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Introduzione ali Atti degli Apostoli Relatore don Andrea Bigalli

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Parrocchia di S.Martino a Sesto F.no 8 settembre 2009

Introduzione ali Atti degli Apostoli Relatore don Andrea Bigalli

Atti,2,42

Erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere. 43 Un senso di timore era in tutti, e prodigi e segni avvenivano per opera degli apostoli.43 Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune;45 vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno. 46 Ogni giorno erano perseveranti insieme nel tempio e, spezzando il pane nelle case, prendevano cibo con letizia e semplicità di cuore, 47 lodando Dio e godendo il favore di tutto il popolo. Intanto il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati.

Questi incontri di introduzione dovrebbero servirvi quello che in un pranzo ben articolato ha la funzione dell’antipasto: stuzzicarvi l’appetito in modo che si possa poi entrare nella dinamica del banchetto con le varie portate.

Il percorso di quest’anno prevede i primi dodici capitoli; io cercherò di allargare la prospettiva non tanto per mettervi confusione, ma per presentare l’intero libro. I libri della parola di Dio non si possono spezzare: è necessario avere davanti tutto il quadro che l’opera vuole prospettare, anche perché la teologia si dispiega lungo tutto il testo.

Noi quest’anno, affrontando i primi 12 capitoli, entreremo in dettaglio in quelli che sono i due passaggi fondamentali: da un lato l’ascensione di Gesù, come inizio del tempo della Chiesa;

dall’altro lato la Pentecoste come momento del tutto particolare. L’inizio della Chiesa, ma anche gli strumenti che la Chiesa possiede per entrare in questa dinamica che Luca si pone di fronte e che non è altro che la dinamica a cui anche noi dobbiamo fare riferimento, perché è la storia.

Luca insieme alla comunità cristiana si pone un tempo di cui non si sa calcolare la durata. E’

un po’ la condizione in cui ci troviamo noi oggi. Vedrete nel corso di quest’anno e anche del prossimo anno quanti sono ricchi i riferimenti degli Atti per questa contemporaneità, un po’ perché certi elementi della vita della comunità cristiana è di fatto – forse in modo ancor più peculiare - riproposto da ogni tempo che la Chiesa vive e questo tempo in particolare forse ci mette di fronte alcuni elementi che sono caratteristici e che forse si rifanno ancor più da vicino al contesto raccontato dagli Atti

E’ una considerazione già fatta nei due anni precedenti: anche la Lettera ai Romani ci raccontava di una comunità cristiana che è venuta a trovarsi di fronte a un tempo non molto diverso da quello che viviamo noi. La ruota della storia anche oggi fa sì che ci ritroviamo a dei passaggi molto più vicini al Nuovo Testamento di quanto non sia avvenuto finora. Però, al di là di questa considerazione mia personale, e quindi contestabile, indubbiamente ogni generazione si trova di fronte a un mondo a cui deve portare l’annuncio del vangelo. E gli Atti raccontano questa prospettiva.

Stasera vorrei fare solo poche considerazioni di ordine tecnico, utili per fare il quadro generale di cui voglio parlare.

Gli Atti sono la seconda parte di un’opera più complessa e articolata dovuta ad un autore che nella sua prima opera ci ha fatto vedere quanto sia affezionato al numero due. Infatti l’evangelista Luca – a cui dobbiamo gli Atti - molto spesso nella sua narrazione adopera questo schema duale.

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Pensate ai primi due bellissimi capitoli sull’infanzia di Gesù, in cui è presente la prospettiva del dittico; se accettate un passaggio sul gergo cinematografico c’è il montaggio alternato tra la storia di Elisabetta e la storia di Maria; la storia di Giuseppe e la storia di Zaccaria; la storia di Giovanni il Battista e la storia di Gesù.Questi elementi si alternano con una maestria letteraria interessantissima.

Anche il resto del Vangelo insiste molto su questo passaggio.

