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Tesi di laurea di Elisa Pettinari Realatore: Prof. Paolo Clini Correlatore: Prof. Paolo Bonvini

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Academic year: 2022

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Corso di laurea in Ingegneria Edile-Architettura

Dipartimento di Architettura, Rilievo, Restauro, Disegno, Urbanistica e Storia

L’architettura cimiteriale, rappresentazione e progetto. Il cimitero dell’Ulivo di Fano.

L’ARCHITETTURA CIMITERIALE, RAPPRESENTAZIONE E PROGETTO.

IL CIMITERO DELL’ULIVO DI FANO.

a.a. 2009/2010 Tesi di laurea di Elisa Pettinari

Realatore: Prof. Paolo Clini Correlatore: Prof. Paolo Bonvini

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Ad Antonio,

per la pazienza con cui mi ama.

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I Indice

Indice

………...I

Introduzione

………II

Parte I:INDAGARE, INFORMARE, CAPIRE

Capitolo 1

Evoluzione dell’architettura cimiteriale: cultura e forma...1

Capitolo 2

Giovanni Lamedica: un percorso di architettura laicamente religiosa...45

Capitolo 3

Il cimitero dell’ulivo. Nascita ed evoluzione di un nuovo modo di concepire la “città dei morti”...77

Capitolo 4

Problematiche di uno spazio in continua evoluzione...105

Parte II:VERSO UN’IDEA PER INNOVARE

Capitolo 5

Necessità ed urgenze della collettività...117

Capitolo 6

Idee progettuali ed elaborati grafici...143

Bibliografia

...181

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II

Introduzione

Premessa

Il Cimitero, da sempre, rappresenta un luogo complesso che ingloba in sé significati ed emozioni che toccano le corde più profonde dell’

anima.

Un mondo parallelo ma spesso tangente che si è sviluppato in simbiosi all’evoluzione della collettività, che nasconde tra le sue vie l’identità della comunità che lo ospita.

Nella società contemporanea, che sta subendo dei cambiamenti vorticosi e sempre più veloci, dove l’incontro tra culture e religioni è ai massimi livelli, il cimitero deve ritrovare il giusto spazio e la sua nuova funzione.

Il cimitero dell’Ulivo uno dei più grandi cimiteri di Fano, ma non il principale, è stato concepito dall’Architetto progettista come una impulso verso il cambiamento; una base solida per costruire una nuova identità alla città dei morti.

Come tutto ciò che è nuovo e che rappresenta uno strappo con il passato e con la cultura radicata, anche il Cimitero dell’Ulivo ha dovuto faticare per essere accettato e apprezzato dalla comunità e nonostante sia concettualmente innovativo, la sua forma e le sue strutture in senso più stretto, hanno bisogno di essere recuperate, riviste e in alcuni casi completate, perché questo spazio che sembra immutabile, in realtà è in pieno e forte fermento e ha sempre

nuovi bisogni che crescono e cambiano con la sua cittadinanza.

Obiettivi

Questa tesi ha avuto come primo approccio l’approfondimento dell’architettura cimiteriale nella sua evoluzione storica. Partendo da un contesto generale ci si è poi focalizzati sul progetto del Cimitero dell’Ulivo, in prima battuta avvicinandosi alla conoscenza del processo formativo e lavorativo di uno dei progettisti principali Giovanni Lamedica. Il rapporto diretto e la guida da parte dell’architetto hanno permesso di analizzare uno dei punti di vista principali.

Per una maggiore completezza del contesto è stato molto importante il contatto diretto con la committenza, nella persona dell’assessore ai Servizi cimiteriali del Comune di Fano, con i fruitori e con coloro che si occupano della custodia e del funzionamento del cimitero.

Ultimo per elenco ma non per importanza, è stato il confronto diretto con il luogo reale, battuto e vissuto palmo a palmo per respirare il senso profondo dello spazio e per vedere dal vivo le necessità di questa “città”.

La fase di ricerca e di analisi è stata necessaria per raccogliere e per capire le problematiche del cimitero da più punti di vista possibile.

Cultura, struttura, architettura, spazio tutti concetti che si fondono in un solo luogo.

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III

Alla luce delle emergenze nate dalle richieste concrete dell’Amministrazione e della necessità di un doveroso rispetto per il genio creatore del progettista e per i principi basilari espressi da questa spazialità, l’obiettivo finale che questo studio vuole raggiungere è lo sviluppo di un progetto di recupero-espansione, un lavoro volto a rispondere alle esigenze della comunità ma anche a quelle dello spazio stesso, tenendo sempre ben presente il cammino disegnato dell’Architetto e i suoi principi ispiratori.

Contenuti

Il rituale funebre dice molte cose; fa cioè notare come gli atteggiamenti di fronte al defunto siano anche il prodotto di una mentalità che rispecchia il modo di vivere delle persone.

La parola morte ha un “significante” ben preciso per ogni civiltà. Ogni epoca storica ha avuto il suo modo di vedere la morte e ogni pratica per la conservazione dei defunti è valsa a perpetuare nel ricordo la loro presenza.

“Più è ricco il nostro vissuto, il nostro passato, più la nostra capacità di vedere è ampia e pregnante di segni: la città è ricca di potenzialità, è ricca di indicazioni, la città rende desti”. 1

1G. Lamedica, Anatomia di una città, Cassa Rurale ed Artigiana di Fano, 1984, p. 190

Il Cimitero dell’Ulivo evoca, i segni, i valori, i simboli della vita; la fiamma perenne, l’acqua, il movimento, i fiori e le piante. L’acqua così come la terra e l’aria, sono segni universali, sono gli elementi che ci contraddistinguono e sono segni di purificazione per un discorso laico e cristiano.

Il progetto è ancora in fase di sviluppo: infatti è stata realizzata solo la parte più settentrionale poiché l’amministrazione ha dato la precedenza alla costruzione della parte di servizio, necessaria all’apertura del cimitero, e ha ignorato le motivazioni forti della progettazione che andavano oltre le necessità specifiche del luogo.

L’attuale realizzazione del cimitero dell’Ulivo ha bisogno di alcuni interventi di “sostegno”.

Quali possono essere?

Per rispondere a questa domanda si è deciso di seguire un percorso di analisi delle problematiche prima, già parzialmente sviscerate, poi si è cercato di raccogliere le nuove necessità del cimitero e dei suoi fruitori attraverso l’opinione di tre figure: l’assessore ai servizi cimiteriali Michele Silvestri, che rappresenta i bisogni dei cittadini, il parroco della parrocchia Santa Famiglia, nonché responsabile per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso, della diocesi di Fano, Don Vincenzo Solazzi, come rappresentante del mondo cattolico e naturalmente l’architetto progettista Giovanni Lamedica.

L’idea guida che dovrebbe suggerire il necessario ampliamento e completamento dell’attuale realizzazione dovrebbe essere infatti quella di un cimitero-parco vissuto come vero e proprio

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IV

giardino, in cui i cittadini passeggiano lungo i viali alberati, chiacchierano sulle panchine, allontanando definitivamente l’idea di una città dei morti separata da quella dei vivi. Progettare quindi un “paesaggio silenzioso” per la riflessione e il ricordo, in cui l’architettura si lascia timidamente attraversare e incorporare dalla filosofia, dalla religione e dalla poesia.

