un essere più perfetto, dal cui confronto vengo a conoscere i miei difetti.

La coscienza della mia imperfezione di dà la certezza che vi è qualcosa da cui derivano le idee di perfezione e infinità che ritrovo in me e a cui aspiro: dal dubbio, al cogito, a dio.

Essendo perfetto, Dio non può ingannare, egli è anzi la garanzia delle verità conosciute dalla nostra mente. Dio è dunque garante della verità. Vediamo più specificamente di che cosa si fa garante Dio.

Innanzitutto, se essa viene esercitata in modo corretto, del buon funzionamento della ragione naturale, per cui l’uomo può ritenere come vero ciò che appare alla mente chiaro e distinto.

Dio assicura quindi la verità delle idee innate, che egli stesso infonde nella nostra anima al momento della sua creazione.

Ancora, garantisce la realtà del mondo esterno, la cui esistenza non è più attribuibile all’inganno messo in atto da un cattivo genio, perché il massimo genio, Dio, non è ingannatore.

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4. La sostanza e il dualismo 4.1. Il dualismo metafisico

La garanzia di verità fornita da Dio consente di affermare con certezza l’esistenza del mondo esterno, cioè di un mondo corporeo, che comprende, oltre al nostro corpo, tutti gli oggetti appartenenti alla realtà naturale.

Proprio perché esterno ed estraneo al pensiero, questo mondo ha attributi opposti al pensiero stesso; di fronte alla sostanza pensante, spirituale, priva di divisione e indivisibile, si delinea una sostanza estesa, divisibile in parti.

Secondo Cartesio, il termine sostanza in senso stretto designa ciò che non ha bisogno di altro da sé per esistere, propriamente perciò sostanza è solo Dio, perché solo Dio esiste di per sé.

Ma in un più largo senso il termine sostanza si addice a tutto ciò che per esistere non ha bisogno di altro all’infuori di Dio.

All’interno della sostanza intesa in quest’ultima accezione si collocano la sostanza pensante e la sostanza estesa.

La concezione metafisica di Cartesio si presenta perciò come dualistica, in quanto la realtà è composta di due sostanze con caratteristiche fra loro opposte.

In altre parole: per Cartesio sussiste una radicale eterogeneità e distinzione tra il mondo corporeo, il mondo della pura materialità identificato con l’attributo dell’estensione, e il mondo spirituale, il mondo umano della sostanza dotata di pensiero.

Come una sorta di filo ininterrotto, il concetto di sostanza attraversa il corso del pensiero filosofico, evidenziando gli elementi di continuità e le svolte più significative nella storia del pensiero.

Le sue radici sono nella filosofia antica, in Platone innanzitutto, per il quale sostanza significa il modo di essere di ciò che è realmente, cioè l’idea. Con Aristotele la sostanza acquista il significato di fondamento della realtà, che resta in primo piano nella tradizione filosofica-metafisica.

Per Cartesio, propriamente parlando, Dio è l’unica sostanza, nel senso di ciò che non ha bisogno di altro per esistere e causa sui, unica causa di se stessa.

Ma accanto alla sostanza divina, che è unità di essenza e di esistenza, egli affianca le due sostanze derivate del pensiero e della materia: la res cogitans e la res extensa, reciprocamente indipendenti.

dizionario di filosofia:

 dualismo: termine introdotto in età moderna per designare in generale ogni dottrina che fa riferimento a due principi contrapposti di spiegazione della realtà in un qualsiasi campo di indagine (religioso, metafisico, scientifico).

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Dal punto di vista metafisico, il dualismo è una dottrina filosofica, di cui Cartesio è indicato come l’iniziatore, che afferma l’esistenza di due specie di sostanze, quella corporea e quella spirituale.

Il dualismo cartesiano, con la sua netta separazione tra la sostanza pensante e quella estesa, è all’origine di notevoli problemi, determinati dalla difficoltà di connettere fra loro realtà così eterogenee e lontane, difficoltà riscontrabile soprattutto nell’analisi del rapporto tra l’anima (res cogitans) e il corpo (res extensa).

Nello stesso tempo il dualismo cartesiano contribuisce a sviluppare una visione della realtà materiale come indipendente da quella spirituale, favorendo così una ricerca più libera e autonoma intorno al corpo umano e ai fenomeni fisici.

Nell’affermazione dell’autonoma dignità della materia e della possibilità di considerarla scientificamente, senza dover ricorrere a un qualche principio di natura spirituale, possiamo vedere lo specifico contributo di Cartesio al processo che si sta sviluppando nella nuova scienza, tesa al superamento di ogni rappresentazione spirituale della natura.

Cartesio, come già Galilei, prende le distanze dalla tradizione aristotelica e concepisce un universo costituito unicamente di quantità misurabili: perciò esso non può essere oggetto di una scienza qualitativa, delle essenze.

