SCRITTURA III. S.PAOLO– PRIMA LETTERA AI CORINZI Lezioni Prof. R. Chiarazzo
INDICE
LA COMUNITA’ DI CORINTO ... 1
ESEGESI ... 3
1 COR 1, 10 - 16 ... 3
1 COR 1, 17 - 25 : Prima Dimostrazione (Discorso di Paolo sulla Sapienza) ... 6
1 COR 1. 26 - 31: Seconda Dimostrazione ... 11
1 COR 2, 1 - 5: Terza Dimostrazione ... 13
1 COR 2, 6 - 10a : Discorso di Paolo sulla Sapienza Divina ... 14
1 COR 2, 10b - 16 : Lo Spirito come conoscenza superiore ... 17
1 COR 5, 1 - 13 : L’incesto ... 19
1 COR 6, 1 - 11: Questione relativa ai tribunali civili ... 19
1 COR 6, 12 - 20: Fornicazione. ... 19
1 COR 11: Ordine nelle Assemblee (Abbigliamento delle donne)……… 22
1 COR 11, 3 - 6 : Primo argomento: Enunciazione di principio ... 23
1 COR 11, 7 - 12 : Secondo argomento: Prova Biblica ... 25
1 COR 11, 13 - 15 : Terzo argomento: Prova della natura ... 27
1 COR 11, 16 : Quarto argomento: Conclusione ... 27
1 COR 13 : Inno alla Carità ... 28
1 COR 13, 1 - 3 : Confronto tra carità e carismi ... 29
1 COR 13, 4 - 7 : Caratteristiche della carità operativa ... 31
1 COR 13, 8 - 13 : Perfezione e Perennità della carità ... 33
PRIMA LETTERA AI CORINZI La comunità di Corinto.
Corinto era una città che con i suoi porti metteva in contatto est e ovest.
Era la seconda/terza città più importante dell’Impero Romano e, siccome, Paolo, sa che deve annunciare il vangelo, arriva nei punti dove può avere un discreto successo.
Si scontrerà con quello che è chiamato il cosmopolitismo della città: nella chiesa di Corinto c’erano cristiani di origine pagana provenienti da ambienti umili; cristiani di origine giudaica (nella lettera vedremo che ci sono delle tensioni continue tra schiavi, liberi, uomini, ricchi e poveri e ciò denota una comunità alquanto caotica).
La presenza di Paolo a Corinto corrispose a quella del proconsole della Acaia Lucio Giunio Anlio Gallione, fratello maggiore del filosofo Seneca (precettore di Nerone).
Gallione, venuto a Corinto tra il 51 e 52, trovandosi faccia a faccia con Paolo, rinuncia a giudicarlo non sporgendo nel suo operato indizio di reato (addirittura fa cacciare dal tribunale i giudei che volevano accusare Paolo in At 18,6-12). E’ importante ciò, perché è stata ritrovata a Delphi un iscrizione del 1905 in cui si menziona l’imperatore Claudio e lo stesso Gallione; ciò costituisce un punto fermo nella cronologia paolina.
Corinto fu, per Paolo, l’ultima tappa di andata del suo secondo viaggio missionario; questa sua visita si può fissare intorno agli anni 50.
Dopo la fondazione della comunità, i rapporti con Paolo furono intensi e travagliati (la corrispondenza ce lo rivela ampiamente).
Stando agli indizi delle due lettere ai Corinzi, dobbiamo constatare che Paolo ha scritto, a loro, almeno quattro lettere:
1) in 1Cor 5,9 si fa riferimento ad una precedente lettera;
2) in 1Cor 5,11 invece alla lettera attuale;
3) in 2Cor 2,4 e 7,8 si accenna ad un'altra lettera scritta con molte lacrime.
Quindi, avremmo questa successione:
1° Cor (la vera 1° Cor)
1° Cor (sarebbe la seconda perché a monte c’è un'altra lettera) 3° (quella scritta con le lacrime)
2°Cor (sarebbe in realtà la quarta perché tra questa e la 1° Cor che in realtà è la seconda, c’è quella scritta con le lacrime).
Se noi abbiamo la I° e II° Corinzi, le altre due?
Per rispondere a questo interrogativo, gli studiosi ci dicono che, constatato che ne la critica esterna e quella testuale sono di aiuto per la compattezza e ricostruzione di queste lettere, hanno tentato una certa ricostruzione con delle ipotesi.
Noi abbiamo la prima lettera ai Corinzi che è abbastanza lunga, la sua composizione potrebbe aver richiesto molto tempo dato gli impegni di lavoro e di predicazione di Paolo. Il lungo intervallo richiesto avrebbe potuto causare incongruenze accidentali che si possono spiegare su come si scrivevano prima le lettere.
L’ipotesi più accreditata è: man mano che Paolo scriveva arrivavano nuove questioni e problematiche così le aggiungeva sempre portandola ad una presentazione frammentaria della stessa lettera.
I capitoli 4 e 16 sono concepiti in modo diverso: alcuni pensano che in entrambi si potrebbero intravedere altre lettere (e questo chi ce lo dice?).
La prima Corinti fu scritta nel terzo viaggio apostolico ad Efeso dove soggiornò per circa tre anni (autunno del 54 alla primavera del 57) e molti autori la collocano verso la fine della sua permanenza ad Efeso.
La seconda Corinti è scritta nell’autunno del 57 dopo appena 6-7 mesi. Gli avvenimenti che si sono succeduti dalla fine della prima lettera sono molto complessi e numerosi per cui, secondo alcuni, il tempo per la composizione bisognerebbe spostarlo e, quindi, ci sarebbe stata anche una maggiore elaborazione (molto probabilmente tra prima e seconda si colloca quella delle lacrime e questo presuppone lo spostamento).
ESEGESI
Nella prima lettera ai Corinti abbiamo una prima grande unità letteraria e tematica che si estende nei primi quattro capitoli.
L’invito iniziale dal v.10 da il tono all’insieme del discorso di Paolo che ha come finalità la preoccupazione pastorale: è venuto a sapere che nella Chiesa di Corinto vi sono delle contese, divisioni, pendenza al frazionismo dove ognuno pensa di appartenere ad un caposcuola particolare. Paolo prende lo spunto da ciò, che è negativo, per poi ricostruire i rapporti all’interno della comunità.
In questa breve sezione mostra l’assurdità delle divisioni all’interno della comunità fatte in nome di uno o altro personaggio umano.
Da 1Cor 1,10 in poi:
10 Vi esorto pertanto, fratelli, per il nome del Signore nostro Gesù Cristo, ad essere tutti unanimi nel parlare, perché non vi siano divisioni tra voi, ma siate in perfetta unione di pensiero e d’intenti.
Abbiamo il verbo “parakalò”= esortare, che apre il v.10 con una lunga esortazione che termina in 1Cor 4,21. Lo stesso verbo ritorna in 1Cor 4,16 dove esorta i cristiani di Corinto interpellati come “adelphoi”= fratelli (Paolo, interpella i corinti come fratelli, ben sei volte nei primi quattro capitoli, ad essere in sintonia nel parlare uniti nei pensieri e negli intenti).
Non è un verbo di circostanza, ne di esortazione bonaria ma autoritaria, autorevole perché fatta nel nome del Signore (è una formula di matrice liturgica). Paolo, pone subito in evidenza l’orizzonte cristologico del dialogo epistolare tra Paolo e i fratelli, cristiani di Corinto.
Abbiamo una frase di tre membri, due positivi e uno negativo, introdotta da una congiunzione greca che trascrive il contenuto dell’esortazione paolina: l’essere tutti in sintonia nel parlare per evitare divisioni.
Non si tratta semplicemente di essere tutti d’accordo sul piano formale ma richiede un unità profonda, deve essere radicata nel modo di pensare, nelle convinzioni, nella condivisione dei progetti che riguardano la fede.
Abbiamo il termine greco “Schysmata” (da dove deriva scisma) che evoca l’idea di scissione, di qualcosa che si è lacerato ma, nella sua intima essenza, dovrebbe essere unito e compatto (è una realtà che deve essere unita e compatta, invece, la sfasciamo).