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CAPITOLO 1

Evoluzione dell’architettura cimiteriale:

cultura e forma

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2

Capitolo 1

Evoluzione dell’architettura cimiteriale: cultura e forma

1.1 Introduzione ... 3

1.2 Alle origini del rapporto con la morte ... 5

1.3 La città dei morti come simulacro di quella dei vivi per le grandi civiltà del passato ... 9

1.4 Le sepolture al di fuori della città per le civiltà dei Greci e dei Romani ... 13

1.5 Medioevo: le sepolture all’interno della città ... 17

1.6 Dalla chiusura dei sepolcreti urbani verso la definizione dei moderni impianti cimiteriali extraurbani tra XVIII e XIX secolo ... 25

1.7 1765-1800: i concorsi dell’Academie d’Architecture di Parigi per i cimiteri ... 31

1.8 L’editto di Saint Cloud ... 35

1.9 I Cimiteri dell’Ottocento ... 36

1.10 XX secolo: verso un’architettura funebre che rappresenta il vuoto ... 41

1.11 Il rifiuto della morte in epoca moderna ... 43

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1.1 Introduzione

Separare, dividere, prendere le distanze. Le separazioni ci accompagnano in diverse fasi della nostra vita, sino appunto alla separazione ultima che è la morte. Ma accanto a questa che forse è la più temuta dal genere umano, viviamo la separazione continuamente. Pensiamo alla donna che aspetta un bambino: durante i nove mesi della gravidanza c’è una simbiosi profonda tra madre e figlio, si nutrono assieme, si modificano, sino al momento del parto, che è una separazione; il figlio, ora è altro dalla madre, è un essere che pur continuando ad essere dipendente da lei, inizia una vita propria. Quando il bambino poi comincia a crescere, dimentica di come era al momento della nascita, e si separa ormai da quella idea, ed è una cosa naturale, positiva; noi stessi ci separiamo ―da noi‖ nel momento in cui pensiamo di essere sempre uguali, mentre col passare del tempo, cambiamo il nostro aspetto fisico, ma anche la struttura mentale, così guardando foto recenti, a volte ci stupiamo perché pensavamo di essere diversi.

Globalmente non ti vedi e pensi di essere sempre quello, lo stesso di qualche tempo addietro.

Tutto sommato però queste separazioni appartengono alle modalità della vita e possono considerarsi positive e necessarie, tuttavia se pensiamo alla separazione ultima e cioè alla morte, le cose cambiano.

Alla morte vengono attribuiti concetti estremi di separazione, ma la morte, o meglio il concetto di morte, è anche una presa di coscienza da parte dell’uomo dalla sua incompiutezza, della sua

precarietà e lo sorprende così, quasi come essere incompiuto.

―Nel quadro delle società negro-africane tradizionali la morte si colloca in tutte le fasi dell’esistenza. La nascita è una morte rispetto alla vita degli antenati; la comparsa dei denti è una morte rispetto alla vita cosmica;

il matrimonio, per la donna, è una morte rispetto ai suoi costumi e ai suoi Dei nel sistema patrilineare e lo stresso vale per l’uomo nel sistema patrilineare; l’iniziazione

―uccide‖ la creatura incompiuta grazie ai riti simbolici; la vecchiaia infine è una morte rispetto alla potenza della fecondità‖. 1

Il mondo Occidentale è diverso in questo dalla società negro-africana: da noi la nascita, l’iniziazione o il matrimonio espellono l’idea della morte anche se rappresentano comunque una separazione. Cerchiamo di vivere il più felicemente possibile le circostanze che la vita proprio nei suoi tanti passaggi che caratterizzano l’esistenza di ciascun uomo, fino all’ultimo, il morire. L’uomo ha le certezze di morire, ma non sa come e quando e questo lo pone in uno stato di profondo disagio; che il momento del trapasso è l’interrogativo senza risposta che tuttavia insieme al dolore, il mistero del dolore, appartiene alla vita. Si teme la morte per se stessi, la paura di soffrire e verso gli altri, verso chi ci sta vicino la certezza di non rivederli mai più almeno nella condizione mondana: il defunto nonostante il ricordo che può lasciare è colui che non ha più una funzione, che ha perso la coscienza di sé e si dimostra ormai incapace di relazioni con il mondo e con gli altri. Il rituale funebre dice molte cose; fa cioè notare come gli atteggiamenti di fronte al defunto siano anche il

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prodotto di una mentalità che rispecchia il modo di vivere delle persone.

La parola morte ha un ―significante‖ ben preciso per ogni civiltà. Ogni epoca storica ha avuto il suo modo di vedere la morte e ogni pratica per la conservazione dei defunti è valsa a perpetuare nel ricordo la loro presenza; sia che si parli di Sarcofago etrusco o di Catacomba cristiana, si sottolinea in ogni caso il significato di eredità storica e umana, di testimonianza di antiche civiltà, di luogo della memoria collettiva.

In tutto questo l’analisi del cimitero come luogo della memoria collettiva dalle civiltà arcaiche fino ai giorni nostri, porta alla luce una serie di elementi che si dimostrano fondamentali per ―capire‖ questi luoghi.

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1.2 Alle origini del rapporto con la morte

L’architettura funeraria ebbe uno sviluppo assai notevole sin dalle epoche più remote, rimanendo in molti casi l’unica testimonianza di antiche civiltà.

Trascurando gli affossamenti liberi e alla rinfusa, solo in epoche relativamente recenti compaiono organismi cimiteriali autentici, in quanto sorti come tali e nettamente delimitati nel loro impianto planimetrico.

I numerosissimi raggruppamenti di tombe che ci sono pervenuti a testimonianza di antiche civiltà, vengono comunemente denominati necropoli anziché cimiteri e sono quasi sempre privi di recinzione, senza regole o limitazioni precise.

Altrettanto numerose sono, sin dall’antichità, le costruzioni funerarie isolate o raggruppate in pochi esemplari, che pur costituiscono per noi espressione architettonica del tutto particolari delle civiltà che le hanno prodotte.

La forma assunta dalla sepoltura in una determinata epoca, permette di stabilire il grado di evoluzione di una civiltà e la capacità di una comunità di tradurre in codici e in arte il proprio patrimonio epico e spirituale; infatti l’atto di seppellire intenzionalmente un cadavere presuppone sempre la credenza nell’aldilà e l’esistenza di un rapporto filosofico con il mondo dei morti.

Le esigenze funebri sorsero fin dai tempi preistorici, non appena l’uomo cominciò a mutare la sua condizione e a prendere coscienza di sé. Emerge anche una necessità rituale legata

al nascere del sentimento religioso e del culto dei morti. Nessun gruppo arcaico, per quanto possa essere primitivo, abbandona i suoi morti o li lascia senza riti.

L’immagine che più di altre può rendere l’idea dell’evoluzione della cultura funeraria è quella del cono di terra, del cumulo primitivo delle popolazioni nomadi, che si trasforma in struttura architettonica complessa e testimonianza durevole di pietra, come nelle piramidi egizie e nelle forme analoghe delle civiltà orientali e mesoamericane.

Le tombe megalitiche delle civiltà preistoriche, spesso poste in prossimità delle abitazioni, rappresentano la presenza e l’importanza dell’uomo come abitante, cioè fruitore e dominatore della terra.

La completa adesione dell’uomo alla natura porta alla definizione, intimamente legata ai quattro elementi allegorici, dei diversi sistemi di sepoltura: così l’inumazione trarrebbe origine dalla terra, la cremazione dal fuoco, l'essiccazione dall’aria, l’immersione — pratica usata soprattutto dalle primitive popolazioni nordiche

— dall’acqua.

L’aldilà è un mondo parallelo ma affine e la tomba funebre è il luogo del raddoppio della persona vivente, dove all’immobilità dello stato fisico si contrappone il moto perenne della memoria e del ricordo.

I primi documenti che testimoniano il trattamento specialistico dei cadaveri risale al paleolitico. Ne sono un esempio alcuni depositi di crani di ominidi a Ciu-cu-tien, presso Pechino, un certo numero di tombe di inumati dentro le

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grotte di Grimaldi in Liguria, e, soprattutto, per la sua particolarità, l’uomo della Chapelle aux Sints, scoperto dagli abati Bouyssonie e Bardon.

Questi è stato trovato deposto in una fossa artificiale, con le gambe piegate per evitare il suo ritorno tra i vivi.

Altri esempi importanti sono le tombe a fossa terragna ritrovate a Lama dei Peligni, nella Marsica, precisamente a Celano e a Scurcola Marsicana, così pure nel sud-ovest della Francia e nell’Europa centrale.

Nel periodo Neolitico le principali tipologie tombali erano costituite da fosse di inumati scavate nel terreno e si suddividevano in: tombe semplici, scavate nella nuda terra; tombe a ciottoli, nelle quali le pietre, disposte a cerchio in superficie, ne evidenziano il contorno. Il cerchio è l’elemento geometrico che racchiude, dando sicurezza e riparo; tale forma è l’operazione costruttiva più immediata. Ricordiamo poi le tombe a lastroni, dove i lastroni di pietra fungevano da sostegno alle pareti dello scavo e da copertura.