Questa nota stilistica possiamo applicarla anche agli Atti, che presentano una struttura abbastanza determinata da questo numero due, dal concetto di coppia, se non altro perché i due personaggi di riferimento sono Pietro e Paolo, a cui se ne aggiungono ovviamente molti altri.

Ricordatevi che i personaggi biblici non sono personaggi letterari che vivono in solitudine. I personaggi della Bibbia chiedono di essere compresi alla luce di comunità intere che hanno affrontato questa comunicazione della fede.

Vi ricordate la riflessione che abbiamo fatto due anni fa sulla Lettera ai Romani? Sarebbe un errore pensare che Paolo, da solo, abbia inventato il cristianesimo. Paolo non è un personaggio solitario che impone la sua visione a tutto il resto della comunità cristiana nascente. Ci sono veri e propri gruppi articolati di persone che si confrontano insieme ed è da questo confronto che nasce la teologia degli Atti, nasce la teologia del Nuovo Testamento, nasce la teologia della Chiesa. Quindi non c’è mai un percorso in cui si possa pensare che l’estro e la fantasia di qualcuno, per quanto grande, sia in grado di forzare i termini di quella che è la grande dimensione della comunicazione dello Spirito. Certo, c’è Pietro, c’è Paolo, c’è la loro realtà, ma sia Pietro che Paolo devono fare i conti con quello che è il grande protagonista degli Atti, cioè lo Spirito Santo: quella realtà che da Gesù viene comunicata alla comunità delle origini perché possa appunto affrontare la sua missione.

Questo è un elemento della teologia degli Atti che dobbiamo subito presentare: i personaggi, certo, ma soprattutto la dimensione dello Spirito.

La comunità cristiana fin dall’inizio è presentata in dialogo con il mondo circostante, ma in questo dialogo la conduce e la guida lo Spirito Santo.

Il compito che Luca si pone appare subito chiaro e rigoroso. Per scoprirlo basta risalire alla prima opera dell’evangelista, il Vangelo, dove egli presenta chiaramente il suo intento. Non solo, ma con quella capacità di sintesi che i libri dell’Antico e del Nuovo Testamento rivelano in modo meraviglioso, nei versetti iniziali del suo vangelo Luca oltre al suo progetto – cioè perché scrive questi due libri – stabilisce anche il metodo rigoroso e preciso che intende seguire nello svolgimento.

Sentiamo cosa scrive nel prologo:

L. 1,1-4

“ Poiché molti hanno cercato di raccontare con ordine gli avvenimenti che si sono compiuti in mezzo a noi, come ce li hanno trasmessi coloro che ne furono testimoni oculari fin da principio e divennero ministri della Parola, così anch’io ho deciso di fare ricerche accurate su ogni circostanza, fin dagli inizi, e di scrivere un resoconto ordinato per te, illustre Teofilo,in modo che tu possa renderti conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto”.

Noi dunque leggeremo gli Atti, per renderci conto della solidità degli insegnamenti che abbiamo ricevuto.

Luca idealmente destina l’opera a un personaggio – Teofilo - che riassume tutti i personaggi che nei secoli successivi si accostano agli Atti. Anche noi siamo Teofilo, l’amico di Dio, colui che ricerca l’amicizia di Dio. Anche a noi Luca dice: vi presento uno strumento perché vi rendiate conto

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della solidità degli insegnamenti che avete ricevuto. Dunque la fede cristiana si fonda su degli insegnamenti che hanno delle basi solide; io – dice Luca – sono andato a ricercarli attraverso testimoni oculari, con un metodo serio, preciso,”scientifico”. Luca si cala nei panni dello storico e racconta, sulla vicenda di Gesù, quanto ci serve per rendersi conto di quanto sia solida.