Nel corso della lettera questo schysmata assume una connotazione ecclesiale.
11 Mi è stato segnalato infatti a vostro riguardo, fratelli, dalla gente di Cloe, che vi sono discordie tra voi.
L’espressione “vi sono discordie” è il termine “erides” che è simmetrica all’esortazione precedente “non vi siano schysmata”. Aggiunge una qualificazione etica negativa alle divisioni (contese).
Nei cataloghi di Paolo dei vizi (visto in Galati) fa parte delle opere della carne: la contesa è associata all’invidia, gelosia (in 1Cor 3,3 “fra di voi ci sono invidie e contese”).
Le informazioni sulle divisioni e contese della chiesa di Corinto, sono giunte a Paolo attraverso quelli di “Cloe”. A parte il significato etimologico del termine greco, Cloe, significa
“bionda”. Questo termine è dato in genere alle donne, ed è appellativo anche di “Demetra”; non si sa altro di questa signora nota ai cristiani di Corinto.
Molto probabilmente “quelli di Cloe” sono dipendenti o operai perché è inconsueto designare i familiari in questo modo cioè con un riferimento ad un nome femminile (i familiari vanno sempre riferiti, secondo la tradizione del tempo, al nome maschile).
12 Mi riferisco al fatto che ciascuno di voi dice: “Io sono di Paolo”, “Io
invece sono di Apollo”, “E io di Cefa”, “E io di Cristo! ”.
Le divisioni, contese dei Corinti, sulla base delle informazioni ricevute, si concretizzano nella loro tendenza a formare dei gruppi ed erano legati a determinati personaggi predicatori che erano stati coinvolti nell’organizzazione della Chiesa locale.
Probabilmente, a Corinto, che tipo di chiesa c’era?
Ci sono due possibilità:
1) c’erano delle confraternite religiose che facevano capo a un maestro spirituale. Era caratteristico, nell’ambiente greco che ci fossero delle scuole; ogni scuola aveva il proprio maestro e i seguaci seguivano il loro gettando discredito sulla concorrenza. La stessa cosa stava succedendo a Corinto.
2) questa tendenza al frazionismo a Corinto era dovuta al fatto che c’era una organizzazione “domestica” della Chiesa per cui sempre si formavano diversi gruppi.
I neoconvertiti confluiscono nella stessa casa secondo quelle che sono le affinità sociali, culturali per cui: quelli che provenivano dal paganesimo, avendo avuto una preparazione filosofica, formavano un gruppo; quelli che provenivano dal paganesimo, ed erano persone umili, si formavano il loro gruppo facendo riferimento ad un capo che li guidava, ecc…. C’era una specie di mettere al primo posto questo o quell’altro gruppo (come se noi dicessimo quel dato movimento è superiore ad un altro). Ciò non toglie che, nel cammino della propria esperienza di fede, un determinato movimento, abbia costituito una crescita personale, un cammino (non si vuole portare discredito ma per sottolineare questo evidente frazionismo).
Abbiamo riferimenti ai nomi di “Paolo”, “Apollo” e “Cefa”.
Nel dibattito paolino il nome di Apollo presenta l’orientamento corinzio concorrente a quello dei sostenitori di Paolo.
Apollo era un cristiano, originario di Alessandria, conosciuto anche dall’autore degli Atti degli Apostoli, (in At 18,25: uomo colto, versato nelle scritture, ammaestrava nella via del Signore per il quale pieno di fervore parlava e insegnava ciò che si riferiva a Gesù sebbene conoscesse solo il battesimo di Giovanni).
Dopo la catechesi integrativa di Aquila e Priscilla (amici e collaboratori di Paolo), Apollo, con lettere credenziali della comunità di Efeso, arriva a Corinto dove riscuote grande successo nel dibattito con i giudei locali (At 18,26-28).
Dall’insieme di queste informazioni si può pensare che Apollo sia stato a Corinto dopo la missione di Paolo e, quindi, abbia riscosso successo presso le persone che avevano un profilo culturale più elevato. Alcuni lo vedevano come esperto dell’arte retorica.
Nulla si conosce di una eventuale presenza di Cefa (cioè Pietro) a Corinto. Anche se è conosciuto come portavoce dei dodici e garante della tradizione apostolica (1Cor 15,5). Cefa, come apostolo itinerante è associato ai “fratelli del Signore” (1Cor 9,5). Il suo nome potrebbe essere la bandiera del gruppo di cristiani di Corinto che privilegiano la tradizione delle chiese di Dio che sono in Giudea.
Ultimo riferimento è a “Cristo”. Va esclusa l’espressione come glossa marginale o un esclamazione ironica di Paolo.
Alcuni hanno prodotto l’ipotesi di un errata scrittura da parte dell’ammanuense che, a volte, riportava su papiro ciò che gli veniva dettato, magari non sentendo bene o male interpretando.
Probabilmente si tratta di un gruppo di entusiasti carismatici che rivendicavano un rapporto particolare e diretto con Cristo, senza mediazioni umane. Secondo Paolo nessun cristiano deve vendere la propria gloria perché tutti i credenti sono battezzati in Cristo, mentre Paolo, Apollo e Cefa dovrebbero essere al servizio della comunità.
13 Cristo è stato forse diviso? Forse Paolo è stato crocifisso per voi, o è nel nome di Paolo che siete stati battezzati?
Ci sono tre interrogativi incalzanti, come sempre e solo Paolo sa fare, che portano allo scoperto l’assurdità degli schieramenti dei cristiani di Corinto.
Il rapporto con Cristo definisce l’identità di tutti i cristiani; chi ne rivendica un rapporto esclusivo riduce Cristo al rango di un leader in concorrenza con gli altri. Questo, per Paolo, significa smembrare Cristo che sta all’origine e fondamento dell’unità di tutti i credenti che sono stati battezzati nel suo nome e Paolo con una forma originale dice “è stato crocifisso per voi”.
Viene così anticipato il nucleo “kerigma paolino” che diventa criterio di verità dell’identità cristiana. L’invito è a riflettere sui risvolti cristologici ed ecclesiologici del proprio atteggiamento. Potrebbero diventare una contraddizione di quello che è la fede.
Il riferimento alla crocifissione e al battesimo, oltre ad annullare il merito ai vari leaders a cui si appellavano i vari “partiti” (Paolo, Apollo e Cefa) facendo emergere la figura e l’opera di Cristo, sottolinea la duplice verità di fede: crocifissione di Cristo come evento salvifico fondamentale per i cristiani e la partecipazione dei frutti della redenzione mediante il battesimo.
14 Ringrazio Dio di non aver battezzato nessuno di voi, se non Crispo e Gaio,
15 perché nessuno possa dire che siete stati battezzati nel mio nome.
16 Ho battezzato, è vero, anche la famiglia di Stefana, ma degli altri non so se abbia battezzato alcuno.
L’ipotesi assurda di un battesimo in nome di Paolo, offre lo spunto per lo sviluppo dei tre vv. 14-15 e 16 dove Paolo fa un bilancio della propria attività battesimale.
Ben pochi sono i cristiani di Corinto che possono rivendicare un singolare rapporto con Paolo sulla base del battesimo ricevuto direttamente da lui.
Paolo ricorda il caso di:
Crispo: il capo della sinagoga, menzionato in At 18,8 e
Gaio: cristiano facoltoso che, a Corinto, ospiterà Paolo insieme a tutto il gruppo che l’accompagna (Rm 16,23). Con una certa oscurata trascurezza, Paolo, ricorda di aver battezzato la famiglia di Stefana (nella conclusione della lettera presenterà come primizia dell’Acaia che si è posta al servizio della comunità; Stefana ha raggiunto Paolo ad Efeso).
Nel contesto attuale intende affermare in modo deciso che il fatto di aver battezzato qualcuno non può assolutamente legittimare la pretesa di dire “io sono di Paolo”.