Un altro tipo di sistemazione funebre, diverso da questo appena descritto, è rappresentato dalla

costruzione di piccole grotte artificiali scavate nella roccia. I primi esempi sono stati rinvenuti nell’isola di Pianosa, nel sepolcreto sardo, a celle, domus de Janas (casa delle streghe o delle fate) di Anghelu Ruiu, ed in Sicilia, dove continuarono a essere scavate fino all’età del bronzo.

Altre tombe megalitiche, la cui costruzione risale sempre al Neolitico o all’inizio dell’età dei metalli, sono i dolmen (dal bretone ―tavole di pietra‖) di cui possiamo vedere un esempio in figura.

Questi sono monumenti di culto funerario costituiti da uno o più lastre di pietra poste orizzontalmente, dette tavole, con funzione di copertura, sorrette da sostegni verticali, detti ortòstati. Tale tipologia è considerata una sostituzione della grotta naturale.

In questi primi esempi la funzione cimiteriale non sembra riservata ad una classe privilegiata, ma a una sepoltura collettiva capace di ospitare molte generazioni. I dolmen più antichi risalgono al V millennio a.C. ed i primi ad adottarne la tipologia furono gli abitanti della Penisola Iberica.

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La loro evoluzione si riscontra principalmente nella forma, da celle a camera singola, a sale funerarie di grandi dimensioni sepolte in un tumulo, servite da un lungo corridoio, allèe couverte, e coperte da piccole lastre debordanti l’una rispetto all’altra, fino a formare una falsa cupola chiusa da una lastra più grande.

Verso la metà del IV millennio il dolmen si diffonde ampiamente nell’Europa settentrionale e occidentale.

Altre tipologie di sepoltura tumulare sempre appartenente al periodo Neolitico, ma forse le più antiche, sono i cairn irlandesi, cioè dei cumuli di pietra posti sulla sepoltura.

In Irlanda la più misteriosa e leggendaria camera funeraria preistorica è la Tomba di Newgrange, una necropoli del 4000 a.C, rappresentata nella figura sottostante.

E’ costituita da un grande tumulo circolare alto 13 metri, realizzato con grandi pietre. Uno stretto cunicolo di 18 metri conduce all’area sepolcrale, dove si vedono ancora dei simboli isoterici. Un particolarità risiede nel fatto che la camera funeraria veniva illuminata da un raggio di sole, attraverso un’apertura sopra l’architrave

dell’ingresso, solo il 21 dicembre, giorno del solstizio d’inverno, per appena 15 minuti.

Sempre all’Irlanda appartiene uno dei più grandi cimiteri megalitici d’Europa, è a Carrowmore:

150 tombe, di cui una metà visitabile ancora oggi.

Nel III millennio si determina poi una spiccata diversificazione locale riguardante la forma e le dimensioni della camera sepolcrale, i punti di accesso ad essa e le decorazioni incise o dipinte sulle pareti.

Il fenomeno non si limita all’Europa: numerose tombe dolmeniche sono state ritrovate nel Caucaso, in Siria, in India, in Palestina e in Giordania; compaiono anche in Manciuria, Corea e Giappone tra il III secolo a.C. e il VII d.C.. Qui hanno però una funzione antitetica a quella di matrice europea: la sepoltura di un solo personaggio di rango aristocratico.

A riguardo possiamo citare i kurgan (IV secolo a.C.) delle steppe euro-asiatiche, i quali, a differenza dei cairn, sono monumenti sepolcrali dedicati esclusivamente ai re. Facilmente riconoscibili per le imponenti dimensioni, sono delle vere e proprie collinette artificiali, con tombe a camera sottostanti poste al centro del tumulo, scavate a pozzo. Famosa per questo tipo di architettura è l’antica necropoli Bin Tep (cioè delle mille colline), nei pressi della città di Sardim (Lidia), sul fiume Erm.

In Italia possiamo ricordare la Puglia, dove rivestono una particolare importanza i menhir,

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imponenti obelischi quasi sempre associati ai dolmen, che da semplici segnali funerari diventano immagine dello stesso defunto ed oggetto di venerazione e di culto; la Sardegna, dove troviamo la Valle dei Nuraghi, con le

―tombe dei giganti‖, tombe monumentali, collettive, capaci di ospitare fino a 200 sepolture.

Né rappresenta un esempio la necropoli neolitica di Sant’Andrea Priu (3000-1800 a.C.) e la necropoli di Sulci (Sant’Antioco), i cui corredi funerari sono conservati al Museo Archeologico Nazionale di Cagliari.

I corredi funerari rivelano sempre la preferenza per tutto ciò che aveva attinenza con la vita reale e rappresentano l’importanza e la ricchezza del defunto: dal semplice ciotolame, al seppellimento contemporaneo nella stessa fossa dell’uomo e del cavallo, come nelle tombe di Vicenne nel Sannio, che costituiscono l’esempio di un rituale proprio dei cavalieri delle steppe eurasiatiche; alla sepoltura con tutta l’armatura e le ricchezze come nel caso di Alarico, principe dei Goti, nel greto del Busento o la di una donna rannicchiata sepolta con il cane ai suoi piedi, a Ripoli nella Val Vibrata.

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1.3 La città dei morti come simulacro di quella dei vivi per le grandi civiltà del passato

Con la civiltà egizia l’arte funeraria raggiunge un notevole livello di complessità. Se pensiamo che nell’antico Egitto, per ogni persona, si cominciavano a costruire le tombe già dalla nascita e il possesso di una tomba era l’unica garanzia di sopravvivenza, si capisce come la società si fosse sviluppata attorno ad una concezione teocentrica e relativa della vita.

Infatti, gli egiziani consideravano la vita come un dono divino e come prova cui Iddio assoggettava le anime in vista del proseguimento della vita terrena in un’altra vita.

Gli Egizi non consideravano la morte come estinzione completa dell’uomo, ma piuttosto la negavano ritenendo che ci fosse una continuazione della vita nell’oltretomba, concepita come una vera e propria immortalità.

Per la concezione egizia, nell’uomo vi sono elementi soprannaturali, comuni alla divinità, che permettono una vita senza fine.

Perché il corpo del defunto possa continuare a vivere nell'aldilà è necessario che esso sia preservato integro. Tale fine veniva assicurato tramite la tecnica della mummificazione.

Nella loro forma più primitiva, le tombe comprendevano, generalmente, una camera sepolcrale sotterranea (tomba a fossa) ed una zona superiore di copertura, visibile e architettonicamente rilevante, che fungeva da luogo di culto per il morto.

Quest’ultima assume la forma di mastaba (termine arcaico che significa ―panca‖), a tronco di piramide rettangolare, diretta derivazione delle tombe a cumulo dei nomadi.

L’ evoluzione di questa forma passa attraverso una sovrapposizione di più elementi a mastaba fino a formare le piramidi (dal greco, pane a punta; in egiziano, mer) a gradoni, poi la piramide romboidale, la piramide a parete liscia fino ad arrivare alla piramide vera e propria, che sarà perfetta solo con la triade di Giza (da ricordare in particolare quella di Cheope).

La piramide è la forma finale dell’ evoluzione della tomba nella cultura dell’Egitto Antico.

La prima piramide di forma classica è la Piramide Rossa di Snefur, detta così per la colorazione del suo materiale.

Da isolate costruzioni disposte nel terreno senza una precisa logica, i luoghi funerari diventano centri articolati di culto, in onore all’immagine divina del faraone.

Troviamo un esempio a Saqqara, nel complesso funerario di Doser, fondatore della terza dinastia, dove è possibile vedere un elevato numero di edifici che si dispongono intorno al fulcro, rappresentato da un’imponente piramide a

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gradoni in pietra di grosso taglio, originata dalla sovrapposizione di sei mastaba. Questa trasmette immediatamente l’idea di una gigantesca scala lanciata verso il cielo.

In questo complesso si può cogliere la sintesi fra le diverse tradizioni funerarie dell’Alto e del Basso Egitto: la grossa piramide è il prototipo più eclatante delle sepolture a tumulo dell’Alto Egitto, invece le altre strutture comprese nel recinto funerario continuano la tradizione basso- egiziana della tomba ad abitazione; esse riproducono esattamente la città di Menfi con il palazzo del re, gli edifici amministrativi, le cappelle votive degli dei.

