• Non ci sono risultati.

CINEMA E IDENTITÀ ITALIANA

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2022

Condividi "CINEMA E IDENTITÀ ITALIANA"

Copied!
19
0
0

Testo completo

(1)

2019

a cura di

STEFANIA PARIGI CHRISTIAN UVA VITO ZAGARRIO

4

Spettacolo e comunicazione Collana

a cura diS. PARIGI C. UVA V. ZAGARRIO · CINEMA E IDENTITÀ ITALIANA

4

CINEMA

E IDENTITÀ ITALIANA

Gli atti del Convegno Internazionale di Studi “Cinema e identità italiana” (Roma, 28-29 dicembre 2017) mettono in luce la molteplicità delle prospettive con cui può essere affrontato il problema dell’identità nazionale, in un arco temporale che va dai primordi del cinema fi no alla contemporaneità. Un gran numero di studiosi di varia età e provenienza si misura con metodologie e punti di vista differenti, intrecciando le dinamiche cinematografi che con la storia culturale del Paese e con il più vasto panorama intermediale.

Stefania Parigi insegna all’Università degli Studi Roma Tre. Ha pubblicato, tra gli altri, i volumi Fisiologia dell’immagine. Il pensiero di Cesare Zavattini (Lindau 2006), Pier Paolo Pasolini. Accattone (Lindau 2008), Cinema-Italy (Manchester University Press 2009), Neorealismo. Il nuovo cinema del dopoguerra (Marsilio 2014).

Christian Uvainsegna all’Università degli Studi Roma Tre. Ha pubblicato, tra gli altri, i volumi Cinema digitale. Teorie e pratiche (Le Lettere, 2012), Sergio Leone. Il cinema come favola politica (Ente dello Spettacolo, 2013), L’immagine politica. Forme del contropotere tra cinema, video e fotografi a nell’Italia degli anni Settanta (Mimesis, 2015) e Il sistema Pixar (Il Mulino, 2017).

Vito Zagarrio insegna all’Università degli Studi Roma Tre. Dirige il Centro Produzione Audiovisivi e il Roma Tre Film Festival. Ha pubblicato, tra gli altri, i volumi John Waters (Il castoro 2005), L’immagine del fascismo. La re-visione del cinema e dei media nel regime (Bulzoni 2009), The “Un-Happy Ending”: Re-Viewing the Cinema of Frank Capra (Bordighera 2011), Regie. Il grande cinema italiano dal neorealismo alla crisi (Bulzoni 2011).

(2)

Collana

Spettacolo e Comunicazione

4

2019

Università degli Studi Roma Tre

Dipartimento di Filosofia, Comunicazione e Spettacolo FILCOSPE

CINEMA E IDENTITÀ ITALIANA

Cultura visuale e immaginario nazionale fra tradizione e contemporaneità

a cura di

S

TEFANIA

P

ARIGI

, C

HRISTIAN

U

VA

, V

ITO

Z

AGARRIO

(3)

Comitato scientifico:

Luca Aversano, Marina Galletti, Raimondo Guarino, Giovanni Guanti, Edoardo Novelli, Stefania Parigi, Veronica Pravadelli, Mirella Schino, Anna Lisa Tota, Vito Zagarrio.

Redazione: Mattia Cinquegrani

Impaginazione e cura editoriale: Libreria Efesto

Elaborazione grafica della copertina: Mosquito mosquitoroma.it

Edizioni: ©

Roma, dicembre 2019 ISBN: 978-88-32136-82-1 http://romatrepress.uniroma3.it

Quest’opera è assoggettata alla disciplina Creative Commons attribution 4.0 International Licence (CC BY-NC-ND 4.0) che impone l’attribuzione della paternità dell’opera, proibisce di alterarla, trasformarla o usarla per produrre un’altra opera, e ne esclude l’uso per ricavarne un profitto commerciale.

L’attività della è svolta nell’ambito della

Fondazione Roma Tre-Education, piazza della Repubblica 10, 00185 Roma.

(4)

SOMMARIO

STEFANIA PARIGI, CHRISTIAN UVA, VITO ZAGARRIO, Introduzione 9 ROBERTO DE GAETANO, Il romanzesco cinematografico italiano 13 SUZANNE STEWART-STEINBERG, Grounds for Reclamation:

‘From the Swamps to the Days of Littoria’ 25

ICONE NAZIONALI E ITALIANITÀ SILVIO ALOVISIO, Il corpo e l’anima di una nazione.

Immagini d’infanzia nella Serie Cuore della Film Artistica Gloria 45 ALESSIO SCARLATO, La povertà del potere: appunti sull’identità religiosa

del cinema italiano 57

FABIO ANDREAZZA, Il culto della patria, del littorio e della decima musa.

Nazionalismo e cosmopolitismo negli allievi del CSC (1935-1938) 67 GIULIA RACITI, Il brusio del dialetto come godimento plurale della lingua 75 FRANCESCO CERAOLO, Un paese fondato sul melodramma 83 FRANCESCO VERONA, “Verdi come il padre?”