Qualcuno potrebbe pensare che: Paolo, sottovaluta il battesimo? Sottovaluta l’attività dei battezzatori? Non è proprio così. Il battesimo, ad un certo punto era diventato una specie di proprietà dei vari leader , Paolo, assolutamente dice che ciò non è possibile.
Da 1Cor 1,17 a 1Cor 2,5 abbiamo tre dimostrazioni:
1) 1Cor 1,17 – 25;
2) 1Cor 1,26 – 31;
3) 1Cor 2,1-5.
Prima Dimostrazione: 1Cor 1,17 – 25.
17 Cristo infatti non mi ha mandato a battezzare, ma a predicare il vangelo; non però con un discorso sapiente, perché non venga resa vana la croce di Cristo.
Paolo è apostolo di Cristo per il Vangelo, che ha il suo nucleo fondamentale nell’annuncio della morte di Cristo .
E’ un versetto cerniera perché:
- 17a: completa il breve ragionamento dei vv. 10-16;
- 17b: introduce il discorso sulla vera Sapienza.
Abbiamo due verbi in greco : “Apostello” (inviare) e “Evangheligestay” (evangelizzare) che definiscono il ruolo di Paolo; è totalmente subordinato a Cristo.
Il soggetto dell’invio e l’oggetto dell’annuncio evangelico è Cristo. La terminologia evangelica nel NT è concentrata nell’epistolario paolino: 21/54 ricorrenze del verbo e 60/76 il sostantivo.
L’attenzione si focalizza sulla modalità dell’evangelizzazione: senza parola di sapienza.
Paolo, sottolinea che la predicazione è più importante del battesimo perché quest’ultimo lo poteva amministrare chiunque, invece, la predicazione era la sua vocazione e l’essenza del suo apostolato.
Nell’ordine cronologico della Grazia, la predicazione precede la fede e quindi il battesimo.
“non però con un discorso sapiente”: Paolo è rimasto scosso quando si è recato ad Atene all’areopago (At 17,22-34) ad annunziare Cristo crocifisso.
Discorso di Paolo sulla Sapienza.
Paolo la chiama Sofia, che ha rifiutato quale strumento per la predicazione “perché non venga resa vana la croce di Cristo”, cioè, non venga svuotata l’efficacia del suo sacrificio.
Paolo fa riferimento sulla capacità persuasiva, su l’arte della comunicazione persuasiva retorica, la quale riguarda sia la forma e contenuto del parlare. Per Paolo, il vangelo, non può ridursi ad una retorica perché si rischia di svuotare la croce di Cristo che ha efficacia salvifica e non le parole che si possono pronunciare.
Le due realtà contrapposte: sapienza di parola e croce di Cristo, dice il nostro testo, annunciano il tema del dibattito successivo con i corinzi in cui sono in gioco sia il contenuto che il metodo dell’evangelizzazione.
18La parola della croce infatti è stoltezza per quelli che vanno in perdizione, ma per quelli che si salvano, per noi, è potenza di Dio.
Abbiamo due dichiarazioni antitetiche che prendono il via al discorso che procede con struttura parallela e antitetica con un certo ritmo (anche con una certa cadenza musicale).
“parola della croce”= logos stauru (logos da intendere come il termine ebraico “dabar”
cioè parola) cioè annuncio riguardante Gesù Cristo morto e risorto. Questa parola divide in due i destinatari: quelli che si perdono (l’annuncio di Cristo è una cosa stolta) e quelli che si salvano (con i quali Paolo ei destinatari della lettera si identificano, “è salvezza e potenza di Dio”) con reazioni ed esiti opposti.
Il termine “croce”= stauros, questo sostantivo nel greco classico significa: “palo conficcato” (nei luoghi dei supplizi c’erano molti “stauros” cioè le parti trasversali di legno che venivano portate sulle spalle e non tutta la croce). Nelle lettere di Paolo viene associato alla morte di Gesù.
Lo stesso vale per il verbo “stauru” (essere crocifisso) che è concentrato nei primi due capitoli della lettera.
La morte di croce, praticata come pena capitale dai romani, è talmente infamante che gli scrittori antichi ne parlano con terrore (Cicerone ne parla come terribile supplizio, la croce non solo deve essere tenuta lontano dal corporei cittadini di Roma, ma non si deve neppure pensarla, vederla o sentirne parlare).
Paolo riassume nella parola “stoltezza” l’impressione dei suoi contemporanei di fronte all’annuncio di Cristo morto in croce.
La realtà paradossale dei credenti che accogliendo il vangelo di colui che è morto e crocifisso sperimenta la potenza di Dio che salva come in Rm 1,16.
19 Sta scritto infatti:
Distruggerò la sapienza dei sapienti
e annullerò l’intelligenza degli intelligenti.
E’ una delle tre citazioni ed è il testo di Is 29,14 che offre lo spunto per l’agire paradossale di Dio. A questa logica obbedisce l’annuncio della morte di Gesù crocifisso.
La “sapienza dei sapienti” e “l’intelligenza degli intelligenti” sono i disegni dei potenti che Dio con il proprio agire rende completamente inefficaci, vacui.
Nel testo di Is 19 si fa riferimento alla liberazione dall’assedio di Sennacherib, re di Assiria, che avverrà grazie all’intervento di Dio e non dell’Egitto (contesto dell’affermazione dell’AT che illumina anche il nostro testo).
In 2Re 18,13 si dice “ogni sapienza umana fallisce davanti a Dio” perché per sapienza s’intende un sistema di organizzare la propria esistenza basandosi sulle proprie strategie. Il modo di prevedere quello che potrà essere l’approccio con chi mi troverò ad affrontare, strutturare la propria vita basandosi sulla proprio modo di organizzare le cose (i progetti di Dio procedono in modo tutt’altro differente).
20Dov’è il sapiente? Dov’è il dotto? Dove mai il sottile ragionatore di questo mondo? Non ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza di questo mondo?
Ci sono 4 domande retoriche che commentano il testo biblico. Abbiamo rappresentate la categoria dei sapienti, con l’appellativo di “grammateus” che nel testo greco traduce l’ebraico
“sopher” che significa scriba e richiama l’esperto di scrittura della Bibbia dell’ambiente ebraico.
Dalla traduzione il “dov’è il dotto?” non fa capire bene il discorso di Paolo, in realtà non abbiamo il dotto ma il grammateus.
“Dove mai il sottile ragionatore di questo mondo?”: abbiamo il termine greco “syzetetes”.
Potrebbe alludere al sofista greco che vuole indagare e discutere su tutto. Nell’ambiente greco e nel giudaismo ellenistico fa pensare a colui che ricerca la verità solo con il proprio sforzo, autosufficiente, mancando di qualcosa nell’ottica della riflessione teologica.
“Non ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza di questo mondo?”. Esplicita ciò che Paolo ha detto: Dio, mette fuori gioco la sapienza di questo mondo dimostrandone la radicale incompetenza. Quando Paolo usa il termine sapienza (non è un termine univoco) con significati negativi (sapienza come mezzo retorico, di convincimento come piano di salvezza dell’uomo stesso, autosalvezza) e positivi (sapienza come piano di salvezza, come disegno salvifico di Dio.
Cristo è sapienza di Dio).
Sullo sfondo di questo dibattito ci sono i testi della tradizione profetica e sapienziale della bibbia:
se prendiamo Is 19,11-12: “11Quanto sono stolti i principi di Tanis! I più saggi consiglieri del faraone sono uno stupido consiglio. Come osate dire al faraone :<<Sono figlio di saggi, figlio di re antichi>>? 12Dove sono, dunque, i tuoi saggi? Ti rivelino e manifestino quanto ha deciso il Signore degli eserciti a proposito dell’Egitto.”
Lo stesso discorso viene fatto anche in Is 33,18: “Il tuo cuore si chiederà nei suoi territori: <<Dov’è colui che registra? Dov’è colui che pesa il denaro? Dov’è colui che ispeziona le torri?>>.”.