Se nelle prime piramidi la camera sepolcrale era sotterranea, in seguito venne spostata nella struttura muraria esterna; in quest’ultimo caso, la porta d’accesso rimaneva celata.

Il luogo dei morti veniva collocato ad occidente, cosicché tutto ciò che concerneva il culto dei defunti era sistemato ad ovest.

In epoche successive, la morte del re assunse la ritualità di un evento mitico, i cui misteri confluivano sia nel rituale delle esequie del

sovrano, sia nelle pratiche culturali, e rappresentavano il motivo principale della modificazione della pianta del complesso funerario.

Ne sono degli esempi i complessi di Giza, con le piramidi di Cheope, Chephren e Micerino e quelli di Abu Sir con la piramide di Sahure.

Tutti i sovrani dalla XVIII alla XX dinastia trovarono sepoltura nella ―Valle dei Re‖, dove nel 1922 venne scoperto il tesoro di Tutankhamon.

La forma piramidale è diventata l’immagine per eccellenza del sepolcro, rintracciabile in quasi tutti i cimiteri monumentali; essa è appartenuta a tutte le civiltà più antiche, in particolare alle civiltà che avevano organizzato intorno alla morte e ai riti propiziatori tutta una scala di valori e la stessa scala gerarchica della società.

Come la civiltà egiziana anche quelle mesoamericane erano civiltà teocratiche, dove il sovrano era l’immagine stessa della divinità e massimo sacerdote della dottrina religiosa. Lo spirito religioso era la grande forza spirituale unificatrice strettamente connessa ad ogni atto pubblico e privato. Il mondo mitologico, si sovrapponeva, al mondo naturale e tutta

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l’esistenza si giustificava alla luce di un ordinamento dei codici morali, che coincidono con le prescrizioni religiose e giustificano la verticalizzazione sociale.

Dominati da questo profondo sentimento mistico e religioso, gli uomini creavano opere d’arte non solo per sé, ma per i loro dei. Anche qui troviamo infatti, anche se in numero esiguo, esempi di edificazioni piramidali, utilizzate a differenza degli egizi con funzione diversa da quella funeraria. Un esempio famoso è rappresentato della piramide situata nell’antica città maya di Palenque, nel Messico meridionale.

Formalmente simili alle piramidi mesoamericane sono le ziggurat della Mesopotamia, anch’esse però non con funzione di tomba, ma come luogo d’incontro dell’uomo con la divinità.

Sono caratteristiche invece dell’Asia Minore preromana (Frigia, Licia, Paflagonia, Cappadocia) le tombe rupestri. Esse sono semplici caverne difficilmente accessibili e rivestite di facciate architettoniche in pietra, con le forme caratteristiche delle costruzioni in legno. In alcuni casi hanno dei veri e propri fronti monumentali scavati nella roccia.

Per molte civiltà l’elemento che coniuga mondo naturale e mondo mitologico è la montagna;

questa è madre e racchiude in sé gli umori della terra, è segnale eterno e inamovibile della forza vitale della terra, cumulo della memoria che ha origine nella creazione. I tumuli, le piramidi e tutte le costruzioni sepolcrali ad essi riferibili ripetono il gesto della creazione e si pongono come testimonianza della vita attraverso la morte. Le tombe rupestri di Petra, quelle a croce

degli imperatori persiani Dario I, Dario II, Serse I e Antaserse I a Persepoli, quelle egizie affiancate alle piramidi e il tesoro di Atreo a Micene, si qualificano in quanto aperture, ingressi maestosi su di un mondo oscuro e silenzioso.

Nel periodo storico arcaico, fra i primissimi esempi, occorre ricordare la Tomba di Knosso, una fossa scavata e rivestita di pietra con copertura monolitica, ed un tipo abbastanza diffuso, a forma di Tholos, che fa capo al notissimo già citato Tesoro di Atreo in Micene.

La manifestazione dell’ architettura etrusca tuttora più visibile e meglio databile è quella delle grandi necropoli, collocate tra l’Alto Lazio, la Toscana e l’Umbria, in cui pare riemergere la memoria egizia di una città dei morti parallela a quella dei viventi. Fra i siti più importanti è la necropoli di Tarquinia, la cui area occupa una larghezza di circa mille metri per una lunghezza di cinquemila ed accoglie sepolture di forme assai varie che vanno dal VII secolo a.C. fino all’età romana. Altra necropoli importante è quella di Cerveteri dove si seppellì dal IX secolo a.C. fino all’età di Roma Imperiale.

Le tombe riproducevano le abitazioni dei vivi, perché il trapassato potesse proseguire le sue abitudini anche dopo la morte. Le donne, le ragazze e le bambine, ad esempio, venivano sepolte con orecchini, collane e gioielli.

Gli etruschi ritenevano, infatti, come in altre culture delle aree mediterranee, che il defunto sopravvivesse nel luogo dove veniva sepolto.

Ecco perché le tombe presentano molte scene gaie nelle pitture, a colori vivaci, con lo scopo di rendere confortevole la dimora dei morti.

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Verso il V secolo pare che tra gli etruschi il culto per i morti subisca una trasformazione: si diffonde la convinzione che i defunti si fermino nella tomba solo momentaneamente, prima del viaggio verso il regno dei morti. Le tombe diventano quindi più cupe, con dipinti di demoni (come la dea Vanth dalle grandi ali) e scene di violenza.

Scavate nella roccia o costruite con blocchi di pietra, le necropoli etrusche vennero periodicamente scoperte dai contadini, dai pastori e dai boscaioli carbonai.

Le tombe etrusche sono state anche obiettivo privilegiato di ―tombaroli‖ (che le devastavano per sottrarre vasi, dipinti, bronzi, oggetti d’oro) e falsari (alcuni collocavano i falsi nelle tombe, per poi venderli come autentici). I primi tombaroli furono in realtà gli antichi romani, che cercavano oro e gettavano tutto il resto (in particolare i vasi, le anfore e gli altri oggetti funerari) nel dromos, l’entrata della tomba.

Il contenuto delle tombe che non è andato perduto o depredato è oggi visibile nei musei, comprese le statue in grandezza naturale che venivano poste sui sarcofagi. Celeberrimo è il Sarcofago degli sposi, conservato nel Museo Etrusco di Villa Giulia a Roma: è un cinerario e mostra due coniugi a banchetto, rivelando la parità tra uomo e donna nella cultura etrusca.

L’architettura delle tombe etrusche ha un valore particolare come introduzione all’architettura romana. Dalle strutture a volta degli ambienti sotterranei saldamente edificate o dagli ipogei a pianta circolare e a falsa volta i romani

riceveranno stimoli notevoli e determinanti per la elaborazione del loro concetto del costruire.

All’arte e all’architettura funeraria degli etruschi si sono ispirati anche artisti e architetti moderni.

È il caso del ricorrente tema della porta, scolpita o dipinta, verso l’aldilà, che ritroviamo nei monumenti ottocenteschi. Così come al modello etrusco alludono i colombari.

Gli etruschi hanno lasciato centinaia di loculi ad alveare scalpellati sui dirupi di tufo. L’uso non è certo, ma potrebbero essere sepolcri. Secondo Giovanni Feo, è plausibile che siano nati come cimiteri a loculi delle classi etrusche meno abbienti.

Tra le antiche popolazioni, non solo gli etruschi hanno lasciato tombe in Italia.

Vanno citati almeno i Sabini, che fino al III a.C.

abitavano tra Lazio, Umbria e Abruzzo, in particolare nella zona vicina ai Monti Sabini, attraversata dal Tevere e dal Velino. Le tombe erano scavate nel tufo e talvolta costruite.