Se questo si dice per la vicenda legata a Gesù, lo stesso si può affermare per la vicenda legata alla nascita della Chiesa, per valutare e godere fino in fondo della solidità di questo insegnamento. Puntualizzare tutto questo è necessario, altrimenti si corre il rischio di dimenticare che la nostra fede ha basi solide e forti presupposti. Forse è un problema di cattiva letteratura, ma l’idea che il cristianesimo abbia falsato le proprie origini si ritrova anche nel dibattito fra il così detto mondo laico e le comunità cristiane. Noi possiamo confutarlo proprio all’insegna dell’oggettività del lavoro fatto da Luca. Chi dice tali falsità non conosce la Bibbia, non conosce la precisione della scienza con cui si studia la Bibbia, cioè l’esegesi. E’ proprio grazie a questo studio rigoroso che la Bibbia cresce nella nostra comprensione: noi possiamo comprenderla sempre di più come insegnamento solido, come qualcosa su cui possiamo costruire il resto, qualcosa che non è così facile da falsificare.

Negli Atti degli Apostoli si trovano passaggi come quelli letti all’inizio, che presentano un’immagine della Chiesa bella, solare, luminosa da molti punti di vista; continuando la lettura ci rendiamo però conto che non è certo un libro che non esiti a mettere in luce gli errori della comunità cristiana, le divisioni, le incomprensioni, addirittura le violenze che a un certo punto si verificano al suo interno. Leggeremo di contrasti molto forti, leggeremo addirittura di progetti omicidi, leggeremo di grandi ingiustizie e di grandi menzogne: tutto quello cioè che, ben lo sappiamo, fa parte anche della storia della Chiesa. Questo però non ci sconvolge, perché sappiamo benissimo che la Chiesa è certo dimensione dello Spirito, ma anche dimensione umana. Allora gli autori del Nuovo Testamento su questo non falsificano niente , presentano la storia della comunità cristiana così come è.

Detto in un altro linguaggio: se il testo biblico fosse stato riadattato per mettere i cristiani in buona luce, sarebbero state eliminate le parti problematiche, ma questo non accade. Quindi ci viene consegnato un insegnamento solido perché verificato esattamente. Come il vangelo di Luca e gli altri vangeli, anche gli Atti riportano le figure degli apostoli che non sono certo figure di uomini e donne perfette, anzi, ribadiscono che c’è una comunità contraddittoria, faticosa, che a volte vive grandi incomprensioni, prima nei confronti di Gesù e poi nei confronti dell’azione dello Spirito.

Però è bene dirlo fin dall’inizio: l’importante è che, malgrado tutto questo, la comunità continui a farsi provocare dallo Spirito, continui a pensare di fronte allo Spirito, soprattutto sia disposta a farsi giudicare dallo Spirito per cambiare ciò che eventualmente non va bene.

Quanto si dice della comunità cristiana vale anche per ciascuno di noi: ognuno di noi è di fronte a questa potenzialità dello Spirito perché si possa convertire. La solidità dell’insegnamento è anche possibilità della conversione.

Penso non vi sia sfuggito il passaggio del secondo capitolo degli Atti con cui abbiamo aperto il nostro incontro: la comunità si mostra, nei confronti del proprio tempo, come una comunità che vive la gioia, la comunione da cui deriva la letizia, cioè fa vedere che la verità che si sta condividendo produce anche degli effetti.

Questo rischia di farlo diventare il grande testo della nostalgia, ma se voi allargate la prospettiva, vedrete che qui si racconta un momento particolarmente felice; un analogo passaggio lo si trova al cap. 4, 32-37. Ma noi sappiamo che c’è anche tutto il resto. Allora cosa sono questi testi?

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Un passato lontano per noi irraggiungibile o, piuttosto, qui noi possiamo leggere il progetto che Dio ha sulla Chiesa? La Chiesa può essere anche questo; noi siamo in condizione di essere anche questo; l’aprirsi all’azione dello Spirito, vivere nella dimensione di Chiesa come meglio si può, produce anche questo. Nella sua essenza, così come Dio la pensa, la ama e la realizza, la Chiesa è questo segno trasparente di speranza, di gioia, di condivisione, di comunione per cui il mondo non può non riconoscere la bontà del vangelo attraverso quello che facciamo noi. Questo è possibile.