Quando Paolo dice “la sapienza di questo mondo” è l’uomo in quanto tale che ha la pretesa di salvare il mondo al posto di Dio, annullando la potenza salvifica della croce (Paolo non è contrario alla filosofia: non è ignoto il fatto che uno, riflettendo, possa giungere alla verità, ma, per lui, è sempre quella ricerca della verità che è parziale perché esclude la possibilità di un'altra realtà che è salvifica dal proprio orizzonte). Allora dice ci sono due modi di ragionare, di essere sapienti: al modo di Dio e dell’uomo.
21 Poiché, infatti, nel disegno sapiente di Dio il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione.
Paolo fa l’applicazione dell’agire paradossale di Dio nel caso dei credenti di Corinto.
Parafrasando l’intero versetto si potrebbe dire: “Poiché, infatti, nel disegno sapiente di Dio il mondo con tutta la sua sapienza, che in realtà si è rivelata stoltezza, non ha conosciuto Dio.
E’ piaciuto a Dio salvare i credenti con quella stoltezza che era ritenuta tale dal mondo ma che in realtà è in forza della predicazione”.
Paolo ci presenta due realtà, categorie contrapposte: il mondo con la sua sapienza e Dio con la sua sapienza.
Quando parla del mondo (il cosmos) è quello degli esseri umani e, Paolo fa capire che, partendo dalla realtà creata che è opera di Dio, l’uomo, è in grado di poter conoscerlo. Di fatto, però, non l’hanno riconosciuta, accolta come presenza benefica, perciò, afferma Paolo, Dio, da sempre nel suo disegno sapiente ha deciso di salvare gli uomini non secondo una logica puramente umana (non che la salvezza è disumana) ma secondo quella di fede.
L’antitesi non è tra una conoscenza razionale della fede, tra creazione e redenzione, ma tra chiusura in una logica intramondana (di questo mondo) e una logica che è apertura al dono di Dio (Paolo non è contro la filosofia, la ragione ma è contro quel modo che, in nome della razionalità, tenta di escludere Dio. Proprio questo dimostra la sua debolezza: non è più sapienza ma diventa stoltezza e questo, che era stato escluso perché considerato stoltezza, diventa sapienza). Paolo gioca su queste antitesi, contrapposizioni.
22 E mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza,
23 noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani;
24 ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio.
V.22 Per i giudei (confronta Nm 14,11-23 e Mt 16,1-4) la richiesta di segni implica una negazione di fiducia (rifiutare Dio, espressione di non fede).
I pagani cercano la sapienza come autoaffermazione della logica del mondo, del proprio modo di salvare a prescindere da Dio.
V.23 Il crocifisso è “Scandalon” (in greco, nell’antichità, è la pietra che ti fa inciampare, ti fa andare fuori strada). I Giudei, di fronte a questa realtà, inciampano nella pietra del Messia crocifisso. L’immagine della pietra risale ai profeti che denunciano l’incapacità dei figli d’Israele di affidarsi all’agire paradossale di Dio (Is 28,14 e Is 28,16).
V.24 Secondo Dt 21,23: “Lo scandalo dei Giudei, pendendo dal legno della croce” era una persona sulla quale era caduta una maledizione di Dio.
Paolo introduce la logica della fede e sottolinea il fatto di essere chiamati (Greci e Giudei).
Proprio perché chiamati da Dio alla fede, sono oggetto di questa gratuita iniziativa e benevolenza di Dio. Proprio nella luce di Cristo crocifisso vi è il paradossale compimento della ricerca umana, della verità (questo può avvenire grazie all’iniziativa gratuita di Dio).
Al nome “Cristos” sono accostati due attributi posti in relazione con Dio:
- “potenza di Dio”: si contrapporre al primo cioè alla richiesta dei segni da parte dei Giudei;:
- “ sapienza di Dio”: si contrappone alla ricerca della sapienza da parte dei greci.
E’ Dio che chiama attraverso “la parola della croce”.
25 Perché ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini.
E’ la parte conclusiva della prima dimostrazione dove si ha la sintesi a due membri e si riassume il carattere paradossale di Dio.
Si trovano concentrati i termini dell’argomentazione precedente, al posto di “mondo” e della coppia “Giudei, Greci” subentrano gli uomini che stanno davanti all’agire di Dio che si manifesta in Gesù Cristo crocifisso. E’ un modo abbastanza chiaro, di Paolo, per concludere questo suo discorso, in cui ha fatto capire che il piano di dio supera di gran lunga quello degli uomini (lo dimostra proprio la croce perché nella redenzione operata da parte di Gesù Cristo crocifisso viene totalmente contraddetta la concezione umana di sapienza).
Seconda Dimostrazione: 1Cor 1,26 –31.
26 Considerate infatti la vostra chiamata, fratelli: non ci sono tra voi molti sapienti secondo la carne, non molti potenti, non molti nobili.
I Corinti, possono avere una conferma dello stile dell’agire di Dio nella propria esperienza cristiana. I primi cristiani, provenienti dal paganesimo, avevano lasciato una condizione socio- culturale priva di prestigio e privilegio dal punto di vista umano e, Paolo, elenca tre livelli di uomini:
1) “sapienti” che si riferisce all’ambito culturale;
2) “potenti” al livello economico;
3) “nobili” al rango sociale.
Il dire “non ci sono molti” significa che la maggior parte della comunità è fatta di gente incolta, umili origini, nullatenente.
Questa elencazione di categorie, riferite ai Corinti, potrebbe essere stata suggerita a Paolo nel contesto della citazione fatta da Ger 1,31 quando si dice “non si vanti il saggio della sua saggezza e non si vanti il forte della sua forza e non si vanti il ricco delle sue ricchezze”, partendo dalla constatazione in cui ognuno viveva o da cui proveniva considerare il paradosso dell’azione di Dio.
27 Ma Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti,
28 Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono,
29 perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio.
In questi tre versetti, Paolo, sviluppa la propria riflessione ai Corinti circa la chiamata, elezione di Dio. Ci sono tre antitesi a cui sono contrapposte due prospettive:
- dell’agire di Dio scandita dal triplice verbo “ha scelto”;
- del mondo. La prospettiva mondana corrisponde all’espressione “secondo la carne”:
rimanda al mondo che nella sua sapienza non ha conosciuto Dio. L’iniziativa libera, gratuità di Dio, smaschera la pretesa di far valere la sapienza, forza e prestigio dal punto di vista mondano.
L’agire sovrano, di Dio, rovescia tutti i criteri di valutazione umana, dal punto di vista culturale e socio-economico.
Nel testo greco non abbiamo la parola uomo ma “ ogni carne” che richiama la frasiologia biblica “non ci sono molti sapienti secondo la carne”.
Il tema biblico del vanto è caratteristico di Paolo, lo dice in 1Cor 1,31 e in 2Cor 2,17.
30 Ed è per lui che voi siete in Cristo Gesù, il quale per opera di Dio è diventato per noi sapienza, giustizia, santificazione e redenzione,
31 perché, come sta scritto:
Chi si vanta si vanti nel Signore.
Paolo, riprende il dialogo con i Corinti: Cristo crocifisso è la personificazione della Sapienza di Dio, perché ha realizzato in se il piano della redenzione.
I testi di Pv 8,22-31 - Sap 7,22 e seguenti ci fanno intravedere una personificazione della Sapienza (importanti per il concetto di logos collegato alla Sapienza).
I termini giustizia, santificazione e redenzione sono sinonimi: esprimono, nella foga oratoria di Paolo, il ruolo essenziale e fondamentale della mediazione di Cristo.
Abbiamo tutta una serie di affermazione che presentano l’identità del credente:
1) la “Sapienza” (di Dio) che rappresenta il punto di arrivo;
2) la “giustizia” indica la fedeltà di Dio al suo progetto di salvezza, l’amore che viene comunicato attraverso Gesù Cristo;
3) la “santificazione” è, nello stesso tempo, coloro che hanno ricevuto lo spirito santo e che diventano figli di Dio (la figliolanza vista nella lettera ai Galati).