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1.4 Le sepolture al di fuori della città per le civiltà dei Greci e dei Romani

I Greci introdussero nell’architettura funeraria il Cippo e la Stele, e dettero vita ad un organismo nuovo, il Mausoleo, che, con l’esempio illustre di quello di Alicarnasso, considerato nell’antichità come una delle sette meraviglie del mondo, fece assurgere la tomba in elevazione a grande dignità d’arte. Mirabile monumento sepolcrale in pietra, completamente distrutto sul finire del XV secolo, caratterizzato da un ritmo ascendente molto forte che passa dal grande basamento al blocco della camera sepolcrale, al peristilio ionico con trentasei colonne e alla grandiosa copertura gradonata fino alla grande quadriga scolpita da Pyteos, eretto per celebrare Mausoleo, signore della Caria dal 377 al 353 a.C., Vitruvio prima e Plinio il Vecchio poi, lo descrivono quale opera eccezionale per la mole e per il ricchissimo apparato decorativo.

L’elevazione di un tempio da terra o di un sepolcro è comune a molte civiltà: il monumento in questione ha dei precedenti orientali nella tomba di Ciro a Pasargarde e nel monumento alle Nereidi.

Il termine mausoleo si estese in seguito a designare monumenti funerari gentilizi in età romana.

Proprio con i Romani la cultura funeraria raggiunse il massimo livello di sintesi e di contaminazione culturale: la tradizione architettonica degli heroa ellenistici e dei tumuli mediterranei, in particolare di quelli etruschi,

compiono il loro ciclo di trasformazione nei mausolei romani. L’evoluzione culturale è alla base di quella tipologica. Dalle tombe scavate preromane si passa alle costruzioni sopraterra isolate, poste su basamenti per giungere all’elevazione dei grandi sepolcri monumentali generalmente a pianta circolare: i Mausolei, appunto, che presso i Romani raggiungono la massima espressione.

Al riguardo degno di menzione è il Mausoleo di Augusto.

È il monumento sepolcrale sulla riva del Tevere voluto da Ottaviano Augusto per sé e la sua famiglia. Ha pianta circolare con forma a tamburo, di 87 metri di diametro, sormontata da un tumulo di terra secondo i modelli asiatici ed ellenistici, dove era consueto porre un giardino sulla sommità dei monumenti di questo tipo. Il mausoleo finì quasi distrutto nel XII secolo, poi trasformato in fortezza nel Duecento. Nel corso dei secoli subì vari saccheggi. Il non lontano Castel Sant’Angelo, invece, originariamente era il Mausoleo di Adriano (139 d.C.) e ne ospitava la tomba.

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I Romani svilupparono anche altre forme di edilizia funeraria, quali le Edicole ed i Colombari, veri e propri prototipi di tombe collettive.

Vengono definiti Colombari le tombe a volta con sepolture multiple per le ceneri dei liberti, costruite a spese dei loro padroni. Molti sono nella zona del Celio, che fino al III secolo d.C.

era all’esterno delle mura cittadine. Da ricordare in particolare le Tombe dei liberti di via Statilia. Si tratta di una piccola sepoltura a forma di casa, lungo l’Acquedotto di Nerone, del I secolo a.C.

Vi si scorgono i nomi e i ritratti a rilievo degli Statilii che si erano consorziati per pagare l’edificazione della tomba comune. Importanti, inoltre, il Colombario dei liberti di Augusto, su via Appia e il Colombario di Pomponio Hylas, dove un’iscrizione a mosaico rivela che la tomba apparteneva a Pomponio Hylas e a sua moglie Pomponia Vitalinis, sopra il cui nome è decorata una ―V‖ ad indicare che l’iscrizione era stata fatta quando la donna era ancora in vita.

La legge romana imponeva di seppellire i morti fuori dalle mura urbane, sulle vie consolari.

I romani, infatti, dimostravano ripugnanza per i morti, considerati impuri e contaminanti.

Il costume di seppellire lungo le strade maestre esterne alle città si diffuse in tutta l’Europa sottoposta a dominio romano. Si creava così una distribuzione delle tombe lungo le strade, senza dar luogo ad un vero e proprio cimitero delimitato e circoscritto. Oggi ci restano varie tombe di famiglia destinate ai più abbienti, e alcune tombe collettive per i poveri (e poi per i cristiani), oltre ai mausolei delle famiglie potenti.

Poiché a Roma si tendeva a concentrare le sepolture lungo le strade in uscita della città, la zona dell’Appia Antica è il più vasto complesso cimiteriale romano. Vi si trovano non solo i grandi monumenti funerari, tra cipressi, olivi e pini, ma anche tre catacombe. Si è calcolati che nei primi sedici chilometri vi fossero ben trentamila tombe.

Con il passare dei secoli i sepolcri di via Appia caddero in rovina, lasciati in totale abbandono.

Solo nell’Ottocento si ebbe una ripresa di interesse e gli archeologi effettuarono scavi, rilevamenti, catalogazioni.

Il monumento più celebre resta comunque la Tomba di Cecilia Metella (vedi figura successiva),

chiamata a lungo Capo di Bove, perché ha il fregio costellato di buoi, tipici dei monumenti funerari: risale alla fine del I secolo a.C. ed è nota per la sua caratteristica forma a tamburo.

Per tali sepolture, fuori della città, allineate lungo le vie suburbane e consolari, appare impropria la denominazione di Cimitero, che verrà invece usata la prima volta dai Cristiani, nelle loro iniziazioni più antiche, talvolta anche ad indicare una sola tomba con significato simbolico.

I Cristiani quindi presero atto di una consuetudine ormai radicata nel costume

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romano, che con loro acquistò una diversa e più grande dimensione: nel sottosuolo romano si contano più di mille chilometri di gallerie ed i centri di sepoltura più importanti ed estesi risalenti ai primi secoli dell’era cristiana, finora rinvenuti sono all’ incirca settanta, non tutti originariamente cristiani: poteva avvenire, infatti, che un cimitero pagano si trasformasse, spontaneamente o per l’offerta di un ricco proprietario convertito, in una catacomba cristiana. In alcuni casi le stratificazioni portarono alla formazione di complessi veramente notevoli, come le catacombe di S.

Sebastiano e di S. Callisto sulla Via Appia.

Possiamo ricordare anche le Catacombe di Domitilla e di Santa Priscilla a Roma ed anche le Catacombe dei Giordani, le più profonde di Roma, ben cinque livelli sotterranei.

In era paleocristiana dunque, la sepoltura avveniva o in cimiteri privati o in catacombe, i più antichi raggruppamenti sepolcrali della Cristianità.

Si tratta di freddi cunicoli sotterranei che si estendono per chilometri, spesso a più livelli, alle cui pareti si disponevano file di loculi per le sepolture comuni. Venivano realizzati anche

sarcofagi e camere dette cubiculae, isolate o a gruppi, che con un minimo di accorgimenti statici e architettonici, assumevano l’aspetto di cripte per la sepoltura di intere famiglie, le più facoltose.

Per realizzare le catacombe si utilizzarono cave di tufo (pietra porosa e morbida) e pozzolana (una specie di malta) di origine vulcanica. Il materiale estratto serviva per costruire edifici.

Lungo le gallerie strette e sinuose si disponevano, per tutta l’altezza della parete, i Loci, cioè delle semplici cavità capaci di accogliere una o più salme: l’apertura rettangolare veniva generalmente chiusa da una lastra di marmo, ma molto frequente era anche il tipo denominato Arcosolium, con apertura arcuata e cofano (Solinum) nel quale racchiudere la salma.

Inizialmente pagani e cristiani venivano sepolti insieme. Poi, a partire dal II secolo, le necropoli sotterranee sono quasi esclusivamente cristiane, anche perché i cristiani rifiutavano la cremazione. È quindi dalla seconda metà del II secolo d.C. che si può parlare di vere e proprie catacombe, dal greco Katà Kymbas (presso le cavità).

All’interno si trovano monumenti funerari (Arcosolii) e molte pitture murali.