Identità italiana e messa in crisi della tradizione verdiana nel cinema degli anni Sessanta 91 LUCA MAZZEI, L’italiano di legno nello specchio di Hollywood.

La ricezione del Pinocchio Disney in Italia tra fascismo e dopoguerra 101

PANORAMI CONTEMPORANEI NAUSICA TUCCI, La realtà della finzione.

Tracce identitarie nel cinema italiano contemporaneo 115

FRANCESCO FEDERICI, L’identità italiana attraverso il racconto delle migrazioni.

Musei, mostre e percorsi espositivi 125

GABRIELE LANDRINI, Dall’intervallo alla Recess

Gli adolescenti di Disney Channel e l’identità italiana 135

(5)

ANDREA RABBITO, L’immagine del dissenso.

La rivoluzione artistica di Pippo Delbono nell’Italia della crisi contemporanea 145 STEFANO GUERINI ROCCO, Il Paese delle meraviglie. Percorsi di costruzione identitaria e possibilità di (tras)formazione nel cinema di Alice Rohrwacher 155 VITO ZAGARRIO, Labirinti. Il piano sequenza nel cinema italiano contemporaneo 165 VITTORIANO GALLICO, Il Divo di Paolo Sorrentino.

Scrittura cinematografica di una storia controversa 179

DARIO CECCHI, Mediare il medium. Narrazioni dell’identità e strategie

dell’emancipazione in Liberami di Federica Di Giacomo 189

DINAMICHE DI GENDER GABRIELE RIGOLA, Ménage all’italiana.

Ugo Tognazzi e le dinamiche di rapporto tra i sessi, tra cinema, identità e discorsi sociali 201 ILARIA A. DE PASCALIS, Cartografie immaginarie e politiche sessuali

in Mimì metallurgico ferito nell’onore 211

ENRICO BIASIN, «Per un po’ di tempo camminai come Yul Brynner».

I giovani uomini italiani del dopoguerra al cinema 221

MARIA ELENA D’AMELIO, ‘The ideal man’.

Amedeo Nazzari and national melodramatic masculinity 233

RAFFAELLO ALBERTI, Fellini e la ‘formazione incompiuta’.

Il maschio italiano tra sessualità e cattolicesimo 243

ELISA MANDELLI, VALENTINA RE, «Le bellezze italiane sono tutte curve».

Identità in conflitto sulle pagine di Cinema nuovo (1952-1958) 253

LO SGUARDO DOCUMENTARIO MIRCO MELANCO, Anni Sessanta.

L’identità italiana dell’arretratezza vista con gli occhi del cinema del reale 269 DANIELE DOTTORINI, La memoria del fuoco.

Mito e racconto nel cinema del reale italiano contemporaneo 279 MATTIA CINQUEGRANI, Tra arcaismo e modernità.

Il cinema documentario di Cecilia Mangini 291

(6)

GIACOMO RAVESI, Padri d’Italia.

Autobiografia e dinamiche generazionali nel documentario italiano contemporaneo 301 MARIANGELA PALMIERI, Le due Italie.

Il Sud come periferia nel documentario 311

PATRIZIA FANTOZZI, Visitazione di un’idea di popolo come utopia estetica del mondo.

I cortometraggi di Vittorio De Seta 321

FRONTIERE, MIGRAZIONI, PERIFERIE GIUSEPPE PREVITALI, Vite al confine.

Spazi e immagini delle migrazioni nella cultura visuale italiana 333 MASSIMILIANO COVIELLO, Lo sguardo dell’altro sulla penisola.

Le migrazioni attraverso il cinema italiano 341

LEONARDO DE FRANCESCHI, Cittadinanza e narrazioni audiovisive in Italia.

Istruzioni per un’inclusione differenziale 351

TOMMASO DI GIULIO, Who Framed Rome?

Periferie urbane ed esistenziali nella Roma nel cinema italiano contemporaneo 361

ITALIANI ALL’ESTERO ANTONIO CATOLFI, Lo stile cinematografico italiano all’estero.

Artisti e artigiani del set, professionisti e luoghi produttivi 373 MARCO BERTOZZI, Identità mediali e culture in transito.

Immagini migranti, dall’atelier di Teledomenica a Ricordati di noi 385 GIUS GARGIULO, Fritaliens. Slittamenti dell’italianità nel cinema francese 393 DOM HOLDAWAY, MASSIMO SCAGLIONI, Studiare la circolazione.

Metodologie e problematiche di un progetto di ricerca 403

MARCO CUCCO, Le istituzioni e le politiche a sostegno della distribuzione internazionale

del cinema italiano 415

PAOLO NOTO, Il cinema italiano negli Istituti Italiani di Cultura all’estero.

Alcuni casi di studio 425

LUCA BARRA, MARTA PERROTTA, Il cinema italiano nelle reti televisive

e piattaforme digitali statunitensi 433

(7)

VIAGGI IN ITALIA TRA CINEMA, FOTOGRAFIA E TELEVISIONE

PALMIRA DI MARCO, Chi legge? In viaggio con Mario Soldati e Cesare Zavattini 445 ANNA BISOGNO, I viaggi in Italia di Mario Soldati tra cinema e televisione 455 BRUNO ROBERTI, Un viaggio in Italia. L’ Odore del sangue 463 CATERINA MARTINO, Viaggio in Italia con Bob Dylan.