4) Altro termine importante è “redenzione” = “apolytrosis” (riscatto). Nel testo greco abbiamo “riscatto” ed è un termine raro nell’epistolario paolino desunto dalla tradizione biblica, dove designa la liberazione storica del popolo di Dio. Paolo, ricordando l’AT, vuol far capire che
Gesù Cristo, con la sua morte e la sua croce, ha realizzato queste promesse ma è la garanzia della liberazione che avviene oggi ma che è già segno di quella futura.
Nella citazione biblica finale, Paolo, cita in modo inesatto Ger 9,23 preso dalla LXX.
Non è esaltata, qui, la nullità dell’uomo davanti alla totalità e grandezza di Dio, ma si riconosce la grandezza dell’uomo per opera del dono di Dio in Cristo. Il “si vanti nel Signore”
indica la consapevolezza che la persona diventa grande solo con l’abbandono a Dio, ed è così che si cambia prospettiva, tipo di Sapienza, del ragionamento.
In Cristo abbiamo tutto vantandosi nel Signore si rende gloria a Dio perché tutto si attribuisce a Lui (tema del vanto).
Terza Dimostrazione: 1Cor 2,1 –5.
Capitolo 2
1 Anch’io, o fratelli, quando sono venuto tra voi, non mi sono presentato ad annunziarvi la testimonianza di Dio con sublimità di parola o di sapienza.
2 Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso.
3 Io venni in mezzo a voi in debolezza e con molto timore e trepidazione;
4 e la mia parola e il mio messaggio non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza,
5 perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla
potenza di Dio.
Paolo, dopo il quasi fallimento e l’amarezza dell’ esperienza ad Atene, si reca a Corinto dove inizia in sordina il suo ministero. A Corinto alternerà i momenti in cui lavorerà (fabbricava tende) nella casa di Aquila e Priscilla per poi dedicarsi alla predicazione.
Paolo aggiunge questa pericope costruita su un parallelismo antitetico; abbiamo molti sintagmi al negativo: “non con sublimità di parola”, “io ritenni infatti di non sapere”, “non si basarono su discorsi persuasivi”. Paolo si richiama alla sua esperienza di evangelizzatore a Corinto.
Precisa subito che ha escluso il ricorso all’arte retorica della comunicazione; l’unico essenziale contenuto dell’annuncio di Paolo è la sua Gesù Cristo nella sua realtà scandalosa di crocifisso e questo è il suo compito di evangelizzatore.
Non è stata una scelta casuale o dettata da situazioni contingenti, si tratta di un modo di evangelizzare seguendo lo stesso modo di agire di Dio (Dio è presente in ciò che può sembrare inutile, vacuo però molte volte qui è maggiore la presenza di Dio).
Lo stile di vita, l’atteggiamento interiore di Paolo dove parla di “debolezza”, in greco usa il termine “asteneia” che significa senza forze, debolezza che esprime la precarietà umana, la fatica, privazioni e disagio. Rimanda questa affermazione alla contrapposizione “forte/debole” che si manifesta nell’agire paradossale di Dio.
Attraverso questo modo ha portato la sua testimonianza persuasiva, non in forza della parola ma della testimonianza.
Se si vuole parlare di vera Sapienza bisogna affermare che essa è il mistero di Cristo che realizza la redenzione e ci apre alla Gloria futura.
LA SAPIENZA CRISTIANA.
Paolo procederà con termini positivi per illustrare la Sapienza cristiana.
Il ragionamento di Paolo va avanti per antitesi. Il vocabolario che abbiamo rilevato attraverso una prima lettura è di tipo apocalittico – sapienziale (è usata la prima persona plurale).
Questo brano si può dividere in due parti:
1) 1Cor 2,6-10a: dove Paolo rivendica per se il possesso della vera Sapienza per rivelazione dello Spirito santo.
2) 1Cor 2,10b – 16: sviluppa il tema dello spirito santo quale esclusivo donatore della sapienza.
A differenza del brano precedente dove c’era il rapporto antitetico tra la sapienza mondana e la croce di Cristo; qui l’antitesi è tra l’accettazione della croce e l’approfondimento di questo mistero alla luce dello spirito.
Da 1Cor 2,6-10a:
6 Tra i perfetti parliamo, sì, di sapienza, ma di una sapienza che non è di
questo mondo, né dei dominatori di questo mondo che vengono ridotti al nulla;
Paolo distingue tra uomini:
- “perfetti” = “teleioi”;
- “naturali” = “psychikos”, - “spirituale” = “pneumatikos”
- “carnali” = “sarkikos”.
(di questi ultimi due ne parlerà in 1Cor 3, 1-3) - “infanti” = “nepioi”
I “perfetti” per Paolo sono i cristiani maturi spiritualmente, mentre gli “infanti” sono mancanti di salvezza nella fede e nella prassi cristiana.
Il plurale “parliamo” non implica che egli escluda, che associ alla sua sapienza altri.
Il verbo “parlare” = “lalein” ricorre in Paolo 34 volte di cui, la massima parte, nel contesto dell’esperienza carismatica di 1Cor 12 - 14 e si tratta di un parlare “ispirato” che serve ad identificare i “perfetti” che, nel v.6, invece sono i maturi.
Bisogna evitare, quando si legge la bibbia in traduzione CEI, l’equivoco di intendere questo termine con idea di perfezione morale o ascetica, ma si tratta dei cristiani maturi che hanno una fede salda e si lasciano guidare dallo spirito.
I perfetti coincidono con gli spirituali abilitati a conoscere le cose comunicate dallo spirito.
Nella tradizione biblica il dono della sapienza da parte di Dio è condizione per poter essere perfetti (Sap 9,6).
La seconda parte del v. riguarda l’oggetto della comunicazione ispirata. Paolo esclude che si tratti di sapienza di questo mondo o dei capi di questo mondo. In ambedue i casi il termine greco corrisponde a mondo ed è “aion” (a differenza di “cosmos” di cui ne parlerà Giovanni).
Aion è eone, secolo; è utilizzato soprattutto per il linguaggio apocalittico e, per Paolo, i due termini di mondo si equivalgono.
I “dominatori di questo mondo” sarebbero coloro che, pensandosi grandi e potenti sono in totale contraddizione con l’agire paradossale di Dio. Quindi, si oppongono a Cristo e lottano la fede cristiana (le potenze ostili in linguaggio apocalittico) e gli stessi cristiani.
7 parliamo di una sapienza divina, misteriosa, che è rimasta nascosta, e che Dio ha preordinato prima dei secoli per la nostra gloria.
La sapienza, di cui Paolo parla, e viene espresso in termini positivi, è sapienza di Dio definita da 4 qualifiche:
- avvolta nel mysterion (fa parte del disegno di Dio che sta all’origine della salvezza);
- è nascosta e rimane tale (“apokrypto”, che deve essere codificata);
- osteggiata;
- come gloria.
Dire “sapienza nascosta” significa che è sottratta la sapienza di Dio ad ogni controllo e pretesa di indagine umana (si inserisce nel mistero rimanendo sempre nascosta). Dio, al di fuori di ogni condizionamento storico, ha deciso di destinare la sua Sapienza per la nostra Gloria, ha una connotazione salvifica la sapienza per tutti i credenti (chi è sapiente secondo lo spirito, non si inorgoglisce, ma entra nella dinamica salvifica).
8 Nessuno dei dominatori di questo mondo ha potuto conoscerla; se l’avessero conosciuta, non avrebbero crocifisso il Signore della gloria.
Questa sapienza è stata ignorata dai capi di questo mondo; se ne ha la prova (proprio perché è diversa) nella crocifissione di Gesù Cristo, il Signore della Gloria. I capi o dominatori non solo rimangono estranei alla sapienza di Dio ma l’hanno rifiutata, osteggiata.
Il riferimento alla crocifissione da spessore storico alla categoria della sapienza di Dio e
La sapienza di Dio è inseparabile dall’evento di Gesù Cristo morto e risorto che nella fede è accolto come il Signore. Egli è la garanzia del pieno compimento di quel disegno salvifico che la terminologia biblica chiama con Gloria: i capi di questo mondo devono essere posti in relazione con i protagonisti della condanna di Gesù alla sua morte in croce e cioè le autorità romane e giudaiche (questi ultimi lo ritenevano semplicemente un ebreo).