La ritrosia nei confronti dei cimiteri ottocenteschi e moderni sembra assente di fronte alle catacombe, forse perché resiste la convinzione che non si tratti di veri e propri cimiteri, ma di un luogo di rifugio dei cristiani per sfuggire alle persecuzioni. In realtà le catacombe fino al VI secolo non erano luoghi di culto o rifugi, ma cimiteri. Solo a partire dal IV

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secolo vennero utilizzate anche come luoghi di venerazione, perché ospitavano i resti di alcuni santi e martiri (sono state ritenute luoghi di sepoltura degli apostoli). Quando si trasferirono i corpi dei martiri nelle chiese, le catacombe vennero abbandonate e caddero nell’oblio per tutto il Medioevo. Gallerie e cubicoli diventano impraticabili, e, in molti casi vengono bloccati e riempiti di terre di riporto. Restano accessibili solo gli ambienti che custodiscono i corpi santi, ambienti trasformati, dove possibile, in cappelle o in basiliche. Intorno a Roma, immediatamente fuori le mura, viene a formarsi, così, una cerchia di santuari, i quali dalla metà del V secolo, salvo rarissime eccezioni, non hanno più alcuna funzione cimiteriale: sono vere e proprie chiese.

Solo alcune catacombe servirono da cimitero fino a pochi secoli fa, come quelle di S. Gaudioso a Napoli.

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1.5 Medioevo: le sepolture all’interno della città

L’uso di seppellire nelle Catacombe cedeva il posto al seppellimento in aree a queste sovrastanti, a cielo scoperto e si generalizzò il vocabolo Coemeterium, che venne talvolta usato anche ad indicare le Basiliche ed i luoghi di culto costruiti sopra le Catacombe. Un noto esempio di questa nascente abitudine è dato dal vasto Cimitero di Salona.

Durante il regno di Costantino si ha un notevole sviluppo di edifici adibiti al culto dei morti, molti dei quali eretti in prossimità di martyria. Questi coemeteria subteglata erano grosse sale funerarie coperte a tetto, a impianto basilicale, con i pavimenti costituiti da tombe, con una mensa per il banchetto funerario e una per il martire che doveva servire anche come altare, costituenti una delle numerose tipologie presenti in quel periodo di fermento neofita. Un esempio coevo è rappresentato proprio da S. Lorenzo fuori le mura.

Da S. Lorenzo fuori le mura viene la testimonianza di come sia sempre esistita l’associazione luogo di culto – luogo cimiteriale.

Infatti le basiliche sono fra i primi luoghi cimiteriali.

L’età medievale segna un fondamentale punto di passaggio nella storia delle sepolture.

La morte, per secoli rigettata fuori dalle mura urbane, entra all’interno delle città, dei villaggi, in mezzo alle case degli uomini.

L’investigazione delle cause e degli effetti indotti dal fenomeno dell’inurbamento dei cadaveri, apparso nei suoi primi atti già dal V secolo dopo Cristo e perdurato sino ai primi decenni del XIX secolo, ci conduce naturalmente in una sorta di zona di frontiera nella quale confluiscono senza annullarsi tematiche giuridiche, religiose, popolari e, non ultime, questioni proprie di storia urbana.

Per chiarezza di esposizione tenteremo di sciogliere questa complessità analizzando separatamente le singole argomentazioni, muovendo dalla lettura delle disposizioni legislative, allargando il campo di indagine alle epoche che precedono quella medievale, poiché riteniamo che i principali lemmi della condizione giuridica delle sepolture nel diritto medievale debbano essere rintracciati nel diritto funerario romano.

Sviluppiamo allora alcuni concetti che ci permetteranno di mettere più facilmente in chiaro la questione del diritto d’asilo e delle sepolture urbane in epoca medievale.

Il diritto romano definiva come locus religiosus il luogo fisico in cui erano deposte le ceneri o i resti di un individuo.

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Una giusta sepoltura, secondo i divi fratres, presupponeva che il corpo fosse terra conditum (profondamente sepolto nella terra).

La terra era, secondo il diritto funerario romano, l’unico luogo in cui fosse possibile offrire al defunto una degna sepoltura, una domus aeterna.

In ragione della presenza del sepolcro, la terra diveniva res religiosa.

Il sepolcro attribuiva carattere d’inalienabilità - res extra commercium - al terreno.

Al contrario, un terreno privo di sepolture era detto locus purus.

Soltanto qui era possibile un uso profano del suolo: soltanto qui si potevano costruire abitazioni e tabernae.

La sepoltura era dunque un bene che non si poteva commerciare ma che poteva essere tramandato per eredità (sepulchra hereditaria).

Se il luogo della sepoltura aveva carattere religioso, la chiesa e i suoi annessi rientravano invece nella categoria delle res sacrae.

Le res sacrae erano beni, inviolabili che offrivano l’immunità, l’asilo a chiunque vi si rifugiasse. Inizialmente l’immunità era propria solo delle chiese, delle basiliche, delle ville, in altre parole dei luoghi chiusi, recintati e coperti.

Solo successivamente il diritto d’asilo sarà esteso alle aree aperte circostanti le chiese. Tale immunità traeva le sue origini dall’antico diritto canonico che proibiva si tenessero tribunali nei luoghi sacri e raccomandava che il clamore dei contendenti non risuonasse sotto le volte delle chiese.

Secondo la decima legge delle XII Tavole, fondamento del diritto funerario romano, le sepolture dovevano essere collocate fuori dalle mura delle città per preservare la sanctitas delle abitazioni: "Hominem mortum in Urbe ne sepelito neque urito" - Che nessun corpo sia sotterrato o bruciato all’interno della città.

Adriano, in ragione di tale legge, impose la pena di 40 scudi d’oro a coloro che avessero praticato una sepoltura in città. La stessa pena era estesa a coloro che avessero permesso o taciuto l’atto.

Il giureconsulto Paolo scriveva: "Corpus in Civitate inferre non licet, ne funestentur Sacra Civitatis"

- Nessun cadavere sia posto in città, perché le cose sacre della città non vengano contaminate dalla morte.

Le dimore dei defunti erano tenute rigorosamente separate da quelle dei viventi e, ad eccezione di importanti dignitari - e più tardi degli imperatori - i romani venivano sepolti in tombe poste lungo i lati delle strade che conducevano alle porte cittadine.

La presenza dei sepolcri lungo le strade principali doveva costituire una sorta di monito per il viaggiatore a ricordare la caducità delle cose terrene.

Sepulchrum, ara, templum erano i tre etimi latini con i quali s’indicava il luogo della sepoltura;

successivamente i cristiani adottarono il termine coemeterium, secondo l’etimologia greca, per definire il luogo del riposo eterno.

Avviene proprio con il cristianesimo il passaggio dalla negazione alla familiarità della morte che porterà in epoca medievale

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all’inurbamento dei luoghi di sepoltura, passaggio assistito dalla proclamazione della fede nella resurrezione del corpo associata al culto dei martiri e delle loro tombe.

La morte, vista ora come sonno eterno, non fa più paura.

I defunti, chiamati dormienti, possono essere sepolti all’interno delle mura cittadine.

In attesa di una nuova vita nel giorno del giudizio finale, prende corpo nei primi secoli dopo Cristo la pratica delle sepolture ad sanctos o martyribus sociatus - vicino alle spoglie del martire - perché fosse più facile il cammino del defunto verso la rinascita.

Ed è talmente forte la credenza nel dogma della resurrezione che nel latino tardo verrà spesso usato l’etimo dormitorium per indicare il luogo della sepoltura.

Nei luoghi in cui si trovano i resti del martire vengono costruite delle chiese sepolcrali, piccole cappelle ben presto sostituite dalle basiliche ad una o più navate, necessarie ad accogliere la folla sempre più crescente in pellegrinaggio presso le spoglie del martire.

In seguito la presenza delle reliquie attirò non solo i pellegrini ma anche il soggiorno definitivo dei morti.

Si riteneva, infatti, che i martiri, di cui in ragione del proprio sacrificio era certa l’avvenuta ascesa in cielo, avrebbero meglio di ogni altro vegliato e protetto l’anima dei defunti, allontanando, per il diritto di immunità delle res sacrae, eventuali profanatori della tomba.

Accanto alle basiliche sepolcrali tra il II e il III secolo si moltiplicarono i luoghi di culto

costruiti sulla tomba simbolica di un martire, in quanto per una specie di ficto iuris - finzione giuridica - si ammetteva che questa potesse essere rappresentata da una reliquia che fosse stata anche solo a contatto con il corpo del martire o che fosse in qualche modo servita al suo supplizio.