Identità del paesaggio (inter)nazionale nel percorso fotografico di Luigi Ghirri 473

AUTORI, TEORIE E FILM

ENRICO MENDUNI, L’Italia sul mare nel cinema di Francesco De Robertis.

Un problema ancora aperto 485

DAVID BRUNI, «Siate sempre tutti uniti sotto una sola impresa».

Tradizione nazionale e identità italiana nel cinema di Alessandro Blasetti (1932-1938) 495 TERESA BIONDI, Antropologia dell’immaginario nazionale e ‘processi di (dis)identità’

nel cinema di Luchino Visconti 505

MARCO MARIA GAZZANO, Lo sguardo al futuro di Carlo Lizzani teorico 515 CHIARA CAPOBIANCO, L’Italia che si riconosce nel cinema dei drammi popolari:

il caso di Assunta Spina (1915). Un nuovo modello del rapporto identitario nazionale

film-spettatore 525

LORENZO MARMO, Spazio, paesaggio, mappa.

Roma e la modernità nel cinema noir di Pietro Germi 535

IDENTITÀ LOCALI E IDENTITÀ NAZIONALI PAOLO VILLA, Film in the Piazza.

Le piazze d’Italia come luogo d’identità nazionale nei cortometraggi del dopoguerra 549 ANGELA BIANCA SAPONARI, L’iconizzazione del Sud tra antropologia visuale

e industria culturale 559

ANTIOCO FLORIS, Identità locale vs identità nazionale. Il caso Sardegna 571 LUCA BANDIRALI, Il Salento si alza.Come una regione di confine nel bacino

del Mediterraneo è diventata un’area di interesse nell’ambito del cinema europeo

contemporaneo 581

(8)

DENIS BROTTO, Disfunzioni, disgregazioni, digressioni. Se l’identità italiana si fa aporia 591 GIACOMO MARTINI, L’importanza dei territori nella storia del cinema italiano.

Dagli stimoli culturali e antropologici alle film commission 601

QUESTIONI POSTCOLONIALI

GINA ANNUNZIATA, La costruzione dell’identità italiana e dell’alterità coloniale

nel cinema muto italiano 611

SAMUEL ANTICHI, Cronache dell’Impero. La ridefinizione dell’identità nazionale italiana attraverso la rappresentazione dell’alterità africana nei cinegiornali dell’Istituto Luce 621 MARIA FRANCESCA PIREDDA, Rovine e macerie.

Permanenze e rimozioni dell’identità coloniale nel cinema italiano

dal secondo dopoguerra alle migrazioni contemporanee 629

GAIA GIULIANI, Gli eroi son tutti giovani e belli.

Il cinema degli eroi tra memoria coloniale, condanna del fascismo e nuovi e vecchi modelli

di genere (1949-1954) 639

ATTORI E DIVI DENIS LOTTI, 1924: Maciste pro o contro Mussolini?

Corrispondenze tra divismo cinematografico e potere politico 653 ANNA MASECCHIA, «Ho servito il Re, il Duce e i Presidente della Repubblica».

Vittorio De Sica anni Cinquanta 661

SIMONA BUSNI, Divismo e melò secondo Michelangelo Antonioni 671 CRISTINA COLET, Monica Vitti. Un’icona della modernità 681 MARINA PELLANDA, Un esempio di identità italiana.

Il magistero d’attore di Gian Maria Volonté 691

ALBERTO SCANDOLA, Il buono, il mammo(ne), il bello, il cattivo.

Stefano Accorsi e le maschere dell’italianità 699

GENERI E SIMBOLI DELL’ITALIANITÀ CECILIA BRIONI, Rita e «La Zanzara».

La costruzione dell’identità giovanile italiana nei film Musicarelli (1958-1968) 711

(9)

CLAUDIO BISONI, Il cinema musicale italiano degli anni Sessanta e l’identità

delle nuove generazioni tra nazionale e globale 721

ROSSELLA CATANESE, Vespa, Lambretta e Geghegé. Beat e Mods all’italiana 731 ELIO FRESCANI, Identità italiana e storia in Totò al Giro d’Italia 741 CHRISTIAN UVA, Italiani alla deriva.

Note su cinema e maschi da spiaggia nell’epoca del boom 751 STEFANIA PARIGI, La ‘ricostruzione’ delle vacanze.

Mare e spiagge negli schermi dei primi anni Cinquanta 763

(10)

291

Mattia Cinquegrani Tra arcaismo e modernità.

Il cinema documentario di Cecilia Mangini

Tempo presente e tempo passato Sono entrambi forse presenti nel tempo futuro, E il tempo futuro contenuto nel tempo passato.

Se tutto il tempo è eternamente presente Tutto il tempo è irredimibile.