Quindi non è un testo da leggere con nostalgia, ma è un testo da leggere con impegno e responsabilità. Dobbiamo prenderci la responsabilità di far diventare la Chiesa così. Dalle nostre miserie e dai nostri limiti scaturisce la potenzialità che la Chiesa sia quello che Dio ha desiderato attraverso Gesù Cristo. E’ un elemento questo da tener presente anche sul piano personale.

E’ un testo che ci fa vedere questo passaggio: è una comunità fatta di persone e la grande maestria dei testi biblici è raccontarci le persone all’interno delle comunità e le comunità attraverso le persone, per dire che la comunità non è un insieme anonimo di persone in cui scompaiono le individualità; anzi è proprio il modo attraverso cui le singole persone possono capire cosa sono e cosa possono portare alla collettività. Questo emerge con chiarezza: noi leggeremo molti testi in cui i punti di riferimento sono Pietro e Paolo ma insieme a loro ci sono tanti altri personaggi. Quindi noi vediamo una comunità che sta facendo il cristianesimo delle origini e che allo stesso tempo ci ricorda che noi stessi stiamo oggi facendo la realtà della Chiesa.

La Chiesa è la comunione in cui le persone non scompaiono ma restano ben presenti in grado di fornire il loro singolo contributo. Questa è una indicazione per le comunità cristiane.

Quando in una comunità spariscono le persone e predominano solo alcune individualità quella comunità deve ripensarsi seriamente. Io penso che la possibilità di fare comunità senza annientare le persone sia quello di cui il mondo oggi ha bisogno perché le società umane a volte scivolano verso un senso comunitario eccessivo per cui si dimenticano le persone. Forse è la fase che stiamo vivendo ora. Dall’altro lato gli individualismi rischiano di diventare devastanti. Bisogna trovare un equilibrio: siamo persone all’interno di una comunità.

Luca quindi presenta il suo intento. Ma chi era Luca? Abbiamo alcuni dati della tradizione che gli studi biblici non hanno demolito del tutto. Sicuramente – e questo in riferimento ad alcuni passaggi del suo vangelo - Luca doveva essere una persona che conosceva bene la realtà extragiudaica, una persona proiettata all’esterno, su quella dimensione di mondo che usciva dalla stretta realtà della Palestina. Doveva essere un uomo molto aperto a questa dimensione molto varia e articolata che era il mondo al tempo di Gesù. La tradizione ci dice che probabilmente era in rapporto con Paolo di cui per certi aspetti ne illustra, attraverso il vangelo, la predicazione, per cui mentre si parla di Paolo si trovano degli elementi distintivi anche per raccontare chi era Luca.

Luca probabilmente è un non ebreo che scrive già direttamente in greco. A partire da un materiale che gli viene messo a disposizione, sia per il Vangelo quanto per gli Atti, egli ne fa una sintesi: pensa secondo una prospettiva ebraica e biblica ma traduce secondo un linguaggio che vada bene a tutti, nella fattispecie il greco: non soltanto il greco come lingua, ma il greco come espressione culturale. E lo stesso passaggio che egli opera attraverso gli scritti lo sta compiendo in quel momento tutta la comunità cristiana.

Il cristianesimo si diffonde con grande rapidità grazie ad alcuni fattori del tutto comprensibili: la forza dello Spirito, certo, ma anche l’unificazione del mondo allora conosciuto realizzata dall’impero romano nel quale era possibile muoversi liberamente. Gli apostoli, i

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discepoli, i missionari del vangelo raggiungono le grandi comunità ebraiche diffuse in tutto il mondo conosciuto; raggiungono la sinagoga, incontrano gli ebrei lì presenti, poi però allargano la predicazione altrove verso persone che vivono nello stesso territorio, l’impero romano, e parlano la stessa lingua, il greco, la lingua dei commerci, conosciuta da molti, un po’ come sarebbe l’inglese oggi.