Solo più tardi, intorno al VI secolo, accentuandosi il fenomeno dell’abbandono dei cimiteri suburbani, diventerà uso comune trasferire o anche asportare solo delle parti dei corpi dei martiri.

L’idea, ripetutamente espressa dai padri della chiesa, secondo la quale l’edificio in cui fosse esposta la reliquia di un martire dovesse considerarsi come una vera e propria sepoltura e che la deposizione di una parte del corpo corrispondesse a quella dell’intero cadavere, non poteva rimanere senza conseguenze.

Il diffondersi della pratica della deposizione delle reliquie nelle chiese e negli altari o nelle cosiddette fenestelle confessionis, dovette senza dubbio contribuire ad affermare il concetto che uno speciale carattere di sacralità andasse congiunto all’edificio destinato al culto e alle sepolture in esso contenute.

Il trasferimento delle reliquie dei martiri nelle chiese urbane mette in atto il processo di trasferimento delle sepolture comuni nelle chiese, collocate prima all’interno dell’edificio sacro e quindi al di là delle sue mura, nelle aree circostanti.

Durante il Medioevo la forma romana del Mausoleo viene pian piano abbandonata e si diffonde la sepoltura nei templi. Poiché Martiri e

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Santi della Cristianità venivano preferibilmente sepolti nelle Chiese, si usò sin dagli inizi, e si diffuse ovunque, l’abitudine di seppellire nelle Chiese, non solo i religiosi e gli uomini insigni, ma anche le salme comuni, onde consentire alle spoglie mortali dei fedeli di riposare accanto a quelle venerate. Spesso, anzi, per mancanza di spazio, la sepoltura avveniva in grandi tombe collettive (veri ossari primitivi) sotto il pavimento stesso delle chiese, la cui superficie di calpestio si andò continuamente arricchendo di pietre tombali decorate da epigrafi o bassorilievi.

Quando poi il sottosuolo del tempio era saturo di sepolture queste si vennero, un poco per volta, a raggruppare nelle immediate vicinanze dell’edificio sacro, dando luogo in Germania al Kirckhof (in inglese churchjard) ed in Italia al Campo Santo (Camposanto di Pisa e di Ferrara).

Ma le sepolture nell’interno delle chiese continuarono ad avere la massima diffusione in tutto il Medioevo ed il loro uso si perpetuò nelle grandiose realizzazioni del Rinascimento.

Occupata tutta la superficie sottostante il pavimento dei templi, si interessarono presto anche le pareti di esso, e dalle semplici pietre tombali, poste a chiusura di una nicchia nel muro, si passò presto ai sarcofaghi, alle edicole ed ai monumenti architettonici e scultorei.

I più comunemente usati sono il sarcofago poggiato sul pavimento, sormontato dalla figura dell'estinto in atteggiamento di dormiente; il sarcofago appoggiato ad una parete, variamente decorato; il monumento funerario di grande mole, occupante vasto spazio di parete, contenente il sarcofago con sovrastante figura in

atteggiamento vario e più o meno ricco commento architettonico e plastico circostante;

l’edicola funeraria libera sui quattro lati e posta generalmente in un intercolumnio tra due navate contigue.

Anche nelle immediate vicinanze del tempio, all’aria libera, i monumenti funerari assumono man mano valori architettonici sempre più notevoli, sino a raggiungere una vera importanza urbanistica nel quadro cittadino. Sono tipici esempi di questo periodo le edicole monumentali, riccamente decorate da sculture che, con la denominazione di Arche, sorgono ancora oggi nei pressi di chiese illustri di importanti città italiane (Verona, Bologna).

Le sepolture entrano così all’interno della città.

Finalmente - scrive Le Goff - la città medievale sarà, in totale contrasto con la città antica, una città di vivi e di morti. I cadaveri non saranno più rigettati, in quanto impuri, all’esterno dello spazio urbano, ma — secondo l’esempio e per l’attrazione dei corpi dei martiri - verranno insediati nel territorio intra muros … L’inurbamento dei morti è un elemento capitale nella rivoluzione urbana - materiale e mentale - del Medioevo.

È fondamentale mettere in chiaro un concetto: la ragione del diritto d’asilo dei luoghi sacri sta nella concezione primitiva che la santità di un luogo o di un oggetto si comunichi per contatto, quasi per irradiazione, onde chi si trova in un luogo sacro diviene partecipe di quella sacralità. Analogamente anche i luoghi delle sepolture, concentrati ai piedi della chiesa, partecipano del luogo sacro.

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I cimiteri sono una parte della chiesa e quindi consacrati con la chiesa stessa, come volle Innocenzo III nel 1215.

E Bonifacio VIII nel 1301 preciserà che:

profanata la chiesa sia ritenuto ugualmente profanato il cimitero annesso ad essa e venga scomunicato il trasgressore.

Malgrado, come abbiamo visto, fin dal VI secolo si sia diffusa la pratica delle sepolture apud ecclesiam - all’interno della chiesa - nei concili disciplinari si continuerà per diversi secoli a vietarle, mentre si concederà ufficialmente la sepoltura nelle aree esterne intorno all’edificio.

Nel concilio di Braga del 563 viene proibita la sepoltura nelle chiese ma è concesso di collocare le tombe all’esterno dei muri perimetrali.

Pochi anni dopo, nel 580, il concetto viene ribadito da Pelagio II.

Mentre in Francia il concilio Varense, sottolineando il divieto di seppellire chiunque all’interno della chiesa, fissa determinate aree in cui è possibile la sepoltura comune.

I concili di Magonza dell’813, di Tribur nel 895, di Nantes nel 900, continuano sostanzialmente a ribadire gli stessi principi, accompagnandoli ad eccezioni: nessuno doveva essere sepolto nelle chiese, tranne i vescovi, gli abati, i preti; i fidelis laici potevano essere seppelliti nelle chiese solo con il permesso del vescovo, del curato o del rector.

Ma in breve si arriverà ad un punto in cui non sarà più possibile distinguere la linea di demarcazione tra chiesa e cimitero tanto che Du Cange definisce il coemiterium come una "ecclesia in qua scilicet fidelium corpora humantur"- chiesa nella

quale naturalmente sono seppelliti i corpi dei fedeli.

La funzione cimiteriale cominciava all’interno della chiesa e continuava al di là dei suoi muri, nello spazio circostante che costituiva i "passus ecclesiastici in circuitu ecclesiae", i cosiddetti dextros.

Il concilio di Coyac del 1050 ribadisce il diritto d’immunità delle aree circostanti la chiesa fissando un perimetro di 30 passi all’interno del quale i criminali non potevano essere giustiziati. I trasgressori di tale diritto venivano multati con una pena pecuniaria di 1000 scudi d’argento.

Il concilio tenuto a Roma nel 1059 da Nicola II precisa maggiormente i limiti entro i quali è applicato il diritto d’asilo: 60 passi intorno ad una chiesa grande e 30 passi intorno alle chiese minori. E questo luogo così delimitato era destinato alle sepolture. Chi profanava il luogo delle sepolture veniva scomunicato.

Nel concilio tenutosi nel 1131 durante il papato di Innocenzo II, si conferma la scomunica per coloro che commettono un crimine in una chiesa o in un cimitero.

Il concilio di Londra del 1142 ribadisce ancora la sacralità delle chiese e dei cimiteri.

Gregorio X nel 1274, stabilisce divieti e permessi nelle aree cimiteriali.

Nel sinodo del 1292 viene ancora proibita qualsiasi forma di sepoltura nelle chiese e nel coro.

In realtà, come abbiamo visto, le sepolture nelle chiese continuarono, divenendo prassi soggetta a particolari regolamentazioni.

Tra le zone apud ecclesiam in cui si preferiva essere sepolti, l’abside (in exhedris); il vestibolo

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(paradisus) dove per primo, secondo le fonti, venendo meno alla decima legge delle XII Tavole, fu sepolto Costantino; sub stillicidium, ovvero lungo i muri perimetrali della chiesa sotto la gronda del tetto, bagnati da quelle acque piovane che si riteneva avessero assorbito la sacralità del luogo per lo scorrere lungo le sue mura; in atrio o più propriamente nella corte della chiesa; in porticu, sotto le arcate dei portici perimetrali della corte.