Avendo separato sostanza spirituale e sostanza materiale, avendone fatte due realtà autonome e disgiunte, l’universo cartesiano (inteso come res extensa) non ha in sé alcun principio spirituale (che è infatti res cogitans), e quindi è un universo inteso come una macchina (le macchine non hanno un’anima, un pensiero, un cogito, una mente, un principio spirituale: obbediscono unicamente alla necessità dei loro ingranaggi), che si muove meccanicamente da sé, secondo le leggi naturali.

In tal modo non è più necessario alcun intervento ‘attivo’ di Dio dopo la creazione. Tutto accade necessariamente, secondo leggi meccaniche, che escludono qualsiasi elemento finalistico, cioè qualsiasi finalità dell’universo, qualsiasi visione teologica dell’universo, qualsiasi scopo che non sia unicamente quello dato dal suo esistere.

I fenomeni naturali sono perciò spiegabili esclusivamente sulla base di un rigido meccanicismo.

dizionario di filosofia:

 meccanicismo: concezione che mira a spiegare la realtà e i suoi fenomeni in base alla materia e al movimento; si oppone al finalismo come concezione che spiega l’ordine dell’universo e i fenomeni naturali in riferimento a un fine al quale tutti tendono.

Il termine meccanicismo può essere ricollegato sia a quello di meccanica, che designa la fisica dei corpi in movimento, sia a quello di macchina (in greco mechane), che designa una realtà artificiale.

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4.2 La filosofia naturale: il meccanicismo cartesiano

La concezione cartesiana della natura è dunque una concezione meccanicistica, definibile essenzialmente nella duplice riduzione della materia a estensione e dei fenomeni naturali a movimenti.

Essa si inquadra in un vasto orientamento di pensiero che si delinea e si sviluppa nella prima metà del XVII secolo, nell’ambito di un diffuso atteggiamento critico-negativo nei riguardi della filosofia naturale e della scolastica di ispirazione aristotelica.

Le sensazioni sono il linguaggio della natura, il mezzo con cui si comunica a noi agendo sugli organi sensoriali, ma, come le parole del linguaggio umano rispetto alle cose che significano, non sono in un rapporto di somiglianza con la natura e pertanto non ce la rappresentano quale è in se stessa.

La natura quale è in sé non ci è manifestata dalle sensazioni – modificazioni soggettive a stimoli esterni –, ma dall’intuizione dell’intelletto, e nell’intelletto ci appare come pura estensione divisibile all’infinito e suscettibile di movimento locale nelle parti che ne risultano.

La materia intesa come pura e semplice estensione ha le stesse proprietà dell’estensione:

la proprietà essenziale è di essere divisibile all’infinito (divisibilità infinita della sostanza corporea) e in conseguenza di assumere tutte le figure che si possono immaginare.

Le parti che ne risultano, di per sé inerti, sono suscettibili di movimenti, ossia di disporsi diversamente tra loro nello spazio.

Dalla divisione e dalla ricomposizione in atto delle parti estese solide si originano in natura i singoli corpi, i cui rapporti vengono a definirsi in base allo spazio e al luogo.

Altra caratteristica fondamentale della concezione meccanicistica cartesiana è la negazione del vuoto, identificato con il nulla, il non-essere.

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4.3. Il dualismo di anima e corpo

Nell’ordine meccanicistico dell’universo, e dunque nel contesto della filosofia naturale che lo spiega, rientra anche il corpo umano, che come tutti i corpi è fatto di materia estesa e perciò sottoposto alle leggi naturali.

Alla macchina umana, che è parte della res extensa è congiunta l’anima, la res cogitans, infusa direttamente da Dio. Ora, l’anima è una sostanza per sé autonoma, indipendente dal corpo, e perciò sottratta al rigido meccanicismo delle leggi naturali; di qui, le sue caratteristiche di libera volontà e di immortalità.

L’uomo appare dunque un composto dato dalla stretta relazione di due sostanze ontologicamente distinte, ciascuna con attribuzioni specifiche: anima e corpo, spirito e materia, libertà e necessità meccanica, azione (componente attiva) e passione (componente passiva).

Ma se anima e corpo appartengono a sfere diverse della realtà, come è possibile che tra di loro intercorrano dei rapporti, di cui pure abbiamo esperienza?

Come è possibile che l’anima e la sua volontà influiscano sul corpo, per esempio ordinandogli di compiere un determinato gesto? Come è possibile che la disposizione organica del corpo condizioni e influisca sull’anima trasmettendole delle sensazioni o suscitando in essa dei sentimenti?

Cartesio risponde affermando che, dal punto di vista fisiologico, esiste un luogo fisico di incontro tra l’anima (spirituale) e il corpo: questo luogo è la ghiandola pineale (o epifisi, il conarium secondo la terminologia dell’epoca), situata al centro del cervello, dove ha sede l’anima, la res cogitans.