Gli apostoli si affacciano su un mondo che, per i mezzi di trasporto del tempo, è sconfinato e vi portano la ricchezza del vangelo calandolo in lingue nuove. E’ quanto leggiamo nell’episodio della Pentecoste, episodio che dobbiamo pensarlo come l’avventura di donne e uomini che hanno incontrato persone diverse e si sono trovati a parlare lingue nuove. Non c’è nulla di magico e di misterioso: i segni di Dio non sono né miracoli fini a se stesso né magie. E’ semplicemente l’intreccio tra la volontà di Dio e quella degli esseri umani che produce cose straordinarie. Questa capacità di incontro è una cosa incredibile: la comunità delle origini si diffonde in tutto il mondo conosciuto e qualcuno probabilmente era più attrezzato degli altri come ad esempio Paolo, figura molto complessa e articolata da questo punto di vista, mentre Pietro non era altro che un semplice pescatore.

Pietro non sembrerebbe una persona idonea a diffondere il vangelo: invece vi riuscirà benissimo. Nel capitolo decimo - un capitolo cruciale – Pietro incontra il centurione Cornelio: sono due mondi completamente diversi che si incontrano, eppure questi due uomini riescono a mettersi in relazione. Il centurione era un uomo importante, non solo una autorità militare. Pietro invece era stato fino a poco tempo prima un pescatore. Eppure si incontrano. E’ lo Spirito che fa la differenza:

lo Spirito sospinge Pietro a incontrare il centurione; quello stesso Spirito che il centurione riceve, per cui poi Pietro uscirà in quella espressione bellissima: “Mi rendo conto che Dio non fa differenza di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia a qualunque nazione appartenga. (At.10,34) Dunque tutti possono, se vogliono, aprirsi allo Spirito e, quindi, accogliere il Vangelo. E questo significa di fatto abbattere tanti muri.

Sotto questo punto di vista gli Atti vanno ricollegati a quanto l’anno scorso si diceva nella lettera ai Romani: la comunità delle origini si costruisce su queste grandi diversità. In questi dodici capitoli vedremo questa vicenda svilupparsi. La conclusione troverà la sua definizione nel capitolo quindicesimo, quindi l’anno prossimo. Però fin dall’inizio vediamo con chiarezza che la comunità si costituisce a partire da due grandi filoni: quello di coloro che provengono dall’ebraismo e diventano cristiani dopo essere stati ebrei e quelli che diventano cristiani venendo da altre realtà e da altre culture.

La cultura dell’impero romano era in qualche modo unificata dal greco: era la cosiddetta cultura ellenistica. Questo passaggio è fondamentale. In un discorso fatto all’inizio del suo pontificato Benedetto XVI ha molto insistito su questa radice ellenica del cristianesimo. Cosa vuol dire? Che noi dobbiamo ripensare al fatto che il cristianesimo nasce in ambito ebraico ma poi si sposta verso l’Europa e assume una dimensione culturale nuova. Proprio in questo passaggio di traduzione dei valori del vangelo da una lingua e una cultura ad un’altra, c’è qualcosa alla quale dobbiamo riflettere con attenzione perché cultura ellenica significa anche la grande tradizione filosofica del mondo greco. La prima generazione cristiana fa questo.

In un’epoca in cui le avventure culturali sembrano ormai esaurite – e non è vero che non ci sia bisogno di porsi questo problema – pensiamo ai primi cristiani che, in pochi decenni, riuscirono a trasferire una cultura dal Medio Oriente all’Europa, conservando integri tutti i contenuti di fondo

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ma traducendoli in una cultura diversa. E’ una avventura incredibile dal punto di vista del pensiero umano. Per cui, fatto salvo quello che dicevo prima, cioè che Paolo non è da solo a fare tutto questo, certamente leggendo le sue lettere viene da dire che è un uomo di genio se riesce a sintetizzare certi passaggi, a viverli come ha fatto poi nelle sue lettere.