All’interno della chiesa invece il posto più ricercato e quindi più costoso (si pagava tramite lasciti testamentari per le preghiere) era il coro, ovvero vicino al punto in cui si celebra la messa e dove sono conservate le reliquie del santo.

Analogamente al coro in cui è posto l’altare maggiore erano molto desiderate per le sepolture le cappelle laterali con altari minori e in particolare la cappella dedicata alla Vergine.

Si poteva comunque essere sepolti in prossimità o davanti alla cappella ma non all’interno di questa. Successivamente (sec. XV- XVIII) si chiederà di essere sepolti presso il crocefisso o sotto il banco che la famiglia possedeva nella chiesa.

La scelta del posto da parte dei testatori restava comunque subordinata all’approvazione del clero. Ed era quasi sempre una questione di denaro.

Si decide in ogni modo di seppellire nelle aree esterne solo venendo meno la possibilità della sepoltura nella chiesa. Solo alcuni testatori, ben pochi in realtà, scelgono di essere sepolti nel cimitero come gesto di umiltà.

Ma il cimitero non era soltanto il luogo in cui si seppelliscono i defunti.

La stessa parola cimiterium designava anche un luogo in cui si era smesso di seppellire, o dove talvolta non si era mai seppellito alcuno ma che assolveva comunque ad una funzione importante per la vita medievale: il cimitero era un foro, una piazza, dove i vivi s’incontravano per i loro interessi spirituali e temporali, per svolgere giochi, commerci, scambi, nobili e meno nobili affari. L’esercizio dei poteri laici si fermava davanti al confine dell’area di pertinenza della chiesa, davanti al suo atrium, ovvero davanti al cimitero.

All’interno di quel perimetro vivi e morti erano tutelati, spiritualmente e temporalmente, affinché potessero avere sicurezza e pace.

Per i traffici e i commerci che lì si svolgevano, il cimitero era un luogo rumoroso, affaccendato, turbolento.

In un’epoca quale quella medievale, in cui la strada costituiva il luogo in cui incontrarsi poiché le case erano piccole e molto affollate, la chiesa divenne "la casa comune" e il cimitero il suo spazio all’aperto.

La giustizia temporale medievale, ancora in bilico tra sacro e profano, si svolgeva in chiesa o, se necessitava di ampi spazi di riunione, nel cimitero.

Il cimitero inizialmente è, infatti, il luogo in cui si stipulano atti giuridici e successivamente, quando verranno creati appositi tribunali, il cimitero rimane il luogo in cui devono pubblicamente essere lette le condanne davanti alla comunità riunita in chiesa per la messa.

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Ed il cimitero è anche luogo di particolari reclusioni: persone votate alla vita eremitica, ma anche criminali che la giustizia ha condannato ad essere murati per sempre.

Il diritto d’asilo ha fatto del cimitero il luogo più ambito per i mercati e per le fiere. I mercanti vi godevano, infatti, delle franchigie dovute all’immunità, e inoltre potevano approfittare delle folle di religiosi venuti in chiesa per la messa o per assistere alla promulgazione di un atto giuridico: i giorni dedicati alle feste religiose e alla commemorazione dei defunti divenivano così i giorni delle fiere.

Nel medievale Camposanto di Pisa, mostrato in figura successiva, "varj e diversi giochi" si svolgevano sotto le arcate perimetrali, tanto che una lunga serie di divieti tenterà di proibirli mentre si manterrà per secoli l’antica usanza di porvi ad asciugare la lana da tessere e di raccogliervi la cera delle api, preziosa per realizzare le candele votive.

Nel 1231, il concilio di Rouen vieta, pena la scomunica, di danzare nel cimitero e nelle chiese, divieto che si ritrova ancora nel 1405: è proibito ballare, svolgere qualsiasi gioco, fare musica.

Oltre ai cimiteri apud ecclesiam, l’età medievale è teatro della nascita di due episodi singolari nella storia delle sepolture: il già citato Camposanto di Pisa10 e l’ossario dei Saints - Innocents a Parigi.

Particolarmente significativa nell’impianto pisano è la sistemazione interna: un grande loggiato ad archi scemi (soluzione architettonica presente in molti edifici pisani medievali) perimetra un grande campo. Ma l’innovazione più rilevante dal nostro punto di vista è nelle motivazioni che hanno spinto gli abitanti della città di Pisa a desiderare, tra il XIII ed il XIV secolo, di essere sepolti in un preciso "luogo dei morti" presso l’ecclesia maior ma ben lontano dalla piazza pubblica, opposto e complementare, anche nel suo servizio, al battistero. Dal punto di vista formale e simbolico, il Camposanto si ricollega ai chiostri dei monasteri, anch’essi ad uso delle sepolture. La presenza di straordinari esemplari di scultura funeraria romana accanto alle tombe medievali, inseriti in una mirabile architettura ornata di preziosi affreschi - tra i quali ricordiamo il Trionfo della Morte nell’angolo sud-est del Camposanto, affresco attribuito Buonamico Buffalmacco e dipinto probabilmente in seguito alla grande peste del 1348 - hanno fatto del cimitero pisano, già dalla sua fondazione, non un luogo macabro ma un museo.

La morte è allontanata in ragione della meditazione, dell’ammirazione e del godimento dell’arte.

Questo aspetto farà del Camposanto di Pisa il modello laico cui guarderanno gli uomini di progresso nel XVIII secolo.

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L’ossario parigino dei Saints - Innocents in origine era costituito da un grande quadrilatero aperto collocato lungo una strada romana lontano dal centro abitato; divenuto luogo di prostituzione e di delinquenza, nel 1190 venne recintato per volontà di Filippo Augusto; al centro del campo di inumazioni, nella terra considerata "mange- chair" - denominazione atroce che traduce la parola di etimo greco "sarcofago" che vuol dire mangiatore di carne - per la sua straordinaria capacità di facilitare la decomposizione dei corpi, erano poste 50 grandi fosse comuni ognuna delle quali poteva contenere un elevato numero di sepolture.

Tra il XIV e il XV secolo l’ossario parigino venne chiuso sui quattro lati da edifici a gallerie

- charnier - nei quali erano deposte le salme, spesso casualmente accatastate le une sulle altre non protette da alcun sistema di chiusura e dove, si erano installati in modo permanente artigiani e commercianti.

Nel sottotetto degli charnier venivano ammassate le ossa riesumate, visibili dalle grandi bucature presenti nella trabeazione posta lungo tutto il perimetro e disposte quasi a costituire un motivo ornamentale, un fregio macabro:

l’ossessiva presenza di resti umani al fianco dei

viventi era, al contempo, una sorta di memento mori e un modo per esorcizzare il timore della morte, una conferma delle antiche usanze legate al tema delle danze macabre, girotondo senza fine in cui si alternano un morto e un vivo.

Gli charnier dell’ossario dei Saints-Innocents ben presto diventeranno un modello per la realizzazione di numerosi cimiteri medievali in Bretagna, a Rouen, a Blois, dove è ancora possibile vedere la loro struttura originale.

Tra il 1785 e il 1787 l’ossario parigino viene sgomberato dalle sepolture secolari: alla fine dell’operazione di rimozione delle ossa, i Saints- Innocents appaiono solo un grande spazio vuoto al centro della città. Liberato dalle antiche strutture, al suo posto verrà immediatamente realizzata la piazza del mercato: les Halles.

Ma l’idea di sostituire ai cimiteri piazze per il mercato è ben più antica: in una sentenza del 1257, ad esempio, Alfonso X il Saggio ordina che

"vescovo e cabildo [di Orense] prendano le piazze nelle quali s’era soliti tenere il mercato e le sepolture, sotterrare cioè i morti, e vi fissino gli spazi di vendita".

Spesso la piazza del mercato si affianca al luogo delle sepolture, costituendone una sorta di prolungamento, di raddoppio. Quando avverrà, lentamente e non senza traumi, lungo un arco temporale circa cinque secoli dal Medio Evo sino alle ultime decadi dell’Ottocento, il distacco dei cimiteri dalle chiese e lo sgombero delle aree di sepoltura urbane, i grandi spazi oramai vuoti diverranno interamente piazze pubbliche, consacrate per sempre alla vita collettiva.

Riferimenti

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