T.S. Eliot

Nel cinema di Cecilia Mangini si disgrega ogni univocità del tempo:

il permanere del passato s’innesta in un presente che già evoca paesaggi futuri. Da un lato, le forme di un universo ancora arcaico affiorano fra le tracce di un’industrializzazione irrevocabile e forse necessaria. Dall’altro, il manifestarsi di una religiosità attraversata da tensioni paganeggianti si salda a istanze e tecniche dichiaratamente contemporanee. Il reale – irri- mediabilmente estraneo a qualsiasi schematizzazione narrativa – si mostra quale stratificazione di temporalità non coincidenti e fra loro sempre in violento contrasto. Carattere deducibile non solo dalla comparazione di più lavori ma elemento che anima ogni singola opera di Mangini, il compe- netrarsi dell’ora con l’estinzione di quel che fu e il loro comune proiettarsi in ciò che deve ancora essere costituisce uno degli aspetti più densamente significativi fra quelli che definiscono lo sguardo di questa regista.

D’altro canto, tra gli anni Cinquanta e i Settanta del Novecento, una simile poetica dell’anacronismo si manifesta quale attitudine ricorrente e lar- gamente condivisa. In essa a rivelarsi è il desiderio, comune a molti intellet- tuali e artisti italiani, di indagare senza reticenze una realtà nazionale ben più articolata e contraddittoria di quanto la ripresa post-bellica facesse comune- mente intendere1. E mentre Pier Paolo Pasolini rivolge il proprio sguardo

1 Basti pensare alle critiche mosse negli anni Cinquanta al film di Vittorio De Sica Umberto D. (1952) da Giulio Andreotti, allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio del governo De Gasperi, con delega allo Spettacolo. «Se è vero – scrive il politi- co sulle pagine di Libertas – che il male si può combattere anche mettendone duramente

(11)

292

M. CINQUEGRANI

alle periferie sottoproletarie, ricercando le ultime tracce di una sacralità tutta arcaica dell’esistere, altri guardano al Meridione come a una dimensione differente della storia e ancora cristallizzata in un passato antichissimo.

Le stagioni – scrive Carlo Levi a proposito della Lucania – scor- rono sulla fatica contadina, oggi come tremila anni prima di Cri- sto: nessun messaggio umano o divino si è rivolto a questa povertà refrattaria. Parliamo un diverso linguaggio: la nostra lingua è qui incomprensibile. I grandi viaggiatori non sono andati al di là dai confini del proprio mondo; e hanno percorso i sentieri della propria anima e quelli del bene e del male, della moralità e della redenzione.

Cristo è sceso nell’inferno sotterraneo del moralismo ebraico per romperne le porte nel tempo e sigillarle nell’eternità. Ma in questa terra oscura, senza peccato e senza redenzione, dove il male non è morale, ma è un dolore terrestre, che sta per sempre nelle cose, Cristo non è disceso2.

Il sud, assieme ai sobborghi più umili delle grandi città, diventa così il luogo per mettere in discussione, innanzitutto, l’idea di una sincronizzazione culturale nell’Italia contemporanea.

Nel corso degli anni Sessanta, mentre la società dei consumi afferma nuove traiettorie identitarie e sociali (attraverso la prospettiva di uno svi- luppo interminabile), i territori più sensibilmente ‘arretrati’ sono attraver- sati da una ritualità ancora riconducibile a forme paganeggianti del credo religioso. Una ritualità intrisa di superstizione e saperi che precedono di molto l’imporsi delle norme scientifiche e, persino, di quelle cattoliche.

Resistono, nel sud dell’Italia, pratiche atte ad affermare una temporalità ciclica, votata a risolvere la minaccia del caos nel ricorsivo celebrarsi del raccolto e della semina, della fine e dell’inizio, della nascita e della morte3.

a nudo gli aspetti più crudi, è pur vero che se nel mondo si sarà indotti – erroneamente – a ritenere che quella di Umberto D. è l’Italia della metà del secolo ventesimo, De Sica avrà reso un pessimo servigio alla sua patria. […] Noi ci auguriamo sinceramente che egli non si fermi a raccogliere soltanto le male arti delle donne traviate, i furfantelli della cronaca nera, l’isolamento sterile dell’una o dell’altra sottoclasse». G. ANDREOTTI, Piaghe sociali e necessità di redenzione, in «Libertas», 28 febbraio 1952.

2 C. LEVI, Cristo si è fermato a Eboli, Mondadori, Milano 1996, p. 8.

3 «Nel tempo ciclico – scrive Ernesto de Martino – […] si imita il tempo ritornante della crisi, ma per redimerlo in tempo del trascendimento valorizzante e della presentificazio- ne: e la redenzione ha luogo offrendo un orizzonte istituzionale nel quale ciò che rischia di tornare […] è cercato e fatto tornare per essere ripreso nel processo di valorizzazione e per essere così reintegrato nel tempo storico e culturale della decisione. Ma il tempo ciclico dei miti di origine e fondazione […] è anche un tempo protettivo della storicità

(12)

293 TRAARCAISMOEMODERNITÀ

Si conservano, per esempio, in queste regioni le lamentazioni funebri, tracce ormai residuali di una pratica antichissima, che Ernesto de Martino indaga a fondo e riporta alla luce con i suoi studi4 (percorrendo una traiettoria, a ben vedere, omologa a quella pasoliniana e di Carlo Levi).