Ma lo stesso dobbiamo dire di Luca perché gli Atti non sono soltanto racconto di quanto è successo, sono anche interpretazione dei fatti. I fatti Luca li racconta in modo che dicano cose precise e puntuali su quello che Dio si ripromette di fare attraverso la Chiesa. Questo è il secondo elemento da tener caro quando si legge questo libro perché anche noi siamo di fronte ad un mondo in evoluzione e anche noi dobbiamo tradurre i valori del Vangelo in questa nuova cultura che stiamo vivendo. Sappiamo bene che siamo in un’epoca in cui molto sta accadendo, non importa essere grandi storici per dire che negli ultimi venti anni sono successe molte più cose che nei quarant’anni precedenti. Gli Atti sono anche libro per affrontare questa dimensione e per farlo con serenità. Ci sono riusciti i primi cristiani a costruire una mentalità nuova. Perché non dovremmo farcela noi? E’ la grande sfida che abbiamo raccolto l’anno scorso a partire dal dodicesimo capitolo della lettera ai Romani, là dove Paolo dice che si tratta di trasformare il nostro modo di pensare per rinnovare noi stessi e discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto. Per cui non mi spavento per tutte le cose nuove che accadono: lo Spirito mi mette in condizione di operare con discernimento, di intuire il senso delle cose, perché dietro c’è sempre un disegno divino.

E’ qui che Luca dice cose molto importanti. Egli si pone il problema della storia. Rileggendo la lettera ai Tessalonicesi sappiamo che la comunità delle origini non pensava di avere davanti la dimensione della storia. Erano convinti che Gesù sarebbe tornato all’interno della generazione che l’aveva conosciuto e Paolo stesso sembra essere su questa linea. Ma accade che i primi testimoni cominciano a morire e Paolo si chiede:” Di questi che muoiono cosa sarà?” Poi c’è anche un dato biografico di cui tener conto: lo stesso Paolo rischia di morire e si rende conto che i tempi si allungano e, se prima aveva detto di non preoccuparsi perché ritornerà Gesù e anche quelli che sono morti saranno raggiunti dalla sua resurrezione, poi, nel corso del Nuovo Testamento il discorso cambia: attrezziamoci perché non sappiamo quanta storia abbiamo davanti. Questo è vero per la generazione dei primi cristiani ed è vero per noi: sono duemila anni che aspettiamo il ritorno di Gesù ma qui abbiamo tutti gli elementi per affrontare il tempo che ci è dato.

E’ una questione seria e attuale questa: noi viviamo in un mondo che non si preoccupa del futuro, è imprigionato in un eterno presente che non porta da nessuna parte. Come comunità cristiana dobbiamo annunciare che ci sarà un futuro.

Cosa raccontano gli Atti? Il contenuto del libro lo troviamo subito nel primo brano, dopo il prologo, dove è di nuovo ricordato Teofilo:

At,1,7-8 Non spetta a noi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dello Spirito santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra”.

Qui si trova quanto ho detto prima: sta nel disegno di Dio sapere quando finirà la storia. Non spetta a noi sapere il quando, ma sappiamo che questo quando arriverà. Dobbiamo perciò stare pronti e vegliare. Da un lato c’è la speranza che il mondo finisca e che torni Gesù, dall’altro lato c’è la tensione che ci tiene pronti. Questo è il grande mistero con cui noi viviamo la storia.

Poi Gesù dà un compito preciso ai discepoli, che – ribadisco – non riguarda solo la comunità delle origini, ma riguarda anche noi: essere testimoni.