“il Signore della gloria”: è un titolo che attribuito a Dio nell’AT (Es 24,17 – Sal 28,3) e al Padre nel NT. Afferma la Divinità di Dio.
Gesù è Signore glorioso perché partecipa della realà di Dio.
9 Sta scritto infatti:
Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo,
queste ha preparato Dio per coloro che lo amano.
Abbiamo una formula che introduce un testo che non trova riscontro preciso in nessun libro biblico: è detta “un centone di frasi” cioè una libera fusione di Is 64,3 - Is 65, 16 - Ger 3,16 - Nm 27,12.
Alcuni sostengono che provenga da una fonte apocrifa e precisamente dall’apocalisse di Elia. E’ probabile che Paolo citi come testo scritturistico, una tradizione orale che gli serve per rimarcare la radicale incapacità dell’essere umano, presentato secondo l’antropologia biblica:
“occhio”, “orecchio” e “cuore”. Quindi, è l’uomo in quanto tale, la persona che è incapace a conoscere i beni salvifici donati gratuitamente da Dio al mondo.
Solo quelli che lo amano, comprendono. Chi non conosce Dio, nel senso della filosofia greca, non potrà mai percepire questi nomi che Dio ha donato all’umanità; solo chi lo ama, approfondisce, percepisce e conosce, in senso bilblico (perché la conoscenza è relazionalità) questi doni.
10a Ma a noi Dio le ha rivelate per mezzo dello Spirito;
Conclude questa prima parte. Si riferisce all’antitesi tra chi segue questa sapienza mondana e chi invece lo spirito.
La sapienza misteriosa di Dio, la conoscenza dei suoi piani non è opera della mente umana ma solo Dio mediante il suo spirito le ha rivelate.
Nel processo di comunicazione di queste realtà, che fanno parte del mistero di dio, il mediatore è lo spirito. Si tratta di una rivelazione che parte da Dio ed ha come desinatari i credenti.
Il verbo “rivelato” è “apocalypto” significa “togliere il velo”. Lo spirito permette di togliere il velo e, quindi di conoscere (Giovanni, nell’apocalisse rivela perché c’è lo spirito. La parola per indicare il rapporto tra l’autore dell’apocalisse e lo spirito è “divenni nello spirito”
che, molte volte, viene tradotto con “Ebbi una visione” o una specie di volo mistico, vuole indicare semplicemente un esperienza profonda avvenuta nello spirito).
LO SPIRITO DONATORE, ESCLUSIVO, DELLA CONOSCENZA SUPERIORE.
Da 1Cor 1,10b-16:
10b lo Spirito infatti scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio.
11 Chi conosce i segreti dell’uomo se non lo spirito dell’uomo che è in lui?
Così anche i segreti di Dio nessuno li ha mai potuti conoscere se non lo Spirito di Dio.
12 Ora, noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio per conoscere tutto ciò che Dio ci ha donato.
13 Di queste cose noi parliamo, non con un linguaggio suggerito dalla sapienza umana, ma insegnato dallo Spirito, esprimendo cose spirituali in termini spirituali.
14 L’uomo naturale però non comprende le cose dello Spirito di Dio; esse sono follia per lui, e non è capace di intenderle, perché se ne può giudicare solo per mezzo dello Spirito.
15 L’uomo spirituale invece giudica ogni cosa, senza poter essere giudicato da nessuno.
16 Chi infatti ha conosciuto il pensiero del Signore in modo da poterlo dirigere?
Ora, noi abbiamo il pensiero di Cristo.
Paolo, sviluppa la tesi dello spirito come donatore esclusivo della conoscenza superiore.
Nella nostra sezione che segue, la vera sapienza è quella che parte dal dono dello spirito.
Lo spirito dell’uomo, stando nell’uomo, conosce dentro di se i suoi segreti, se stesso e così lo spirito di Dio stando in Dio conosce i segreti di Dio, ecco perché è lo spirito che rivela la realtà di Dio.
Da notare il contrasto tra lo spirito di Dio e quello dell’uomo.
Tutto il processo della comunicazione del disegno salvifico di Dio è spirituale (pneumatikos), cioè, sta sotto l’azione del pneuma.
L’ultima frase “parole insegnate dallo spirito”, abbiamo il verbo greco “synkrinein” che ricorre 3 volte in Paolo: 1Cor 2,13 - 2Cor 12,13 significa interpretare, confrontare, collegare. Lo spirito permette questo procedimento.
Di fronte al processo di comunicazione spirituale sono presentate due figure antitetiche:
“psykikos” cioè la persona che resta nell’ambito dello spirito e nelle ricorrenze del NT è contrapposto a “pneumatikos” come persona che non accoglie la realtà dello spirito. Lo psikikos è l’uomo al suo livello naturale che è incapace di comprendere, mentre il teleios è colui che si lascia guidare dallo spirito, è in grado di giudicare ogni cosa mentre non è giudicato da nessuno.
Il verbo giudicare è utilizzato da Paolo in senso forense, giudiziale e significa che il suo atteggiamento è tale che nessuno può condurre in giudizio, al livello di immagine del tribunale, quindi, non ha niente di cui possa essere riconosciuta una colpa (nell’ambito del contesto forense).
Nel contesto dell’assemblea cristiana dove tutti esercitano il carisma della profezia, un non credente o estraneo viene giudicato da tutti cioè: l’uomo spirituale giudica tutte le rivelazioni dello spirito di Dio senza dover rispondere ad alcun tribunale umano. C’è una situazione tale che lo spirito non nasconde niente, traspare tutto, per cui siamo in presenza di una libertà profonda.
Avendo lo spirito di Dio non si può essere giudicati da nessuno (sia in senso forense che dell’assemblea cristiana).
L’argomentazione si conclude con la citazione “Ora, noi abbiamo il pensiero di Cristo”.
Paolo adduce a prova biblica la conferma di quanto asserito e cita Is 40,13 dalla LXX che traduce ruah (spirito) con nous (mente) e identifica il pensiero del Signore con quello di Cristo.
Il testo biblico si presenta sotto forma di domanda retorica per sottolineare l’assoluta trascendenza del disegno di Dio sottratto ad ogni investigazione umana. Il nous a differenza del pneuma indica la facoltà interiore di riflessione e di decisione. L’apostolo come rappresentante e portavoce di tutti i cristiani che accolgono lo spirito di Dio può dire di avere il pensiero di Cristo.
Questa dichiarazione di Paolo riassume il messaggio dell’intera unità: prende lo spunto dalle tendenze al frazionismo presenti all’interno della comunità per offrire a tutti una riflessione sulle radici profonde dell’unità e identità dei cristiani battezzati in Cristo. Al centro sta l’annuncio di Cristo crocifisso che mette fuori gioco ogni pretesa umana di prestigio fondata sulla magniloquenza o retorica.
Inizialmente: E’ inutile che ci basiamo sulla sapienza puramente umana, è inutile che pensiamo di ridurre il tutto al nostro ragionamento.
In mezzo: fino a far capire il senso della sapienza cristiana, che vuol dire essere sapienti secondo Dio.
Conclusione: solo attraverso il dono dello spirito si ha questa sapienza. Proprio perché si è ricevuti il dono dello spirito questo non può produrre delle divisioni ma l’unità identità all’interno dei credenti.
1Cor 5,1-13. Caso di immoralità: l’incesto.
Davanti al caso di unione incestuosa, uno convive con la moglie di suo padre. Fenomeno diventato di pubblico dominio ed era un cristiano ad aver fatto ciò.
Paolo, rimprovera i corinti di tolleranza peccando di omissione. Con fortezza e severità adotta una misura disciplinare con l’esclusione del colpevole dalla comunità allo scopo di recuperarlo per il giorno del giudizio.
E’ un intervento drastico affinché ci si possa rendere conto di ciò che ha fatto.
1Cor 6,1-11. Ricorso ai tribunali civili per questioni interne dei cristiani.