Studi che, innestandosi pienamente entro una riflessione già elaborata da Cecilia Mangini5, diventano non solo coordinata del suo cinema, ma vera e propria fonte di ispirazione. A dimostrarlo è Stendalì (Suonano ancora), breve documentario del 1960, nel quale alcune lamentatrici di Martano eseguono un pianto rituale in lingua grika6. Fatta eccezione per un breve prologo, con l’eco delle campane a morto che si spande per il paese, e un più rapido prefinale nel quale le spoglie sono portate in processione, l’in- tero arco narrativo del film è definito dal compimento del rito. Si osserva, così, il canto delle prefiche, in principio solitario, farsi in breve tempo rapido, mentre i movimenti diventano frenetici, violenti e disperati, prima di sciogliersi in un pianto che muore sommesso.

Mangini presenta questa pratica funeraria nella sua interezza, ponen- done chiaramente in evidenza la progressiva evoluzione emotiva e narrati- va, come pure il graduale intensificarsi dei gesti compiuti e del loro ritmo di esecuzione: Stendalì (Suonano ancora) si manifesta quale studio puntua- le di un rito con più di «tremila anni di vita, sopravvissuto alla mutazione antropologica che stava cambiando il volto del paese»7. Eppure, ricondurre tale opera entro i confini della semplice azione documentale non può che apparire largamente riduttivo, rispetto alle intenzioni e ai caratteri effet- tivi del lavoro. Come dichiara la stessa regista, l’obiettivo sostanziale cui aspira il film è attivare quel processo di «messa in causa del sistema»8 che

del divenire, in quanto risolve i momenti critici dell’esistenza in soluzioni esemplari già avvenute in illo tempore». E. DE MARTINO, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino 2002, pp. 221-222.

4 Cfr. ID., Morte e pianto rituale nel mondo arcaico. Da lamento antico al pianto di Maria, Bollati Boringhieri, Torino 2008.

5 Tanto la produzione fotografica di Cecilia Mangini, avviata nel 1952, quanto le sue prime due opere filmiche documentarie (Ignoti alla città – 1958, Firenze di Pratolini – 1959) testimoniano la marcata sensibilità della regista nei confronti di quei caratteri culturali oramai destinati a una rapida dissoluzione.

6 Cfr. M. GRASSO, Il cinema e il mondo. Conversazione con Cecilia Mangini, in Stendalì.

Canti e immagini della morte nella Grecia salentina, Id,. Kurumuny, Calimera 2005, p.

49; G. SCIANNAMEO, Con ostinata passione. Il cinema documentario di Cecilia Mangini, dal Sud, Bari 2011, p. 57.

7 F. ROSSIN, Incontro con Cecila Mangini, in NodoDoc 3. Catalogo, Aa.Vv., Artgroup, Trieste 2009, p. 83.

8 GRASSO, Il cinema e il mondo. Conversazione con Cecilia Mangini, cit., p. 50.

(13)

294

M. CINQUEGRANI

per Lévi-Strauss ed Ernesto de Martino caratterizza l’agire dell’etnologo. È per raggiungere un simile scopo, è per riuscire a riflettere sul presente che nel film si manifesta la rinuncia agli stilemi del documento etnografico, primo fra tutti, la fissità della macchina da presa che, nell’opinione del tempo, avrebbe dovuto assicurare l’obiettività scientifica del girato9. Qui, di contro, montaggio e regia rendono la loro azione esplicitamente evi- dente, come a imporre lo sguardo personale dell’autrice su quanto messo in scena. Le inquadrature si rivelano spesso inusuali, con la macchina da presa che ora osserva il gruppo di donne dall’alto, ora si abbassa sino al pavimento a inquadrare i piccoli passi e i salti compiuti dalle lamentatrici, ora si sostituisce agli occhi del giovane defunto disposto nella bara. Già la critica del tempo individua in questo processo esplicito di costruzione dell’opera, nel ritmo e nel gioco delle angolazioni – la cui derivazione dal cinema sovietico appare evidente10 – gli elementi che consentono a Mangini di reagire «alla staticità e alla monotonia del contenuto»11 e di porsi « contro tutti i conformismi e contro tutto lo sciocco e anonimo folclore [per comporre] una piccola opera di poesia realistica»12. Senza cedere in alcun modo alla rievocazione semplicemente formalista di ciò che sta per scomparire dall’orizzonte dell’oggi, Stendalì (Suonano ancora) si muove in direzione di un creare poetico e, pertanto, di una produzione di senso che può soltanto riversarsi nel presente. Nel film di Mangini il passato non è che il momento originario di una riflessione che si proietta interamente nella contemporaneità.