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L’inizio della testimonianza è a Gerusalemme, città che ha ucciso i profeti, che ha ucciso Gesù, ma non avrà il potere di uccidere gli apostoli, tanto è vero che allargheranno la testimonianza a tutta la Giudea e anche alla Samaria. Ricordatevi che la Samaria non è semplicemente una regione confinante, ma rappresentava un grosso problema culturale e storico per Gerusalemme. I discepoli saranno in grado di superare questa distanza perché hanno ricevuto lo Spirito santo.

Questa è la progressione: la comunità si diffonde a Gerusalemme, poi in Samaria e poi in Asia Minore ed infine a Roma dove Paolo arriverà, sì, ma come prigioniero. E qui a Roma passerà

(Atti,28,30).

“due anni interi nella casa che aveva preso in affitto e accoglieva tutti quelli che venivano da lui, annunciando il regno di Dio e insegnando le cose riguardanti Gesù Cristo con tutta franchezza e senza impedimento”

Ma Paolo è a Roma, non è in Spagna, considerata allora essere ai confini del mondo e dove Paolo aveva pensato di arrivare. Il libro sbaglia prospettiva? O forse noi dobbiamo considerare la geografia secondo una dimensione diversa, cioè la geografia fatta con la teologia? E’ questa seconda ipotesi che ci fa capire quali sono i confini della terra.

Roma è lontana da Gerusalemme, non tanto perché è agli antipodi da un punto di vista geografico, ma perché Gerusalemme è la città di Dio, della pace di Dio, mentre Roma è la città dell’impero, è la grande Babilonia. Per i cristiani essa incarnava un potere costruito sul dominio umano e non sulle leggi di Dio. Nel’Apocalisse ci sono dettagli abbondanti a questo proposito;

Roma è il grande nemico di Israele, il grande nemico di coloro che credono in Dio. Dal punto di vista culturale Gerusalemme è agli antipodi di Roma, però il vangelo raggiunge anche la realtà più lontana: Il libro si compie davvero! Si compie qui, non soltanto col racconto di Luca, ma continua a compiersi e il nostro compito è questo: portare il vangelo ai con fini della terra. Non c’è realtà in cui io non sia chiamato a portare la testimonianza su Gesù e di Gesù. Quindi il mio annuncio mi conduce a tentare l’avventura in un mondo totalmente diverso da quello che conosco, grazie alla forza dello Spirito. Questa è la teologia degli Atti.

Prima di anticiparvi brevemente quello che troveremo in questi 12 capitoli, un piccolissimo riferimento al metodo.

Luca, secondo anche lo stile del suo tempo, riferisce moltissimi discorsi: si può dire che gli Atti sono una specie di collazione, cioè rimettono insieme tanti discorsi straordinari. Pentecoste, ad esempio, è un episodio a cui fa seguito il discorso di Pietro, il primo discorso di fronte alla collettività. E’ il momento in cui si esce dal cenacolo in cui gli apostoli stavano chiusi con Maria (tra l’altro gli Atti sono importanti anche per la teologia mariana).Altri discorsi bellissimi: quello di Pietro a Cornelio, il lungo discorso con cui Stefano racconta di nuovo l’esperienza di Gesù di fronte al tribunale che lo condannerà a morte.

In questi discorsi è da vedere un passaggio che dobbiamo recuperare: ricordiamoci che quando gli ebrei professano la fede, raccontano una storia, la storia di coloro che da sempre si sono sentiti amati da Dio, in modo che tu stesso possa fare tua questa storia.

In questi discorsi, dunque, si racconta la fede attraverso la narrazione di quello che Dio è capace di fare per te, attraverso Gesù; allora per forza di cose si ricostruisce la storia di Gesù perché questo è il tramite attraverso cui possiamo incontrare Gesù nella fede, con un passaggio che troviamo al cap. 8 e che rimanda all’ultimo capitolo del vangelo di Luca: i discepoli di Emmaus.