Non si può chiedere a un tribunale pagano di giudicare questioni interne relative alla comunità cristiana.
1Cor 6,12-20: La Fornicazione.
Paolo torna al tema dell’immoralità iniziato al Cap.5, sebbene il riferimento è ad un caso singolo, l’unità del tema è data dalla parola chiave “Porneia”
Questa nuova sezione affronta il problema della pratica della prostituzione da parte di alcuni cristiani di Corinto.
Si apre con un vivace dibattito sullo stile della diatriba stoico-civica (nel portare avanti un certo discorso Paolo s’immagina un interlocutore che sostiene una determinata posizione a cui risponde).
Alcuni sostengono che Paolo, attraverso questo stile diatribico, non faceva altro che riportare ciò che pensavano i Corinti. Altri invece dicono che stia rispondendo agli interrogativi di qualcuno (resta probabile la prima):
12 “Tutto mi è lecito! ”. Ma non tutto giova. “Tutto mi è lecito! ”. Ma io non mi lascerò dominare da nulla.
I cristiani di Corinto ragionavano con questo slogan: “tutto mi è lecito!”.
Paolo sottolinea il criterio della libertà e introduce un criterio di autolimitazione della libertà. La libertà che crea dipendenza da qualcosa o qualcuno non è più vera libertà.
Nell’affermazione “tutto mi è lecito!”, Paolo, contrappone questa situazione.
C’è uno scambio di battute che introduce al tema della porneia.
L’interlocutore afferma che c’è intrinseca, reciproca relazione tra i cibi e il ventre: è implicita applicazione di questo criterio per valutare il rapporto tra il corpo e la pratica della prostituzione.
Ambedue i processi (mangiare e relazione sessuale) obbediscono a leggi fisiche, psicofisiche e, quindi non hanno alcuna rilevanza sul piano etico e religioso.
Paolo ribatte con una dichiarazione che riprende e corregge l’opinione dei suoi interlocutori (pensavano alla greca secondo la divisione spirito, con il Signore, e corpo per i fatti suoi): “ Dio ha destinato il ventre e i cibi alla distruzione della morte”. Afferma Paolo: “altro è il destino del corpo che è in relazione con il Signore come il Signore con il corpo”.
Questa seconda affermazione è costruita in maniera parallela, così come la precedente con il rapporto tra ventre e cibi: Paolo può dichiarare contro gli interlocutori che il corpo non è per l’immoralità, il corpo è per la resurrezione perché Dio ha resuscitato il Cristo e così farà con noi.
Per seguire la comunicazione di Paolo si deve presupporre che, sul piano antropologico, esiste la distinzione tra ventre e corpo. Da ciò ne segue che è diversa la relazione dei cibi con il ventre rispetto a quella dell’attività sessuale con il corpo.
Il punto di partenza del dibattito con i Corinti sta proprio sulla indebita estenzione che si fanno del principio della libertà dal campo dell’uso dei cibi a quello delle carni immolate agli idoli, al campo sessuale.
A Corinto c’era una tale svalutazione della parte corporale. Paolo parlando del “non tutto giova” introduce questo criterio: dell’edificazione, della costruzione. Tutti gli atti che una persona pone non sono puramente neutrali e asettici ma tendono a costruire qualcosa. La libertà cristiana ha dei limiti e non può essere esercitata in maniera irresponsabile e ricorda il pericolo di restare schiavi di quello che si vuole dominare.
13 “I cibi sono per il ventre e il ventre per i cibi! ”. Ma Dio distruggerà questo e quelli; il corpo poi non è per l’impudicizia, ma per il Signore, e il Signore è per il corpo.
“i cibi…..per i cibi!” si riferisce alla lecità di mangiare le carni immolate agli idoli (fa riferimento a quella che era l’idea dei Corinti quando in 1Cor 8,1-11 si fa riferimento al fatto se si possono mangiare le carni degli idoli.
Paolo approva il principio (periranno sia il cibo che il ventre) ma non approva questa distorta applicazione alla sfera sessuale come pensavano i Corinti. Non c’è parità tra il mangiare e consumare l’atto sessuale perché in quest’ultimo resta coinvolta tutta la persona: “il corpo poi non è per l’impudicizia, ma per il Signore, e il Signore per il corpo”.
Paolo adduce come motivazione la mutua appartenenza tra il cristiano e il signore Gesù:
il corpo del cristiano (soma) è strettamente unito a Cristo come suo membro ed è per il servizio del Signore e lo motiva dicendo “Cristo ha dato se stesso per la salvezza dell’uomo nella totalità del suo essere”.
Il Signore e i cristiani saranno sempre uniti sia nelle sofferenze che nella gioia di questa vita: non pensiamo di ragionare in termini di divisione tra anima e corpo ma unitari di persona (corpo, spirito). Nel momento in cui una persona entra in relazione con l’altra non è la stessa cosa che mangiare i cibi, così è compromessa la relazionalità. Il credente deve vivere questa relazionalità con il Signore che si deve attuare sul piano dei rapporti sia personale che interpersonali dove ha importanza la sfera della sessualità (non è soltanto il sesso, ma il rubare, frodare sono tutte cose gravissime).
14 Dio poi, che ha risuscitato il Signore, risusciterà anche noi con la sua potenza.
15 Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo? Prenderò dunque le membra di Cristo e ne farò membra di una prostituta? Non sia mai!
Poi Paolo dice “non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo” e, qui affiora la metafora del corpo umana tanto cara a Paolo.
Chiarisce ciò che è detto implicitamente al v.13. Da notare la ripetizione della parola
“membra” per tre volte: il ragionamento di Paolo è coerente, se si appartiene a Cristo in modo così stretto come le membra appartengono al corpo, e l’atto sessuale coinvolge tutta la persona di chi lo compie, il rapporto sessuale di un cristiano con una prostituta o al di fuori di determinate regole tradisce radicalmente la sua appartenenza a Cristo. E’ contraddittorio essere simultaneamente di una prostituta e membra di Cristo.
16 O non sapete voi che chi si unisce alla prostituta forma con essa un corpo solo? I due saranno, è detto, un corpo solo.
Paolo cita Gen 2,24, vuole sottolineare ciò che ha appena argomentato. In Gen l’unione tra uomo e donna avviene in tutta unità (“i due saranno una carne sola”).
Mentre l’unione matrimoniale avviene secondo il piano provvidenziale di Dio ove Paolo applica in positivo Gen 2,24, l’unione con una prostituta è totalmente negativa e compromette negativamente le persone coinvolte (se pensiamo a Osea quando si vuole parlare di tradimento è l’infedeltà che riguarda il rapporto con Dio e interpersonale. Ciò che tradisce una relazione al di fuori di questa fedeltà è la mancanza di reciprocità, è l’atto che contraddice la fedeltà cui il credente è chiamato in un alleanza in un patto, se vogliamo esprimerlo con i termini dell’AT).
17 Ma chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito.
In antitesi a quanto detto sull’unione con una prostituta, l’unione con Cristo forma con Lui un solo spirito. Questa unione tende a fonderli tutti in Lui in un'unica realtà spirituale o al posto dell’egoismo e corruzione c’è amore ablativo, donazione (il rapporto con una prostituta è un atto avente effetto egoistico che non può essere effetto dello spirito.
18 Fuggite la fornicazione! Qualsiasi peccato l’uomo commetta, è fuori del suo corpo; ma chi si dá alla fornicazione, pecca contro il proprio corpo.
Qui abbiamo un imperativo molto forte, di un peccato molto grave e qualsiasi peccato che l’uomo commette è fuori del suo corpo.
Nella foga oratoria Paolo esagera un poco perché era talmente preso da questa situazione:
vi sono altri peccati che coinvolgono l’uomo anche nella sua corporeità (ubriachezza, ingordigia, suicidio); l’accentuazione su questo aspetto si capisce in quanto la fornicazione imbratta il proprio corpo più degli altri in quanto stravolge la sessualità della persona finalizzandola a qualcosa di strumentale ed egoistico. Poiché tutta la vita del credente è donazione, oblazione e rientra in quello che è il mistero della rivelazione ecco che ciò contradirrebbe quello che è l’essenza profonda della fede cristiana.