D’altro canto, la mera documentazione del pianto funebre non avrebbe saputo trasmettere, nella sua interezza, la portata culturale che la sopravvivenza della lamentazione esprimeva ormai nella seconda metà del Novecento. Come già pone in evidenza Ernesto de Martino, questi riti così profondamente legati al mondo arcaico – per quanto invariabilmen- te ripetuti durante il succedersi dei millenni – sono pervenuti sino alla

9 Cfr., Ivi, p. 51. D’altro canto, sembra opportuno considerare come la natura etnografica del cinema di Cecilia Mangini sia da individuare in primo luogo nel tipo di relazione che la regista instaura con quanto rappresenta nelle sue opere. Cfr., SCIANNAMEO, Con ostinata passione. Il cinema documentario di Cecilia Mangini, cit., p. 23.

10 «Dal punto di vista formale – afferma la stessa Mangini – il mio debito con il cinema sovietico è grande e certamente per il taglio delle immagini e per il ritmo di Stendalì a esso mi sono ispirata». ROSSIN, Incontro con Cecila Mangini, cit., p. 83.

11 S. FROSALI, Prevalenza (finora) del documentario italiano, in «La Nazione», 16 dicembre 1960.

12 A. PINTUS, Un documentario d’avanguardia: i riti del Sud, in «Telesera», 26-27 maggio 1960.

(14)

295 TRAARCAISMOEMODERNITÀ

contemporaneità nella forma di semplici relitti folklorici. Essi non sono più che la trasmissione di una forma rituale ancora fedele alle formule originarie, ma esercitata in un contesto irrimediabilmente distante da quel complesso universo mitico entro il quale ne era stata definita la struttura e sancita l’origine. Un universo ora «annientato o sconvolto o sincretisti- camente alterato da quasi due millenni di Cristianesimo […], sì che oggi quel che ne avanza è per lo più frammento o rottame»13.

È precisamente tale dimensione residuale del rito, tale permanere del passato nel presente, a rappresentare un elemento narrativamente portan- te di un secondo lavoro realizzato da Cecilia Mangini, ancora nel 1960.

In Divino Amore a essere documentati sono i pellegrinaggi compiuti da numerosi gruppi di fedeli verso l’omonimo santuario romano, posto lungo la via Ardeatina, a circa quindici chilometri dalla città. Il territorio entro il quale ci si muove è, in questo caso, dichiaratamente riconducibile a una contemporaneità culturale. L’immagine che apre il film è quella di una moderna processione, ove dietro a una grande croce di legno lampeggiano le deboli fiammelle dei ceri, schermati da paralumi in carta sui quali è impressa l’immagine della Madonna. Più di ogni altra cosa, proprio questa icona della Vergine in trono – punto focale dell’intera pratica devozionale – permette di ricondurre, con indiscutibile certezza, il rito nell’orizzonte del cattolicesimo e al di fuori di qualsiasi manifestazione dell’universo arcaico.

Eppure, osservando un poco più a lungo le numerose fasi di questo evento religioso, appare evidente come molte tra le formule e i gesti com- piuti dai pellegrini appartengano a una dimensione ben più primitiva della fede. Ora gli uomini si percuotono il petto mentre le donne, col volto sfigurato dalla tensione, agitano in alto le braccia tese. Solo qualche istante più tardi delle mani si avvinghiano convulse a un’inferriata della chiesa, le bocche urlano furiose e i capelli vengono tirati in un’euforia collettiva e incontrollabile. È il momento di maggiore intensità della preghiera, quello in cui la presenza del divino si fa più percepibile. I movimenti e le azioni dei pellegrini adesso ricalcano con precisione quelli compiuti dalle lamentatrici di Stendalì (Suonano ancora), sino a diventare indistinguibili i primi dai secondi14. Le forme di un passato ancora paganeggiante affiorano

13 DE MARTINO, Morte e pianto rituale nel mondo arcaico. Da lamento antico al pianto di Maria, cit., p. 57.

14 A tale proposito, risulta fondamentale ricordare come una funzione primaria della figura di Maria – nella definizione delle pratiche del cristianesimo cattolico – è stata pre- cisamente quella di proporre un modello di cordoglio sostanzialmente opposto a quello rappresentato attraverso la figura della prefica. «Proprio per assolvere la sua funzione pedagogica di Mater Dolorosa e di modello del nuovo ethos cristiano di fronte alla morte,

(15)

296

M. CINQUEGRANI

con violenza entro l’orizzonte della contemporaneità ma, a ben vedere, entrambi sono oramai proiettati verso il progresso di un futuro già prossi- mo. A renderlo evidente è una breve sequenza il cui rilievo narrativo è dimo- strato tanto dalla sua collocazione, nella parte precisamente centrale del film, quanto dalla leggerezza che contraddistingue il tono di questo momento del racconto, in netto contrasto con gli episodi precedenti e i successivi.

È durante l’ora del pasto che il gruppo dei pellegrini si concede alcu- ni momenti di svago e di quiete: le famiglie si stendono sui prati per mangiare, i bambini giocano tra loro e alcuni giovani riposano al sole.