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Sappiamo che lungo la strada Gesù si affianca ai due discepoli, si fa interprete della loro tristezza e comincia a raccontare ciò che sta nella Parola riguardo a lui, ma anche riguardo ai discepoli.

Quindi il Libro, la Parola di Dio, come capacità di fare esegesi anche della nostra vita, soprattutto sul piano di ciò che noi soffriamo: la croce di Gesù, la fatica dei discepoli ad accettare la morte di Gesù, la nostra fatica ad accettare le fatiche della vita. Gesù interpreta tutto questo e poi dona il segno per riconoscerlo: lo spezzare del pane.

Al cap. 8 degli Atti il diacono Filippo viene mandato a incontrare il funzionario della regina di Etiopia e lì c’è una dinamica simile a quella dei discepoli di Emmaus: Filippo “prendendo la parola e partendo da quel passo della Scrittura annunciò a lui Gesù” Qui il segno è il battesimo che rivela la realtà di Gesù. Dopo il battesimo Gesù scompare, come nel vangelo fa Gesù dopo aver spezzato il pane. C’è un parallelismo assoluto. Cito questo per dire che non si può prescindere dal vangelo di Luca.

Dunque: i primi sette capitoli parlano della crescita della comunità a Gerusalemme, poi i primi segni, i primi contrasti con l’autorità giudaica (la comunità che, all’inizio, cresce all’interno del tempio, pian piano si affranca dall’ebraismo), infine il martirio di Stefano.

A partire dal cap. 8 si parla dell’uscita della comunità da Gerusalemme e della sua espansione. E’ interessante notare cosa dice il primo versetto del cap. 8 – che fa da ponte fra l’espansione a Gerusalemme e l’inizio della missione – “Paolo approvava l’uccisione di Stefano”.

Nel momento che sembra il più negativo per la storia della Chiesa, appare il personaggio che proietterà il cristianesimo in avanti. Nel cap. 8 si trova la conversione dell’etiope, al c.9 la conversione di Paolo, al c. 10 l’incontro col mondo pagano e i grandi segni.

A un certo punto noi vediamo che la comunità delle origini è allo stallo: dopo essersi espanta rapidamente nel mondo ebraico, ben presto questa spinta si esaurisce. Ecco allora la figura di Paolo che assume una prospettiva diversa: rivolgiamo l’annuncio del vangelo a quelli che l’accolgono volentieri anche se non sono ebrei.

E’ una questione importantissima perché la Chiesa è chiamata a decidere cosa deve essere, di qui la necessità del primo sinodo a Gerusalemme.

E’ interessante vedere il modo con cui la comunità delle origini risolve la grossa questione:

chi viene dal mondo pagano li facciamo diventare ebrei imponendo loro la legge di Mosè e la circoncisione, oppure li accettiamo così come sono e li battezziamo? Il passaggio è cruciale. La dinamica classica con cui noi gestiamo le cose è quella di discutere e poi votare. Vince la mozione che ha avuto la maggioranza dei voti. Nel sinodo di fatto questo però non accade. La tesi di Paolo era minoritaria però gli apostoli guidati dallo Spirito Santo prendono una decisione diversa: a Gerusalemme si continui a vivere l’esperienza del giudeo cristianesimo, ma vien data a Barnaba e a Paolo la libertà di continuare la loro opera tra i pagani così come avevano fatto fino allora, con alcune condizioni minime da rispettare.

C’è in questa decisione una fiducia nei confronti dell’agire di Dio e nei confronti della storia che noi dobbiamo recuperare.

Il giudeo cristianesimo finirà nel 70 dopo Cristo con la distruzione di Gerusalemme da parte dell’Impero romano. La Chiesa che si era espanta all’esterno è quella che sopravvive. Questo storicamente è quello che è avvenuto.

Lezione registrata e trascritta non rivista dall’autore.

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