Da qui l’anima “estende la sua azione in tutto il resto del corpo tramite gli spiriti animali, i nervi e perfino il sangue, che, partecipando alle impressioni degli spiriti, può portarli attraverso le arterie in tutte le membra”.

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Conclusione.

Il criterio che ho scelto per delineare il programma di questo anno scolastico relativo alle teorie filosofiche di età moderna è stato quello di seguire le avventurose vicende della ragione critica, la sua difficile e contrastata affermazione contro le forze del dogmatismo, della censura, dell’autoritarismo politico e religioso.

Un capitolo importante all’interno di questa storia è rappresentato dalla filosofia di Cartesio, la cui diffusione nelle università dei principali centri culturali europei scatenò la reazione di coloro che vi scorgevano una pericolosa minaccia alle “verità” della religione cristiana.

Per questo motivo vorrei concludere questa unità didattica parlando di ciò che accadde poco prima della morte del filosofo francese, quando il cartesianesimo incontrò l’intolleranza del dogmatismo fanatico religioso.

Nel 1642 l’università olandese di Utrecht, su istigazione del teologo ultraconservatore (e rettore dell’università) Gisbertus Voetius, aveva condannato con vigore l’insegnamento della filosofia cartesiana.

La “nuova scienza”, sosteneva Voetius, minacciava i princìpi fondamentali della religione cristiana.

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A suo avviso, l’idea copernicana (che Cartesio non sostenne mai apertamente, ma appoggiò comunque in modo chiaro) che al centro del sistema planetario e delle orbite stellari vi fosse il sole, e non la terra, entrava in contraddizione con le Scritture.

La metodologia di Cartesio, inoltre,

• conduceva ineluttabilmente allo scetticismo e, di conseguenza,

allo smarrimento della fede.

La metafisica cartesiana, poi,

• sembrava contraddire diversi dogmi cristiani; e, soprattutto,

essa era incompatibile con la filosofia antica, che costituiva ancora il nucleo dell’insegnamento universitario della filosofia.

Nel 1646, l’università di Leida seguì l’esempio, proclamando che solo la filosofia aristotelica sarebbe stata insegnata agli studenti.

Il senato accademico proibì dunque ai professori della facoltà di filosofia e di teologia di citare il nome di Cartesio o le sue idee rivoluzionarie a lezione.

Il consiglio provinciale, ovvero il superiore organo politico degli Stati d’Olanda, dichiarò che tutti i professori di filosofia, “per serbare la pace e la concordia”, dovevano giurare solennemente di “non divulgare più i princìpi filosofici ispirati al pensiero di Cartesio, motivo di scandalo per molti”.

La ragione per la quale il cartesianesimo aveva scatenato una reazione tanto appassionata era che, agli occhi di alcuni, esso

minacciava un intero edificio intellettuale e religioso.

Per secoli, infatti, la filosofia e la teologia che si erano insegnate a scuola e all’università erano state profondamente impregnate di filosofia aristotelica.

La nuova filosofia e la nuova scienza si disfacevano invece di molti concetti e molte categorie del pensiero aristotelico.

Per la filosofia di Galilei e Cartesio, il mondo fisico è composto unicamente da materia in movimento e guidata da leggi fisiche.

Ogni spiegazione scientifica deve rifarsi dunque solo a fenomeni di natura materiale, la cui forma, grandezza e movimento si può descrivere in termini puramente matematici.

Nei corpi non c’è nessun potere occulto, o principio spirituale, o essenza, come invece accade nella visione scientifica degli aristotelici.

Nel mondo materiale non c’è spazio per quegli agenti di tipo spirituale grazie ai quali i professori universitari avevano per lungo tempo interpretato il comportamento degli oggetti fisici.

Una divisione così netta tra il regno della materia e il regno dello spirito – battezzata in seguito “dualismo” – è la tesi capitale della metafisica di Cartesio.

Ma se la visione materialistica cartesiana dell’ordine naturale era corretta, allora molti passi della Bibbia (tra cui quelli relativi ai miracoli)

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erano incompatibili con le leggi matematiche e universali della natura, per cui i brani che ne parlavano dovevano essere interpretati in senso figurato.

Il celebre “metodo cartesiano del dubbio”, inoltre, secondo il quale ogni vero filosofare comincia con il dubbio e con l’analisi critica di ogni credenza accreditata fino a quel momento,

poteva condurre solo allo scetticismo, se non all’ateismo e alla perdita della fede.

E in questo modo la disputa su Cartesio finì per oltrepassare i confini strettamente accademici. I calvinisti più rigidi presero infatti anch’essi posizione, sostenendo che la filosofia di Cartesio

era pericolosa e poteva portare alla rovina della religione e della morale comune.

Intorno alla metà del Seicento la campagna anticartesiana toccò uno dei suoi più violenti e periodici vertici.

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