Soprattutto, però, molti fedeli approfittano di questo tempo a loro dispo- sizione per farsi ritrarre dal fotografo. Alle loro spalle, tuttavia, non si sta- glia la facciata bassa e chiara del santuario, né la torre con l’arco di accesso o la collina su cui il sacro edificio si eleva. Dietro di loro si rivela l’imma- gine di una fitta pineta sovrastata dalla figura, circondata di bianco, di una Madonna con in braccio il bambino (anche se non Maria Santissima del Divino Amore, come la scritta al suo fianco e il contesto farebbero immagi- nare). Un’immagine indissolubilmente legata a questo luogo, nella perce- zione e nel ricordo dei pellegrini, eppure priva di qualunque legame reale con esso. Si tratta, infatti, di un grande manifesto stampato su tela che, nella sua composizione grafica, richiama con fedeltà gli elementi precipui della comunicazione turistica e pubblicitaria in voga negli anni Sessanta.

I nuovi riti del consumo si affacciano, così, entro la dimensione di una pratica religiosa già densamente stratificata e contraddittoria.

È precisamente in questo embricarsi di tradizioni, di pratiche moderne o millenarie, di riti arcaici e contemporanei, di modelli proposti o imposti dalla società dei consumi, è in questa commistione fittissima di dati tra loro temporalmente inconciliabili a trovarsi l’essenza più intima della con- traddizione identitaria che attraversa la realtà nazionale, in modo partico- lare durante i decenni centrali del Novecento. Una contraddizione, questa, che in forme diverse attraversa integralmente lo scheletro della penisola italiana, dalle montagne del settentrione alle grandi coltivazioni arse dal sole del sud, ma che si presenta con un’evidenza e una forza maggiori in alcuni territori più che in altri. Fra i luoghi emblematici di questa non risolta stratificazione culturale e identitaria vi è la Sardegna, che nel 1966 viene ritratta e indagata da Cecilia Mangini, in un documentario realizza- to per la rubrica L’Italia allo specchio, prodotta dall’Istituto Nazionale Luce.

la figura di Maria si adattò persino ad accogliere gli aspetti più arcaici del cordoglio antico, come il cadere inanimata ed il percuotersi il petto e il graffiarsi le guance e il lamentarsi». Ivi, p. 305.

(16)

297 TRAARCAISMOEMODERNITÀ

Sardegna è commissionato dal Ministero dei Lavori Pubblici, per promuo- vere la costruzione della variante alla strada statale Carlo Felice all’altezza di Sassari, e rappresenta per la regista un’importante occasione per esplo- rare una realtà geografica che trova nel processo della contaminazione uno dei propri caratteri fondativi.

Proprio la contrapposizione, quasi ossimorica, di elementi fra loro dissimili rappresenta la modalità attraverso la quale Mangini costruisce interamente la narrazione visiva e testuale di questo breve racconto. Presto il quadro dell’immagine è interamente occupato dalla visione dei lunghi moli nei quali si articola il porto di Cagliari che — in attesa della realiz- zazione di un progetto espansivo — vede alternare struttura costruite ad altre ancora circondate da ponteggi, gru per lo scarico delle merci a quelle per la costruzione edile. Solo pochi secondi dopo, tuttavia, il racconto pare tornare indietro nel tempo di molti decenni o di alcuni secoli. Ai profili grigi dei grandi traghetti commerciali si sostituiscono le figure arcaiche di pescatori che usano strumenti e tecniche riconducibili a epoche culturali e storiche infinitamente distanti. All’immagine di una minuscola imbar- cazione a remi, che a stento sembra riuscire a contenere il denso intrico di reti poggiato al suo interno, si accosta la sagoma misera e scura di un uomo che lentamente raccoglie, dal fondo sabbioso, manciate di telline con un piccolo rastrello.

Quella distanza, in apparenza incolmabile, che solo pochi anni prima separava con nettezza il sud e il nord dell’Italia sembra oramai cominciare a disperdersi, con l’attuazione di nuove politiche economiche e industriali per il Meridione. Tradizione e innovazione, arretratezza e modernità, agricoltura e sviluppo industriale sono diventati i parametri di una crisi identitaria che, per Mangini, negli anni Sessanta sembra oramai derivare dalla coesistenza di tali elementi in un medesimo territorio, più che dalla possibilità di ricondurli ad aree differenti del Paese15.

15 Non a caso, per Mangini, la questione primaria dell’emigrazione italiana, dalle aree arretrate verso il Settentrione, è in buona parte da ricondurre alla coesistenza di modelli sociali e culturali profondamente dissimili che gli immigrati si trovano a dover fronteg- giare. «Torniamo a quella ‘chanson de geste’ da tre soldi di paga giornaliera, per cui i con- tadini del Sud abbandonavano la loro terra e i riti che per secoli li avevano protetti dalla precarietà dell’esistenza: contro l’insostenibilità del dolore della morte il pianto funebre in grìco salentino che ho ripreso in Stendalì; contro l’assedio della fame l’uccisione del capro espiatorio che Lino [Del Frà] ha raccontato in La passione del grano. La diaspora ha risucchiato al nord tre generazioni di meridionali, famiglie intere, nonni, genitori, ragaz- zini: non è stata una transizione. È stato uno strappo violento, una mutilazione che ha contribuito, e non di poco, alla scomparsa del mondo contadino e all’abrasione della sua