19 O non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio, e che non appartenete a voi stessi?
20 Infatti siete stati comprati a caro prezzo. Glorificate dunque Dio nel vostro corpo!
Da 1Cor 11,2 fino a tutto 1Cor 14 c’è tutta una sezione unitaria dal punto di vista contenutistico e letterario.
La tematica unificante di questa sezione è data dalle riunioni assembleari dei cristiani:
Paolo è preoccupato per il loro buon andamento e perciò affronta tre problemi da evitare che creano dei disordini:
1) il velo delle donne;
2) la cena del Signore (dove molti andavano solo per il mangiare);
3) i carismi (Paolo risponde ad una domanda rivoltagli).
Capitolo 11
IL BUON ORDINE NELLE ASSEMBLEE L’abbigliamento delle donne
Si tratta di un problema di emancipazione delle donne di Corinto (pure la donna creava problemi).
I cristiani di Corinto si trovavano davanti due modelli di vita:
1) del mondo ebraico e la prassi di gente di far portare alle donne maritate il velo in testa come segno di appartenenza e sottomissione al marito;
2) la società greca molto più emancipata dalla quale le donne di Corinto dipendevano ed erano più libertine rispetto alla tradizione ebraica.
Paolo, in questa pericope, impone l’adeguamento alla prassi ebraica portando delle motivazioni scritturistiche prese dalla filosofia cinico-stoica e dall’ordine naturale.
Accortosi che si trattava di argomenti che avevano una certa debolezza dimostrativa (le posizioni di Paolo sono un po’ retrograde rispetto al suo insegnamento altrove).
Il brano può essere diviso in:
1) v. 2. Introduzione;
2) vv. 3 – 6. Primo argomento: enunciazione di principio;
3) vv. 7 – 12. Secondo argomento: prova biblica;
4) vv. 13 – 15. Terzo argomento: prova della natura;
5) v. 16. Conclusione o Argomentazione o quarto argomento.
Nel testo Paolo gioca su alcune parole:
- “capo” = “kephale” (testa) ricorre nel testo greco della pericope 9 volte e 18 in tutto l’epistolario paolino. Può designare sia la testa di una persona e sia il suo ruolo di capo.
- Sono posti in forma binaria:
“uomo”/ “maschio”= “aner” (a differenza di “antrophos”= uomo in generale). Ricorre 14 volte, in tutta la prima lettera 32 volte.
“donna” = “gynè”. Ricorre 16 volte soltanto nel brano sulle 41 presenti nella lettera.
Paolo affronta la questione del rapporto uomo – donna facendo riferimento alla preghiera durante l’assemblea liturgica.
L’esortazioni, dove ci sono i verbi all’imperativo, e le disposizioni pratiche sono rivolte solo alle donne.
L’intervento di Paolo è inscritto all’interno di una cultura di quel tempo: le motivazioni di Paolo hanno dei limiti (non si potevano affrontare i problemi relativi ad una campagna per l’emancipazione della donna; Paolo quando affronterà il problema della schiavitù, lui non l’abolisce ma risolve la cosa in altro modo) .
1 Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo.
E’ la conclusione di tutto il discorso fatto precedentemente nei capitoli 8-10 dove Paolo sottolinea due imperativi categorici: fare tutto per la gloria di Dio e il non dare scandalo a nessuno (ne ai giudei, ai greci e alla chiesa di Dio).
2 Vi lodo poi perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse.
Comincia con una “captatio benevolentiae” dove ci sono i due motivi del suo lodare.
Le “tradizioni” a cui si riferisce quest’esordio dolce, fa parte dello stile retorico (prima di cominciare il discorso, Paolo, cerca di ingraziarsi i suoi interlocutori e predisporli a quello che starà per dire) e sono quelle della cena del Signore di 1Cor 11,23, al Vangelo al kerigma fondamentale basato sulla resurrezione di Cristo (15,1-5), alla regola di fede dei credenti.
Primo argomento: enunciazione di principio:
3 Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo, e capo di Cristo è Dio.
L’annuncio del nuovo tema è fatta da Paolo in modo preciso ed enuncia un principio generale mediante tre frasi coordinate e connesse tra di loro che fanno perno sulla categoria di capo: è come se Paolo esprimesse una concezione teologica piramidale secondo l’ordine della creazione e redenzione in un continuo crescendo: “donna - uomo - Cristo - Dio”. Al centro si trova Cristo che è capo dell’uomo e della donna; al vertice della scala gerarchica c’è Dio che è capo di Cristo.
Il testo ha delle affinità stilistiche con quello di 1Cor 3,22-23 dove dice “Tutto è vostro, voi siete in Cristo e Cristo è di Dio”. Il senso generale è: a partire da Cristo che è capo di ogni essere umano, Paolo, afferma che vi è un ordine di dignità e di ruoli che nella intima radice risalgono a Dio.
- Kephale = testa.
E’ un termine controverso che può essere inteso in tre diverse accezioni:
1) vertice, sommità;
2) origine, fonte;
3) capo, autorità.
Nell’ambiente greco – ellenistico il significato più comune è quello di origine, fonte e vertice, sommità (con quest’ultimo non voleva creare una specie di subordinazionismo con Dio- Cristo-uomo).
A favore del significato di “origine, fonte” c’è l’affermazione di Paolo circa l’origine della donna dall’uomo nel processo creativo (nelle altre lettere come in Ef 1,12 – Col 1,18 è inteso come principio dinamico: rapporto Cristo, capo, corpo, Chiesa).
Nel nostro contesto kephale indica autorità e il ruolo di chi sta al vertice ed è fonte origine rispetto ad un altro. Si tratta di autorità in senso relazionale o funzionale ma non di tipo ontologico, altrimenti il rapporto tra padre e figlio non è identico ma ci sarebbe un subordinazionismo. Il significato di kephale non può essere univoco, altro è il kephale riferito a Dio e Cristo e altro è riferito al rapporto uomo,donna. Si tratta di un significato analogo perché Paolo passa dall’ambito teologico, cristologico e da questo punto di vista possiamo dire che Dio come origine del progetto divino in relazione al rapporto con Cristo che non è affatto di subordinazione.
- Aner = uomo
Non usa il termine antrophos per designare l’uomo ma aner che in rapporto a donna = junè indica il maschio, il marito.
Nel contesto familiare e sponsale desume il ruolo dell’uomo capo della donna.
4 Ogni uomo che prega o profetizza con il capo coperto, manca di riguardo al proprio capo.
Con due frasi simmetriche fa l’applicazione del principio che ha enunciato nel v.3: prima considera il caso dell’uomo poi quello della donna.
Paolo dice che l’uomo che prega o profetizza con qualcosa in testa disonora il proprio capo.
Il senso non può essere disonorare la sua testa ma Cristo che è capo dell’uomo.
L’espressione di tenere qualcosa sul capo riferita all’uomo è la traduzione di un testo originale che potrebbe significare il lasciar pendere in testa i capelli.
Per un maschio, secondo Paolo, è disdicevole lasciarsi crescere i capelli.
5 Ma ogni donna che prega o profetizza senza velo sul capo, manca di riguardo al proprio capo, poiché è lo stesso che se fosse rasata.
(si parla della donna sposata). Nel caso della donna, avviene il contrario: se essa prega o profetizza senza velo sulla testa disonora il suo capo che è l’uomo in quanto capo della donna.
Per esplicitare questa affermazione equipara la donna a testa scoperta alla donna con la testa rasata (quest’ultima era considerata in una condizione vergognosa, una meretrice).
6 Se dunque una donna non vuol mettersi il velo, si tagli anche i capelli!
Ma se è vergogna per una donna tagliarsi i capelli o radersi, allora si copra.
Per quanto riguarda la donna Paolo si attiene all’uso ebraico secondo la quale doveva portare in pubblico la testa coperta in segno di appartenenza al proprio uomo.