(17)

298

M. CINQUEGRANI

Trasformazioni sociali, rapporti che cambiano, tempi che si dila- tano, spazi urbani territori, campagne che mutano volto. […] An- che lo spazio fisico in cui agiscono uomini e donne subisce una metamorfosi dagli effetti spesso non controllati e controllabili. Il cinema di Cecilia Mangini è cinema dei luoghi e della compresenza di antico e moderno, sviluppo e arretratezza, paesaggi i cui abitanti rivivono ogni giorno il proprio passato e sperimentano la modernità e i suoi effetti16.

Una compresenza intensissima, che nelle immagini di Sardegna si rende manifesta dall’accostamento iconografico dei rulli meccanici della nuova cartiera di Arbatax (le cui tecnologie produttive negli anni Sessanta appa- iono tra le più avanzate d’Europa) e della spola che ancora attraversa i fila- menti di un vecchio telaio a pedali (simbolo efficace di un territorio la cui economia ancora si basa, in maniera sostanziale, su agricoltura e pastorizia).

Non vi è qui alcuna traccia di rifiuto preconcetto nei confronti di un progresso che appare spesso necessario, e talvolta ineludibile. D’altronde, il mondo «‘prenazionale e preindustriale’ — come ricorda Cecilia Mangini

— era […] un regno di ingiustizie e prevaricazioni, del dover subire, sopportare, soffrire e rassegnarsi. Della fatica del vivere, della pena del vivere»17. Tuttavia, quando un simile universo è oramai prossimi a scom- parire, a prendere il suo posto è la promessa di un’evoluzione imminente, che proietta davanti a sé l’immagine vivida di un avvenire non domato e, forse, indomabile. «Il vecchio pescatore o il disoccupato – afferma la voce di commento alle immagini di Sardegna – attendono che il progres- so industriale li proietti in una più accettabile dimensione del presente, anche se con nuovi problemi, contraddizioni e nuove lotte». Ad apparire drammatica allora non è la graduale trasformazione delle cose, come si diceva, ma la mancanza di una pacificazione capace di rivelarsi reale tra i tanti modelli culturali e sociali che, in un tempo eccessivamente ridotto, hanno ridisegnato interamente il profilo identitario di tutta una nazione.

Se nel compenetrarsi di passato, presente e futuro risiede uno fra i nodi centrali dell’opera documentaria di Cecilia Mangini, è perché entro questo crocevia temporale, entro il realizzarsi di un simile anacronismo, attorno alla metà del Novecento, viene a definirsi la questione italiana di

civiltà imbevuta di magia». Cecilia Mangini, Operai del nord e immigrati: la storia orale.

Fata Morgana di Lino del Frà, in Mirko Grasso, Scoprire l’Italia. Inchieste e documentari degli anni Cinquanta, Calimera, Kurumuny, 2007, p. 118.

16 SCIANNAMEO, Con ostinata passione. Il cinema documentario di Cecilia Mangini, cit., p. 81.

17 GRASSO, Il cinema e il mondo. Conversazione con Cecilia Mangini, cit., p. 48.

(18)

299 TRAARCAISMOEMODERNITÀ

una nuova realtà culturale, sociale politica ed economica. Una realtà rima- sta eternamente incompiuta, per aver lasciato in sospeso e senza risposta quella domanda insistente che sembra chiedere quale identità possa esiste- re laddove, proiettandosi interamente nel futuro, si rinunci a risolvere e ad accogliere quello che è stato il proprio passato.

(19)

Riferimenti

Documenti correlati

Therefore, we can only speculate that personnel in primary care also referred subjects to the Center with faint test lines who afterwards tested negative at conventional serology,

a) Oanò éndsché sproach wier sibber némme Walser ‘senza la nostra lin- gua non siamo più walser’: wier sibber < wier sind-wier = 1 Pl essere.. Il quadro così

In comparison with Example 4.3 , where the linear equation is nonoscillatory and the deviating argument may produce oscillatory solutions, in this case we have an opposite effect to

La vicenda pare in realtà emblematica della tendenza della legislazione ad annullare il rischio per l’impresa derivante dal diritto del lavoro (dalla violazione

Se la biblioteca del secolo X IV era formata essenzialmente di testi liturgici, cui si aggiungevano alcune opere di varia cultura, a sussidio delle esigenze

67: Tomba di bambino costruita in mattoni, orientata NW, il corpo steso sul dorso col braccio sinistro piegato ed il destro steso, il corredo è composto da 3 vasi ceramici;.. 69:

Come vorrà dire qualcosa pure il fatto che in un recentis- simo talk show televisivo, nessuno abbia mandato a quel paese il combattivo giornalista che trovava forti analogie tra

At the other end of the scale are major interventions and adaptations of churches where there are possibilities to work in partnerships with stakeholders, commercial